I politici? Li affido a Dio!

Avrei la tentazione di rassegnarmi. Vedendo come vanno le cose prima e dopo le ultime votazioni, penso che il mondo della politica sia irrecuperabile. Voglio però respingere ad ogni costo questa tentazione per due motivi.

Uno: quando le utopie sono calate nella realtà, fatalmente si impoveriscono e si sporcano di terra. Per questo motivo ritengo che tutti gli educatori e le guide spirituali del popolo non devono mai aspettarsi che i loro sogni si avverino totalmente, o calarsi, essi stessi nella mischia, darsi alla militanza concreta, ma devono rimanere ancorati alla missione di proporre gli ideali i più alti e i più nobili possibile.
Per questo concordo col nostro presidente Napolitano e con tutti coloro che non si stancano di parlar bene della politica come valore assoluto. E sono in disaccordo con chi, invece, anche tra le gerarchie ecclesiastiche, tresca per soluzioni pratiche, cioè per schieramenti di partito.

Due: perché sono profondamente convinto che per dar voce al popolo e per realizzare la democrazia nel Paese, è indispensabile una mediazione attraverso una rappresentanza del popolo mediante i partiti; le soluzioni diverse, quali regimi assembleari, o le deleghe a singole persone, anche carismatiche, si sono dimostrate catastrofiche e incapaci di dare risposte valide alle attese della gente.

Di certo i limiti, i difetti, gli abusi e gli imbrogli in qualsiasi regime, cosiddetto democratico, sono pressoché inevitabili, perché l’uomo, qualunque cosa faccia, dà a ciò di cui si occupa, l’impronta del suo limite. Io rimango però del parere che la peggior democrazia è sempre preferibile anche alla miglior dittatura.

Dopo il fallimento della Democrazia Cristiana, che pretendeva di avere il monopolio della voce dei cattolici italiani, ho visto positivamente lo “spalmarsi” dei cattolici all’interno dei vari partiti, con l’implicita intenzione di essere concordi sui valori fondamentali; sennonché m’è parso che il progetto sia fallito per il prevalere della logica dei singoli partiti che si sono scelti.

Ho seguito con qualche interesse e soprattutto con curiosità, il sogno di Casini di dar vita, al Centro, ad un partito, se non confessionale, almeno gradito alla gerarchia, però mi pare che questa iniziativa non abbia avuto seguito e, meno ancora, l’armeggiare della Cei per rilanciare un partito più attento alle attese della Chiesa, mi pare stia avendo successo.

Spesso interrogo i miei “consulenti”, ma mi pare che nessuno abbia le idee chiare a tal proposito. Per ora, a livello personale ho deciso di fare quello che riesco, per formare coscienze libere che credono nella solidarietà e nel servizio al prossimo; i politici li affido a Dio, perché Lui solo può “salvarli”!

Ancora sulla polemica delle campane

Ho seguito con curiosità ed indignazione la polemica del suono delle campane. La mia partecipazione agli eventi che riguardano la mia chiesa non è mai disattenta e rassegnata. Sono di natura polemico ed interventista. Ho scritto più volte che ho sempre ammirato i giovani di Comunione e Liberazione perché non sono mai passivi e soprattutto nel settore della scuola, che è un loro specifico campo di azione, sono non solo presenti, ma quanto mai attivi.

Fui ammirato ed orgoglioso quando la feccia de “La Sapienza” impedì al Papa di parlare in quell’università, quando il mattino dopo i ciellini erano già agli ingressi dell’ateneo a denunciare con i volantini la meschinità di certi loro colleghi. La passività, la rassegnazione per il quieto vivere, il subire gli affronti senza reagire, non riesco né ad approvarli né ad accettarli.

Quando ho visto su “Il Gazzettino” che il giovane parroco di Carpenedo, a differenza della diplomazia curiale, aveva scritto: “Non le nostre campane facciamo tacere, ma facciamo zittire quei venti-trenta atei militanti che nella nostra città non hanno diritto di imporre le loro idee sulla stragrande maggioranza della popolazione”, ho pensato subito anch’io che non meriti troppa attenzione neanche quel certo numero di poltroni e di pigri ai quali non dà fastidio il rumore delle auto, ma solamente il concerto armonioso delle nostre campane, né credo si debbano prender troppo in considerazione i tecnici dell’Arpav che avrebbero ben motivo di cercare altrove le fonti dell’inquinamento acustico, invece di occuparsi di multare la musica delle campane.

Scrissi già che quando ero parroco avevo due parrocchiane che telefonavano “a nome di tutti”, come dicevano loro, per il fastidio che provocavano le mie campane. Dissi loro che le campane suonavano a Carpenedo fin dall’anno mille e perciò, quando hanno acquistato casa dovevano tener conto che l’acquistavano in un determinato contesto urbanistico. Io poi che “conoscevo i miei polli”, ben sapevo che non era il suono delle campane, ma quel che esse rappresentavano che infastidiva i loro sonni e le loro coscienze.

