“In mezzo sta la virtù!”

Come tutti gli italiani, ho partecipato con passione e preoccupazione alla vicenda della Mirafiori della Fiat. E penso, come tutti gli italiani, che sia stato giusto tirare un sospiro di sollievo alla notizia che la maggioranza, seppur sparuta, ha votato per il contratto. Col tasso di disoccupazione che incombe sul nostro Paese, l’aggiungersi di nuove decine di migliaia di disoccupati non era proprio una prospettiva allettante.

Più di una volta avevo ascoltato la pacatezza e la saggezza di Bonanni, che era per il si, e del capo della Fiom che era invece per il no. Le argomentazioni dell’uno e dell’altro erano quanto mai stringenti, tanto che, ascoltando il primo, d’istinto mi veniva da parteggiare decisamente per la sua tesi, però poi, ascoltando il secondo, mi veniva da concludere che neanche lui aveva tutti i torti.

Ben s’intende io ho tifato in maniera appassionata per Bonanni, però non me la sento neppure ora di condannare totalmente Landini. Questa diatriba mi ha fatto venire in mente due ricordi.

Uno lontano: la giornalista milanese Lidia Menapace, simpatizzante per la sinistra, che in una conferenza al Laurentianum – eravamo ancora ai tempi di Stalin – dichiarò che in Russia c’era lavoro per tutti e che gli operai non erano sfruttati dai padroni. A chi le fece osservare che essi non si ammazzavano per lavorare e che producevano poco, essa rispose: «Ma non c’è alcun comandamento che stabilisca che uno debba ammazzarsi di lavoro!» Probabilmente ella sognava il “Paradiso” in terra, e non teneva conto delle leggi ferree dell’economia e del mercato, per cui solamente chi produce di più e a minor prezzo, guadagna e crea benessere.

L’altro modo di vedere il problema del lavoro mi viene dalla confidenza con un amico, che solitamente ha mille impegni e mille occupazioni, il quale mi ricordò che sua nonna ripeteva spesso e con convinzione: «Nessuno è mai morto di lavoro!» La nonna del mio amico probabilmente non era convinta che neppure “l’inferno si trova qui in terra!”

Mi è facile concludere con i nostri avi, i romani: “In mezzo sta la virtù!” Credo però che dovranno passare forse secoli o millenni perché riusciamo a trovare il giusto equilibrio. Nel frattempo prego perché la Fiat e la Fiom raggiungano almeno un compromesso!

Le parole non dette

Recentemente la televisione ha mandato in onda un film che mi ero proposto di vedere, ma che poi – non so per quale motivo – mi sono lasciato scappare. La suora, che l’ha visto, m’ha detto che era molto bello. Io però sono stato attratto dal titolo che accennava ad un tema che il mio ministero specifico mi sollecita ad affrontare personalmente per parlarne ai fedeli che partecipano al commiato che si celebra nella mia chiesa tra i cipressi.

Il titolo che mi ha incuriosito era questo: “Le parole non dette”. Questo argomento è sempre stato per me un problema di scottante attualità, perché essendo di carattere riservato, tinto di fondamentale timidezza e forse di un pizzico di poca propensione a manifestare i miei sentimenti, finisco per non dire quasi mai quelle parole di affetto e di tenerezza che butterebbero un ponte levatoio nei riguardi del prossimo con cui vivo o che comunque incontro e faciliterebbero quella comunione calda e profonda con le persone con le quali condivido la mia vita.

Questo problema è stato poi quasi esasperato dalla lettura di una serie di considerazioni di un poeta latino-americano, colpito da tumore, il quale scrive: “Se questo fosse l’ultimo giorno della mia vita, direi alle persone che mi sono care ….” e giù una serie di parole tenere e care.

Quando prendo la parola durante i funerali, spesso ripeto: «Avverto che voi chiedete cuore e parole per dire al vostro congiunto che vi lascia “grazie, ti voglio bene, ti chiedo perdono, ti debbo molto” ed ogni volta mi pare di coinvolgere e di dare voce a sentimenti non manifestati che costituiscono motivo di rimpianto e perfino di rimorso.

