Nubi sulla Giunta

Nota della redazione: questo appunto è stato scritto prima dell’incontro avuto lunedì 10 maggio al don Vecchi tra il presidente e direttore della Fondazione, il dottor Gislon e la dottoressa Corsi per il Comune dell’assessorato della sicurezza sociale. In tale incontro sono state date le più ampie promesse che l’amministrazione comunale fornirà il personale sufficiente per rispondere al grave problema dell’autonomia limitata dei nostri anziani. Un buon inizio!
Sono passate ormai alcune settimane dalle ultime elezioni. Ogni mattina sono andato a verificare nelle pagine de “Il Gazzettino” dedicate alla città, se il sindaco Orsoni avesse scelto gli assessori della nuova giunta.

Nei primi giorni i giornalisti insistevano sulla determinazione di Orsoni di dare segnali di discontinuità, e sulla volontà di essere lui a decidere. Poi pian piano il giornale ha cominciato a riferire sulle beghe dei partiti che si disputavano i posti da far occupare ai loro aderenti. Il discorso della discontinuità e degli uomini nuovi è totalmente scomparso. Se non che sabato 17 aprile sono usciti dal cilindro del prestigiatore, i nomi di personaggi vecchi come il cucco, che da decenni hanno costretto la città a vivacchiare in qualche modo!

Io ero e sono interessato in maniera particolare all’assessore delle politiche sociali. Sempre “Il Gazzettino” informa che sarà il prof. Sandro Simionato, già presidente del quartiere Carpenedo Bissuola e nell’ultima giunta Cacciari assessore alle politiche sociali. Onestamente debbo confessare che sono preoccupato, a meno che non abbia avuto “una folgorazione sulla via di Damasco” nel passato per quanto almeno riguarda il recupero dei generi alimentari in scadenza e il don Vecchi, la sua azione è stata ben poco soddisfacente! M’è parso che non solamente non fosse disposto a spendersi per la soluzione di questi problemi, ma ne provasse perfino nausea a sentirli rammentare.

Quanto prima chiederò un incontro e qualora non si passasse dalle chiacchiere ai fatti, farò le scelte che conseguono a chi è in difficoltà.

Non sono assolutamente disposto a tollerare disinteresse ed inefficienza!

I due principi alla base delle mie inizative sociali

Nel giro di una settimana mi è stato richiesto dall’Università della terza età prima e da RAI3 dopo un’intervista televisiva sui progetti e sulle strutture di solidarietà che mi stanno a cuore e di cui mi occupo attualmente. L’Università della terza età, alla fine di un corso si riproponeva di realizzare un servizio televisivo sul rapporto tra indigenza e solidarietà a Mestre, mentre RAI3 era interessata al progetto di cui la stampa aveva parlato; cioè della “cittadella della solidarietà” ossia di un luogo in cui si diano risposte concrete ad ogni tipo di bisogno: ostello, mensa popolare, emporio di vestiti, un'”Ikea” per i mobili, di arredo per la casa, un centro di distribuzione di generi alimentari e di supporti per gli infermi.
Tutto questo esiste già, anche se non completamente, presso il Centro don Vecchi, ma esiste in maniera sacrificata ed in ambienti inadeguati, mentre noi sognamo un centro pensato e realizzato con questa finalità specifica.

In ambedue queste occasioni gli intervistatori mi hanno chiesto il movente che mi spinge a queste “missioni impossibili” e dove trovare i mezzi economici per realizzarle. Sono felice di mettere a fuoco queste due questioni di fondamentale importanza.

Primo; è mia assoluta convinzione che l’essere cristiani comporta una fede forte e convinta in Dio ed una solidarietà concreta verso il prossimo. Mi pare che su questo punto Cristo sia stato chiaro; considero quindi un aborto cristiano la pretesa e l’illusione d’essere cristiani senza essere concretamente solidali verso il prossimo.

Secondo; l’impegno a sviluppare strutture e servizi di solidarietà non deve partire ed appoggiarsi sui mezzi che abbiamo a disposizione, ma sui bisogni che il prossimo ha. Questo l’ho imparato dal miracolo della moltiplicazione dei pani. Cristo quando disse agli apostoli: “Provvedete a dar da mangiare alla folla”, conosceva bene la situazione economica inadeguata dei suoi discepoli, ma conosceva ancor meglio la fame dei suoi ascoltatori.