Una se n’è andata e l’altra si è rassegnata, perché io, memore del patriota italico Pier Capponi che affermò “…e noi suoneremo le nostre campane!”, ho continuato a suonarle e di gusto!

Romano Guardini ha scritto un bel volumetto sul valore dei “santi segni”, uno dei quali è il suono delle campane che sono la voce della comunità cristiana e che fanno memoria delle meraviglie di Dio.

Venuto a sapere della sottoscrizione di don Gianni, mi sono recato di buon mattino a mettere il mio nome sulla “contropetizione” e ad offrirmi a tirare le corde nel campanile se fosse necessario.

Che bello vedere la mia “vecchia chiesa” ancora così vitale!

E’ dal 2005, con l’Eucarestia vespertina dell’ingresso del mio diretto successore e del mio abbandono della parrocchia, che non entravo nella mia vecchia chiesa, durante la celebrazione di una Santa Messa festiva.

Normalmente la domenica mattina la passo interamente nella mia “cattedrale tra i cipressi” e il pomeriggio lo dedico a visitare i residenti dei Centri don Vecchi di Marghera e di Campalto o a “L’incontro”, che mi impegna alquanto. Così non ho avuto mai occasione di andare nella chiesa di Carpenedo durante una celebrazione domenicale. Quindi non avevo più avuto una conoscenza diretta della vita liturgica della mia vecchia chiesa.

Ricordo che le sette messe festive erano sempre assai frequentate e che questa presenza viva e partecipe è sempre stata per me una consolazione che mi riempiva l’animo di vera letizia. Seppi poi che, giustamente, erano state abolite due di queste sette messe e m’era giunta qualche voce che il mio successore s’era talvolta lagnato di un certo assenteismo. Pensavo che questo fenomeno fosse determinato dal processo di secolarizzazione che lentamente sta facendo terreno bruciato nelle nostre parrocchie.

Ai tempi dell’inchiesta del cardinale Scola sulla frequenza al precetto festivo la chiesa di Carpenedo aveva segnato uno degli indici più alti di partecipazione, se non il più alto in assoluto, cioè il 42%, di presenze dei fedeli tenuti al precetto festivo. Sempre in quell’occasione avevo appreso che qualche parrocchia registrava solamente l’8-10% di presenze alla messa domenicale.

Una domenica di qualche settimana fa, essendo rimasto un certo numero di copie de “L’incontro” nella mia chiesa del cimitero a causa della pioggia, pensai di portarle in parrocchia, perché sapevo che ne era sprovvista.

Entrai e con mia felice sorpresa mi accorsi che la chiesa era strapiena di fedeli in gran parte giovani, anche se proprio in quella domenica un certo numero di loro era andato al Palasport di Jesolo per l’incontro diocesano presieduto dal Patriarca. Celebrava don Gianni e la gente partecipava al canto in maniera vivace.

Da quando sono andato in pensione non ho più avuto modo di celebrare di domenica se non nella mia chiesa prefabbricata che, per grazia di Dio, è sempre gremitissima. Più precisamente per alcuni mesi ho celebrato la messa vespertina nella vicina parrocchia di San Pietro Orseolo, ma vi partecipava uno sparuto numero di fedeli.

La felice sorpresa di vedere la mia “vecchia chiesa” così vitale mi è stata motivo di grande consolazione e mi ha fatto sperare che tanta fatica e tanto amore abbiano lasciato una semente che don Gianni sta facendo crescere con passione e bravura.

“Come potete pretendere di essere testimoni del Risorto, voi che camminate sul ciglio della strada a testa bassa, tristi e pieni di malinconia?”

Qualche domenica fa ho prima letto il Vangelo, come sempre, poi l’ho commentato alla mia amata comunità quanto mai idealmente affiatata che mi pare condivida l’angolatura con cui lo interpreto. Si trattava di un brano assai noto in cui si ricorda la parabola della vite, di chi ne ha cura e dei frutti che i tralci possono offrire quando rimangono organicamente uniti al tronco ed accettano gli interventi del vignaiolo. Gesù adopera molto opportunamente questa immagine sapendo che i suoi diretti ascoltatori appartenevano ad un mondo e ad una cultura pastorale e agricola: Gesù è la vite, lo spirito di Dio l’agricoltore che ne ha cura e gli uomini i tralci che se rimangono organicamente uniti alla vite ed accettano gli interventi del vignaiolo produrranno di certo il vino che “allieta il cuore dell’uomo”, come dice la Bibbia.

La preparazione al sermone è stata per me particolarmente laboriosa e tormentata perché se non riesco a trovare una lettura che mi convinca a livello personale, mi è impossibile proporla alla comunità; mi sono assolutamente inutili tutti i commenti offerti dagli esperti.

La mia predica si basò su due punti ben definiti. Il cristiano trova beneficio vero dall’Evangelo e quindi dal messaggio di Gesù solamente se mantiene un rapporto organico, vitale, esistenziale. E mi rifeci all’espressione di san Paolo che fissa in maniera ineguagliabile questo rapporto affermando: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.

