Le onoreficenze dovrebbero andare a chi lavora senza clamori!

Le onoreficenze dovrebbero andare a chi lavora senza clamori!

In città vi sono alcune associazioni che han scelto di dare un riconoscimento pubblico ai cittadini, che secondo il parere dei responsabili dell’associazione, meritano questa attestazione di stima per il loro impegno civile e di solidarietà.

In città ci sono certamente innumerevoli cittadini che meriterebbero questo encomio e questo riconoscimento per il loro impegno e per i servizi che svolgono con umiltà ed in silenzio.

Ma appunto da questo operare umile e discreto di molti non sempre emerge l’esemplarità del loro impegno, tanto che solo il buon Dio, che vede tutto, li premierà un giorno.
Mentre poche persone, che per l’ambito in cui sono impegnate o per il loro modo di operare emergono presso l’opinione pubblica così che queste associazioni che desiderano metter in luce l’impegno sociale finiscono per avere poca scelta e, se si esclude qualche caso, finiscono a dare sempre agli stessi questi riconoscimenti.
Questo è il mio caso, l’adoperare i mass media per denunciare cose storte o per promuovere iniziative positive ha fatto sì che, nonostante la mia pochezza, sia diventato un personaggio di una certa notorietà a Mestre-Venezia.

Alcuni anni fa fui premiato dalla scuola grande di San Rocco con una medaglia d’oro veramente consistente. Ricordo d’aver regalato a mia volta suddetta medaglia alla dottoressa Lina Tavolin che per molti anni s’è addossata l’onere di portare fuori dalle secche “Il Germoglio”; Centro polifunzionale per l’infanzia della comunità di Carpenedo e di farne con il suo sacrificio e la sua competenza la migliore scuola d’infanzia della città. La signora Lina meritava certamente più di me questa grossa medaglia dell’antica confraternita veneziana, per il suo lavoro silenzioso, generoso e quanto mai positivo.

Mi è venuto in mente questo episodio qualche giorno fa quando suor Angela Salviato, l’angelo dei poveri di Mestre, silenziosa ed instancabile m’ha regalato la medaglia che lo scorso anno la scuola di San rocco le ha consegnato in giusto riconoscimento dei suoi meriti. Avrei certamente qualcuno a cui passarla in riconoscimento delle sue virtù, ma quasi certamente sarò costretto a venderla o a cederla al miglior offerente per pagare il Centro di Campalto!

24 ore sono troppo strette!

Ora, che ho ripreso la vita normale, non appena risvegliato dal sonno irrequieto della notte, mi capita di enumerare, come in una rapidissima videata, gli impegni della giornata e mi nasce immediata la preoccupazione di non riuscire a farceli stare tutti dentro nelle ore a disposizione.

In questa stagione della vita la giornata lavorativa s’è fatta più breve.
Spesso mi viene da confrontare il mio vivere quotidiano alla regola di S. Benedetto: otto ore per la preghiera, otto ore per il riposo ed otto ore per il lavoro.

Io, confesso, pur essendo un ammiratore entusiasta del monaco di Norcia, non riesco, come vorrei, ad inquadrare la mia vita nello schema limpido e lineare di S. Benedetto. Le mie giornate, pur seguendo un programma che mi prefisso, trasbordano e si mischiano, motivo per cui non sempre riesco a vivere nel giusto equilibrio.

Certamente qualcosa dipende da me, ma in gran parte sono pure gli altri a costringermi a rompere i pur ritenuti giusti equilibri.

Io non so come riuscissero a programmare il tempo i monaci dei cenobi benedettini e soprattutto come riescono a farli oggi i “relitti” di questo ordine religioso!

Sia che stia pensando alla mia anima, sia che sia dedito al mio “lavoro” il campanello della porta, telefono e telefonino continuano ad interrompermi.

