L’apertura agli altri risana

Ho ribadito più volte la mia convinzione che c’è più saggezza in una pagina della Bibbia che nelle 100 pagine di una delle nostre riviste mensili o nelle trenta o quaranta pagine del “Corriere della sera”!

Rimpiango di aver fatto questa scoperta troppo tardi, non avrei perso tanto tempo col leggere periodici e romanzi che, stringi, stringi, alla fine mi trovo con un pungo di mosche in mano, mentre quando leggo la Scrittura, mi sento sazio di sapienza e di verità.

Ho fatto questa considerazione una delle ultime domeniche leggendo alcune righe degli atti degli apostoli in cui si parla della difficoltà che Paolo di Tarso ha incontrato nell’inserirsi nel gruppo dei discepoli di Gesù.

Fortunatamente Barnaba, uomo aperto ed intelligente introduce Paolo nel cenacolo degli apostoli, restii di accogliere tra loro l’ex persecutore coraggioso ed intraprendente.

Il passaggio della Scrittura tante volte lo avevo letto senza però apprezzare l’attualità e la grande saggezza di Barnaba, ebreo aperto, fiducioso nei valori del messaggio appreso da Gesù, ma pure dell’apporto che uomini provenienti da altre esperienze religiose e culturali potevano donare alla comunità nascente. L’apertura di Barnaba ha donato alla chiesa un apostolo della portata di Paolo!

L’episodio mi ha fatto pensare agli steccati, ai valli delle nostre parrocchie e dei nostri gruppi sempre timorosi dei possibili inserimenti ed apporti dei lontani, insicuri della forza dei propri valori e preoccupati dell’incontro e del confronto, elemento che non può che verificare, ripulire e rafforzare la propria proposta e il proprio messaggio.

La chiusura satura, avvizzisce l’aria della stanza, l’apertura invece rinnova, rinfresca e risana sempre e comunque a meno che uno non custodisca realtà fatue ed inconsistenti!

Pensieri guardando oltre il campo…

Ho sognato e tentato di far rassomigliare il don Vecchi ad un paese.
L’organizzazione della vita comunitaria, i servizi, l’amministrazione e perfino la toponomastica si rifanno alla tipologia di un piccolo borgo.

Un tempo ho perfino pensato di riferirmi ad essa chiamandola “la seniorcity di Mestre” una specie di “città dei ragazzi” diventati anziani, ma tutto sommato mi sono accorto che pur rimanendo una realtà a sé stante, risulta sempre come un qualcosa di artificiale, manca quell’amalgama di elementi che fanno di un gruppo di uomini e donne un qualcosa di composito e di complementare che faccia del gruppo una comunità vera che interagisce, opera, produce e vive una vita piena.

Perciò quando mi affaccio al mio terrazzino e guardo oltre il grande campo che separa dalle ultime propaggini della città, ho la sensazione che là cominci il mondo vero con le sue problematiche e m’accorgo di esserne separato quasi escluso, impotente ad intervenire partecipando ai consessi in cui si discute, si cerca e si decide.

Dalla mia riva, guardo, mi preoccupo, mi indigno, talvolta progetto e sogno ma avverto di non esserne più parte viva, con la possibilità di influenzare le soluzioni da prendere.

Sono i momenti in cui avverto più che mai un senso di impotenza ed in cui sento i limiti della vecchiaia, sento che il cuore va al di là della trincea, ma che la condizione e le forze non mi permettono di fare il balzo.

Ora ho tutto il tempo, forse troppo tempo per sognare come impostare affrontare il problema dei giovani, del mondo del lavoro, quello dell’informazione e di rodermi nel constatare che quella chiesa giovane, vivace, intraprendente che sogno è invece lenta, pigra, sonnacchiosa e rassegnata!

Accettare le nostre diversità

“Non è mai troppo tardi” era lo slogan con il quale venti-trenta anni fa si voleva incoraggiare gli anziani a partecipare a scuole serali per ottenere il titolo di quinta elementare o di terza media, titoli che si richiedevano per partecipare a concorsi banditi dagli enti pubblici.

Alla mia bella età, sto tentando anch’io di recuperare tanto tempo perduto e di imparare a “leggere” il libro della vita scritto nella ordinarietà degli incontri quotidiani.

