“La governante”

Nota: questo commento è stato scritto ai primi di ottobre. La signorina Rita è mancata poche settimane dopo.

Un paio di giorni fa sono stato al “Nazaret” di Zelarino a far visita alla mia vecchia perpetua. In verità in parrocchia io la presentavo sempre come la mia “governante”, sia perché mi pareva un termine più elegante per indicare la persona che non solo accudiva, ma faceva da anfitrione in casa, sia anche perché Rita (così si chiamava la mia più diretta collaboratrice a livello di canonica), per indole era portata a gestire le cose con un piglio deciso che non permetteva deroghe.

Trovai Rita in carrozzina, nel vasto soggiorno della casa di riposo per non autosufficienti gestita dall’Opera Santa Maria della Carità, in una sala ordinata e pulita ed abitata da sei, sette donne anziane pure in carrozzella, solitaria e misteriosa. Della Rita di un tempo non ho trovato che gli occhi lucidi e luminosi ed un sorriso appena accennato, mentre la voce era talmente flebile che non riuscii ad afferrare neppure una parola.

Questo incontro mesto e rassegnato mi fece tornare in mente quando, più di quarant’anni fa, andai nel suo appartamentino in Riva dell’Osellino che le serviva come casa e come laboratorio da sarta e le chiesi se voleva venire con me nella parrocchia a Carpenedo. Mi avevano appena chiesto di fare il parroco di quella parrocchia. Lei, che era stata presidente della gioventù femminile dell’Azione Cattolica di Santo Stefano a Venezia, mi disse subito di si. Io non possedevo allora neppure un cucchiaio o un bicchiere; caricammo le sue povere masserizie su un furgoncino della San Vincenzo ed aprimmo casa nella canonica grande ma disastrata, tanto che la cucina aveva per tetto un telo di nylon color verde.

Rita aveva appena 50 anni, io 42. E ci buttammo a capofitto in quell’impresa pressoché impossibile, nei tempi perfidi ma esaltanti della contestazione. I compiti che lei doveva svolgere erano pressoché universali: fare le pulizie, fare da segretaria, telefonista, arredatrice, sorvegliante dei ragazzi, organizzatrice dei volontari a servizio in Patronato, al Ritrovo anziani, all’asilo, alla Malga dei Faggi, a Villa Flangini e qualsiasi altra impresa pastorale. Ci fu persino un tempo in cui funzionò anche da tecnico a Radiocarpini.

Io, onestamente, non mi sono mai risparmiato, ma neppure a Rita ho risparmiato qualcosa. Per dare un compenso per questa molteplicità di servizi ho sempre delegato il buon Dio. Non so che cosa Egli le abbia dato o le darà, ma io di certo nulla, se non pretese. Alla fine della mia carriera parrocchiale le ho offerto al “don Vecchi”, a pagamento, un appartamentino di 30 metri quadri.

Rita, avvertendo che non avevo più bisogno di lei, compiuti gli ottant’anni e fino ai novanta, si è impegnata ad aiutare don Paolo presso la parrocchia di San Nicolò dei Mendicoli a Venezia. Ora era lì, un mucchietto di ossa, a ricordarmi tanti anni intensi ed agitati, vissuti per servire la Chiesa ed un parroco esigente, ad attendere ora l’incontro con quel Signore che di certo le darà il saldo per un servizio svolto con estrema generosità.

Mi congedai con una carezza leggera sui capelli; non le diedi neppure un bacio perché tra noi c’è sempre stato tanto pudore da non permetterci neppure il più delicato segno di affetto. Un tempo penso fosse così per tutti i vecchi parroci e le loro perpetue.

04.10.2013

Gli italiani alla scuola di Barbiana

Monsignor Vecchi è stato un insegnante di storia della filosofia, ma soprattutto di filosofia scolastica. La scolastica è la filosofia che ha come pilastro portante Tommaso d’Aquino e come teorema di fondo che l’uomo non solo tende, ma può raggiungere la verità e quindi arrivare alla scoperta dell’esistenza di Dio, che fede e ragione sono complementari e soprattutto che vi sono delle verità certe ed assolute.

Il mio vecchio insegnante, durante le lezioni di questa materia, che è rimasta l’ossatura di tutto il mio impianto di pensiero, spesso insisteva sul nominalismo, ossia sull’uso di termini e di affermazioni teoriche che denunciano una certa verità, ma che dietro hanno invece sostanza ben diversa. E’ stato questo un concetto che mi ha aiutato molto a non lasciarmi incantare da certe parole “magiche” le quali, in realtà, hanno dei contenuti ben diversi da quello che il termine fa apparire.

Pittigrilli, un autore ora dimenticato, ma che a me ha fatto del bene, diceva con un’altra immagine: “Vi sono dei paraventi pieni di fascino, che però nascondono la peggior specie di sozzure e quanto più questi paraventi sono sublimi, tanto più sono tristi, deludenti e spesso infami le realtà che nascondono”. Quanto sono belle e piene di fascino le parole: amore, giustizia, democrazia, Patria, libertà ed altre ancora, e quanti delitti, soprusi, soperchierie, egoismi, sopraffazioni, arroganze esse hanno nascosto dietro di loro.