Da un lato vorrei essere disponibile a chi bussa alla porta della mia vita e dall’altro lato le chiamate mi impediscono di portare avanti i miei impegni con la necessaria calma e serenità.

Ora poi che non riesco più a disporre, a motivo dell’usura dell’età, del dopo cena, vivo con sempre maggior preoccupazione di non far star dentro in un tempo inferiore delle 24 ore, sulle quali S. Benedetto aveva calcolato la sua regola di vita, quanto ritengo dovrei riuscire a fare. D’altronde penso che la gran parte dei miei concittadini si trovino nelle medesime condizioni e perciò scelgo di condividere la loro sorte.

Parrocchie che abbandonano i parrocchiani!

Mi verrebbe da dire “Parrocchia, se ci sei batti un colpo”.

Nel breve Vangelo di San Giovanni la domenica 5° dopo Pasqua Cristo afferma “Vi do un comandamento nuovo. Che vi amiate gli uni e gli altri come Io ho amato voi. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”.

Qui c’è poco da chiosare da interpretare! Ogni esegesi che non ribadisce che la solidarietà è l’elemento essenziale e qualificante per un cristiano, è discorso fuorviante che tradisce il pensiero di Cristo. Punto e basta!

In questa settimana ho ricevuto una lettera triste ed amara quanto mai, già la grafia ne era un segno della desolazione di una famiglia della media borghesia colpita gravemente dalla malattia; marito, moglie una figliola sui quali, per motivi diversi, sembra che la sorte si sia accanita nei loro confronti.

Creature credenti e praticanti, sempre vicini alla parrocchia, ma la parrocchia non riesce più ad essere accanto a loro e partecipe del loro dramma umano.

Nella lettera ho avvertito quasi la supplica di una telefonata, per sentire la presenza e il conforto di qualcuno che partecipi ad un dramma che sembra superiore alle loro forze.

Un anno fa un signore, da cui sono andato, su sua richiesta, a dare una benedizione alla famiglia, mi diceva con estrema amarezza: “Vede, don Armando, in questa strada negli ultimi 25 anni sono nati dei bambini, sono morti dei vecchi, si sono sposati dei giovani, queste famiglie hanno vissuto i loro drammi senza che un prete vi abbia messo piede, lei è il primo prete che entra in questa strada in questo ultimo quarto di secolo. Se questa è la parrocchia attuale, credo che sia proprio il caso di dirle: “chiudi bottega!” La crisi del sacro è determinata dal fatto che si è dato vita ad una struttura “ecclesiastica” che in realtà ormai non ha più nulla a che fare con l’insegnamento del divino maestro! Credo che sia giusto che Gesù le tolga anche il suo “patrocinio”.

Una lettera che spero aiuti a darci una mano e a crescere in umanità

Ieri ho raccontato a questo “diario” che è diventato il confidente dei miei pensieri, delle cose che mi capitano ogni giorno e delle miei reazioni; la vicenda del furto della carrozzella che avevamo offerto ad una cara persona che sta diventando progressivamente disabile.

Il “diario” poi sommessamente, in maniera discreta, racconta a sua volta, a chi gli interessa, ciò che questo vecchio prete confida al “diario”.

Non tutto e non sempre riesco ad inserire nelle pagine bianche quello che mi passa nella mente e nel cuore. Mi sono accorto che finisco per confidare più spesso reazioni amare, precisazioni angolose e prese di posizione aspre, anche se convinte.

Nella mia vita di vecchio prete, però sono anche molte le gioie, i momenti di soddisfazione che mi ripagano di tante battaglie aspre e talvolta perdute. Qualche giorno fa ho ricevuto dalla signora della carrozzella questa lettera che trascrivo; non spero che converta i ladri ma spero che invece ci aiuti a darci una mano e a crescere in umanità.