Stamattina ho appreso una lezione interessante.
Stavo armeggiando per inserire in un piccolo espositore presso la porta del cimitero alcuni numeri de “L’incontro”, quando una signora, che aveva di certo superato la mezza età, mi salutò con particolare calore.

La guardai per capire da dove partisse questa confidenza. Ella capì al volo il mio interesse: “Lei mi ha sposato 44 anni fa”. In quel mentre giunse anche suo marito. I miei ricordi erano però assolutamente nebulosi, allora per uscire dall’empasse, soggiunsi scherzosamente: “Ho fatto un buon lavoro?”, al che ella rispose: “Nella vita non è difficile andare d’accordo, basta accettare le nostre diversità!”

Ci salutammo cordialmente certi che non sarà facile rincontrarci, se ci abbiamo messo 44 anni dopo l’incontro iniziale.

Durante la giornata però sono ritornato sulla sua affermazione che bisogna accettarsi diversi, e proseguendo nel pensiero ho concluso che la diversità non è un inghippo, un ostacolo nel vivere insieme, ma un arricchimento reciproco.
Tardi sono arrivato a questa conclusione!

Tornando però allo slogan per la scolarizzazione di chi ha imparato poco da piccolo, ho concluso, forse in maniera un po’ interessata: “Non è mai troppo tardi!”

Apprezzare le differenze fra le persone

Il mio “direttore” ha dovuto farsi ricoverare in ospedale.

Da un paio di settimane al don Vecchi è venuta meno una figura che è parte integrante del paesaggio di questa atipica struttura per anziani.

Chi ha conosciuto il ragionier Rolando Candiani, il figlio del notissimo pittore Gigi Candiani, ha impresso nella memoria la sua tipica persona da gentleman inglese; asciutto, con due baffetti corti, passo lesto e braccia da direttore d’orchestra, sempre in movimento.

Il ragionier Candiani pare uscito fresco da un manuale di buone maniere: “per cortesia”, “Grazie”, “lei sa meglio di me”, mille convenevoli di questo genere fanno parte integrante del suo stile rispettoso, talvolta da sembrare perfino servile, ma che in realtà non lo è assolutamente perché egli sa quello che vuole e persegue il suo obiettivo con determinazione.

Conosco il mio direttore fin da ragazzino ai tempi dell’azione cattolica. Poi le nostre strade hanno preso direzioni diverse, lui si è sposato, ha fatto carriera al Consorzio Agrario e si è fatto una villetta nell’interland di Mestre. Io ho continuato a fare il cappellano, raggiungendo la carica di arciprete di Carpenedo e là mi sono fermato. Il pensionamento prematuro di Candiani per i guai del Consorzio e la mia avventura con i vecchi, ci hanno ricongiunto.

Assieme abbiamo sognato e realizzato il don Vecchi. Come riusciamo a stare e lavorare assieme è per me un miracolo ed un mistero!

Io, sognatore incallito, senza alcuna dimestichezza coi conti, disordinato assoluto nell’amministrazione, nemico di ogni pratica burocratica; lui ragioniere, adoratore delle carte, devoto delle sante leggi dello Stato, pignolo fino all’inverosimile nel far quadrare i bilanci. Eppure stiamo assieme da quasi vent’anni e non abbiano alcuna voglia di dividerci!

Talvolta pensando al nostro rapporto lo paragono a certe copie: lei piccola e grassottella, lui asciutto e spilungone, eppure sono una coppia riuscita!

Ora che non c’è, spero ancora per poco tempo, mi sento a disagio, mi pare di essere sbilanciato non avendo più il contrappeso.

Sto capendo in questo frangente la grande valenza delle diversità, guai se ci assomigliassimo di più, come talvolta sogniamo.

Il Signore fa bene il suo mestiere e bisogna proprio che ammettiamo che senza la sua sapienza il mondo l’avremmo distrutto da un milione di anni. Bisogna convenire che l’accetarci diversi è l’unica cosa da fare!

Gratitudine a chi lavora nell’ombra per L’Incontro

Come quasi tutti i vecchi ricordo letture ed eventi lontani e dimentico facilmente e subito cose lette poche ore prima.

Non è neanche detto che delle cose lontane ricordi bene e con precisione nomi, dati e tutto il resto.