I peggiori figuri dell’umanità da sempre si sono serviti di queste parole per nascondere la loro brama di potere, il loro despotismo. Perfino nella Chiesa vi sono ancora parole-paravento, come ad esempio: obbedienza, sacralità, proselitismo, autorità, che però nascondono qualcosa di certamente meno nobile e meno evangelico.

Sto rileggendo, dopo molti anni, “La lettera ai giudici” di don Lorenzo Milani, a difesa dell’obiezione di coscienza, ma soprattutto tutta tesa a mettere a nudo certe posizioni ufficiali recepite dalla tradizione come valori sublimi ed assoluti, mentre in realtà sono bolle iridate che alla puntura di uno spillo di un prete intelligente e libero si dissolvono nel nulla.

Mentre leggo, con una certa voluttà, le argomentazioni che don Milani fa ai giudici, mi ripeto, quasi ad ogni riga: “L’Italia avrebbe assoluta necessità del `maestro di Barbiana’, che insegnava 14 ore al giorno facendo riferimento alla Bibbia, alla costituzione, ma soprattutto alla coscienza.

02.09.2013

Sono finalmente con la Bonino

Dai radicali mi divide l’oceano; pur ammirando la loro intraprendenza, la determinazione, l’intelligenza e lo spirito di sacrificio con le quali portano avanti le loro tesi, rifiuto in maniera categorica certo spirito anticattolico e libertario che li anima. Mentre sono con loro sul problema della giustizia, delle carceri, degli aiuti al terzo mondo, sul diritto alla libertà di coscienza che lo Stato deve garantire a tutti, sulla non violenza e su una certa economia di mercato pur mitigata dall’attenzione verso le classi più deboli. Detto questo, quando Letta ha scelto la Bonino come ministro degli esteri, sono stato contento perché lei è una donna preparata che poi non ha peli sulla lingua.

Da qualche giorno però la sto tenendo d’occhio particolarmente, di certo non per la sua avvenenza femminile, ma sul problema dell’intervento militare in Siria. Ancora una volta ho avuto modo di criticare la grandeur dei francesi e l’imperialismo atavico degli inglesi e sono veramente preoccupato per i tentennamenti di Obama il quale, nonostante le catastrofiche batoste che gli americani hanno subito in Vietnam, in Irak ed in Libia, sarebbe tentato di intervenite, pur mettendo in sicurezza i suoi soldati ma facendo piovere bombe e razzi sui poveri abitanti della Siria che di massacri e di rovine ne hanno avute e ne hanno al disopra di ogni possibile sopportazione.

Sto attento alle prese di posizione della Bonino, che penso voglia svicolare con il pretesto e la speranza che l’ONU non possa intervenire a motivo del veto dei russi.

Di certo mi sarebbe piaciuto che avesse detto fuori dai denti ai francesi, agli inglesi e agli americani: «Non contate su di noi, neppure per le basi che avete in Italia; noi siamo per la non violenza e per trovare ad ogni costo a tavolino e politicamente una soluzione per la tragedia siriana. Già me la sono legata al dito con Letta e il suo governo per la faccenda dei quindici miliardi di euro spesi per comperare i cacciabombardieri! Chi crede ancora nella forza delle armi appartiene al passato, alla barbarie, all’inciviltà! I nostri bambini non dovranno neppure più conoscere certi termini che non darebbero più corso nel nostro Paese, come: guerra, bombe, fucili!

E’ tristissimo sapere che i siriani si stanno scannando tra loro e stanno distruggendo le case della loro gente, però sarebbe ancora più triste se diventassimo, pure noi, gli artefici anche di un solo morto o della distruzione di una sola casa.

01.09.2013

Scalfari

Non leggo “Repubblica”, ma tre giorni fa, appena il quotidiano è arrivato in edicola, qualcuno s’è premurato di farmelo avere per indicarmi la “corrispondenza” tra Eugenio Scalfari e Papa Francesco.

Ho letto le due pagine che questo giornale di impronta laico-socialista vi ha dedicato con grande rilievo. Non sapevo dei due articoli con i quali Scalfari aveva interpellato il nuovo Papa ed ho letto prima il sunto che il giornale fa perché i lettori possano capire le risposte del Papa. Poi qualcuno me li ha tirati fuori da Internet, quindi ho avuto modo di conoscerli per intero.

Scalfari è stato il brillante giornalista di sempre e il laico che ne ostenta immancabilmente il distintivo. Non voglio qui soffermarmi sui contenuti delle due lettere di Scalfari e la risposta del Papa. Essi sono impregnati di cortesia, rispetto e soprattutto di affettuosa cordialità. Voglio soffermarmi invece su questo evento in linea con l’indirizzo pastorale del nuovo Papa che privilegia le persone ai princìpi e alle istituzioni, e di Scalfari che, nonostante le sue dichiarazioni formali, è un uomo in ricerca e, a parer mio, almeno con un piede, è quasi approdato sulla sponda della fede.

Già avevo capito, dalla lettura del volume che riporta i suoi dialoghi col cardinal Martini, questo suo bisogno di assoluto, ora ha avvertito che poteva continuarlo con Papa Francesco, perché lui è un uomo da Vangelo, che non solamente ha letto le parabole della pecora smarrita e del figliol prodigo, ma le vive nel suo quotidiano.

Di certo anche il vecchio Scalfari, pur impregnato di una cultura illuminista, arriverà alla casa del Padre perché è troppo intelligente e troppo onesto per non farlo.