Questi due principi hanno sempre sorretto le mie iniziative sociali, e questi due principi si sono sempre mostrati estremamente validi!

Una riflessione per gli ammalati

Qualcuno mi ha accusato di essere stato uno stacanovista, qualcuno ha supposto che lo sia per mettermi in mostra e risultare un protagonista, qualche altro, più benevolmente, ha addebitato il mio impegno al tipo di carattere e di temperamento affidatomi dalla natura e quindi dal buon Dio.

Oltre la questione della vita pastorale della chiesa del cimitero e quella dei Centri don Vecchi, ogni settimana curo l’uscita de “L’incontro”. Ogni 15 giorni, curo l’uscita del “Coraggio” il periodico degli infermi ed ogni mese del periodico “Sole sul nuovo giorno”, un brano di forte impatto emotivo e di pensieri per una meditazione quotidiana.

Perciò la mia mente è in costante movimento per cercare idee, verità, valori e chiavi di lettura della vita e delle problematiche connesse.
Tento di cogliere le verità e le risorse che nascono dalle esperienze che la vita mi offre per offrirle a mia volta ai lettori e ai miei concittadini.

L’ultima esperienza forte di queste ultime settimane è stata certamente per me il ricovero nella clinica universitaria patavina e dell’intervento che ho dovuto subire. L’impatto con queste due realtà è stato certamente forte ed ora, durante questa faticosa convalescenza, sto cogliendone soprattutto gli aspetti positivi per metterli semmai a disposizione del mio prossimo che fortunatamente potrebbe coglierne i lati positivi senza passare per la faticosa ed amara esperienza.

Vorrei scrivere un articolo per “Coraggio” per aiutare gli ammalati a leggere e beneficiare del rovescio della medaglia di un forzato ricovero in ospedale.

Le linee portanti di questo articolo potrebbero essere: 1) La presa di coscienza di quale dono meraviglioso sia la salute. 2) La bellezza nascosta ma vera della vita normale che spesso appare banale e scontata. 3) L’apporto e il ruolo insostituibile che giocano le persone che ci stanno accanto e la cui amicizia ed affetto diamo per scontati. 4) Il valore assoluto della solidarietà di tanti attori della vita sociale, che sola può risolvere le problematiche specifiche della malattia. 5) Il punto fermo rappresentato dalla fede, punto che emerge in tutta la sua ricchezza nel momento in cui l’individuo è più fragile e in balia di forze oscure e sconosciute. Spero che questa riflessione possa aiutare, soprattutto chi è ammalato, a far tesoro della sua esperienza faticosa e difficile!

Incontri sulla soglia dell’eternità

Attualmente il parroco o il sacerdote viene chiamato assai raramente dalle famiglie che hanno in casa un moribondo.
Da giovane prete non erano infrequenti le chiamate notturne per impartire l’estrema unzione.

Oggi la stragrande maggioranza dei fedeli muore in ospedale ed anche là il sacramento è impartito ormai quando il moribondo è fuori di coscienza. Solamente la visita frequente agli ammalati, e soprattutto agli infermi, permette una preparazione dolce e serena a ricevere i sacramenti del perdono.

Nella mia lunga vita di sacerdote, più di mezzo secolo, tutto impegnato nella cura pastorale, frequentemente ho impartito questo sacramento della misericordia di Dio, ma alle spalle del sacro rito c’era sempre stata una lunga frequentazione ed un rapporto divenuto col tempo assai amichevole e ricco di fiducia e di affetto.

Porto un bellissimo ricordo di certi incontri fatti sulla soglia dell’eternità, di grande soavità interiore e ricchi di fede e di speranza. Oggi i preti prediligono l’amministrazione “in batteria” dell’olio degli infermi, soluzione che mi lascia alquanto perplesso perchè corre il grosso pericolo di essere anonima, formale e mai calibrata sulla personalità del moribondo.

Qualche giorno fa la moglie di un ex parrocchiano mi ha chiesto di rispondere al desiderio del suo congiunto di ricevere il segno del perdono e dell’amore di Dio.

L’estate scorsa avevo amministrato il sacramento del commiato a suo cognato, ch’era stato mio alunno al Pacinotti e certamente era stato edificato per la compostezza, la serenità e l’abbandono fiducioso nelle braccia paterne del Padre.