La seconda riflessione si rifece sul punto finale del processo “viticolo”, per usare un termine corrente, ossia sul prodotto, il vino, e il vino buono, quello che a Cana Gesù offre col miracolo della trasformazione dell’acqua insipida in vino buono. Ossia: l’accettazione e l’assimilazione del messaggio evangelico non può non portare che al vino buono “che allieta il cuore dell’uomo”.

A supporto di questo messaggio “un po’ insolito” citai Gesù quando afferma: «Sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia piena».

Ma il punto di forza che ho avuto la sensazione che quasi suonasse a felice scoperta per la mia cara gente, è stato l’affermare con forza che Gesù è venuto perché noi possiamo cogliere il meglio della vita, della vita in tutti i suoi aspetti. Ho ribadito d’avere la sensazione che il cristiano, forse per una lettura masochista, ingiustamente continui ad avere delle riserve, quasi paura che non sia religioso accettare la bellezza e quanto c’è di affascinante nella vita. Si è accorto di questa lacuna anche Gide quando afferma con sarcasmo: «Come potete pretendere di essere testimoni del Risorto, voi che camminate sul ciglio della strada a testa bassa, tristi e pieni di malinconia?».

Spero che dopo la mia predica i cristiani della mia cara comunità non possano essere definiti così dall’irrequieto scrittore d’oltralpe.

Il veliero

Spero che i miei amici mi perdonino, ma una volta ancora ritorno sul mio “mestiere attuale” che è quello soprattutto di celebrare il commiato per i miei concittadini e fratelli di fede che tornano al Padre. Tra tante difficoltà che incontro in questa mia mansione c’è quella di dire un qualcosa che possa essere capito, condiviso e che soprattutto possa far bene, ma anche quella di variare il discorso, non solamente perché ogni situazione è unica ed a se stante, ma anche perché c’è qualche fedele che è sempre presente e quindi mi fa arrossire il ripetermi nel sermone. Sono quindi sempre alla ricerca di immagini e di pensieri che, pur riferendosi alla sostanza del messaggio, facciano si che non sia troppo ripetitivo.

Qualche settimana fa mi sono ricordato di un pensiero sentito direttamente dal nostro vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli a proposito della nostra partenza da questo mondo. Il Patriarca ha usato una immagine che gli veniva dal suo vivere a Venezia, città d’acqua. Immaginava la vita come un veliero attraccato alla riva con corde di ancoraggio e proseguiva dicendo che il Signore slaccia pian piano e progressivamente le corde che legano il veliero al molo, poi toglie l’ultima gomena e il veliero, finalmente libero, al soffio del vento veleggia verso l’alto mare sperdendosi all’orizzonte allo sguardo della gente amica che rimane a riva, pure essa in attesa di imbarcarsi su un altro veliero.

Qualche settimana fa, non so per quale associazione di idee, mentre ero in attesa del tecnico negli uffici della Amplifon, mi venne in mente questa immagine, pensando all’ausilio dell’udito che lui stava per applicarmi alle orecchie.

Prima mi si è attenuata la vista ed ho dovuto ricorreggere gli occhiali, poi l’odontoiatra ha dovuto provvedere ad una protesi dentaria, poi il cardiologo ha sorretto l’insufficienza cardiaca col Cordarone, il nefrologo ha provveduto alla precarietà dell’unico rene rimastomi con l’Asis, e quindi il cardiologo, diluendo il sangue con la Cardiospirina, senza contare i numerosi interventi per neutralizzare altri attacchi quanto mai consistenti.

Ho finito per concludere: “mi manca solamente il colpo di scure all’ultima gomena perché il vento gonfi le vele ed io parta per il mare infinito. Quindi ho concluso che devo affrettare la preparazione a questo evento, che ormai non posso più pensare lontano nel tempo.

Sto riscoprendo i grandi pensatori del passato

Ho constatato con amarezza che io arrivo spesso molto tardi, talvolta troppo tardi.
Quando al liceo studiavo storia della filosofia ero arrivato alla “salomonica” conclusione che i filosofi fossero persone con la testa per aria, nonostante i miei docenti si sforzassero di passarmi il loro pensiero perché fossero base della mia cultura umanistica. Il mio studio perciò si è sempre limitato ad apprendere qualche nozione superficiale della loro storia e della loro dottrina, ma nulla più.

Una qualche giustificazione potrei anche averla, perché i miei insegnanti erano sacerdoti, anche intelligenti e preparati, ma per loro l’insegnamento era quasi un dopo lavoro, appendice dei loro impegni pastorali ben più pressanti e credo che, tutto sommato, fosse per loro tanto faticoso passare verità difficili per tutti da comprendere e per noi studentelli, interessati a mille altre cose più immediate ed interessanti, assolutamente astruse. Il fatto poi di dedicare una lezione o due ad un determinato filosofo, senza leggerne le opere, per poi passare al successivo e quindi ad un altro ancora, come lo sfogliare le pagine di un libro, mentre in realtà da un filosofo all’altro passano almeno decenni ed essi rappresentavano l’evolversi del pensiero umano, faceva si che fossimo tentati di fare di ogni erba un fascio e finire per collocarli in un limbo sconosciuto e pressoché inutile.