Tantissimi anni fa ho conosciuto la vicenda simile di un altro brillante ed acuto giornalista che scriveva su “Epoca”, Augusto Guerriero, che si firmava con lo pseudonimo di Ricciardetto. Ricciardetto scriveva di politica, di costume, di cultura, ma spesso sembrava attratto profondamente, come Scalfari, dalle tematiche religiose. Ricordo un suo splendido articolo intitolato “Quesivi et non inveni”, ho cercato Dio, ma non l’ho trovato. Però venni a sapere che alla fine era approdato, anche formalmente, alla fede.

Scalfari, pur dichiarandosi ateo, già confessa che è fortemente interessato da Gesù di Nazaret e dal suo messaggio. Questi spiriti liberi, ma amanti della verità, a mio umile parere, fan già parte “dell’anima della Chiesa”, come si diceva un tempo, perché i contenuti profondi del loro pensiero sono del tutto conformi alla sostanza del messaggio di Gesù.

Per fortuna loro e nostra vi sono ancora nella Chiesa preti che la pensano come “il pastore della pecorella smarrita” o del padre del prodigo.

17.09.2013

Il governatore

Quando “RAI Storia” non trasmette qualcosa di interessante sono tentato di fare una scappatina sul canale 18 ove trasmette Rete Veneta. Su questo canale mi piace seguire la cronaca di Venezia, anche se quasi sempre è discorsiva, si interessa dei fatti del giorno dei quali hanno già parlato i quotidiani e raramente approfondisce, in maniera adeguata, i relativi problemi. Ma mi piace ancora di più la rubrica “Focus”, diretta da Bacialli, già direttore de “Il Gazzettino” ed ora responsabile di questa rete che mi pare si imponga sempre più all’attenzione della popolazione del Veneto.

Un paio di volte sono stato invitato anch’io a intervenire a “Focus”, una bella rubrica in cui i responsabili locali di enti pubblici o privati discutono su temi quanto mai interessanti riguardanti le problematiche del Triveneto.

Un altro paio di volte sono stato invitato, ma ho rifiutato perché gli studi di questa emittente sono a Treviso ed io mi perderei nel dedalo di strade che oggi sono più intricate di un labirinto per uno come me che annaspa per andare semplicemente a Spinea.

Domenica pomeriggio il direttore Bacialli ha fatto una lunghissima intervista al governatore del Veneto Luca Zaia. Devo ammettere che appena conoscevo questo amministratore; nel passato avevo tentato anche di ottenere un colloquio con lui, ma pare che sia inavvicinabile. Domenica l’ho ascoltato per più di un’ora con vero interesse. Si avvertiva che il sottofondo culturale era quello della Lega, ma fortunatamente, da quanto ho potuto capire, c’era il meglio del progetto e della politica della Lega.

Il primo argomento su cui ha insistito è stato quello di un vero federalismo in cui ogni regione abbia una certa autonomia che permetta di recepire e trovare risposte specifiche ed adeguate ai problemi d’ordine economico, culturale e sociale che riguardano il territorio, smettendola con l’assimilare regioni che hanno una cultura e prassi di vita assai diverse. Non mi è parso che tendesse alla “secessione”, anzi m’è parsa valida l’idea di pensare a Venezia come ad una “città-stato” con specificità particolari, mentre mi è sembrata più che razionale la bocciatura della città metropolitana, perché sarebbe ingiusto lasciar fuori altre città come Belluno, Vicenza o Verona.

Ho avvertito anche lo sforzo di mantener fuori dalle logiche della politica nazionale il governo della Regione che non pare avverta le diatribe in corso.

Così come m’è piaciuto il discorso schietto sulla gioventù che, secondo lui, deve imparare a rimboccarsi le maniche e non attendere la manna dal cielo.

Zaia m’è parso un buon parlatore e, se è vero quello che dicono – che risulta il miglior governatore del nostro Paese – penso che gli si possa dar credito su quello che ha detto e che sta facendo.

30.08.2013

L’uomo planetario

Sono a metà strada nella lettura di un importantissimo volume dello scolopio padre Ernesto Balducci. Questo intellettuale è una mia conoscenza di vecchia data. Ho cominciato a seguire fin dal suo inizio la bellissima rivista “Testimonianze” fondata da questo religioso fiorentino.

Una volta avevo un po’ più di tempo e di spazio, cosicché feci la raccolta completa della bella rivista, quanto mai interessante per i contenuti e bella ancora a livello grafico: aveva una copertina rossa con il titolo stampato in nero, l’impostazione grafica quanto mai elegante. Era una rivista di tendenza innovatrice, attenta al pensiero della sinistra politica e alle avanguardie cattoliche e coincideva con i miei orientamenti spirituali e culturali d’allora. Senonché padre Balducci continuò a spostarsi sempre più a sinistra, cosicché lo sentivo sempre più estraneo alla mia sensibilità religiosa e sociale. Gli scrissi una lettera dicendogli il mio pensiero e affermando che il mio contributo più onesto era di non rinnovare più il mio abbonamento. Così terminò la cosa.