E’ da tanto che mi riprometto di dire le parole che sarebbe bello dire, che farebbero felici le persone alle quali sarebbero rivolte, ma che farebbero pure molto felici anche chi le dice. Al funerale però questo suscita solamente rimpianto, spero tuttavia che queste riflessioni, fatte a voce alta, aiutino me e i miei fedeli a pronunciarle con più frequenza e con più calore nei tempi nei quali è possibile dirle.

Uno dei fiori all’occhiello del don Vecchi ha 96 anni e molto da insegnare

Il primo sabato del mese vado sempre a portare la comunione ad una mia coinquilina del “don Vecchi”. Questa signora porta bene i suoi novantasei anni; un po’ lenta nei movimenti perché “robustina”, ma se ci vedesse un po’ di più potremmo dire che sta bene! Vive da parecchi anni con grande serenità nel suo appartamentino, che s’affaccia sul grande prato verde di viale don Sturzo.

Una volta fatta la comunione e recitate assieme le principali preghiere della nostra fede, mi siedo a conversare un po’ con lei. Mi racconta della sua vita, delle figlie che le vogliono tanto bene e la vengono spesso a visitare, di un mondo di nipoti, pronipoti ed assimilati; è felice perché si sente tanto amata e le pare di vivere da regina nel suo piccolo regno fatto della cucina-soggiorno, della stanza da letto, del bagno e di un bel terrazzino nel quale cura con infinito amore le sue piante.

Non esce quasi mai perché vede solo qualche penombra ed ha paura, ma nonostante questo mi dice che passa con tanta serenità le sue giornate: un po’ riordina la casa, un po’ prega, un po’ segue soprattutto il parlato della televisione e poi ascolta la radio durante la notte.

Credo che questa vecchia donna abbia veramente tutta la felicità possibile a questo mondo e relativa ai suoi anni. Da tanto tempo io la ritengo un fiore all’occhiello del “don Vecchi” ed un sicuro punto di riferimento nel proporre il modello degli alloggi protetti con assoluta convinzione.

L’ultima volta che sono andato da lei mi ha raccontato della sua infanzia, passata in una vecchia casa tra i campi della Bissuola. E’ rimasta orfana ancora bambina, da poco finita la prima guerra mondiale, assieme ad altri cinque fratelli più piccoli di lei. Andò a vivere con una zia, anche lei con sei figli, che è morta anch’essa un mese dopo la sua sorella. Alla nonna, in 30 giorni, sono rimasti 12 bambini piccoli da crescere, oltre il dover badare alle galline e ai campi.

La mia inquilina mi parla sempre con venerazione e riconoscenza infinita di questa nonna che ha cresciuto questa tribù di bambini, passando loro valori e coraggio di vivere, senza aver fatto corsi di psicologia.

La “nipotina orfana” del dopoguerra ha 96 anni e vive ancora appoggiandosi a quei sani principi che la nonna, pur in situazioni impossibili, le passò con sicurezza e amore. Ogni volta che questa creatura mi parla d’altri tempi, mi verrebbe voglia, se ne avessi la possibilità, di offrirle una laurea honoris causa ed una cattedra all’università di pedagogia, alla cui frequenza obbligherei tutte le ragazze della nostra città.

La bellissima testimonianza di padre Bianchi

Ho appena terminato di leggere l’ultimo volume di Enzo Bianchi, fondatore e priore della Comunità monastica di Bose. Ho letto con tanto piacere e, spero, con profitto, questo volume in cui ben si coniugano una calda umanità ed un apprezzamento delle cose buone della vita con una capacità di scoprire in esse una valenza profondamente spirituale.

Non è frequente scoprire questo connubio armonioso perché l’ascetica che si rifà al passato, che spesso viaggia nella stratosfera della vita, è incapace di dialogare con la gente comune di questo nostro mondo. Sentire un monaco che s’incanta e gode della terra in cui vive, accetta la gente con la propria umanità traballante e povera di valori culturali ed ascetici, cogliendone pur tuttavia gli aspetti positivi, un monaco che assapora con gusto un buon bicchiere di grignolino, non è cosa che si incontra tutti i giorni.

Ho provato gran piacere nello scoprire che il dialogo tra lo spirito e la vita, Dio e il mondo, non solamente sono ancora possibili, ma che ci sono movimenti e comunità religiose per nulla integraliste ed in rottura con la mentalità e la società dei nostri giorni, che stanno realizzando tutto questo con grande spontaneità, convinzione e naturalezza.