Mestre 22.04.2010
Questo è un mondo di lupi.
Non voglio più vivere in questo mondo di lupi.
Caro don Armando, non so che m’è preso l’altro giorno quando le ho telefonato per comunicarle il furto della carrozzina, una delle vostre presa a prestito. O meglio, lo so. Ero in preda ad una collera tremenda, quella che mi faceva pensare: se li prendo li strapazzo (gli ignoti ladri).
Io stessa in quel momento ero lupo, me ne sono resa conto poi.
Lei è stato proprio gentile e largo di manica, mi ha riportato alla ragione.
Da un po’ di tempo mi sono accorta che quando ho più bisogno di pensieri positivi, mi arrivano, una conversazione, un libro (giusto al momento giusto). Ieri sono entrata nella chiesa dell’ospedale e ho preso L’incontro e il Coraggio. A casa ho trovato l’autobiografia di don Andrea Gallo (fuori catalogo, richiesto e ricevuto. Non ci speravo)
Ho letto il suo diario don Armando, forte forse più di sempre tanto che persino la carta su cui è stampato scricchiola di più. Schietto e sincero. Riconosce che non era un lupo vicino a lui ma non lo ha guardato con malanimo.
Poi ho letto il libro di don Gallo, ha a che fare con lupi, di altro genere magari, e nemmeno lui vuole strapazzarli.
Per grazia di Dio, c’è lei, c’è don Andrea c’era don Mazzolari.
Vi voglio bene (a lei di più)
Lettera firmata.

L’aiuto reciproco deve diventare un codice di comportamento scontato!

Nel tardo pomeriggio mi ha raggiunto una telefonata, a dir poco sdegnata.

Una signora, neanche troppo anziana, non riesce più a deambulare, un po’ perché eccessivamente obesa a causa di qualche disfunzione ed un po’ perchè un progressivo indebolimento delle gambe non le permette d’essere totalmente autonoma. Assidua lettrice de “L’incontro”, sapeva che tra tante altre iniziative al don Vecchi, raccogliamo e distribuiamo supporti per le infermità. A dire il vero questo nostro magazzino non è sempre gran che fornito, perché quando abbiamo dato una carrozzella per infermi ad un moldavo o ad una ucraina, l’attrezzo non ritorna più da noi per essere riutilizzato. Chi ne ha bisogno, dato che nel lontano paese ha un congiunto che ne ha bisogno e l’organizzazione sanitaria e le risorse economiche non gli consentono di avere l’attrezzo.

Comunque avevamo avuto la possibilità di offrire la carrozzella a suddetta signora, senonché durante la notte gliela hanno rubata nonostante fosse posizionata sul pianerottolo del primo piano.

Da questo furto “macabro e sacrilego” nasceva l’indignazione di chi m’aveva chiamato al telefono. Io condivisi l’indignazione, ma le dissi che ne avremmo messa a disposizione un’altra, non siamo infatti né una bottega né una banca, ma la nostra attività poggia sul concetto del servizio e della solidarietà.

Mi parve rasserenata e poi mi scrisse una bella lettera di ringraziamento, facendomi delle lodi che non merito.
Dovrebbe a mio modesto parere essere finito il tempo, per cui si dia per scontata la prassi della solidarietà e non si ritenga più un merito di chi la pone in atto.

L’aiuto reciproco deve diventare un codice scontato di comportamento, anche se purtroppo siamo ancora lontani da questa meta che dovrebbe essere ovvia per noi cristiani!

Una splendida dimostrazione d’amore

Normalmente tento di contattare personalmente i familiari dei defunti dei quali faccio il funerale. Non è certo mio costume tessere il panegirico del morto, perché tento sempre di inquadrare il commiato alla luce della fede e della speranza cristiana e soprattutto mi impegno che l’evento costituisca una breve catechesi sui “novissimi” ossia sulle ultime realtà: morte, giudizio e paradiso.