Un paio di anni fa però scoprii un volume autobiografico “Fuori dal tempio” di un prete friulano, grande ammiratore di padre Ernesto Balducci, tanto che intitolò al suo nome una casa di accoglienza per profughi senza patria, erranti nel nostro Paese. Questo volume fece riemergere la cara e lontana “amicizia” e, neanche a farlo apposta, poco dopo qualcuno mi regalò il volume “L’uomo planetario” dello stesso Balducci: stesso colore di copertina e stessa impostazione grafica, pulita e lineare, però con dei contenuti che si muovono veramente per me troppo elevati.

Questo testo dello studioso fiorentino analizza le modifiche che il nuovo orientamento socio-politico e socio-economico producono sulla società attuale su cui si deve innestare il messaggio cristiano. Padre Balducci mette in guardia le varie Chiese cristiane, ma anche le altre religioni, dal grave e micidiale pericolo di tentare di immettere il messaggio religioso in un binario morto che non porta da nessuna parte o tentare di innestarlo su un albero ormai secco.

Queste grandi intuizioni a livello planetario devono evitare di sospingere il messaggio religioso verso delle ritualità sterili e fuori dal corso vero della storia e perciò privarlo di vita vera e feconda. Questa mi pare che sia la spina dorsale del discorso, che poi si articola e si innesta con delle ramificazioni particolari.

Concludo dicendo che mi pare d’aver capito che l’uomo di oggi non è assolutamente più quello descritto dai vecchi testi, perciò se pensiamo di potergli offrire il messaggio di Gesù, bisogna che lo conosciamo e impariamo la lingua nuova per potergli donare la “buona notizia”.

22.08.2013

Che Guevara in Vaticano

Ieri, in prima serata, Rai tre ha messo in onda uno splendido documentario su Papa Paolo VI. Il successore di Giovanni XXIII, Papa Roncalli, da un punto di vista umano è stato un papa sfortunato. Paolo sesto è arrivato proprio quando il “papa buono” aveva fatto saltare la diga che per molti anni ha ingrassato la Chiesa e, come per il Vajont, ha riversato una poderosa massa d’acqua nella valle, sommergendo tutto e tutti.

Senza nulla togliere ai meriti di Papa Giovanni, bisogna pur dire che ha lasciato al successore, Paolo sesto, una Chiesa quanto mai irrequieta che, destatasi da un sonno secolare, non sapeva che pesci prendere, che strade imboccare, tanto che il trambusto era quanto mai disordinato e preoccupante.

Molti anni fa ho letto un bellissimo volume, “Le chiavi pesanti” di Agosso, un giornalista intelligente e colto di Epoca, volume in cui è messo in luce il terribile dramma umano, spirituale ed ecclesiale di Papa Montini. Confesso che ho letteralmente pianto di fronte alla situazione drammatica di questo uomo di Dio.

Era un uomo intelligente – infatti credo che sia stato un intellettuale di prima grandezza – che s’è trovato a tentar di frenare a mani nude questa valanga di detriti che è scesa dal Concilio Ecumenico Vaticano Secondo.

Papa Montini era un fine intellettuale, ma non aveva la capacità di approccio con le masse di cui invece era quanto mai fornito il suo predecessore. Era d’indole riservata, proveniva da un ceto borghese, visse in momenti terribili non solamente per la Chiesa, ma anche per la società civile; eravamo infatti nel ’68, il tempo della contestazione radicale e soprattutto dei cupi anni di piombo delle Brigate rosse.

Paolo sesto visse un pontificato contrastato da mille tensioni, dovette fare delle scelte difficili di mediazione scontentando un po’ tutti, innovatori e conservatori. Comunque fu un grande papa, soprattutto il papa che seppe pagare il prezzo del passo in avanti fatto dalla Chiesa. Dopo di lui i trenta giorni di Papa Luciani, il papa dal sorriso triste, quindi il vittorioso lottatore dal grande charme umano che fu Karol Woytjla, per arrivare all'”acqua cheta” di Papa Ratzinger, travolto dagli intrighi della curia vaticana.

Ora c’è Papa Francesco, il rivoluzionario radicale che, pur disarmato, sta riportando la Chiesa alle sorgenti. Com’è bello leggere il disegno di Dio che con gli uomini più diversi accompagna la Sua Chiesa e realizza il Suo Regno.

21.08.2013

I testimoni dell’assoluto

Recentemente mi è stato chiesto da una coppia di anziani coniugi di celebrare le loro nozze d’oro nella chiesetta delle suore di clausura di via San Donà.

Normalmente aderisco tanto volentieri a questa richiesta, da un lato perché mi fa bene questa testimonianza di un amore rimasto vivo e luminoso nonostante il passare di mezzo secolo di vita, e dall’altro perché mi riporta a rivedere queste care creature che sono le monache di clausura e che, quando ero parroco, solo una strada divideva dalla mia casa.

Io sono certo che queste suore hanno pregato per me, perché troppe cose, che sembravano veramente gravi e rovinose, si sono risolte quasi per miracolo e soprattutto perché sono riuscito a lasciare in piedi una bella ed operosa comunità cristiana nonostante i tempi difficili in cui viviamo.