Mi suonò un primo allarme sulla mia dabbenaggine e superficialità in merito alla filosofia, avendo sentito, ormai molti anni fa, la lettura alla RAI dei dialoghi di Platone e, con sorpresa, scoprii la profondità di pensiero, l’attualità palpitante ed incisiva delle verità esposte, tanto da avere la sensazione di aver buttato via, senza tanto pensarci, una ricchezza preziosa che mi sarebbe servita per avere saggezza ed equilibrio per vivere davvero. Poi, si sa, voltai pagina e, come sempre, fui assorbito da cose più immediate e certamente anche più banali.

Qualche settimana fa, però, una cara signora, che ho riscoperto dopo anni, mi ha regalato un volumetto delle edizioni Riza sull’antico filosofo Epiteto. Di questo filosofo ricordavo appena il nome ed assolutamente nulla più. In copertina è riportato il cuore della sua filosofia con questa frase: “Tu non devi cercare che le cose vadano a modo tuo, ma volere che esse vadano proprio così come stanno andando; allora tutto andrà bene”.

Sto leggendo con un po’ di fatica, perché ormai disabituato alla ricerca pura, ma sto rendendomi conto che le fatiche di Sisifo, per far andare le cose come voglio, mi spossano inutilmente e mi fanno perdere quel po’ di serenità di cui ho bisogno.

Sono arrivato tardi ad apprezzare i pensatori veri, ma pur tuttavia sono contento di questa scoperta.

Spero che il messaggio valga l’impegno che richiede

Nota: come sempre ricordiamo che don Armando scrive questi articoli con largo anticipo. Il libro oggetto di queste riflessioni è infatti già disponibile nella chiesa del cimitero di Mestre.

Il signor Luigi, con l’aiuto sporadico di qualche altro volontario e con quello della moglie Laura, sta lavorando a tutto vapore per rilegare i cinquecento volumi dell’ultima mia opera, il diario tratto dal settimanale “L’incontro” del 2011, che uscirà con il titolo “In attesa del giorno nuovo” .

L’impegno e la fatica di questo meraviglioso collaboratore, preciso ed infaticabile, da un lato mi fa enormemente felice, perché il suo lavoro è per me uno splendido segno di amicizia e di affetto: chi mai può rimaner indifferente al fatto che una persona che ha casa, moglie, figli e nipoti, trovi il tempo per dedicare giornate su giornate per stampare il diario di un vecchio prete? Stampare e rilegare un volume di più di 300 pagine con mezzi davvero artigianali, quali quelli di cui noi disponiamo al “don Vecchi”, è veramente un’impresa epica, poco meno difficile della scoperta dell’America che Cristoforo Colombo fece disponendo di quei gusci di noce che erano le caravelle con cui affrontò l’immenso e turbolento oceano. Comunque sperimentare questo tipo di sana amicizia mi fa veramente bene e m’aiuta a non mollare quando sono stanco e sarei tentato di ritirarmi in casa di riposo.

Dall’altro lato però mi impone ancora delle domande più inquietanti: ha senso impegnare tanto tempo a più di una trentina di volontari che scrivono, inseriscono in computer, stampano, piegano e portano ogni settimana in più di sessanta postazioni all’incirca cinquemila copie de “L’incontro”? Ha senso spendere una cifra ragguardevole anche se il volume è stampato in proprio con l’opera gratuita di tanti volontari?

Sono domande alle quali vorrei potermi rispondere con un “si” preciso, invece mi rimangono dei dubbi che mai riuscirò a risolvere. Sono ancora convinto, o almeno spero, che almeno le tesi di fondo delle quali è permeato tutto il volume – quali promuovere una Chiesa povera ed un atteggiamento di servizio, pungolare il popolo cristiano e specie il clero per un servizio sempre più generoso, sottolineare ciò che di positivo c’è nella Chiesa e promuovere una corresponsabilità da parte di tutti i credenti ed altri valori complementari – meritino tanta fatica e tanto denaro. Spero di “mettere nel mercato” quanto prima le 500 copie che ribadiscono fino all’esasperazione le suaccennate proposte.

In pochi ricordano all’uomo l’esistenza della Provvidenza!

Quando il vecchio regista Monicelli, gravemente ammalato, si suicidò buttandosi giù dalla stanza dell’ospedale, provai pietà per questo uomo che era arrivato al successo, ma che falliva miseramente nella fase finale della sua esistenza. La sua morte voluta mi è parsa una dichiarazione di fallimento esistenziale, una bancarotta nella gestione della vita.

Ben s’intende che a Monicelli, come ad ogni altra creatura, si devono dare tutte le attenuanti del genere, perché quando si tratta di scelte che procedono dalla nostra psiche, entriamo in un meccanismo terribilmente complesso e, in gran parte, sconosciuto. Se un giudizio si può dare, è un giudizio teorico, perché appunto, dice la Bibbia che “solo Dio conosce i reni e il cuore”, per dire che conosce i meccanismi profondi e le vere responsabilità personali.