Quando celebro il funerale mi ricordo sempre una massima che papa Roncalli era solito ripetere quando era nostro patriarca a Venezia: “Ricordati delle ultime cose e non perirai in eterno!”. Gli uomini d’oggi non mi paiono molto interessati a queste grandi verità, ma ciò non mi scoraggia, anzi mi impegna ad una catechesi il più possibile convincente, perché non sono molte le occasioni che la vita mi offre per questo discorso. Ciò detto, è per me buona norma avere, seppure una minima conoscenza del “caro estinto” per non pronunciare parole improprie che rovinino l’opportunità di questo “momento di grazia”.

Normalmente tutti dicono del loro caro le stesse cose: era altruista, faceva del bene, non era praticante ma credeva a modo suo in un Supremo! Spesso sono discorsi frettolosi perché la gente del nostro tempo ha fretta di concludere presto “il tempo del lutto”. Talvolta però fortunatamente non è così, si avverte un dolore vero, una onesta ricerca, e vengono messi in luce i valori che hanno informato la vita del congiunto scomparso.

Qualche giorno fa una figlia che mi ha parlato con tanto affetto di suo padre e pensando di non riuscire a fornirmi uno schizzo esatto della personalità bella e positiva di suo padre, concluse il discorso dicendomi: “Me lo tratti bene, don Armando, mio padre!”. Come non sognare che avvenga sempre così. Purtroppo ciò avviene se non raramente, non molto spesso!

Uno scandaloso scaricabarile sui poveri!

Qualche giorno fa ho preso una solenne arrabbiatura per un motivo che ora non ricordo. Ho capito però da quel sintomo che era terminato il tempo della convalescenza e che ormai sto bene.

L’arrabbiarsi non è certamente segno di virtù, almeno per me, ma è un segno di buona salute.

Oggi ne ho presa una seconda e perciò credo ormai di essere fuori pericolo! Stavo andando a pranzo, quando m’avvertirono dalla segreteria che c’era un signore che mi voleva vedere; in verità chi era al telefono soggiunse che gli sembrava uno di quelli che “chiedono soldi”. Ci andai subito e nella hall del Centro incontrai una persona corpulenta che non avevo mai conosciuto, né visto.

Cominciò, come sempre, a girare per le larghe per descrivermi la sua situazione. Lo pregai d’essere conciso perché al don Vecchi mi sento un po’ come in convento, se uno non si presenta a tavola, è segno che non ne ha bisogno, o al minimo arrischia di trovare tutto freddo!

Siccome il mio interlocutore non cessava di fornirmi nuovi particolari, gli chiesi in maniera poco caritativa. “Ma posso sapere cosa vuole da me?”
Io però lo avevo già capito, voleva soldi. Al che tentai di ricordargli che aveva una parrocchia, che in città ci sono enti a ciò preposti.

Ma lui, imperterrito, vedendo di non aver ancora tanto tempo a disposizione mi disse che era stato il suo parroco a dirgli: “A Mestre non c’è altro che don Armando che ti può aiutare”. Quel parroco lo conosco fin troppo bene, non ha in parrocchia neanche uno straccio di organizzazione caritativa, è impegnato solamente ad assicurarsi una comoda vecchiaia.

Io sono pensionato Inps da 5 anni e soprattutto risparmio fino all’ultimo centesimo per il don Vecchi di Campalto!
Per chiudere gli dissi, mettendo mano al portafoglio “non gli posso dare che 5 euro” e lui “Magari 10”!

Ne diedi 10 malvolentieri, non tanto per quel povero gramo che ha imparato fin troppo bene il mestiere del povero, ma nei riguardi di quel confratello che da una vita fa lo scaricabarile e per di più si dice di sinistra!

Quell’incontro felice con un mio vecchio scout dell’Agesci Amerigo Vespucci

Nel pomeriggio mentre stavo riordinando le ceriere della chiesa succursale della mia minuscola “diocesi” ho incontrato Roberto Marroni, uno dei miei scout del reparto dell’Agesci Amerigo Vespucci, di cui sono stato per molti anni l’assistente.