Nelle ultime pagine del volume mi è parso più che mai di cogliere la particolare ricchezza spirituale di questo monaco, atipico dai cliché tradizionali, nella narrazione di un colloquio con un vecchio contadino della sua terra. L’incontro avviene tra le vigne, mentre il contadino sta potando le viti, e si conclude nella cascina con l’offerta di un bicchiere, offerta quanto mai gradita all’uomo di fede, che a sua volta regala una copia del Vangelo all’uomo della terra. L’anno dopo padre Bianchi ritorna e il vecchio gli confida che il “libretto” che lui gli aveva donato gli era piaciuto e aveva sentito Cristo vicino che l’aiutava ad un approccio più ricco e più “spirituale” con il suo lavorare nei campi.

Padre Bianchi confessa a sua volta come la testimonianza del contadino abbia aiutato lui stesso a leggere il Vangelo da un’angolatura più “terrestre”, perché s’accorge che Gesù parla di 31 tipi di piante diverse e 29 specie di animali, facendo concludere che Gesù non solo abbraccia e si immedesima nell’uomo, ma si cala completamente dentro il “mondo vero”, quello del quotidiano e della normalità del vivere.

Scoprire tutto questo non è da poco, perché accorcia le distanze tra lo spirito e la materia, e soprattutto ci fa capire che con l’incarnazione Dio s’immerge totalmente nel cuore dell’uomo e nel suo habitat esistenziale.

Questi preti lontani dalla gente…

«Don Armando, le sarei grato se venisse dalla mamma perché ormai siamo alla fine». Era la voce di uno di quei tantissimi membri delle nostre comunità parrocchiali, dei quali i parroci ignorano perfino l’esistenza.

Mi dicono che il nostro Patriarca perori la presenza della Chiesa nel territorio e in tutte le realtà in cui l’uomo di oggi è impegnato. Io condivido fino in fondo questa visione della pastorale, ma purtroppo il presidio parrocchiale sul territorio è pressoché inesistente.

Ho scritto in passato di un mio collaboratore che mi ha chiesto che, seppur in maniera clandestina, andassi a dare una benedizione alla sua famiglia. Mi confessò: «Sono 25 anni che abito in questa strada, qui sono nati dei bambini, sono morte delle persone che vi abitavano, si sono sposati dei giovani, ma in 25 anni mai un prete vi ha messo piede, lei è il primo!»

I preti d’oggi sono certamente più preparati di quelli del passato, sono più informati e soprattutto i più giovani sanno usare con disinvoltura l’informatica, però sono assenti dalla vita dei battezzati “normali”. Sono ormai mosche bianche i parroci che visitano almeno una volta all’anno le famiglie della loro parrocchia.

Monsignor Da Villa, mio vecchio parroco, mi diceva che molti preti impiegano troppo del loro tempo a “lucidare i pomoli” delle porte, pomoli che sono già lustri. A qualcuno danno “troppo” e a molti altri “nulla”.

Ci accordammo con quel signore che sarei andato dalla mamma appena celebrata la messa del pomeriggio. Arrivai tardi, la mamma era morta da circa un’ora. Fortunatamente per me le avevo portato la comunione un paio di giorni prima e mi aveva lasciato chiedendomi che mi unissi a lei per chiedere al Signore che la venisse a prendere. Il Signore l’ha ascoltata! Una vicina di casa precedentemente mi aveva avvisato che da due anni era ammalata e che sarebbe stata contenta di ricevere il Signore. E io ci ero andato, sempre da “clandestino”. Ma questa esperienza mi conferma che la pastorale moderna ha più bisogno di concretezza che di tante chiacchiere sul sesso degli angeli!

La Fede

Non è raro che di fronte ad una prova seria o ad un momento difficile della vita, al mio tentativo di aiutare chi ne è colpito, ad inquadrare in una cornice di speranza e di fiducia nella paternità di Dio il suo dramma, qualcuno mi risponda: «E’ facile per lei, perché ha la fede!» Per certuni pare che la fede sia una prerogativa riservata solamente ai sacerdoti e alle suore, ma soprattutto che la fede sia un faro che illumina la realtà a pieno giorno ed infonda una forza capace di superare ogni ostacolo.