Rimasi male, mi dispiacque e dissentii profondamente da quella stampa che lo giudicò un atto di coraggio; in realtà, sempre a livello teorico, per me quel suicidio, come ogni altro gesto disperato del genere è soprattutto vigliaccheria, mancando di coraggio nell’affrontare la vita con le sue alterne vicende. Giobbe direbbe: «Se ho accettato da Dio i giorni felici della mia vita, perché non dovrei accettare dalle stesse mani anche i giorni dell’amarezza?»

Sono ritornato su questi pensieri in queste ultime settimane leggendo sui giornali l’intensa frequenza di piccoli imprenditori che, trovandosi in difficoltà, si sono tolti la vita lasciando i loro cari in situazioni ancora peggiori, dovendo essi affrontare le stesse difficoltà dalle quali loro hanno pensato di fuggire, aggiungendo poi, con la loro scelta, tutta l’amarezza e lo sconforto per il modo con il quale essi hanno concluso tragicamente la vita.

La stampa, fortunatamente, non ha riferito queste tragedie come un atto di coraggio, però quasi sta imputando al Governo questi fallimenti esistenziali, cosa che è certamente ingiusta, almeno per quel che riguarda questo Governo. Provare pietà per questi drammi è non solo giusto, ma assolutamente doveroso, mi spiace e mi preoccupa però di non aver sentito alcuna voce alzarsi, non dico per condannare, ma affermare che bisogna lottare, che ogni difficoltà è risolvibile, che è sempre presente quell’elemento imponderabile che noi credenti chiamiamo Provvidenza, ma che comunque c’è, anche se uno non crede, è la storia che lo dimostra.

Chi ha responsabilità nei riguardi della pubblica opinione, credo che con umiltà, pacatezza e rispetto, ma anche con coraggio, debba affermare questa verità, se non vogliamo che ci sia una deriva umana senza alcun punto fermo di appiglio.

La Fede di Roberto Vecchioni

I miei motivi di contesa con la RAI sono assai numerosi e consistenti. Non è che le altre televisioni siano migliori, ma dalla televisione di Stato, pagata con il canone dei cittadini, penso che dovrei aspettarmi di più e di meglio.

Non sto ad elencare nei particolari le cose che mi deludono e mi indignano, sarebbero troppe: programmi banali, scuola di violenza, giochi in cui si sperperano decine e centinaia di migliaia di euro, la figura della donna adoperata sempre come esca, anche se poi nei giornali radio si fa del moralismo farisaico a questo riguardo, pubblicità che incita al consumismo in tempi di vacche magre, ecc. Non ultimo: i programmi più interessanti, almeno per me, sono collocati in ore impossibili o difficili. A me piacerebbe vedere il “Porta a porta” di Vespa, ma lo fanno tanto tardi. Mi interesserebbe anche “Ballarò”, ma ha un conduttore esageratamente schierato e fazioso.

Mentre vi sono due programmi che vedrei molto volentieri e che avrei il tempo di vedere, perché collocati nel primo pomeriggio della domenica, ma purtroppo si sovrappongono.

Più volte ho confessato che verso la Annunziata nutro un sentimento di amore ed odio, comunque è una donna preparata ed intelligente ed intervista personaggi importanti della vita politica e sociale del nostro Paese. Alla domenica la rubrica “Mezz’ora” di Rai tre, che è condotta appunto dalla Annunziata, è trasmessa contemporaneamente a “L’arena”, condotta invece brillantemente da Giletti, che tratta gli argomenti più disparati e poi si avvale di una numerosa staff di giornalisti ed ospiti che vivacizzano quanto mai la trasmissione.

L’Annunziata viene da Botteghe Oscure, ma stuzzica, stana l’intervistato, costringendolo a metter a nudo il suo pensiero, con colpi di fioretto che vanno sempre a segno. Giletti invece, un giornalista che proviene dal mondo cattolico, e che è altrettanto intelligente, versatile e un po’ sornione, tiene banco con estrema disinvoltura, mettendo a fuoco brillantemente l’argomento di attualità che tratta e conducendo la sua squadra rumorosa che pare sempre propensa alla bagarre.

Qualche settimana fa Giletti ha intervistato il cantautore Roberto Vecchioni, il cantante intellettuale, colto e profondamente umano. L’intervista è stata veramente deliziosa e ha fatto emergere valori autentici anche da quel mondo che molti di noi ritengono fatuo ed effimero. Con estrema delicatezza Giletti, quasi di sfuggita ha chiesto a Vecchioni della sua fede. “Dio si squaderna in ogni creatura”. Ho avvertito in quel momento quasi il brivido che ha provato quella grande assemblea irrequieta ed apparentemente lontana dalle problematiche religiose.

L’atto di fede, candido, delicato, ma nello stesso tempo convinto, di Vecchioni, credo abbia toccato il cuore e la coscienza di tutti.

Lettera Aperta al presidente Monti

Sto assistendo con interesse estremo ed altrettanta preoccupazione al balletto di proposte su come e dove trovare tre o quattro miliardi di euro che risultano mancanti per portare avanti la riforma, finalmente seria, del nostro presidente Monti.