Qualche giorno fa pensando come rendere onore ad una cara e deliziosa signora, che in umiltà e silenzio, inserisce nel computer queste mie riflessioni espresse con tante cancellature, scarabocchi, rimandi e tutto il resto, mi veniva da paragonarla ad un protagonista di una delle tante belle pagine del De Amicis. Il libro “Cuore” l’avrò letto credo, circa settant’anni fa e mi ricordo una bella pagina che allora mi ha particolarmente commosso, penso si intitolasse: “Piccolo scrivano fiorentino” il ragazzo che di notte, per racimolare un po’ di denaro per la sua famiglia, scriveva combattendo, coraggiosamente il sonno.

Io non ho la penna del De Amicis, ma desidererei tanto dedicare una bella pagina a questa creatura schiva, riservata e silenziosa che ruba parecchie ore della settimana al suo compito di mamma, sposa e nonna, per far sì che i miei pensieri diventino messaggio per i nostri concittadini.

Quando un numero de “L’incontro” va bene, a qualcuno può scappare talvolta anche un complimento: “Che bravo quel vecchio prete che continua a lottare e non demorde!”

Costoro non sanno che dietro a quel periodico, modesto fin che si vuole, ci sono persone che nell’ombra svolgono un servizio generoso che implica tanti sacrifici e poche lodi.

Bertold Brecht fa una battuta che non voglio dimenticare e che fa giustizia a questo proposito: “Quando si scrive pomposamente che Cesare conquistò la Gallia, non si pensa che non lo fece da solo, ma che un esercito di persone si sono sacrificate dando il meglio di sè per quel risultato”.

Voglio rendere onore alla signora del computer, e a quella filiera splendida di persone che compongono, stampano, piegano e diffondono “L’incontro”, dovendosi accontentare solamente degli incitamenti di questo vecchio prete che vorrebbe sempre di più e di meglio.

Desidero che loro, ma non soltanto loro, sappiano quanto li ammiri, li apprezzi, sia loro riconoscente e voglia loro tanto bene. Essi sono per me le persone che contano, non quelle che portano i gradi sulle spalline.

In memoria di Dario

La mamma di Dario, qualche settimana fa mi ha informato con le lacrime agli occhi che il suo figliolo e mio “lupetto” di molti anni fa, stava male, molto male.

Le chiesi se non le sarebbe dispiaciuto se avessi fatto un salto a casa sua. Era un pezzo che non ci vedevamo.

Con la pensione vivo nel mio “convento” un po’ fuori dal mondo, Dario, invece, professionista affermato e primario in ospedale era impegnato su mille fronti. Gli telefonai più volte, ma il telefono squillava a vuoto.

Un giorno finalmente trovai il figlio che mi disse che il babbo era ricoverato in ospedale.

La sera lo trovai in una cameretta dell’Angelo che s’apre sulla dolce campagna verde, che almeno per ora, circonda il nostro bell’ospedale. Ormai il caro ragazzo, poco più che cinquantenne, non riusciva neppure a spingere il suo sguardo fuori dalla grande finestra per cogliere la bellezza della campagna in fiore. Mi riconobbe e rispose con un fil di voce alle mie parole; la sua parlata calda e veloce con quel timbro tipico della Cesena dei suoi genitori, s’era ormai spenta e riusciva appena a pronunciare brevi parole essenziali.
Andai ogni giorno, ma i giorni che gli rimanevano furono pochi.

L’ultima sera posi la mia mano sulla sua testa e l’altra sulla sua sposa che stava raccogliendo i suoi ultimi attimi di vita. Non giunse alla mattina dopo. L’indomani partecipai al suo commiato. Don Franco disse che non aveva mai visto la chiesa così gremita, Dario raccoglieva i frutti di un servizio generoso e altruista, mentre egli teneva il suo sermone la mia memoria girava il documentario della vita di questo ragazzo, lupetto, scout, capo reparto, università, laurea, famiglia, due figli, conversazioni, conferenze, collaborazioni con realtà in cui la psicologia tiene uno spazio importante quali la scuola, il consultorio, l’ospedale.

Era arrivato all’apice della carriera, al titolo ambito e meritato di primario. Quando mi trovavo in difficoltà con casi complicati ed inesplicabili, li mandavo da lui perché sapevo che li avrebbe accolti ed aiutati con il suo ottimismo innato che gli accendeva sempre sulle sue labbra ottimismo e speranza.