Magari fosse così! Innanzitutto è dovere precisare che la fede è un dono per tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero e con umiltà, ma poi essa più che un faro che abbaglia è una luce che balugina e che con fatica ti indica una strada. Rimane all’uomo, usando di tutte le risorse di cui il Signore lo ha fornito, il compito di aprirsi il cammino tra le mille difficoltà. Per nessuno la fede sostituisce la propria razionalità e le proprie opzioni.

Ricordo un dramma di Cesbron che immagina che a santa Teresina di Lisieux il tentatore si presenti in veste di un vecchio ed incallito razionalista che le insinua che la sua è stata solamente una illusione che l’ha condotta a sprecare la sua vita per un ideale inesistente.

Il drammaturgo francese riesce a trasmettere al lettore l’angoscia e il tormento mortale della piccola santa, la quale finalmente si rappacifica abbandonandosi fiduciosamente tra le braccia del Signore.

Pensavo a questo problema leggendo il dubbio di Giovanni Battista in carcere. Ormai certo che la sua fine è prossima – lui che aveva scoperto ed indicato pubblicamente il Messia – di fronte alla morte, roso da un comprensibile dubbio, manda i suoi discepoli da Gesù per domandargli: «Sei tu quello che doveva venire o ne dobbiamo aspettare un altro?» E questo era il precursore, colui che Dio aveva destinato a preparare la strada al Signore!

La fede rimane un dono meraviglioso ed impagabile, ma non bisogna illuderci che essa ci liberi dal dubbio e dalla tentazione e soprattutto si sostituisca alla nostra scelta e alla nostra volontà.

La carità è la via maestra per ogni tentativo di rievangelizzazione

A questo mondo non si finisce mai di fare nuove esperienze e di scoprire i lati in penombra della vita.

Qualche domenica fa andai, come al solito, in cimitero, per riordinare la vecchia chiesa. Mentre ripulivo le ceriere entrò un gruppetto di persone per una preghiera. Uscendo, la signora relativamente giovane mi domandò: «E’ lei, don Armando?» Avuto il mio sì, soggiunse, inaspettatamente per me: «Permetta che le baci la mano, perché desidero toccare la mano di un prete che si impegna per la carità!»

Rimasi evidentemente imbarazzato e senza parole, perché a persone come Madre Teresa di Calcutta, al camilliano fratel Ettore da Milano o a Madre Elvira dei drogati penso che sia giusto baciare la mano, non certamente ad un povero diavolo come me, che mi arrabatto per far qualcosa per gli altri, com’è doveroso per ogni cristiano e soprattutto per ogni prete.

Incuriosito dal gesto e soprattutto dalle parole, volli saperne un po’ di più e chiesi come mai mi conoscesse. Venne fuori una delle solite storie. Una sua anziana cugina era rimasta sola in una bicocca di un paesino del Friuli ormai completamente spopolato. Qualcuno venne a sapere del “don Vecchi” di Marghera, s’è fatta la domanda, fu accolta. Ma di tutto questo procedimento io non sapevo proprio nulla e quindi i miei meriti sono del tutto marginali.

Il gesto però mi confermò ancora la mia convinzione che la gente del nostro tempo riconosce i cristiani dalla carità che tentano di praticare. Il biglietto da visita e le credenziali del messaggio cristiano rimangono: la solidarietà – di fronte ad essa non ci sono staccionate, paracarri o rifiuti – e la carità, che apre ogni porta ed è questa la via maestra per ogni tentativo di rievangelizzazione.

La solidarietà nasce dalla condivisione delle situazioni

Dovrei averlo capito almeno cinquant’anni fa, ma purtroppo solamente in questi ultimi decenni ho compreso che la forma più alta e più vera della solidarietà è rappresentata dalla condivisione. Credo che ben difficilmente si può comprendere il disagio, la frustrazione e la solitudine umana se non calandosi totalmente dentro alla condizione esistenziale di chi si vuol aiutare. Mi sorprende e mi fa arrossire tutto questo perché questa verità è stata testimoniata in maniera veramente esemplare da Gesù ben tanto tempo fa.