Con le suore del monastero siamo sempre andati d’accordo e c’è sempre stata una bella e fraterna collaborazione per quanto è possibile tra due realtà così diverse: una parrocchia ed un convento di clausura di un ordine quanto mai antico. C’è stato un piccolo neo, però marginale ed insignificante nei nostri rapporti: da una parte il mio senso estetico che mi faceva detestare quel muraglione cupo che nasconde la bella villa dei Michieli, i patrizi veneziani che l’avevano costruita alla fine del seicento e dall’altra le suore, che ritenevano, seguendo la tradizione e i vecchi canoni, che la clausura ha ancora bisogno di mura di difesa, la ruota e le grate. Questo problema di carattere estetico è stato però estremamente marginale sia per loro che per me, tanto che abbiamo potuto vivere vicini e felici per quasi mezzo secolo uno accanto all’altro.

Quando sono entrato in convento qualche giorno fa per la celebrazione delle nozze d’oro, ho incontrato la badessa e le tre sorelle non giovanissime che ancora sono attive e vivono quasi sperdute nel grande convento che un tempo ospitava la comunità ben più numerosa che da Venezia, prima dell’ultima guerra, è emigrata in quel di Carpenedo.

Già ho scritto che un giorno in cui feci presente alla badessa che la gente del nostro tempo fa fatica a comprendere la vita claustrale, mi rispose che lei e le sue suore volevano rappresentare nella nostra città la parte della vita che rimane di solito in penombra, cioè la facciata che illustra il bisogno di silenzio, di meditazione e di contemplazione, perché la gente del nostro tempo non dimentichi una componente essenziale della vita.

Le nostre monache, anche se poche, se vecchie, se dietro le grate, nascoste dal muraglione, rimangono per la nostra società le testimoni dell’Assoluto. Se un giorno dovessero chiudere per mancanza di donne che abbiano il coraggio di accettare questa preziosa eredità, sarà veramente un brutto giorno per la nostra città, perché vorrebbe dire che l’effimero, il fatuo e il contingente rimarrebbero senza contrappeso; la facciata in penombra della medaglia della vita rimarrebbe purtroppo sconosciuta per la gente del nostro tempo e questa sarebbe una gran perdita, una vera calamità.

15.08.2013

Il testamento dell’apostolo dei lebbrosi

Penso che Raoul Follereau sia morto dai quindici ai venti anni fa. Questo francese della media borghesia dalla faccia rotonda che portava sempre il fifì, è diventato famoso perché ha dedicato tutta la sua vita al tentativo di guarire i malati di lebbra.

Follereau era un autentico apostolo e benefattore dell’umanità. Girò cento volte in lungo e in largo l’Africa nera e l’India, la Cina, l’Oceania e l’estremo oriente alla ricerca dei lebbrosi e dei lebbrosari, convinto che questa orrenda malattia che deturpa il corpo e che fino a poco tempo fa era assai diffusa nel mondo, si potesse guarire con un po’ di buona volontà e con pochi soldi. Follereau affermava che i veri ed autentici “lebbrosi”, difficilmente guaribili, erano gli Stati e gli uomini talmente egoisti che non pensavano ad altro che al denaro e ai propri interessi.

Follereau era sposato, ma senza figli, cosicché, novello missionario, poté spendersi totalmente senza risparmio di sorta per portare avanti questa crociata. E possiamo dire che ci riuscì perché la lebbra, pur essendo ancora presente in qualche remoto villaggio dell’Africa nera, praticamente è pressoché scomparsa.

Il mondo deve a questo grande apostolo moderno la vittoria su una delle malattie più ributtanti: egli ha dimostrato che se uno ha veramente amore per l’uomo, anche oggi può fare “miracoli”. Follereau vinse questa “guerra” soprattutto influendo sull’opinione pubblica e promuovendo una cultura della solidarietà. Questa impresa riuscì a questo testimone del nostro tempo perché era un giornalista brillante ed un uomo d’azione concreto e determinato.

Ricordo quando scrisse al Presidente degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica chiedendo che gli regalassero l’equivalente del costo di una superfortezza volante, di cui entrambi disponevano a migliaia ed egli con quel denaro avrebbe salvato dalla lebbra milioni di ammalati. Ricordo ancora i suoi appelli appassionati ai giovani perché non si rassegnassero a questo mondo ingiusto ed egoista, perché si ribellassero ad un perbenismo borghese ed indifferente e ad una fede che illude di potersi salvare da una vita insulsa ed inutile e di potersi guadagnare il Paradiso solamente pagando la tassa della “messa festiva”.

Ricordo ancora il testamento sublime con cui l’apostolo dei lebbrosi lasciò in eredità agli uomini di retta coscienza e soprattutto ai giovani, i progetti che egli non era riuscito a concludere.

Talvolta verrebbe anche a me la tentazione di lasciare ai miei confratelli e alla mia città i progetti perseguiti con passione ma che sono rimasti solamente sulla carta. Ho però tanta paura di morire senza trovare eredi disposti ad accogliere questa straordinaria ricchezza, senza il beneficio d’inventario.

15.08.2013

La vittoria di Pirro

Sarei molto felice se in merito all’evento di questi giorni si potesse dire: “La politica e lo Stato hanno finalmente vinto Berlusconi, la sua filosofia e il suo stile di governare”. Mentre è fin troppo evidente che almeno una certa corrente della magistratura, dopo vent’anni di tentativi, dopo aver fatto spendere al Paese una montagna di denaro e dopo essersi squalificata per una partigianeria patente, pare sia riuscita a metter fuori gioco questo attore che è rimasto sul palco per tanto tempo.