Ricordo che una coppia di giovani sposi che nella loro vita coniugale non avevano fatto altro che litigare, li mandai per disperazione dal dottor Dario Casadei. Dopo un paio di mesi ritornarono da me per portarmi in regalo una pianta per averli mandati da quel bravo psicologo.

Curai quella pianta con infinito amore perché mi aiutava a non disperare.

Ora anche Dario se ne andato in punta di piedi, mi sento ancora più solo, so che non avrò più quell’appiglio sicuro e tranquillizzante sul versante misterioso della psiche umana!

Dialogo difficile

Spero di non essere ripetitivo, ma non resisto a non riprendere in mano un discorso che da un paio d’anni disturba la mia coscienza di credente e mi preoccupa quanto mai.

Mi è capitato lo scorso anno che ben quattro o cinque persone care mi abbiano regalato il volume scritto da Augias con la collaborazione di un biblista senza fede o comunque poca e distorta, pensando di donarmi un testo edificante di approfondimento religioso.

Ho l’impressione che il mondo cattolico e i cristiani d’oggi siano troppo superficiali, indifesi e faciloni in rapporto alle insidie che certe persone, pur intelligenti, che seminano a piene mani, discredito, dubbi, insinuazioni, cattiverie, malizie e forse menzogne.

Augias, il giornalista della televisione, dallo stile anglosassone, dalla parlata calda e suadente, con un modo accomodante ed apparentemente rispettoso, è oggi uno degli esponenti più pericolosi di un ateismo militante, cattivo e pericoloso.

Qualche settimana fa ho letto un suo intervento su “Famiglia cristiana” il periodico assai diffuso nel mondo cattolico, periodico che un tempo aveva una tiratura impressionante, ma che negli ultimi anni, essendo calato di molto, pare tenti di rifarsi con “aperture” non sempre felici. Un intervento di Augias in cui approfittava della bontà del monaco Enzo Bianchi, il priore della comunità di Bose, spargendo la solita spazzatura anticlericale ed anticristiana. Lessi poi un intervento di “Avvenire” ben più deciso nel condannare questo ateo con guanti di velluto ma con una lingua di veleno. Infine “Famiglia Cristiana” corre ai ripari, dando direttamente la parola al monaco di Bose. Enzo Bianchi, con estrema delicatezza e bontà, manifesta la sua amarezza per il fatto che degli atei professi non accettino un dialogo onesto, pacato, approfondito e serio con i credenti.

Enzo Bianchi si rammarica per questa occasione mancata ed auspica uno stile diverso, fatto di serietà e di rispetto. Le parole del monaco intelligente e buono mi commuovono, pur mantenendo la convinzione che con certi individui, vedi questo tipo di miscredenti, di radicali, di omosessuali arrabbiati o di sinistri esasperati, bisogna non fare il loro gioco, offrendo loro i nostri pulpiti.

Gesù ci ha insegnato di non estirpare la gramigna, perché comunque ci penseranno gli angeli a bruciarla a suo tempo nel forno!

Emma

Un paio di giorni alla settimana, di buon mattino, mi reco all’Angelo. Io sono un prete tutto fare.

Dovendo tirarmi dietro un’armata di Brancaleone composta dai volontari più eterogenei, ho compreso che il mio punto di forza è quello di dare l’esempio.

“L’incontro”, ma anche tutte le altre iniziative di cui mi occupo, procede quasi solamente perché tento di aprire la strada con l’esempio personale.

Questo, di lasciarmi coinvolgere, di essere il primo a sacrificarsi per l’ideale è certamente il modo migliore per trascinare avanti anche i più pigri, i meno convinti, quelli che hanno bisogno di seguire un capo!

Per la distribuzione del nostro periodico, sono impegnati quasi una dozzina di volontari. Io sono anche tra questi, parto il martedì dopo che una mia coetanea ha passato buona parte della notte per la piegatura.

Arrivo in ospedale verso le sette e mezzo, vado prima al pronto soccorso, poi all’espositore presso la cappella nel piano del giardino pensile, sistemo ben bene tutti i ripiani in modo che le foto della copertina, attirino l’attenzione dei passanti, per terminare al primo piano ove la gente attende che esca il numero per la visita.