In occasione della celebrazione del battesimo di Gesù, ho tentato di passare questo concetto evangelico ai fedeli che gremivano la mia chiesa prefabbricata nel nostro cimitero. Gesù chiede a Giovanni il battesimo, evidentemente perché vuol condividere con i suoi conterranei la consapevolezza che il peccato è fonte del disagio sociale e della povertà di qualità di vita a livello personale. Verità che poi Gesù avrebbe ribadito durante la passione, caricandosi delle colpe dell’umanità, volendo purificarla mediante la via dolorosa.

Mi ha aperto gli occhi su questa verità la testimonianza di Charles de Foucauld, quando dice che non si può comprendere ed aiutare i poveri se non calandosi dentro la loro condizione esistenziale e vivendo “come loro”.

Ricordo al proposito tre giovani donne appartenenti alla comunità fondata da questo ex generale di Francia convertito alla fede, le quali, avendo ubicato la loro roulotte in via Vallenari nel campo degli zingari, vennero a chiedermi se potevo aiutarle a trovare un lavoro per poter sopravvivere. Io cercai un lavoro compatibile con la loro condizione di religiose. Esse rifiutarono, dicendosi disposte ad andare a lavare le scale perché ai poveri sono riservati questi mestieri e loro volevano vivere da povere per comprendere e testimoniare la loro carità.

Quando si trattò di scegliere dove abitare dopo il mio pensionamento, in forza di questa “scoperta”, non esitai un istante nel scegliere un minialloggio al “don Vecchi”, uguale a quelli che sono destinati ad avere gli anziani poveri. Il condividere ti permette di parlare, di indicare orizzonti di speranza, di acquisire una certa autorità presso i coetanei.

Chi non vive almeno con sobrietà non può illudersi di amare i poveri, anche se destina loro, come pare faccia Berlusconi, milioni di euro!

Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza

In qualche altra occasione ho manifestato il mio rifiuto di qualche segno di ascesi spirituale e di misticismo proprie dei secoli passati, preferendo ad essi una spiritualità fresca, sorridente, calda ed umana. Mi pare che tutto questo debba essere condivisibile senza troppa fatica.

Ricordo che durante un ritiro spirituale tenutosi nella chiesa dei Cappuccini di Mestre, mi capitò di essere seduto di fronte ad una tela di notevoli dimensioni del sei-settecento, in cui era ritratto un frate, dalle occhiaie scavate, che teneva in mano un teschio, probabilmente meditando su come “passa la gloria di questo mondo”. Preferisco di gran lunga il giovane scout che di fronte al manifesto di un’attrice affascinante, dai capelli platinati e dalle labbra carnose, pensa ai drammi che certamente questa donna, piena di fascino, deve avere nel suo animo ed entra perciò in una chiesa a dire una preghiera per la sua salvezza.

L’altro giorno mi è capitato di dare l’ultima benedizione ad un medico settantenne della nostra città, che da venticinque anni soffriva di sclerosi multipla e da dodici anni era ridotto a letto. Il suo corpo era distrutto e deforme, privo di ogni armonia, sembrava veramente un disegno di Picasso. Accanto c’era la moglie e le due giovani figlie. Mi venne da pensare ai sogni, all’amore, ai progetti professionali di questo fratello: tutto infranto miseramente!

Ho passato tutta la messa di commiato nel tentativo di trasfigurare, alla luce della vita nuova, quel corpo, per tentare di ridonare una immagine viva e bella per i suoi cari. Ringrazio di tutto cuore il buon Dio per la bontà con cui mi ha trattato finora, nonostante le mie miserie e i miei guai. I nostri vecchi hanno ragione nel dire che prima di lagnarci dobbiamo guardarci indietro per vedere chi sta peggio di noi. Anche il dramma dell’uomo può essere un invito alla riflessione e alla saggezza.

il dono del vivere quotidiano preparato dal Signore per noi

Qualche tempo fa ho letto una considerazione di un uomo di Dio che affermava che, ogni volta che incontri una persona, di certo hai il dovere di darle qualcosa, come, nel contempo, hai sempre la possibilità di ricevere da lei qualcosa di positivo. Questa affermazione mi ha convinto: a livello teorico perché se è vero che la Divina Provvidenza ha stabilito delle leggi per cui tutto il progetto della vita e del cosmo funziona a dovere perché ogni forza ha il suo campo preciso e correlato alle altre leggi, così deve valere anche e soprattutto per i rapporti umani; a livello della pratica perché ho constatato personalmente che ogni volta che incontro una persona il rapporto diventa sempre positivo e gratificante.