Ogni politico è preoccupatissimo che non si prenda il denaro dalla propria “bottega”, presso la quale va ad acquistare a buon mercato i suoi voti.

Ho detto che seguo con interesse e preoccupazione, ma forse ho usato dei termini non esatti, perché in fondo al mio animo c’è invece indignazione e nausea. Io ho la fortuna di poter dire la mia dalle pagine de “L’incontro”, il periodico però non giunge tanto lontano da farsi leggere dal presidente del Consiglio Mario Monti. Comunque sento il dovere di offrire la mia opinione, perché solamente così si crea opinione pubblica e quindi si può sperare di poter, prima o poi, influire su chi governa il Paese.

Non avendo, fortunatamente, una “bottega” da difendere, spero che il “presidente tecnico” tenga più in considerazione il mio suggerimento:

“Carissimo presidente, credo che ci sia obiettivamente l’imbarazzo della scelta degli sperperi del nostro Stato scialone. Io le suggerisco intanto questo, che non danneggia alcuno, ma che almeno alla lunga favorisce non solo la nostra nazione, ma il mondo intero.

  1. Disdica subito l’ordinazione degli aerei e dei carri armati, che le han suggerito di comprare.
  2. Ritiri tutti i nostri soldati all’estero: è chiaro che non servono a nulla, costano tantissimo ed ho seri dubbi che sia opportuno tentare di esportare “la nostra democrazia”, sulla cui validità ho molti dubbi. Anche gli altri Stati poi debbono imparare a regolare i loro contrasti col dialogo e non con le armi.
  3. Chiuda immediatamente gli arruolamenti alle forze armate: gli aspiranti soldati imparino a coltivare la terra, a fare gli idraulici o i panettieri o qualche altro mestiere.
  4. I soldati di professione già in forza nell’esercito, li impieghi sempre di più in lavori socialmente utili o per gli interventi che le calamità naturali hanno reso indispensabili.
  5. Venda per ferro vecchio i carri armati, i cannoni, bombe e cose del genere, non servono assolutamente a nulla e se si usassero non produrrebbero che danni e morte.

Carissimo presidente, lei che reputo uno dei pochi governanti di buon senso e onesti, ascolti questo vecchio prete che non ha interessi da difendere.

Don Gianni e le campane

Ho sempre detto che la mia stima non va ai diplomatici e ai mediatori di professione, ma alle persone che escono allo scoperto, che dicono con franchezza il loro parere apertamente o che sottoscrivono le loro critiche non nascondendosi dietro la lettera anonima o manifestando quanto pensano con il pettegolezzo o il mugugno occulto.

Io credo di essermi comportato sempre così, ho anche pagato il conto della mia franchezza, ma non me ne sono mai pentito. Come entrando in parrocchia a Carpenedo, in piena contestazione, sapendo che più di uno mi reputava un conservatore e che un gruppo di giovani mi aspettava al varco, nel discorso di ingresso dissi senza mezzi termini: «Io sono della Chiesa di Paolo Sesto» (nel ’71 era papa Paolo Sesto). Come quando appresi dal Gazzettino che le vacanze del Papa costavano due miliardi, scrissi altrettanto francamente: “Non è lecito questo sperpero di denaro quando un mondo di cristiani patisce la fame”.

In ambedue i casi pagai un conto salato, ma ogni mattina almeno posso guardarmi allo specchio senza arrossire. Così è capitato tante altre volte.

Qualche settimana fa fui attratto da un anticipo di notizia del Gazzettino, che trovava poi sviluppo nelle pagine del giornale: “Don Gianni Antoniazzi, parroco di Carpenedo, a proposito della richiesta da parte di certi cittadini di far zittire le campane, ha affermato pressappoco: «Facciamo invece zittire quei 20-30 atei militanti che hanno la pretesa di pontificare su tutto e di imporre il loro pensiero fuorviante». “Bravo don Gianni! ho pensato subito, sei sulla buona strada”.

Io che sono timorato di Dio e sono stato educato ad una morigeratezza verbale e non mi permetto certi termini, penso che però la gente del nostro tempo, molto più disinvoltamente e molto disinibita, userebbe in proposito un’altra espressione più colorita.

E’ vero che il suono delle campane non risolve il problema del Regno di Dio, ne salva le anime, ma non è giusto ed opportuno che la stragrande maggioranza delle persone debbano essere condizionate da quattro gatti spelacchiati. Ai miei tempi in parrocchia avevo due cittadini “anticampane”, uno fortunatamente ha cambiato casa ed un’altra l’ho lasciata dire. Su duecentomila abitanti del Comune, anche se ve ne fossero due o trecento che protestano, non cadrà il mondo! Bravo don Gianni, mi piaci!

L’avvio della progettazione del villaggio solidale

Finalmente, dopo un’attenta valutazione delle proposte e dei costi, il consiglio di amministrazione della Fondazione qualche settimana fa ha affidato allo studio di architettura di Paolo Mar e della figlia, come capofila, e di quello delle architette Cecchi e Casaril, come associate, la progettazione del plano volumetrico del “villaggio solidale degli Arzeroni” e del Centro don Vecchi 5, come progettisti e direttori dei lavori.