Incontro sempre gente che mi riconosce. Brevi battute perchè mi aspetta l’apertura della mia “cattedrale” tra i cipressi.

Stamattina incontrai Emma con il marito Gianni. Era da tanto che non li vedevo. Emma è e rimarrà sempre la Giovanna d’Arco, la “pulzella” del “gruppo del martedì” ai tempi turbolenti ed irrequieti della contestazione. Una donna piccolina, una voce dolce e carezzevole, intelligente, buona e decisa. Con la solita tenerezza ebbe il coraggio di sorridermi dicendomi: “Oggi la giornata comincia bene avendola incontrata, don Armando”.

Per me invece, al contrario, è cominciata male vedendo il suo pallore, il suo coraggio e la sua dolcezza, che avevano come unico sostegno il ramo leggero della fede e dell’amore del suo Gianni! Da oggi in poi credo che la mia prima e più assillante preghiera sarà per la mia carissima Emma, la dolcissima compagna dei tempi burrascosi in cui i nostri ragazzi pensavano che fosse facile rimettere a nuovo il mondo!

Non ci siamo riusciti, ma comunque è stata una bella battaglia combattuta con ardimento e con valore.

“Io sono un figlio di Dio!”

Tra gli apostoli quello che mi è più vicino come pensiero e modo di ragionare è certamente San Giacomo. Di questo apostolo condivido la concretezza, la franchezza, il modo realistico con cui affronta i problemi. L’apostolo invece con cui sento meno in sintonia con la mia sensibilità è invece San Giovanni; i suoi discorsi, quasi sempre aggrovigliati ripetitivi, appesi alle nubi pur di un cielo limpido, ma sempre del cielo, li sento vaghi e poco incidenti.

La liturgia della chiesa si rifà ad un ciclo tale per cui ogni anno i testi per la santa messa sono presi a turno da uno degli evangelisti.

L’anno in cui sono presi dal Vangelo di San Giovanni sono per me dolori, perché si ripetono terribilmente, tanto che dopo un paio di domeniche mi sento nei guai, trovandomi inguainato in un misticismo che dice ben poco alla mia sensibilità.

Tutti dicono che San Giovanni è un evangelista delizioso, perché è l’apostolo dell’amore, il prediletto di Gesù.

Appena qualche domenica fa notai di chi era il brano che avrei dovuto commentare, scorgendo il nome di Giovanni mi misi d’istinto in apprensione senza neppur aver letto il contenuto del brano.

Lo Spirito Santo deve aver avuto pietà di questo suo povero e vecchio prete, difatti non appena cominciai a leggere la seconda lettura rimasi abbagliato da questa frase: “Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”
Io, nonostante tutto sono un figlio di Dio!

Mi ricordai lo scatto d’orgoglio di un avvocato di grido, il quale, di fronte ad un capotreno pretenzioso che pensava di sistemarlo portando egli qualche filetto in più sul cappello della sua divisa, lo apostrofò ergendosi impettito: “Lei non sa chi sono io?” l’altro quasi intimorito, pensava fosse un deputato o un non so chi, stupito attese e l’avvocato e proseguì tirando fuori la carta d’identità e mettendogliela sotto il naso: “Io sono un cittadino italiano!”

Nessuno ormai mi fa più paura, mi intimorisce, sia esso un magistrato, un sindaco o un vescovo: “Io sono un figlio di Dio!”

Ci può essere un qualcosa di più nobile o di più alto che possa intimorirmi?

Questa presa di coscienza che mi donò coraggio ed ebbrezza, però mi costrinse a proseguire: anche l’uomo più stupido o più squallido che io possa incontrare sarà sempre e comunque un figlio di Dio! Anche questo comunque è bello ed importante! Grazie, San Giovanni!

Disabili

Io sono sempre stato un ammiratore del monaco americano Thomas Merton. Questo contemplativo, vissuto nell’America nevrotica, irrequieta e mutevole del nostro tempo, avendo egli un’anima di artista ed un cuore di fanciullo sapeva partire dagli eventi più consueti e banali della vita per assurgere a meditazioni sublimi, che gli permettevi di spaziare sopra la quotidianità e collocare la fragile esperienza in una cornice di infinito e di sapienza.

Oggi i discepoli di quell’altro grande contemplativo e mistico del nostro tempo quale fu Charles De Foucauld parlano di “contemplazione sulla strada” che si radica in un ambiente arido ed impossibile e in cui pur viviamo.