Oggi volle anche lui seguirne l’esempio alla presenza della sua adorata e splendida consorte, sono stato veramente sorpreso come un cristiano, senza troppe conoscenze ecclesiali, sapesse affrontare il mistero della morte illuminato e sorretto dalla fede e da una forte saggezza e coraggio umano.

Ho donato due pietre preziose ai fedeli

Ai nostri giorni nessuno si illude di avere l’opportunità di scoprire un tesoro, al massimo può permanere solamente l’illusione di vincere all’enalotto, ma in questo caso uno non ha che da rimetterci! Tra i sognatori che sperano nel “colpaccio”, la stragrande maggioranza pensa che “il tesoro” consista nel denaro, o perlomeno in un posto di lavoro assai remunerato; sono purtroppo poche le persone convinte che anche il possesso di una speranza, di un valore, di una certezza possa costituire una vera fortuna per chi riesce ad appropriarsene.

Io sono proprio convinto che le cose stiano così perché rimane vera e saggia la preghiera biblica in rapporto ai beni materiali: “Signore non darmi né la miseria né la ricchezza, ma concedimi invece quello che mi è necessario per vivere.

Qualche giorno fa ha destato una certa sorpresa la mia affermazione durante la celebrazione della messa.

Dissi: “Oggi siamo in grado di offrire ad ognuno di voi due pietre preziose di immenso valore”. Avevo appena letto un pagina di San Giovanni e dopo aver affermato “Parola di Dio!” e chiuso il Vangelo, ho preso la parola per mettere cornice all’affermazione di Cristo appena letta di cui ero pienamente convinto che aveva dato ebbrezza al mio spirito.

Ecco le due splendide verità:
Prima. “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna”
Seconda perla preziosa: “Dio non ha mandato il figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui”.

Confesso che se avessi avuto 10.000 euro da offrire ad ognuno della trentina di fedeli presenti alla messa, non sarei stato più felice che l’offrire queste due perle evangeliche, che conoscevo già ma che ne riscoprivo la splendida bellezza.

Queste affermazioni sono veramente un tesoro!
Questa è la mia religione, questa è la religione che salva da una vita carica di tristezza, di povertà, di paura, di vuoto e di assenza di domani!

Cristo è venuto a dirci che ci ama comunque, e a rassicurarci che il suo mandato è quello di salvarci, e non di condannarci senza appello.

I fedeli mi hanno ascoltato attenti e partecipi, mi auguro che ne traggano tutte le conclusioni e si comportino in merito; io ho tutta l’intenzione di avvalermi di questa ricchezza!

C’è chi mi apprezza e chi no…

Temo che molti dei cosiddetti confratelli preti, pensino non favorevolmente nei miei riguardi.

Qualche tempo fa l’architetto Giovanni Zanetti, che sta seguendo tra mille difficoltà il progetto del Centro don Vecchi di Campalto, quasi a giustificare i ritardi in cui è incorso e volendoli addebitare alla burocrazia comunale, mi ha confidato con un certa aria che pretendeva comprensione per suddetti ritardi: “Sa don Armando, lei ha tanta gente che la stima e le vuol bene, ma altrettanta che la rifiuta e la osteggia!” Sono ben consapevole che le cose stanno così per molti degli aspetti della mia vita: non mi si perdona la mia insistenza nel portare avanti comunque e nonostante tutto la causa dei poveri, non si condivide la mia libertà di giudizio e talvolta il mio rifiuto nei riguardi di una religiosità formale, non si giudica di buon occhio il mio impegno nonostante l’età che ho raggiunto, non si giudica spesso favorevolmente il mio “diario” in cui non avallo sempre le posizioni cattoliche altrettanto non condanno sempre gli atteggiamenti e le tesi portate avanti dai laici, e non mi accodo all’opinione pubblica religiosa imperante.

Ci sono alcuni parroci che sono talmente diffidenti e in posizioni critiche da non permettere che “L’incontro” sia messo a disposizione dei fedeli nel banco della stampa delle loro parrocchie nonostante non chieda loro un centesimo e paghi tutti i costi in fatica e in denaro, mediante la mia piccola pensione e il contributo degli amici, non gravando in alcun modo sul bilancio delle parrocchie e men che meno su quello della Curia. Confesso che è un po’ duro andare avanti tra questa indifferenza e peggio ancora tra questa più o meno manifesta ostilità.