Roberto stava accompagnando la sua vecchia mamma a visitare le tombe dei suoi cari.
La mamma è ancora un po’ più piccola di quanto la ricordavo, ma manteneva, nonostante la veneranda età di più di 90 anni, la sua calda parlata toscana. Il figlio Roberto lo stesso volto rotondeggiante, gli stessi occhi vivaci, e la calda umanità di un tempo.

Del ragazzino di 50 anni fa, capo squadriglia, delle “volpi” o dei “leoni” non ricordo più, erano cambiati solo i capelli, ora grigi, però la stessa personalità calda ed affettuosa.

Parlammo del più e del meno; lui si interessò della mia salute, io gli chiesi del suo lavoro e dei suoi figli. Roberto mi disse che era già in pensione “Non le pare che a 62 anni non meritassi un po’ di riposo?”

Per me, no, ma non glielo dissi perchè so di essere uno dei pochi stacanovisti, ormai fuori corso.

Mi fece però bene sentire, che si occupava della casa in montagna costruita e gestita dagli scout adulti per i “lupetti” i piccoli del movimento scout, poi memore dell’educazione puntigliosamente impartita dal suo vecchio educatore, soggiunse “Se ha qualcosa da darmi da fare, don Armando, sono ora disponibile”. Mi ha fatto molto bene sentire che lo “spirito della buona azione” e del “servizio” avevano ben attecchito ed erano ancora vivi e vitali.

La Festa del Lavoro

Quest’anno non c’era tanta gente alla mia messa del 1° Maggio, ma l’atmosfera era però di una dolcezza straordinaria. La splendida cornice della primavera, che si avverte tra i cipressi del camposanto, il clima di intimità universalmente avvertito per il calore delle basse capriate e della copertura del tetto della povera chiesa prefabbricata nelle regioni gelide e boscose della Romania, han fatto sì che la cinquantina di fedeli uniti attorno all’altare creassero una atmosfera di profonda partecipazione al divino mistero e di viva partecipazione alla festa del lavoro. Nella breve omelia sviluppai due concetti: il lavoro come contributo dell’uomo a far sì che la creazione offra il meglio di sé per rendere confortevole e bella la vita e il lavoro come servizio ai fratelli, ossia segno di fraternità concreta.

Tutto quello che noi fruiamo oggi è dono di creature del mondo intero, come il nostro lavoro può diventare segno di solidarietà per tutti quando è concepito e vissuto come servizio ai fratelli.

Mentre parlavo, i vecchi ricordi del primo maggio vissuti mezzo secolo a San Lorenzo, nella mia vecchia chiesa che s’affaccia su Piazza Ferretto, mi giungevano a dar calore e forza alle parole che tendevano ad esprimere la ricchezza del lavoro.

Cinquant’anni fa, nella piazza del partigiano ucciso dai fascisti, sembrava, tra il mare di bandiere rosse, di pugni chiusi e di discorsi che sapevano di lotta del proletariato contro le classi padronali, di essere alla vigilia della rivoluzione d’ottobre.

Quei cupi ricordi mi hanno aiutato a godere della festa e a pregare convinto che ci sia lavoro per tutti e che il lavoro sia festa e non lotta amara.

Le magagne dell’occidente

Mi capita spesso di leggere con stupore e tristezza, soprattutto nelle riviste missionarie, la massiccia percentuale di analfabetismo in molti Paesi del mondo.

Sono ancora troppo numerosi i popoli i cui membri non sanno né leggere e né scrivere, ma sono ancora di più quelli che soggiacciono a tradizioni tribali primitive, a tipi di religiosità inquinate dalla superstizione o da forme di fondamentalismo razziale che rendono la vita di milioni di esseri umani angusta, chiusa al progresso e impermeabile alla cultura, ma soprattutto alla civiltà. Sono lodevoli gli sforzi di certe organizzazioni internazionali, ma di fatto sono ancora estremamente inadeguate ad aiutare e vincere l’ignoranza, la superstizione, il fanatismo, l’arretratezza a livello sociale e sanitario.