Vi sono pur ciuffi d’erba che crescono tra le rocce, così anche noi possiamo maturare un umanesimo autentico pur essendo costretti a vivere tra il piombo dei tubi di scarico delle automobili e lo squallore umano di una società disordinata e con pochissimi valori.

Credo che seguendo questi esempi e coniugando la frequentazione degli uomini d’oggi con quella dei testi sacri, che ci offrono una visione religiosa del vivere, possiamo anche noi far scaturire come a Massa e Meriba acqua fresca e pulita dalle rocce.

Qualche giorno fa la mia attenzione s’è fermata di fronte ad una frase che avevo letto mille volte: “La pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo”. I costruttori ufficiali della nostra società non vanno per il sottile: scartano le pietre non regolari per il selciato, i cibi prossimi alla scadenza, le confezioni non regolari, ed anche i soggetti meno abili.

Oggi torna conto ed è più economico adoperare ciò che è immediatamente funzionale; l’imperfetto, il difettato, il meno appariscente lo si butta senza tanti scrupoli. Così è per le cose e purtroppo altrettanto per gli uomini.

Quante volte leggo su certa stampa cattolica, un po’ più attenta ai valori veri, quanta ricchezza umana offre la frequentazione di disabili, di creature apparentemente inutili, ingombranti ed improduttive.

Ricordo la riflessione di una mamma veneziana che scriveva: “Papà se n’è andato in cielo, i tuoi fratelli si sono creati una famiglia; non mi rimani che tu col tuo amore dolce e fedele!”

Quante pietre scartate, se le raccogliessimo con pietà ed amore non potrebbero diventare un punto fermo, arricchire il nostro vivere irrequieto e spesso fatuo che è sempre alla ricerca di sogni impossibili mentre trascura le opportunità più vere che sono a portata di mano!

Esser consapevoli della propria età

Un giornalista de “Il Gazzettino”, ancora una volta, mi ha dato una mano e per di più l’ha fatto senza una mia richiesta.

Il cortese e generoso collega ha ripresentato all’attenzione della città, il progetto del don Vecchi quater da costruire adiacente alla famigerata via Orlanda in quel di Campalto.

Il giornalista, con la complicità benevola ed un po’ interessata del progettista, ha illustrato il progetto, ne ha pubblicato la foto e, usando i segreti del mestiere, ha pure ironizzato con l’inezia del Comune, con l’ente che doveva costruire l’albergo per i lavoratori, concedendosi una battuta finale a mio vantaggio e terminando con una notizia ad effetto: “E dire che don Armando non ha che appena ottant’anni”, quasi fossi nell’età d’oro per progettare e realizzare dei sogni di carattere sociale.

Io sono ben conscio di avere ottant’anni, anche se talvolta, soprattutto quando sono seduto alla scrivania, non me li sento, ma conservo fortunatamente la lucidità mentale per conoscere i limiti.

Il Cardinale Urbani ripeteva, talvolta, una battuta, che gli era cara: “Se tutti ti dicono che sei ubriaco, va a casa e mettiti a letto, anche se tu sai di non aver bevuto neanche un’ombra!”

Quando ho compiuto 75 anni mi sono battuto per andare in pensione, anche se mi piaceva il mio mestiere, e i miei capi insistevano che rimanessi. Avevo paura di non saper leggere e gestire i tempi nuovi!

Fortunatamente me ne sono andato lasciando la parrocchia in piedi. Ora ho 80 anni, la Fondazione è ben più modesta e meno impegnativa che una comunità di cristiani, ma comunque, questo è il tempo per pensare alla vita eterna e permettere che anche i preti più giovani abbiano il privilegio di servire Dio nei poveri!

La cera nelle orecchie

Ogni tanto mi capita di fare delle scoperte che mi lasciano allibito.

Io che sono un appassionato lettore ed un ammiratore di Giovannino Guareschi, quello spassoso e felice narratore che ha dato alla luce Peppone e don Camillo, da tanto tempo, pensavo che quella stagione fosse definitivamente tramontata. Infatti, avevo collocato i volumi di Guareschi accanto a Piccolo Mondo Antico, un mondo romantico, caro, pregno di una dolce malinconia, ma ormai definitivamente scomparso.