Io riconosco a Berlusconi indubbie capacità imprenditoriali, però ho qualche dubbio se la sua scalata al potere economico e politico sia stata tutto merito suo o se si sia avvalso dell’appoggio, fin troppo scoperto, di Craxi e del suo partito. Il comportamento di questo protagonista lo reputo assolutamente immorale; l’uomo è indegno di rappresentare il Paese e neppure penso che il suo modo di governare l’Italia, pur talvolta con maggioranza, sia riuscito a dare benessere, giustizia sociale ed ordine civile. Lo ritengo uno statista pieno di sé, spaccone e poco concludente.

Detto questo, con molta chiarezza devo pur confessare con infinita tristezza che l’atteggiamento di una certa parte della magistratura, apertamente schierata, abbia ottenuto una povera vittoria di Pirro e abbia trascinato in un terribile discredito la giustizia e chi l’amministra, facendo pagare un prezzo anche alla gran parte di magistrati seri che stanno facendo il loro lavoro con dignità, saggezza ed impegno. Io sono assolutamente con Renzi che ha affermato più volte che i politici si possono e si debbono combattere solamente col voto.

Riconosco l’estrema delicatezza del compito del magistrato e perciò la grande difficoltà di esercitare questa professione, però ritengo che pure i magistrati debbano rispondere dei loro errori, debbano essere cacciati dalla magistratura senza misericordia alcuna quando manifestano solamente simpatia verso uomini o movimenti di parte, e finalmente non si permetta loro di voler ritenersi padreterni, ma si facciano scendere al livello dei comuni mortali, perché non sono più, né meno, dei medici, degli insegnanti, dei preti, degli artigiani, dei contadini. Sono uomini come tutti e hanno solamente i diritti e i doveri che competono ad ogni cittadino.

So che su questo argomento mi tornerebbe conto fare un “fervorino” che non turba nessuno, ma ritengo che il compito profetico che compete ai credenti sia anche quello di sporcarsi le mani sulle cose che riguardano la vita e le sue vicende. Tutto ciò non mi ha impedito, anzi mi ha facilitato la preghiera per Berlusconi, per chi l’ha giudicato in questi vent’anni e per tutti coloro che, come Travaglio, pensano che la condanna a Berlusconi salvi la Patria!

04.08.2013

Compagni di avventura

Questa mattina sono stato al “Nazaret” per far visita alla “signorina” Rita. L’ho trovata ancora a letto perché – mi disse l’infermiera di questa casa di riposo – la alzano solamente alle dieci e mezza, altrimenti si stanca troppo a stare seduta in poltrona.

La Rita mi è apparsa come un pulcino bagnato e smarrito appena uscito dal guscio. Gli anni, la malattia e la stanchezza hanno progressivamente logorato la forte fibra e il carattere più che deciso di colei che in parrocchia a Carpenedo controllava tutto, interveniva a proposito e a sproposito su tutto, ma alla quale era riconosciuta un’autorità assoluta, essendo la “governante” del parroco, una figura ed un ruolo che Alessandro Manzoni ha immortalato nei suoi “Promessi sposi”. Vedendola così inerme e smarrita ho provato un senso di tenerezza, di riconoscenza e pure di rimorso per aver preteso da lei il possibile e l’impossibile, come sempre mi è capitato di fare.

La visita a questa donna più che novantenne nella cameretta a due letti, pur nella casa di riposo più ambita della nostra città per l’ordine e la funzionalità che la contraddistingue, ha messo in moto nella mia memoria le sequenze di un film a me ben noto, che però non rivedevo da molti anni. Il “proiettore” ha cominciato subito a trasmettere immagini su immagini che si accavallavano rapidamente.

A 42 anni fui “promosso parroco” a Carpenedo perché altri preti avevano rifiutato a causa dei debiti e della contestazione anche in parrocchia. Non avevo allora un piatto, una forchetta, una sedia. Dissi a Rita, già presidente dell’Azione Cattolica e sarta di professione: «Vuole dividere la mia `avventura pastorale?’». Disse di si. Caricammo le sue povere masserizie su un furgone dei poveri e mettemmo su casa nella canonica di Carpenedo. Ora la canonica è un palazzotto del settecento austero ma di nobile aspetto, ma allora il tetto della cucina era coperto da un telone di nylon verde, perché le tegole non riparavano dalla pioggia e i balconi erano così sgangherati che don Roberto e don Gino, avendo pietà di me, impiegarono un quintale di stucco per poterli ridipingere.

Rita, pur avendo sognato l’intimità di una casa ordinata, pian piano accettò, seppure con fatica, l’andirivieni a tutte le ore del giorno e della notte, tanto che una volta sbottò dicendo: «Questa non è una casa, ma un municipio!»

Cominciammo col patronato, poi con l’asilo e quindi con il “Ritrovo degli anziani”, con Villa Flangini, con la Malga dei Faggi, solamente per parlare delle strutture. E lei era sempre presente con la qualifica di manovale, di sovrintendente, di tesoriera, di segretaria, di telefonista e mille altre cose ancora. Ci un tempo in cui perfino le affidai il compito di inserire i programmi della regia di “Radiocarpini”! E non che io fossi tollerante, ho sempre richiesto tutto e di più!