Da questo punto di vista il panorama è veramente desolante, quando pensiamo ai paesi del terzo e quarto mondo, ma se riflettiamo onestamente neanche il nostro mondo occidentale non s’è liberato da tutti i limiti del sottosviluppo sociale e della subcultura.

Oggi anche nel nostro Occidente, tronfio delle proprie scoperte scientifiche, sono assai diffusi elementi che impoveriscono terribilmente la nostra presunta superiorità culturale.

Se analizziamo per bene la nostra società, non solo fanno capolino, ma talora appaiono dominanti aspetti assolutamente negativi quali: il razzismo, l’amoralità, la carenza di valori, l’esasperazione della ricerca del profitto, la carenza di solidarietà, l’esaltazione di deviazioni umane e sociali, la burocrazia imperante ed ottusa, un far politica solamente come strumento di potere e non di servizio ed una caccia esasperata di poltrone e via di questo genere!

Anche il nostro vecchio mondo è ben pieno di vergogne e di non piccole magagne!

Il volto del Signore si vede anche nell’Arte, non solo in “lodi” e “vesperi”!

Sono sempre stato un appassionato cultore d’arte. La pittura, la scultura ed ogni forma artistica mi hanno incantato e riempito di ebbrezza. Questo amore, che mi è stato trasmesso sui banchi del liceo da monsignor Vecchi, mi ha spinto a diventare anche un appassionato collezionista ed un promotore di ogni forma d’arte.

Mi pare che “La cella”, la galleria che ho aperto tanti anni fa alla base del campanile di Carpenedo, abbia ospitato finora quasi quattrocento e cinquanta mostre e l’attività ambiziosa a favore degli artisti di Mestre e del Veneto s’è sviluppata e cresciuta poi mediante le biennali d’arte sacra e gli incontri asolani, ai quali aderirono a decine e decine gli artisti della zona che finalmente scoprivano nella comunità cristiana un punto sicuro di riferimento e di confronto.

Non tutti i progetti sono andati in porto, ma comunque quel tempo è stato una bella stagione per me, per la parrocchia e per gli artisti con i quali s’era iniziato un dialogo di riconciliazione verso quella chiesa dalla quale essi avevano divorziato da ormai troppo tempo. Quella stagione in cui la comunità cristiana s’era aperta ai tempi nuovi mediante l’arte, la musica, le rassegne corali, lo sport, la comunicazione sociale con la stampa e la radio ha segnato anche un arricchimento di opere d’arte moderna. Il don Vecchi, che possiede solamente una parte delle opere d’arte disseminate in tutte le strutture parrocchiali, ma comunque possiede di certo la più grande galleria cittadina.

Ora pare che questo movimento abbia incontrato una battuta d’arresto, ma fortunatamente alcuni germogli nati da questo ceppo hanno cominciato a fiorire con alcune gallerie: “La piccola di Chirignago”, “La fornace” di viale don Sturzo, la “San Lorenzo” del Duomo e da ultimo la “San Valentino” del don Vecchi di Marghera.

Spero e prego che prima o poi qualche cristiano scopra finalmente che l’uomo del nostro tempo non può vivere solamente di “lodi” e di “vesperi” ma ha anche bisogno di vedere il volto del Signore anche in ogni espressione di bellezza e di poesia.