Avendo partecipato al consiglio per benevola concessione del presidente e dei consiglieri, che mi hanno voluto come “padre nobile” o “presidente emerito”, o come vecchio amico, ho chiesto la parola per precisare alcuni concetti che mi stanno particolarmente a cuore e dei quali credo opportuno che la cittadinanza sia a conoscenza.

Dissi all’architetto Mar, che conosco da cinquant’anni e che appartiene ad una famiglia a me particolarmente cara: «La Fondazione vi affida a livello formale e con atto ufficiale l’incarico, ritenendovi professionisti quanto mai validi, ma in realtà vi chiediamo di lasciarvi coinvolgere totalmente nella realizzazione di questo progetto di immensa valenza sociale, in questa nostra avventura solidale. Oltre che professionisti seri vi chiediamo di essere amici e cristiani che assolvono questo compito come un atto di amore verso la nostra città, la Chiesa mestrina e soprattutto verso i concittadini in disagio.

Secondo: vorrei che foste completamente consapevoli che la realizzazione di questo villaggio di accoglienza dei concittadini che versano in ogni tipo di difficoltà, deve qualificare a livello sociale la nostra città».

E aggiunsi inoltre che sia il villaggio che il “don Vecchi 5”, vorremmo che rappresentassero un progetto pilota, estremamente innovativo, che desse vita ad una sperimentazione che dovrà essere punto di riferimento nel settore dell’assistenza sociale e della terza età, come lo è stato il “don Vecchi”, per il quale perfino dal Giappone, oltre che da molte regioni d’Italia, sono venuti professionisti ed amministratori pubblici per avere motivo di confronto e di ispirazione.

E’ nell’animo della Fondazione non solamente creare una struttura di servizio, ma soprattutto aprire la strada per soluzioni innovative più avanzate e più rispondenti alle attese dei fratelli in difficoltà e in disagio.

Il nostro benessere è il frutto dei sacrifici degli altri!

Dopo anni di pressioni presso la civica amministrazione, nonostante le grandi difficoltà finanziarie in cui si dibatte il nostro Comune, grazie all’intervento della dottoressa Francesca Corsi, del suo immediato superiore, dottor Gislon, e dell’assessore Sandro Simionato, siamo riusciti ad ottenere un finanziamento mediante il quale abbiamo potuto assumere sette signore per accudire gli anziani del Centro don Vecchi.

Queste signore, delle quali ben cinque sono extracomunitarie – tre moldave, una ucraina ed una polacca – sono destinate all’assistenza dei residenti in perdita di autonomia e con pochissime risorse economiche, per cui non possono permettersi neppure alcune ore settimanali di aiuto di una badante.

Abbiamo curato con tanta attenzione la scelta, tanto che ora abbiamo la fortuna di poter fruire di donne veramente brave e generose che accudiscono i nostri vecchi come fossero loro famigliari,

Qualche giorno fa ho incontrato di prima mattina Lucia, una di queste signore, che era ritornata la sera precedente da una visita di un paio di settimane ai suoi famigliari che vivono in Moldavia. La signora Lucia per più di undici mesi consecutivi all’anno vive al “don Vecchi”, pur avendo nel suo lontano Paese il marito e due figli. Nel suo volto c’era la gioia di riincontrarci, perché col tempo siamo diventati la sua nuova famiglia, ma nel contempo c’erano pure i segni della nostalgia dei propri cari lontani che devono affrontare la vita senza quello che un tempo si usava definire “l’angelo della casa”, ma che comunque, al di là di ogni romanticismo, rimane il cuore, il sorriso, il punto di riferimento e il rifugio umano di ogni membro della famiglia.

Le chiesi se finalmente era cresciuto il benessere nel suo Paese ed ella mi rispose: «Assolutamente no, i prezzi sono forse superiori ai nostri, mentre non c’è lavoro e chi lavora guadagna due-trecento euro al mese». Chiesi ancora come dunque fanno a vivere e lei mi rispose candida: «Con i soldi che noi mandiamo a casa; ogni famiglia moldava ha perlomeno un famigliare che lavora all’estero!».

Una volta ancora ho capito di appartenere ad un popolo che, nonostante tutto, fruisce di un benessere frutto di sacrifici degli altri. Tutti – politici, sindacati, industriali e semplici cittadini – dobbiamo comprendere che il problema della perequazione economica non si può risolvere ormai all’interno della nostra nazione, perché è un problema globale: tutti dobbiamo lavorare di più, spendere meno, perché la giustizia sociale o è per tutti o non è per niente giustizia.

Interessanti punti di vista sul problema degli immigrati più poveri

Il mio caro amico Michele Serra, docente di lettere in pensione, sente quanto mai il problema dei poveri ed in particolare quello di quel vasto mondo di immigrati extracomunitari che sono espressione delle nuove povertà del nostro tempo.