Vedendola ora così smarrita e fragilissima nel suo lettuccio bianco, ho sentito tanta tenerezza e tanta riconoscenza, perché quando le cose van bene è sempre merito del capo e sempre ci si dimentica del suo esercito. Son certo che lei si è sempre aspettata la ricompensa dal Padre nostro che è nei Cieli, altrimenti non avrebbe mai potuto fare la vita che “l’ho costretta a fare”.

08.08.2013

Don Tonini

Da un paio d’anni il cardinal Tonini, arcivescovo di Ravenna, era pressoché scomparso dalla scena. Già prima, la morte del prestigioso giornalista Enzo Biagi, suo ammiratore e amico carissimo, aveva messo un po’ in penombra la figura del vecchio cardinal Tonini, “grillo parlante” della Chiesa e della società italiana. Poi l’età – era infatti quasi centenario – aveva definitivamente spento la voce accalorata e puntuale di questo santo prete.

Alla notizia della sua morte avvenuta qualche settimana fa, nonostante avessi già parlato di lui ne “L’Incontro”, avevo scelto di dedicargli un editoriale non appena fosse apparso in qualche periodico del nostro Paese una testimonianza adeguata alla nobile figura di questo santo apostolo. Non avendo ancora scoperto un articolo per me adeguato a questo uomo di Dio, sento il bisogno di dedicargli, almeno per ora, una pagina del mio diario, perché ritengo che monsignor Tonini sia stato in Italia una delle belle e grandi figure di vescovo del nostro secolo.

Ho ammirato il vescovo di Ravenna perché, una volta in pensione, ha continuato come prima il suo compito di annunciatore e soprattutto di testimone del Vangelo. Già nella sede vescovile, prima di Ravenna, aveva scelto un’umile dimora per lasciare il suo palazzo vescovile ad un’opera di apostolato, e a Ravenna poi, ha scelto, come dimora della sua vecchiaia, l’Opera Santa Teresa, struttura che accoglie disabili di tutti i generi e che i ravennati, pur repubblicani ed anticlericali, amano e sostengono con immensa generosità.

Monsignor Tonini, minuto di statura, sempre in clergyman come l’ultimo cappellano, con discorsi assai semplici ma profondamente convinti, ha parlato fino all’ultimo respiro di Gesù e del suo Vangelo che, soli, possono salvare anche gli uomini del nostro tempo dall’insignificanza di una vita senza orizzonti e senza senso.

La testimonianza del cardinal Tonini mi è stata sempre punto di riferimento, per quanto riguarda “l’alto clero”, a motivo del suo rigore morale, del suo appassionato amore per le anime e per la scelta di vivere poveramente e di condividere la condizione degli ultimi sia negli anni della sua efficienza fisica e intellettuale che in quelli del tramonto.

Il cardinal Tonini ha testimoniato con la sua vita che non sono la porpora, la sontuosità dei riti, né l’elogio da colti che conquistano le anime, ma l’amore spoglio di ogni orpello e la coerenza rigorosa al messaggio di Gesù.

08.08.2013

Dalla sacralità alla santità

Lo scorso anno ho letto molto di Adriana Zarri, l’eremita “sui generis” che scriveva su “Il Manifesto” e “celebrava l’Eucarestia” assieme alla sua gatta, in perfetta solitudine. La Zarri è stata una di quelle cristiane “alla don Gallo”, guardata con sospetto e rifiuto dai cristiani ben pensanti e sorvegliata speciale dalla gerarchia ecclesiastica.

Il pensiero di questa teologa laica non è sempre facile, spesso ho fatto fatica a seguirla e comprenderla nelle sue riflessioni sempre profonde. Ricordo che in uno dei suoi volumi mi sono imbattuto in una tesi che lei sosteneva con convinzione, affermando che dobbiamo abbandonare il mondo della sacralità per abbracciare quello della santità.

Per la Zarri la sacralità sa di magico, quasi che certe parole, certi oggetti, certi riti o comportamenti possano manifestare il volto di Dio ed offrircelo, mentre – lei sostiene – solamente la santità, che è cammino personale per la ricerca di Dio, lo manifesta e dona il Signore.

M’è parso di capire, pur con qualche difficoltà, questo discorso. Oggi però Papa Francesco, salendo in aereo portandosi appresso la biancheria intima nella sua borsa nera, occupando una poltrona uguale a quelle dei giornalisti, ha tradotto la tesi della Zarri in maniera quanto mai convincente facendomi capire che sta conducendo la Chiesa ad imboccare la strada giusta.

Ricordo che un Patriarca di Venezia, che non nomino per carità cristiana, non saliva in auto per venire a Mestre se non aveva la scorta di almeno due vigili della stradale, perché un cardinale “principe della Chiesa” aveva diritto ad essere equiparato ad un principe della Casa Reale. E’ perfino troppo evidente che per Papa Francesco non è la preziosità della cornice che dà importanza alla sua presenza, ma il messaggio che egli offre al mondo e la sua coerenza personale che porta speranza e salvezza.

Questo però comporta che pure per noi preti o cristiani non è la fascia rossa, il distintivo o il titolo accademico che offre agli uomini del nostro tempo l’immagine e il volto di Gesù, ma la nostra santità personale e il nostro amore al prossimo.

22.07.2013

Perfino Panella!

Ho scoperto ormai da parecchi anni “le beatitudini” de l’anziano.