Fortunatamente ci sono cittadini che la pensano diversamente e lo manifestano gremendo letteralmente la mia chiesa e scrivendomi lettere come questa che oggi allego:

Non sono religiosa (non me ne vanto, penso anzi che chi crede ed ha fede possegga un qualcosa più di me). Leggo “L’incontro”, che trovo acquistando il quotidiano.
Con questa mia e-mail sento il bisogno di complimentarmi per il “Diario di un prete in pensione”.
Quando leggo mi lascio trascinare da un argomento all’altro, da considerazioni di vario tipo che, direi quasi quasi non scritte da un prete, tantomeno da un prete non più giovane….
Davvero, magari ci fossero tanti preti come lei. Diteglielo per favore. Grazie.

La Prima Comunione dei bambini è un momento prezioso!

Qualche giorno fa mio fratello don Roberto, mi telefonò per accertarsi sulla mie condizioni di salute, scusandosi di non venire a trovarmi di persona perché tanto impegnato, come sempre, nella sua parrocchia grande e numerosa, ma soprattutto perché le prime comunioni l’avevano assorbito quanto mai.

I problemi pastorali mi hanno sempre interessato, e sebbene ora sia fuori del circuito, non sono venuti meno la mia curiosità e il mio interesse e perciò chiesi a don Roberto quale fosse la sua situazione nella sua parrocchia e quale dottrina e prassi segue in questo settore.

Quest’anno nella parrocchia di Chirignago, che è appunto la comunità cristiana di cui mio fratello è parroco, sono stati ammessi 60 ragazzi della terza elementare, che egli ha preparato personalmente per questo grande evento.

Per la prima comunione ha diviso questi ragazzi in due turni perché la chiesa non riusciva a contenere genitori, nonni e familiari.

Mio fratello, commosso e felice mi raccontava l’evento descrivendomi l’ebbrezza sua, quella dei bambini e di tutta la comunità, che ogni anno vive come un’esperienza fortissima ed indimenticabile questo momento di autentica e vera spiritualità; l’innocenza dei piccoli, il loro entusiasmo e la loro fede fresca e pulita e il riflesso di tutto questo nel cuore degli adulti che almeno in quell’occasione recuperano qualcosa di bello e di vero presente nella loro coscienza, magari sotto la cenere, ma presente, è veramente qualcosa di meraviglioso.

Questo racconto ha fatto emergere nel mio animo questo splendido evento che ogni anno, nel cuore della primavera e della vita, io ho vissuto per più di 50 anni come un’esperienza spirituale somma ed irripetibile.

Credo che chi ha partecipato e vissuto momenti del genere non li potrà mai dimenticare anche se sopra di essi il terremoto delle esperienze umane li avesse coperti di cumuli di macerie.

Quando io condussi questa splendida realtà ricordo con quanto vigore e convinzione dicevo ai piccoli che si accostavano alla tavola del Signore e ai loro cari: “Ricordate che il vostro posto nessuno lo occuperà, rimarrà sempre per voi, ricordatevi che la vostra chiesa rimarrà sempre con le porte aperte per il vostro ritorno, ricordatevi che qui ci sono i valori più alti, si dicono le parole più vere, che qui potrete incontrare il Padre e i fratelli, ricordatevi che qui avete vissuto uno dei momenti più belli della vostra vita”.

Privare i bambini e la comunità di un’esperienza del genere sarebbe un vero sacrilegio! Mi verrebbe voglia si offrire una nuova massima sapienziale per la chiesa: “Quanto è saggio il sacerdote che semina sul terreno vergine altrettanto è sciocco chi vuol seminare sul terreno già occupato dalle erbacce!”

Il cambio di mentalità che da 20 secoli ci chiede Gesù

Nel pomeriggio di quest’oggi saranno stati dai 30 ai 40 i fedeli che han partecipato all’Eucarestia che celebro ogni giorno nella nuova cara chiesa del camposanto, l’ultimo amore della mia vita di prete.

In questi giorni, la liturgia ci fa riflettere sulle pagine dell’evangelista San Giovanni, scrittore sacro con cui non mi trovo in sintonia, perché prediligo la concretezza di Marco, Luca e Matteo, ai voli mistici del più giovane degli apostoli, la pagina del Vangelo verteva sul colloquio notturno di Nicodemo, il simpatizzante di Gesù che lo ascoltava volentieri nonostante facesse parte della giunta del governo ebraico che era decisamente contraria al messaggio del profeta teoricamente tanto atteso ma concretamente altrettanto rifiutato. Il potere è fisiologicamente contrario ad ogni innovazione perché è la conservazione che gli garantisce continuità. Cristo dice a Nicodemo che Egli chiede una vera “rinascita” ai suoi discepoli, ossia una nuova mentalità, un modo nuovo di giudicare gli eventi e di vivere la vita. Nicodemo non capisce ed obbietta che una rinascita fisica è impossibile per l’uomo.