Qualche giorno fa, quasi a complemento di questo, ho letto un’altra considerazione fatta da una persona quanto mai razionale e nel contempo mistica, M. Delbrel. Questa creatura, vissuta nell’ultimo scorcio del secolo scorso in Francia e passata dall’ateismo più radicale alla militanza politica di sinistra del mondo operaio, è arrivata, attraverso un cammino faticoso e ricco di esperienze esistenziali, alla fede in Cristo e ad una forma di misticismo radicale quanto lo era stato il suo ateismo, finendo per crearsi una minuscola comunità impegnata e testimoniare la carità nei più squallidi sobborghi di Parigi. Questa anima forte e coraggiosa ha scritto:

“Ogni mattina è una giornata intera che riceviamo dalle mani di Dio: Dio ci dà una giornata da Lui stesso preparata per noi. Non vi è nulla di troppo e nulla di `non abbastanza’, nulla di indifferente e nulla di inutile. E’ un capolavoro di giornata che viene a chiederci di essere vissuta.
Noi la guardiamo come una pagina d’agenda, segnata d’una cifra e d’un mese. Noi la trattiamo alla leggera come un foglio di carta. Se potessimo frugare il mondo e vedere questo giorno elaborarsi e nascere dal fondo dei secoli, comprenderemmo il valore di un solo giorno umano”.

Non appena apro gli occhi, un po’ frastornato al suono della sveglia alle 5,30 di ogni mattina e mi si presentano davanti, come in una rapida videata, tutti gli incontri, gli impegni e i problemi che mi aspettano, dopo la lettura attenta di questo testo, mi dico: “Forza, sta sereno, perché tutto quello che ti aspetti ti è stato preparato da un Padre saggio, intelligente e soprattutto che ti vuol bene!” Apro quindi la porta del mio minuscolo alloggio del “don Vecchi” e letteralmente “mi tuffo” a vivere il giorno preparato con tanta attenzione ed amore per me.

Quando riesco ad operare alla luce di questa splendida verità, arrivo a sera senza ammaccature, rimpianti o sconforti.

La Befana è andata anche da un vecchio prete in pensione!

Quest’anno ho fatto più che mai fatica per cogliere, come nei tempi lontani, la poesia e l’incanto del Natale. Per scelta, da tanti anni rifiuto il Natale-magico che, come per incanto, dovrebbe creare nel mondo una situazione idilliaca: ciò perché esso è evasione dalla realtà e mistificazione del “mistero” evangelico e perciò ad esso preferisco l’annuncio che Dio continua a colloquiare con le sue creature, ci è vicino e non disdegna di camminare con noi. Con ciò non rinuncio, anzi desidero vivere ancora l’incanto del presepio, dell’albero di Natale, della Befana e delle pastorali delle zampogne.

Forse la mia è fatica sprecata, perché certe sensazioni sono legate all’infanzia, al candore dell’anima, realtà per me lontane e difficilmente recuperabili. Però, anche senza troppa speranza, ci ho tentato. Anche quest’anno mi sono soffermato con curiosità e nostalgia a guardare le carrellate dei telegiornali, per vedere i magazzini ove le befane del terzo millennio si sono rifornite per riempire le calze dei nostri bambini, meravigliandomi e quasi protestando perché la befana della mia infanzia aveva poca fantasia e soprattutto era tanto parsimoniosa!

Anche quest’anno ho attaccato, fuori della porta – perché il mio piccolo alloggio del “don Vecchi” non ha camino, la calza, per poter vedere quanti dolci e quanto carbone le “befane del don Vecchi” m’avrebbero portato. Ebbene, la befana s’è fatta viva, nonostante la mia veneranda età: mi ha messo una busta bianca sotto la porta con cento euro, firmandosi “La befana”. Mentre aprivo questa piccola busta bianca, recuperando per un momento l’incanto e la sorpresa di tempi ormai tanto lontani, ho compreso che essa era stata con me più cara e più generosa di sempre, perché durante il duemilaedieci m’ha messo nella calza più di mezzo milione di euro!