Invece no.
Vi sono dei superstiti del mondo di Guareschi che sopravvivono alla loro morte politica e magari in periferia, continuano alla vecchia maniera.

Mi è accaduto di discorrere piacevolmente e confidenzialmente con un signore che i concorrenti in commercio mi avevano descritto come un politicante, un intrallazzatore ma che a mio modesto parere mi è parso come un gentiluomo, intelligente, impegnato sognatore e come tutti i sognatori emarginato.

Questo accompagnatore mi confidò che nel suo paese era stato il più votato in assoluto, ma per dire quello che riteneva essere giusto, dovette uscire dal partito.

“Veda, padre”, mi disse: “sindaco, giunta e peggio che peggio i consiglieri sono delle semplici marionette, chi decide è il partito, ossia alcuni dirigenti che non vivono nel posto, non conoscono i problemi concreti della gente e soprattutto decidono rifacendosi a motivazioni di politica generale e perciò che nulla ha a che fare con le attese della povera gente. Ora posso dire quello che voglio, ma non per questo riesco a farmi ascoltare o a spostare di un millimetro quello che altri e altrove hanno stabilito”.

La cosa mi sorprese e mi ha fatto star male. Già, ascoltando gli appassionati ed intelligenti interventi in parlamento dei vari membri dei contrapposti schieramenti, che si concludevano con votazioni compatte e preventivate, che non tenevano per nulla conto di quanto si era detto, avevo concluso che i deputati, talvolta, si mettessero la cera nelle orecchie per non sentire le motivazioni addotte dai loro avversari. Sentire però un discorso dal vivo di ciò che avviene a due passi da Mestre ha finito per sdegnarmi!

25 aprile oggi

Credo di appartenere alla categoria dei ruminanti, perché quando m’investe un problema, ci ripenso a lungo, medito, confronto le tesi contrapposte e pian piano, dopo aver assimilato ben bene il tema mi sento pronto d’avere una opinione personale.

Il 25 aprile è per me la festa di San Marco che ha come fiore all’occhiello “il bocolo”, ossia il bocciolo rosso di rosa da regalare alle donne con cui condividiamo il dono e il dramma della vita.

Il 25 aprile è anche il giorno della liberazione con i riti civili, le commemorazioni, le prese di posizione dei politici, delle associazioni dei nipotini dei partigiani perché chi combatté sui monti ormai se n’è andato all’altro mondo.

Il 25 aprile letto da questo versante, per me, è stato nel passato, ma lo è tuttora, un problema che è evoluto, arricchito, impoverito, ridimensionato ma che comunque, per me personalmente, è rimasto ancora un problema sporcato dalla retorica, tirato per la giacca dalla politica e tenuto vivo da astio antico e da interessi permanenti.

Nel passato era l’esaltazione della resistenza e prerogativa della sinistra, i partigiani eroi, i fascisti e gli infami.

Poi, pian piano gli studi hanno fatto emergere gli eccidi dei partigiani rossi, venticinquemila fascisti uccisi con e senza processo dopo la liberazione con le motivazioni reali più varie.

L’uccisione di 300 preti, certe azioni insignificanti da un punto di vista bellico, ma con rappresaglie atroci che dovevano essere messe in preventivo. Mi è capitato di pensare che chi osannava la liberazione dal fascismo stava tentando, e fortunatamente gli è andata male, l’instaurazione del comunismo, un regime che si è macchiato di crimini un milione di volte superiore.

Poi il quadro politico è cambiato e il fascismo è diventato destra che rinnega il passato.

Allora piuttosto che i vecchi spennacchiati contendenti, che non sono più gli idealisti dell’una e dell’altra parte di un tempo, continuino in incomprensibili distinguo ed infinite diatribe, non sarebbe meglio mettere una pietra tombale sul passato, pregando per vincitori e vinti e celebrare tutti assieme la festa della pace, sperando che prima o poi arrivi anche la pacificazione.

Suor Elvira, un esempio da seguire

Una cara signora, spero per rappacificarsi con me, per un momento di incomprensione e di tensione, con gesto gentile e generoso m’ha regalato un bel volume che documenta l’opera di suor Elvira.