Sono passati 20 secoli da questo incontro e dalla chiarificazione di Cristo su che cosa si aspetta dai suoi discepoli, ma pare che la sua lezione non sia ancora recepita nella coscienza dei cristiani d’oggi.

La stragrande maggioranza dei fedeli è convinta che l’essere cristiani consista nel dire qualche preghiera o partecipare più o meno frequentemente a qualche rito religioso.
Tutto questo però rimane in superficie, sopra la pelle ma non modifica non rinnova e sublima la vita.

Il fondatore degli scout, da grande pedagogo quale fu, avendo capito tutto questo aveva suggerito ai ragazzi: “chiedetevi come penserebbe Gesù, cosa deciderebbe, cosa farebbe se fosse al tuo posto e poi comportatevi in merito”.

Credo che questo suggerimento può andar bene anche per i cristiani del nostro tempo, il cambio di mentalità può avvenire solamente per questa strada, questa è la vera rinascita!

I miei rapporti con le anime di Dio

Durante i miei ultimi due ricoveri in ospedale, mi sono portato via, tra gli altri, un volume regalatomi lo scorso anno da una signorina che ai tempi di monsignor Vecchi ha svolto un ruolo notevole nella vita pastorale della parrocchia di San Lorenzo, la dottoressa Mirella Sambo, impegnata su molti fronti, quali la cultura, la gioventù e gli zingari.

Avevo citato, in uno degli editoriali de “L’incontro”, una corrispondenza e forse una visita di Gandhi ad una piccola comunità monastica che si rifà allo spirito del poverello di Assisi, comunità guidata da una badessa di grande levatura mistica. Questa anima di Dio manteneva un fitto ed intenso rapporto spirituale con le anime di preti, frati e uomini e donne di Dio del nostro tempo, incontrandoli spiritualmente al livello più alto ove il cielo è libero e limpido e non risente delle marette e dei contrasti che avvengono alle quote più basse.

Ora, il volume di cui parlavo, curato dal monaco Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, riporta in maniera puntuale e perfino pignola, tutta la corrispondenza intercorsa tra don Primo Mazzolari e questo piccolo mondo monastico, diventando quasi il “salotto” degli spiriti nobili della fede.

Mai avrei immaginato che don Mazzolari, profeta del nostro tempo ed anticipatore della Chiesa dei tempi nuovi, avesse una tale sensibilità religiosa ed una finezza spirituale da mantenere aperto un dialogo di un misticismo di prima grandezza. Da questa scoperta sono stato veramente colpito ed ammirato. Le anime di Dio trovano sempre modo di incontrarsi, di comprendersi e di aiutarsi nonostante vivano in luoghi diversi e si occupino di realtà tanto lontane tra loro.

Mi sono chiesto quasi per necessità: “I miei rapporti spirituali con le anime di Dio come si sono svolti e si sono realizzati? Per grazia di Dio ho incontrato nella mia vita sacerdotale anime veramente eccelse e meravigliose, purtroppo non ho mai coltivato queste “amicizie spirituali”, sempre condizionato ed assorbito dalla mia vita di “manovale della Chiesa”.

Ora, saltuariamente, mi scrive la superiora di un convento di carmelitane scalze di Venezia, che credo sia un’anima bella; mi fa piacere sapere che ci sono queste creature, interamente donate al Signore, che mi stimano e mi vogliono bene, ma purtroppo il rapporto si ferma sulla soglia del convento e delle mie occupazioni quotidiane!

Il testamento spirituale

Prima che io entrassi in ospedale è venuto a farmi visita, nel mio piccolo alloggio al “Don Vecchi”, don Roberto, mio fratello minore, parroco di Chirignago. Io sono il primo e lui è l’ultimo di sette fratelli che, tutto sommato, si vogliono bene e condividono i valori fondamentali della vita che i nostri genitori ci hanno trasmesso.