Dopo questa esperienza mi sono detto che la mia fede nella befana non verrà mai meno, anche se vivessi mille anni.

Non bisogna mai guardare le cose da un solo punto di vista

Una delle tentazioni di sempre, soprattutto delle persone di modesta cultura storica e di intelligenza normale, è quella di voler semplificare gli avvenimenti e di ridurli a colori uniformi senza tante sfumature.

La gente, abbastanza facilmente, legge solamente un giornale, perché esso presenta fatti ed avvenimenti colti da una sola angolatura e offre una lettura semplificata di ogni problema. Questo fa risparmiare fatica ed induce a schierarsi a favore di una tesi o di un personaggio, escludendo così l’impegno di valutare e di tener conto delle tesi sostenute da altri. Questo vale per la politica, l’economia, la religione, la cultura.

Il popolo ama d’istinto le tinte forti ed unite e non ama sottilizzare sui mezzi toni e sulle sfumature. Gli imbonitori e chi vuole prevalere tengono conto di questa inclinazione e perciò semplifica la realtà della vita che è invece sempre complessa.

Ho imparato da tempo a guardarmi bene dal leggere un solo giornale, ascoltare una sola campana, a non tener conto del parere e delle argomentazioni del vero o presunto avversario. La verità, il bene, la giustizia, la pace, hanno sempre cammini tortuosi e faticosi, il rifugiarsi in una setta, in un partito, in una Chiesa è sempre pericoloso e ben difficilmente fa approdare a risultati positivi.

Ho conosciuto due giovani fratelli imprenditori i quali, ogni volta che si trattava di fare una scelta o di affrontare un progetto, si mettevano al tavolo e, per scelta, uno difendeva e l’altro faceva l’avvocato del diavolo facendo le pulci a quel progetto.

E’ faticoso, ma credo che sia quanto mai opportuno che mi metta nei panni di chi non la pensa come me per fare delle scelte oneste e positive.

RAI Storia, la televisione che apre gli occhi

Il digitale televisivo, sognato e lungamente promesso, è finalmente arrivato anche da noi. Io, come tanti anziani, non ne ho ancora preso completa dimestichezza. Forse mi trovavo meglio con i soliti canali ormai consolidati; ora finisco per “navigare” anch’io fra un’emittente ed un’altra, talvolta tentando perfino di seguirne due contemporaneamente, tante sono le proposte. Dove abito, poi, alcuni palazzoni oscurano il segnale, motivo per cui non ho ancora scoperto tutta l’offerta televisiva del digitale, ma quello che ho scoperto mi è più che sufficiente.

Seguo, come sempre, dopo cena, i canali “canonici” della Rai e talvolta di Telechiara, però confesso che c’è un nuovo canale che si è imposto alla mia attenzione e che mi sta interessando sempre di più. Qualcuno, conoscendo i miei interessi, mi ha informato che il canale 54, “Rai storia”, trasmette costantemente servizi di avvenimenti che hanno coinvolto l’umanità. Sono parecchie le sere che, pur non sapendo quello che c’è in programma, finisco per seguire inchieste, documentari e quant’altro, argomenti dei quali avevo qualche notizia, ma che ora mi vengono inquadrati con più precisione e con dovizia di filmati.

Da quando è arrivato il digitale non finisco mai di scoprire i retroscena del fascismo, del nazismo e del comunismo, movimenti politici che hanno tristemente caratterizzato e dato volto al novecento.

L’assurdità e l’orrore di questi movimenti politici che hanno provocato milioni di vittime e rovine incalcolabili, mi sta rendendo ogni giorno più guardingo e sospettoso nei riguardi di chi oggi è alla ribalta dell’opinione pubblica e potrebbe determinare tragedie simili a quelle del recente passato.

Il diario di questo vecchio prete

L’altro ieri ho consegnato a mio nipote, funzionario di una grossa azienda nel settore dei mobili e dell’arredo per la casa, le ultime cinque copie del mio “diario” del 2009, uscito col titolo “In riva al fiume”.

