Nei mesi successivi all’ultima guerra mondiale è uscito un volume: “Le ultime lettere da Stalingrado”. La lettura di quella raccolta di lettere di soldati tedeschi accerchiati dai russi a Stalingrado, mi ha spinto a rifiutare in maniera radicale ed assoluta tutta una certa retorica sull’amor di Patria, sulla necessità degli armamenti per la difesa della nazione e su tutto quello che direttamente o indirettamente riguarda l’esercito e le forze armate, reputandole tutte spese inutili, anzi dannose. Io ho ammirato in maniera entusiasta il Lussemburgo che una quindicina di anni fa ha venduto al ferrovecchio carri armati, fucili e cannoni, ha mandato a casa i soldati, conservando solamente un corpo di polizia per l’ordine pubblico.
Tornando alle lettere da Stalingrado, i responsabili della propaganda del Reich avevano fatto sequestrare le lettere che i soldati tedeschi avevano spedito con l’ultimo aereo partito dalla città assediata dalle armate russe, volendo così dimostrare il valore, il coraggio, l’amor di Patria dei soldati della Vermacht. Però, aperte le lettere, esse si dimostrarono di ben altro tono: disperazione, paura, smarrimento, fame, freddo! Ne ricordo una di un soldato che da civile aveva fatto l’attore e in palcoscenico aveva interpretato la morte eroica del soldato del Fuhrer suscitando applausi e battimani a non finire. “Qui, scriveva, questo soldato muore nel fango, nell’abiezione più meschina, ci rubiamo l’un l’altro un tozzo di pane. L’altro giorno ho visto un commilitone rimasto incastrato in un carro armato in fiamme, colpito da un proiettile russo: bruciava come una torcia e gridava disperato chiedendo sua madre! Altro è la morte nella scena, altro la morte in questo inferno!”
Qualche giorno fa, per una strana associazione di idee, ho pensato a questi eventi incontrando un giovane ventenne disabile. «Mia madre vedova lavora presso una signora del “don Vecchi” e prende 600 euro al mese, mentre ne vogliono 500 di affitto. Io non riesco a trovare nulla. Un’associazione mi ha proposto un impiego ad un euro e mezzo l’ora»
Altro è parlare dei poveri, fare studi, organizzare l’assistenza da parte di funzionari con paga sicura, altro sono i poveri veri! Io purtroppo, o per fortuna, presso le associazioni di volontariato del “don Vecchi” incontro i poveri reali e vi dico che sono una disperazione, un dramma tragico. Qualcuno ogni tanto mi fa capire che sono “troppo forte”, che adopero “parole dure”, che nei miei interventi accuso in maniera tagliente. Credetemi amici: altro è parlare dei poveri, altro è incontrarli in carne e ossa. Vi vorrei elencare una litania di drammi a cui non so dare risposta alcuna. Allora l’apparato burocratico, le beghe e i discorsi politici e perfino l’apparato ecclesiale mi destano rabbia, ribellione, rifiuto.
Oggi c’è troppa gente senza voce, che è piegata dalla miseria, mentre altra gente sguazza nello sperpero nascondendosi dietro un perbenismo ed una retorica assurda ed omicida.