Più volte ho confessato la mia stima e la mia profonda ammirazione per questo mio fratello parroco. Don Roberto è intelligente, generoso, seriamente impegnato a condurre la sua parrocchia e credo che stia ottenendo degli splendidi risultati, soprattutto a livello dei ragazzi e della gioventù. Tanto che credo che egli abbia una comunità cristiana così bella come poche parrocchie, o forse nessuna, in questo momento così difficile nella vita pastorale del nostro patriarcato e della Chiesa che in genere possiede!

Don Roberto è un idolo a livello parrocchiale, ma per scelta e per indole, dialoga poco, forse troppo poco, con la città e la Chiesa veneziana, mentre io sono convinto che oggi anche nell’ambito della Chiesa, dobbiamo assumere una mentalità ed uno stile globale che parli ad ogni ceto e ad ogni componente della vita cristiana.

Chiacchierando con don Roberto, gli accennai al testamento, che in altro momento cruciale gli ho affidato, dicendogli che i tempi passano veloci, le situazioni mutano e perciò si senta totalmente libero di disporre come crede delle mie pochissime cose.

Mi ricordai che nelle mie ultime volontà non ho neppure accennato a quello che tanti chiamano ancora il “testamento spirituale”. La mia vita rappresenta in maniera fedele ciò in cui credo e che ritengo importante, se ho qualcosa da dire al mondo in cui sono vissuto, lascio a ciò che ho fatto, che ho sognato, e a ciò per cui mi sono battuto di dirlo. Se dovessi però scendere al concreto, confesso che avrei veramente delle difficoltà ad indicare il nome di un prete a cui riterrei opportuno lasciare in eredità il mio amore per i poveri, per gli ultimi, per quelli che non contano, per gli anziani. Tutto questo però non mi amareggia più di tanto perché al buon Dio non manca la capacità e la volontà di trovare gli uomini giusti per le cause giuste.

Ho dispensato quindi don Roberto dal preoccuparsi del “Don Vecchi” e del polo della solidarietà che vive in simbiosi con esso.

Gratitudine ai patriarchi della mia vita sacerdotale

I miei rapporti con i miei superiori della Chiesa veneziana non sono mai stati idilliaci, ma neppure burrascosi. Credo che questa convivenza, tutto sommato serena e costruttiva, sia merito più della altrui intelligenza e virtù, piuttosto che della mia saggezza e capacità di dialogo.

Non sono mai stato un gran frequentatore della curia o del palazzo patriarcale, non certamente a motivo di un rifiuto preconcetto, ma per la mia sensibilità umana e religiosa più propensa ad un servizio serio ed impegnato che ad una partecipazione assidua a riti e cerimonie. Non sono mai stato amante dei discorsi spesso inconsistenti ed in linea con la moda ecclesiastica del momento, perché convinto della necessità di un servizio attento, costante e generoso al Popolo del Signore.

Ho vissuto la mia vita da chierico e da sacerdote sotto i Patriarchi Agostini, Roncalli, Urbani, Luciani, Cè, ed ora Scola: figure splendide di vescovi intelligenti, dalla fede profonda e di grande sapienza pastorale.

Io sono veramente orgoglioso dei Patriarchi che ho conosciuto e che hanno guidato il mio servizio pastorale. Porto un ricordo alto del Cardinale Agostini, un Patriarca che sapeva bene il suo mestiere di vescovo e l’ha svolto con rigore e coerenza; del Cardinale Roncalli, futuro Papa, per la sua sapienza e la sua calda umanità; del Cardinale Urbani per la sua venezianità e per la capacità di rimanere a galla nonostante i tempi difficili della contestazione. Ricordo con stima e devozione il Cardinale Luciani per la sua umiltà e per il coraggio nel guidare un clero ed una Chiesa irrequieta; il Cardinale Cè per la sua pazienza illimitata, la sua spiritualità e paternità sofferta, e il Cardinale Scola per l’intelligenza, la ricerca e il dialogo con questa società secolarizzata.

Ho amato profondamente i miei vescovi, ho sempre tentato di viverne il messaggio sostanziale, ho dialogato con la parola e con le opere in maniera onesta, rispettando ognuno e manifestando sempre con franchezza il mio parere nel desiderio di contribuire al loro difficile ed importante ministero. Spero di essere stato, come mi sono sempre proposto, un prete “libero e fedele”. Sono loro riconoscente di avermelo permesso, senza strappi o diatribe inutili e dannose.