In questo cantico si dichiara beato, ossia si invoca dal Signore il dono della beatitudine per chi fra l’altro non fa osservare all’anziano che certe cose le aveva già dette altre volte perciò egli è noiosamente ripetitivo.

Spero che questa beatitudine il Signore le conceda benevolmente anche ai lettori del mio diario perché sono purtroppo cosciente di ripetermi. Vengo quindi alla giustificare questa premessa: molte volte infatti ho scritto di essere ascoltatore di radio radicale perché detesto i programmi di musica moderna che mi fanno saltare i nervi e quelli di intrattenimento che considero quasi sempre fatui e banali.

Con questo però non è detto che mi sieda in poltrona per ascoltare di quell’insuperabile logorroico che è Marco Pannella il quale ripete sempre gli stessi discorsi e non la finisce mai!

Ascolto questa emittente durante la decina di minuti che ci metto nel trasferirmi in macchina dal don Vecchi al cimitero o viceversa, o quando faccio un lavoro manuale che non impegna la mente.

Ebbene qualche giorno fa ho sentito Panella, che parlando dell’inciviltà delle carceri e della “criminalità” del nostro Stato che non rispetta i fondamentali diritti dell’uomo, ha affermato, con l’enfasi che gli è propria, che solamente Papa Francesco, l’ultimo “monarca assoluto” rimasto a questo mondo, nei primi giorni del suo “regno” ha abolito nello Stato Pontificio la pena di morte, la tortura e il carcere a vita! Penso però che forse gli altri Pontefici neppure sapessero dell’esistenza di queste vecchie leggi dimenticate e che neppure quei due trecento abitanti dello Stato Pontificio corressero il pericolo di incorrere in queste pene.

Comunque era perfin troppo evidente che quell’anticlericale incallito che è da sempre Pannella, sta subendo il fascino di Papa Francesco che non passa giorno che non compia atti e non dica parole che non vadano a riportare la Chiesa alla semplicità delle prime comunità cristiane della Palestina e Roma.

Questo Papa si dimostra ogni giorno di più un dono di Dio e l’uomo che ha il coraggio e la volontà di riportare la Chiesa allo stile evangelico, liberandola da orpelli rituali e di pensieri quanto mai barocchi e che sempre offuscano e soffocano la freschezza rivoluzionaria del vangelo.

Papa Francesco sta predicando finalmente una chiesa che fa presa non soltanto nel cuore dei giovani e dei “preti Gallo” ma perfino anche nei più incalliti anticlericali rappresentati dai radicali di Marco Panella!

21.07.2013

Matteo

Ieri sera sono stato attaccato al televisore fino a mezzanotte. Per caso mi sono imbattuto in un programma de “La7”, diretto da Mentana, in cui Matteo Renzi rispondeva alle domande pressanti di due politologi di sinistra dei quali non ricordo il nome ma che più volte ho incontrato nella rubrica “Anno zero”.

Il fuoco di fila di domande, ma soprattutto di insinuazioni fu tale e così intenso e prolungato, che per fortuna del sindaco di Firenze, solamente la “pubblicità” gli permise ogni tanto di tirare un respiro di sollievo.

A mezzanotte ho deciso di spegnere il televisore perché alle cinque di oggi la mia sveglietta avrebbe suonato imperturbabile per nulla preoccupata di sapere se ho dormito e quanto ho dormito.

Ho visto Renzi stanco, ma vigile, lucido, determinato a rintuzzare con la consueta arguzia della sua parlata toscana le battute sempre faziose, ma talora anche sarcastiche, dei suoi interlocutori. Io ho tifato per Renzi; se non fossi stato nel chiuso della mia cameretta, mi sarei spellato le mani per le affermazioni convinte di questo giovane politico, che spero ambisca al potere non per superbia o tornaconto, ma per il bene del nostro Paese, così come avrei diretto tutte le parolacce che conosco ai suoi interlocutori che, ripeto, ho sentito talmente faziosi che credo nessuno al mondo riuscirebbe non solo a far loro cambiare idea, ma a ridurli al silenzio di fronte all’evidenza.

Ho ammirato Renzi perché più volte ha affermato che anteponeva gli interessi dell’Italia a qualsiasi altro interesse di partito o fazione. Ho ammirato Renzi perché, senza complessi, ha detto che è stato scout e che è cattolico ed io, che di queste cose penso di intendermene, ho avvertito quanto fosse coerente all’educazione che lo scoutismo e la Chiesa tentano di passare ai nostri ragazzi. Ho ammirato Renzi perché s’è dimostrato libero, pur essendo evidente che gli piacerebbe essere Capo del Governo per far andar meglio i destini del nostro Paese. Anche mia madre di fronte a papà che difendeva sempre e comunque la Democrazia Cristiana anche quando non era difendibile, sbottava: “Vorrei andare io al Governo per far andar dritte le cose!”

Comunque mi pare che Renzi sia sufficientemente libero da rinunciare a questa prospettiva pur di rimanere fedele alle sue convinzioni. M’è spiaciuto di chiudere la TV prima della fine dell’intervista, non solo per il sonno, ma pure perché ero talmente schifato dalla faziosità e dalla meschinità intellettuale dei suoi interlocutori, che sono stato “costretto” a farlo.

18.07.2013