«Zio, visto il successo del tuo volume e dell’interesse con cui alcuni miei colleghi l’hanno letto, mi piacerebbe regalarlo ai dirigenti della mia azienda, che ti conoscono in qualche modo per i tuoi interventi sulla stampa locale».

Le cinque copie erano le ultime delle cinquecento che i miei magnifici collaboratori hanno stampato mediante la tipografia artigianale de “L’incontro”. Quest’anno sono riusciti a far uscire il volume prima del termine del 2010, cosicché esso è diventato il regalo di Natale per altrettanti concittadini, in qualche modo interessati all’opera e alle idee di questo vecchio prete.

Cinquecento copie non sono un granché nell’abbondante produzione libraria della nostra città, però cinquecento copie scritte da un prete, e da un prete ultraottantenne, su argomenti prevalentemente religiosi, e da un prete già in pensione che non ha mai fatto parte della gota della diocesi, possono destare una qualche sorpresa ed una certa meraviglia.

Mi sono chiesto tante volte il perché del relativo successo de “L’incontro”, con la sua tiratura di cinquemila copie settimanali, pur avendo una veste tipografica modesta ed un gruppo redazionale sparuto.

Penso che, tutto sommato, l’opinione pubblica stia premiando l’onestà della ricerca, la passione per l’uomo, la presa di posizione libera, senza presunzioni e senza complessi, l’umiltà del riconoscere i propri limiti e soprattutto il sogno di una religione più aderente alle istanze dell’uomo d’oggi e almeno desiderosa di rifarsi alla “sorgente”.

Io spero proprio di far del bene ai miei concittadini, o perlomeno di aiutarli a porsi domande e risolvere problemi, non dando nulla per scontato.

Consuntivi diocesani

La nostra diocesi pubblicava una rivista bimestrale, che ora però è ridotta ad uscire solamente una volta all’anno. Questa rivista riporta prediche del Papa, del Patriarca, interventi del vescovo in diverse occasioni, necrologi e materiale del genere.

Di solito sono interventi datati, che la stampa ha già riassunto e che perciò destano, normalmente, poco interesse. Le due uniche rubriche alle quali, penso, i sacerdoti ai quali la rivista è riservata siano interessati, sono le nomine, gli incarichi particolari all’interno della diocesi e i bilanci finanziari.

Anch’io quest’anno, prima di disfarmi del malloppo assai consistente della rivista, mi sono soffermato con curiosità su tali rubriche. La prima mi ha riempito di un pizzico di sorpresa e di orgoglio, constatando l’articolazione complessa e assai numerosa degli organismi, dei comitati, degli uffici, delle commissioni e degli enti ecclesiastici e della marea di consiglieri che ne fanno parte. Vivendo ormai praticamente ai margini di questi meccanismi ecclesiali, mi sono un po’ meravigliato per la loro consistenza numerica e per come io non abbia sentito l’efficacia a livello della presenza e della proposta cristiana, per quanto riguarda la rievangelizzazione e l’impegno missionario nei riguardi dei non credenti e dei numerosissimi extracomumitari appartenenti ad altre religioni!

La seconda rubrica poi, che verteva sull’impiego di somme abbastanza consistenti che la diocesi riceve ed eroga a favore di enti di beneficenza e di strutture ecclesiastiche, mi ha sollevato da un grosso scrupolo che pesava sulla mia coscienza. Dietro enormi mie insistenze, in questi ultimi anni ho ottenuto 115.000 euro per l’avvio dei Centri “don Vecchi” di Marghera e di Campalto, Centri che godono ottima salute nel campo amministrativo, che non hanno debiti di sorta e funzionano in maniera ottimale. Ora però mi accorgo, leggendo suddetto bilancio, che altri enti che zoppicano da ogni lato, ricevevano ogni anno, pacificamente, somme altrettanto significative per appianare bilanci costantemente in rosso.

Quest’anno ho pagato più volentieri del solito l’abbonamento di 40 euro a questa rivista, alla quale mi abbonano d’ufficio, perché mi ha aiutato ad avere una visione più completa ed obiettiva della realtà religiosa in cui vivo e m’ha liberato dallo scrupolo di essere in debito verso la diocesi, mentre ora apprendo che sono abbondantemente creditore.