Laici e clericali

Io sono sempre stato avido di leggere, sia per conoscere la cronaca della vita che per indagare sugli indirizzi del pensiero, sugli orientamenti della cultura e sui “segni dei tempi”, ossia sulle direzioni, che per motivi profondi ed occulti, guidano l’orientarsi della società. In questa presa di contatto con la vita, soprattutto quella del mio Paese, della Chiesa, mi imbatto assai di frequente in due modi di pensare che da un lato capisco quanto siano importanti, e da un altro lato mi appaiono settari, odiosi e fuorvianti. Questi modi opposti, o almeno diversi di approcciarsi alla vita sociale, sono riassunti in due aggettivi i cui contenuti sono sempre stati presenti nella storia degli uomini, ma che oggi m’appaiono come due bandiere diverse ed opposte: laico e clericale. Questi due distintivi di due mentalità, due stili di vita e due valutazioni, da un lato mi interessano perché diventano strumenti preziosi di lettura e di interpretazione della vita e della società, e dall’altra sarei tentato di rifiutarli in maniera radicale perché sempre tendenzialmente faziosi e preconcetti, tanto da portare spesso all’incomprensione e allo scontro.

Comincio col mettere a fuoco il volto, la ricchezza e i limiti del termine “clericale”. Esso mi appare come la deformazione del termine “religioso”, come sinonimo di bigotto, di chi utilizza la fede per scopi impropri, di chi rinuncia a pensare con la sua testa e delega totalmente la gerarchia ecclesiastica a scegliere e prendere decisione, di chi non pare convinto e responsabile delle scelte che devono derivare dalla sua fede. Ciò mi delude e mi porta al rifiuto di questa mentalità.

Al contrario il termine “laico” (sarebbe forse meglio quello “laicista”) mi suona sempre con un timbro di arroganza, di poco o nessun rispetto per il credente, di interiorità morale ed intellettuale gratuita e di lettura dissacrante del fenomeno religioso e ciò mi appare sempre come fazioso, intollerante e preconcetto. D’altronde sono altresì convinto che ambedue le posizioni posseggono qualcosa di importante e di necessario per leggere e interpretare i fenomeni sociali.

Come vorrei impossessarmi del meglio di questi due modi di valutare, spogliandoli dai limiti pesanti ed ingombranti che essi oggi hanno. Ho fatto quindi il proposito di non essere mai clericale o laico e nello stesso tempo di essere nel contenuto laico e clericale.

Pensieri dopo la battaglia

Sto vivendo con un po’ di pena e con molta insofferenza, per una vita non piena e libera, la mia convalescenza. L’intervento chirurgico ha certamente menomato le mie forze fisiche, ma non la mia razionalità, il mio spirito. I primi giorni dopo l’intervento mi si era offuscata anche la lucidità e la capacità di valutare pensieri e giudizi, ma questo è passato assai presto, mentre il mio fisico è rimasto greve e tardo nel realizzare le tensioni della mia volontà.

In questi giorni, in cui sono costretto a rallentare le mie attività che esigono movimento e parola, lo spirito ha preso il sopravvento, rompendo il vecchio e consueto equilibrio che s’era instaurato dentro di me e perciò, non potendo muovermi ed agire, ho finito per pensare molto di più, e non di frequente mi capita di lasciarmi aggrovigliare da ragionamenti che risultano perfino oziosi e che finiscono per non portare da nessuna parte.

Mi dicevo, in questi ultimi giorni: “Devo prepararmi a vivere o a morire?” Si, forse ho vinto, a caro prezzo, anche questa battaglia, ma all’orizzonte m’accorgo che c’è un “nemico” sempre più forte e agguerrito, mentre avverto che le mie risorse, sia fisiche che morali, stanno venendo meno. Mi domando, sempre più di frequente, se vale la pena di impegnarsi in questa lotta impari e faticosa.

Ultimamente si è affacciata alla mente una vecchia sentenza che ora mi pare saggia e provvidenziale: “Vivi come se dovessi morire domani e nello stesso tempo vivi come se la tua vita dovesse durare un’eternità”. Scelgo di vivere alla giornata, riempiendo i miei giorni ed impegnandomi a realizzare un mondo nuovo, ma nello stesso tempo voglio essere onesto con me stesso, e perciò voglio impegnarmi a fare la mia parte, non preoccupandomi più di tanto dei risultati e di come andrà domani.