Il mio patrimonio sono i poveri

È arcinoto il racconto che ha per protagonista il diacono Lorenzo. La comunità cristiana a Roma era nata da poco, e già da subito essa aveva sviluppato la dimensione evangelica della solidarietà e dell’aiuto ai poveri. I responsabili della comunità avevano deputato il diacono Lorenzo ad occuparsi dei poveri che erano assai numerosi anche nella Roma imperiale. Lo spirito di carità che caratterizzava il vivere dei primi cristiani, infatti era identificato con la stupenda espressione: “Coloro che si amano”, forse le elargizioni ch’essi ricevevano dai fedeli e che a loro volta essi facevano, destarono l’avidità della burocrazia statale, mai sazia di denaro da incamerare e da sperperare, così che il prefetto intimò a Lorenzo di versare allo Stato i tesori della chiesa nascente. È arcinoto che dopo alcuni giorni Lorenzo presentò a suddetto funzionario una vera folla di miserabili.

Che bello il pensiero che i poveri siano il vero tesoro della chiesa, il segno delle sue scelte e della sua fede. È consolante che anche oggi vi sono dei “tesori” veramente splendidi sparsi qua e là nella chiesa di Dio, ma è anche purtroppo vero che vi sono molte comunità cristiane che a questo livello sono indigenti e talvolta miserabili, perché i poveri non sono più il loro patrimonio più prezioso.

A questo riguardo per grazia di Dio e per fortuna mi sento ricco ed orgoglioso di questo “patrimonio” prezioso, infatti non credo che ci siano parrocchie, organizzazioni ecclesiastiche ufficiali o Caritas di alcun genere in cui circolino i poveri a centinaia quanto al “don Vecchi”. Di questo sono veramente orgoglioso e felice!

Auspico moderazione e misericordia da parte di chi giudica la Chiesa

Nel numero di alcuni mesi fa dedicai al Papa la copertina e la didascalia de “L’Incontro”.
Sotto la foto del Papa, che sembrava solitario un po’ smarrito e indifeso scrissi come titolo “Povero Papa!”
Oggi mi verrebbe da ripubblicare la foto e con caratteri cubitali: “Povero Papa!”

La campagna mediatica su i preti pedofili, pare che debba riguardare solamente il Papa, quasi ne fosse Lui la causa. Credo che siamo tutti d’accordo che è una nefandezza turbare e profanare i ragazzi, che lo facciano poi anche certi religiosi è più che giusto l’aggravio della condanna, però mi sento di fare alcune osservazioni che credo doverose.

Primo: la percentuale di preti che si sono macchiati di questa ignominia mi pare veramente marginale in rapporto di ciò che avviene in famiglia, a scuola ed in altri settori di cui non si parla.

Secondo: vi sono altre perversioni quali ad esempio gli auspicati matrimoni omosessuali che rappresentano un’altra sporcizia morale che dovremmo perseguire con e uguale durezza e accanimento.

Terzo: non ritengo così obbrobrioso, come oggi si tende affermare quando responsabili dei sacerdoti che hanno sbagliato hanno tentato il recupero di chi ha mancato, con trasferimenti per non creare scandalo ulteriore che io, più di cinquantanni fa, sono stato chiamato improvvisamente a sostituire un prete che fù accusato di queste colpe e che aveva un largo seguito tra i giovani della parrocchia. So che il sacerdote si è recuperato, e so meglio ancora che i giovani, che ho ereditato non hanno subito “ferite” significative al riguardo.

Sono convinto che un po’ di moderazione e di misericordia non farebbe male anche in questo campo e non sarebbe male ricordare la massima di Cristo: “chi non ha peccati scagli la prima pietra!”

Forse se si parlasse con un po’ di forza credo che molti giornalisti sia al di là che al di qua dell’oceano e molti accusatori della carta stampata, o appartenenti a religioni o a culture diverse, dovrebbero chinare il capo ed abbandonare le pietre!

L’egoismo si scaglia contro la cittadella della solidarietà!

Uno dei bersagli preferiti dai cittadini, che pensano di aver motivi per lagnarsi dei servizi sociali e in generale del funzionamento di tutta la complessa organizzazione della vita di una città, sono gli amministratori e i politici in genere.