Quando capita di incontrarci ci scambiamo idee ed esperienze in proposito; talvolta mi invia delle lettere che trattano di questo problema che non solo lo interessa, ma lo coinvolge e lo assilla. Le lettere-articolo, lui dice che me le invia per rendermi partecipe delle sue angustie, ma in realtà è abbastanza comprensibile il suo desiderio che siano pubblicate su “L’incontro”, per rendere partecipe la città di queste problematiche e per creare una cultura solidale in proposito.

Il professor Serra, che è intelligente e soprattutto estremamente sensibile al disagio di tanta povera gente, che è spesso guardata con indifferenza ed anche con prevenzione dalla maggioranza dei nostri concittadini, la quale non è rimasta indifferente al messaggio xenofobo della lega, mi pare abbia dei punti fissi nei loro riguardi.

Due opinioni maturate sul campo meritano veramente attenzione.

Il primo punto è che secondo lui bisogna offrire ascolto partecipe e fraternità vera a questi fratelli nel bisogno: egli infatti dedica molte ore all’ascolto cordiale e partecipe e non potendo far di più, regala un euro per un caffè a chi bussa al suo punto di ascolto. Io, che sono molto più pragmatico, ammiro questa attenzione umana, ma preferisco operare per un aiuto più consistente.

Il secondo punto è il suo convinto ed appassionato invito a questa gente di tornare nella loro terra. Sono assolutamente certo che il mio amico suggerisce questo ritorno tra la propria gente per motivi nobili, perché soffre per il disagio, l’umiliazione e l’impossibilità di trovare risposte possibili, nel nostro Paese, alle loro attese. Io sono del tutto consenziente su questa posizione. Mi fanno pena questi immigrati trapiantati in un mondo estremamente diverso dal loro per costumi, mentalità, cultura e religione e con scarsissime possibilità di trovare casa e lavoro.

La soluzione più idonea per me è aiutarli a crescere nel loro Paese, portando colà servizi, cultura e tecnica.

C’è però sempre il gravissimo pericolo che gli aiuti vadano a finire in mano a governi autoritari che trasformino gli aiuti in armi e in profitti personali.

Una volta ancora dobbiamo premere perché siano i nostri rappresentanti della politica a porre in atto questi interventi mirati, che solo loro possono fare.

L’impegno di Lucia per Wamba

Mia sorella Lucia, appena ritornata dal Kenya, ove per l’ennesima volta era andata per portare gli aiuti che aveva racimolato in occasione della Pasqua e per controllare come erano stati spesi i precedenti, mi ha chiesto, sabato scorso, di prendere la parola appena finita la messa prefestiva al “don Vecchi”.

Lucia, come don Roberto, mio fratello parroco di Chirignago, assomiglia a mio padre che era senza complessi, facondo di eloquio ed immediato nei suoi discorsi. Preso il microfono Lucia ha relazionato ai residenti del Centro sul suo ultimo viaggio e sulla situazione che ha trovato a Wamba, il piccolo borgo in mezzo alla savana ove c’è l’ospedale frequentato un tempo dal professor Rama ed ora dai suoi allievi, fra i quali c’è appunto mia sorella, già caposala del reparto oculistico dell’ospedale di Mestre.

Gli anziani del “don Vecchi” sono alquanto partecipi ed interessati ai resoconti di mia sorella, perché anch’essi appartengono alla piuttosto vasta schiera di finanziatori della “Fondazione pro Wamba” della quale ella è cofondatrice e corresponsabile nel comitato direttivo.

L’associazione “pro Wamba”, riesce a raccogliere ogni anno quasi duecentomila euro, soprattutto dai fedeli delle parrocchie di Chirignago e di san Marco, ma pure da tanti altri concittadini tra i quali, appunto, anche dei residenti nel Centro don Vecchi.

Lucia ha parlato della pioggia benefica, che è una manna per quelle terre aride e desolate, del nuovo parroco, un prete ultrasettantenne del trentino che è successo al parroco africano che lasciava molto a desiderare, degli asili sparsi nella savana, della parrocchia vasta quanto il Veneto, con villaggi sperduti che si possono raggiungere solamente col fuoristrada e che vedono un prete una volta tanto, eppure conservano una fede viva, guidati da una semplice catechista locale.

Quando ascolto Lucia nei suoi interventi, mi pare di ritornare ai racconti dei vecchi missionari che ci incantavano e ci mettevano voglia di partire anche noi per aiutare quella povera gente, non ancora corrotta dalla nostra società viziosa e senza valori.

Ricordo il nostro caro padre Vincenzo Pavan di Carpenedo, missionario nel Mato Grosso in Brasile, il quale mi diceva: «Sogno per la mia gente che giunga il benessere e i servizi dei nostri vecchi Paesi d’Europa, ma nello stesso tempo temo il loro avvento perché ruberebbero a questa povera gente la naturale verginità, la semplicità e la gioia del vivere che ora posseggono».

Mi auguro che mia sorella contribuisca a far crescere il benessere tra la sua gente di Wamba, però senza che i loro valori vengano compromessi.