Ho raccontato i semi del mio sogno per gli anziani quasi-autosufficienti

Un giornalista, a motivo della sua struttura mentale e soprattutto della sua professione, è sempre più informato su ciò che sta maturando nella vita odierna. Confidavo, nell’incontro avuto con il dott. Dianese, a cui sono legato da stima ed amicizia, che una volta nominata la nuova giunta comunale, avrei tentato di organizzare un incontro coll’assessore alla sicurezza sociale e i massimi funzionari del Comune che si interessano alle problematiche sociali, ossia il dottor Gislon e la dottoressa Francesca Corsi. Vorremmo spiegare che i due progetti avrebbero solo dei fondamenti di carattere sociale ma soprattutto rappresenterebbero un “affare” per il Comune, facendogli essi risparmiare una barca di soldi. Al “Don Vecchi” abbiamo certamente più di una ventina di anziani ancora consapevoli e capaci di autogestire la propria vita, ma con forti disabilità fisiche, anziani che dovrebbero essere trasferiti in casa di riposo per non autosufficienti, dato che nella nostra società non ci sono strutture che rispondono alle esigenze dello stadio intermedio tra l’autosufficienza e la non autosufficienza, mentre questo spazio esiste nella realtà.

La soluzione che noi proponiamo oltre agli immensi vantaggi per la qualità di vita di questi anziani, farebbe risparmiare all’amministrazione comunale circa quarantamila euro al mese e alla Regione almeno ventimila, ossia 720.000 euro all’anno. Ciò significa che in tre, quattro anni il Comune e la Regione coprirebbero i costi di una struttura che poi continuerebbe l’assistenza a venti anziani con autosufficienza precaria a costo zero.

Mi auguro che queste motivazioni di ordine economico possano convincere gli amministratori che stanno entrando in carica.

Il dottor Danese mi ha confidato che Orsoni vorrebbe assegnare al dottor Bettin l’assessorato alla sicurezza sociale e al dottor Micelli l’urbanistica. Se le cose andranno così penso che avremo già ottime premesse perché i nostri sogni possano realizzarsi.

L’intervista al Gazzettino

Una mattina prima mi ha telefonato e poi mi ha fatto visita al “don Vecchi” il dott. Maurizio Dianese, una delle penne più appuntite e più graffianti de “Il Gazzettino”.

Gli interventi di Dianese sul quotidiano cittadino non passano mai inosservati perché non rappresentano mai una cronaca distaccata, asettica, che informa la cittadinanza su qualche avvenimento, ma quasi sempre suonano a denuncia, propongono problematiche presenti e vive, o mettono il dito su qualche piaga.

Il giornalista mi telefonò spiegandomi che gli erano giunte all’orecchio due cose che lo interessavano e che riteneva interessanti per l’opinione pubblica. Quasi certamente aveva letto su “L’incontro” i due progetti che attualmente mi stanno appassionando, nonostante l’età e le vicissitudini della mia salute.

Fui ben felice di incontrarlo, da un lato perché avverto che c’è in ambedue una certa assonanza di idee e una certa repulsione per una vita paciosa e senza sbocchi ideali, e dall’altro lato perché sono ancora più convinto che se non si matura l’opinione pubblica a certi valori, ben difficilmente si riescono a portare avanti certe iniziative, specialmente da parte di persone che non hanno soldi come me.

Gli ho parlato del progetto di una struttura per rispondere ai problemi degli anziani che sono in una fase di perdita di autosufficienza e che, pur idonei a rimanere ancora in una struttura di persone libere ed autonome, hanno bisogno di una struttura che essa sia ancor maggiormente protetta, per rimanere ancora padroni di casa ed autonomi nelle loro decisioni.

Gli ho parlato infine della “Nomadelfia” mestrina, ossia di una cattedrale della solidarietà in cui i cittadini in disagio economico possano trovare una risposta dignitosa ed esaustiva alle loro difficoltà.

M’è parso entusiasta sia dell’una che dell’altra cosa. Molto probabilmente almeno centocinquantamila lettori de “Il Gazzettino” sapranno che tra loro c’è chi sta sognando e lavorando per due soluzioni che faranno fare a Mestre e Venezia un passo avanti nel campo della solidarietà.

Gran parte dei confratelli forse penserà che sono un illuso o un prete con mania di protagonismo, spero però che gli uomini di buona volontà inizino a condividere questi due nuovi obiettivi.