Se fosse così, ossia se questa signora gli avesse dato il significato di una volontà di totale intesa, le sarei tanto grato per questo gesto e le sarei ancora più grato perché suor Elvira è una suora che mi aiuta a sognare e a tentare l’impossibile.

Questa suora l’ho scoperta circa poco più di un anno fa e mi ha veramente incantato per il coraggio, la coerenza, la freschezza di fede e la totale fiducia che il Vangelo possa redimere e salvare subito e totalmente anche i giovani che hanno raggiunto i limiti massimi dell’abiezione a causa della droga e di tutti i vizi collaterali alla tossicodipendenza quali la prostituzione, il furto, il tradimento dei valori e dei legami più sacri.

In una ventina d’anni, questa suora, uscita da un convento che la “soffocava” e mortificava, come purtroppo avviene spesso per malintesi cammini di formazione spirituale, ha aperto una sessantina di strutture di formazione in tutto il mondo, ha fondato un gruppo di ragazze e di giovani che si dedicano totalmente alla redenzione dei tossicodipendenti e soprattutto ha “salvato” nel senso più radicale del termine, un numero incalcolabile di giovani.

Il volume è costituito da una raccolta di fotografie che documentano lo sviluppo di questa grande iniziativa.

Mi ha colpito una foto ed il relativo commento. Suor Elvira, una sera, raccoglie i suoi giovani provenienti dall’inferno, si inginocchia di fronte a loro e si confessa: “Ragazzi, vi chiedo perdono perché vi ho tradito; per la paura che ve ne andaste, mentre vi avevo promesso di aiutarvi ad uscire da ogni dipendenza, vi ho permesso di fumare. Da questo momento in poi qui non si fumerà più, chi vuol rimanere butti subito su questo braciere le sigarette che ha in tasca”. Ad uno ad uno tutti buttarono nel fuoco i pacchetti di sigarette.

Forse in questo coraggio, in questa radicalità evangelica, consiste il segreto del successo di questa suora.

Ora sono nel tormento perché dovrei trovare il coraggio di chiedere a me stesso, ai miei collaboratori e alla piccola comunità che quotidianamente si riunisce nel nome del Signore, molto di più di quanto ho chiesto finora.

Un funerale disertato

Sono cinquantacinque anni che faccio il prete, ma stamattina è stata la prima volta che, dopo che i necrofori hanno portato la bara di fronte all’altare, mi sono trovato completamente solo.

Già da tempo denuncio una tendenza che non depone a favore della nostra civiltà.

Da ragazzino un’insegnante aveva citato in classe una sentenza di un filosofo greco in cui si diceva che non c’è mai stato popolo in cui non si sia praticato il culto dei morti.

A proposito di questo comportamento umano c’è l’imbarazzo della scelta nel cogliere pensieri sublimi che questo culto determina nella coscienza umana.

Nel nostro tempo e nella nostra città il culto dei morti pare sempre meno sentito, sembra che, tutto sommato, come tendenza generale ci sia quasi fretta di sbarazzarsi di una salma che non serve più e pochi pare trovino il tempo e soprattutto il coraggio per fermarsi di fronte al mistero della vita e della morte per riflettere e trarre insegnamento da questo evento e dalla storia di chi è, tutto sommato, sogno di questo evento.

La cosa mi preoccupa assai perché temo che tutto si banalizzi e si affidi alla catena dei servizi che in maniera anonima e formale risolve sempre più sbrigativamente a pagamento la rimozione dell'”ingombro”!

Stamattina però la situazione fu emblematica. Usciti i necrofori rimasi solo di fronte ad una bara del costo di poco più di un centinaio di euro.

L’addetta alla sacrestia, compresa la situazione, uscì per rimediare al caso, una vecchina che trascorre tutto il giorno tra le tombe, entrò e rimase in chiesa, poi entrò anche uno dei necrofori, ed assieme abbiamo chiesto al Signore che accogliesse e desse pace a quella povera concittadina.

Per un attimo mi balenò nella mente un ricordo un po’ irriverente: alla Fondazione Cini, talvolta in occasione di conferenze internazionali, essendo la sala totalmente vuota, si precettava la servitù ad ascoltare la conferenza!

Spero che i miei tre fedeli siano stati un po’ più partecipi all’evento della partenza da questo mondo di una figlia di Dio.

Però sto cominciando a dubitare che ancora per molto tempo potremo considerarci un popolo civile.