Io scopro di appartenere purtroppo a questa gente e a questo modo di reagire a disservizi o ai comportamenti e regole che non mi piacciono o che non condivido per motivi particolari.

In questi giorni, pur tardivamente mi pare di avvertire che tutto questo non è proprio assolutamente giusto che avvenga. Da un lato perché le sfaccettature della vita sociale sono pressoché infinite, e i modi di pensare altrettanto diversificati, ma soprattutto perché ogni volta che vengono toccati gli interessi veri o presunti o semplicemente le situazioni stratificate nel tempo, la valutazione del bene comunque passa all’ultimo posto ed emergono gli interessi personali, che praticamente pare escludano in partenza ogni senso di giustizia e di solidarietà.

Le mie perplessità sono nate dal fatto che l’annuncio del sogno di creare a Mestre “La cittadella della solidarietà” ha entusiasmato un giornalista de “Il Gazzettino” ed un responsabile Rai 3, persone però che hanno dato una valutazione meramente teorica all’iniziativa, ma che ha provocato la reazione immediata di un prelato che ha ritenuta scavalcata la sua autorità e di un cittadino, che abita nei paraggi del sito proposto per la sua realizzazione, che teme che venga turbata la pace di un quartiere privilegiato e che non esitava a denunciare “l’iniquo progetto” alla stampa, al sindaco, e perfino al nuovo governatore del Veneto e al Patriarca, tutte persone che per posizione sociale dovrebbero essere i fautori più convinti di un simile progetto.

Tutto questo è avvenuto solamente per la notizia di un sogno di un gruppetto di idealisti, però ciò può dare la misura di quello che avverrebbe se si cominciasse a calare a terra il sogno! L’egoismo è mille volte più pernicioso e radicato dalla magia, ma mentre questa è osteggiata dalla forze dello Stato, l’egoismo pare possa vivere indisturbato nella coscienza dei benpensanti!

Le battaglie si vincono se sono conformi alla volontà di Dio

Anche il più vecchio periodico della città si è allineato ai tempi nuovi: col formato tabloid e pagine su pagine a volontà!

Un tempo i giornali vecchi erano destinati alle funzioni di carta igienica e ad avvolgere cibi ed indumenti. Ora queste destinazioni sono sconsigliate, motivo per cui questo spreco di carta non trova più giustificazione per il cittadino medio che non può dedicare più di un quarto d’ora al giorno alla lettura del periodico.

Qualche giorno fa m’è venuto da riflettere sul costo e sulla destinazione della carta; oggi se ne spreca troppa per passare notizie di poco conto, che non fanno cultura, non educano ai valori civili e morali, e soprattutto non trasmettono assolutamente saggezza.

Questa riflessione è nata dal confronto delle quaranta pagine de “Il Gazzettino” tutte piene di futilità, di notizie inutili anzi dannose e le due paginette della Bibbia che ho letto durante la messa celebrata nel pomeriggio nella nuova chieda del cimitero.

La prima lettura era tratta dagli atti degli apostoli, un testo di duemila anni fa e riportava un breve discorso di Gamaliele, un maestro di Israele. Diceva Gamaliele ai colleghi del Sinedrio in rapporto alla loro proibizione fatta agli apostoli di non propagare la nuova dottrina che si rifaceva a Gesù: “Badate cari colleghi, se questa dottrina è di natura puramente umana essa si dissolverà in poco tempo come è avvenuto ad altre recenti iniziative del genere, ma se essa pervenisse dal Cielo è tutt’altra cosa, che non vi capiti di trovarvi a combattere contro Dio!”

Questi sono discorsi che contano, che rendono gli uomini più sapienti altro che il mare arruffato di chiacchiere de “Il Gazzettino”!

Il discorso conciso di Gamaliele mi sta mettendo in crisi.

Povero me se tentassi di portare avanti iniziative, sogni e progetti non conformi alla volontà di Dio, sarebbero queste battaglie perdute già in partenza!