“Il vecchio di casa”

Nota della redazione: per un caso fortuito questo intervento di don Armando, scritto il 17 marzo, appare nel giorno della scomparsa del Patriarca emerito Marco Cé, che siamo felici di poter ricordare anche con queste riflessioni di don Armando a margine del biglietto di auguri dedicatogli dal Patriarca emerito pochi giorni prima dell’incidente che lo avrebbe poi condotto al riposo eterno.

Io sono nato in campagna in un paese il cui territorio si affianca alla riva sinistra del Piave. Quando sono nato, ottantacinque anni fa, tutta la vita si rifaceva all’agricoltura e perciò anche la struttura familiare risentiva di questa realtà. Il lavoro della terra in quel tempo, quando erano pressoché inesistenti le macchine agricole, esigeva tante braccia, cosicché le famiglie dovevano essere numerose, contavano allora venti, trenta, quaranta componenti e la struttura familiare era di stampo patriarcale.

Il “padrone di casa” era quasi sempre il vecchio, esperto delle stagioni e delle semine a cui tutti si rifacevano sia per il lavoro sia per le scelte di vita. Il padrone di casa era per tutti e per ogni livello di vita un’autorità ascoltata con rispetto e talvolta quasi con venerazione.

M’è venuta in mente questa impostazione sociale ed umana delle famiglie del mio paese qualche giorno fa quando, aprendo una busta a me diretta, vi ho trovato un biglietto di augurio per il mio compleanno da parte del vecchio Patriarca, il cardinale Marco Cè. Queste sono state le care ed amabili parole con le quali mi ha porto il suo augurio.

Venezia 8/3/2014
“Caro don Armando”,
auguri di buon compleanno!
Vedo che non cedi nel lavoro, ma continui a crescere, che Dio ti benedica.
Io ho dovuto cedere mi hanno insegnato che “non cade foglia che Dio non voglia”.
E mi metto in pace, una preghiera reciproca
+ Marco Card. Cè

Il Cardinale Cè ha soltanto qualche anno più di me, eppure anche in questo ultimo decennio, in cui sia lui che io siamo rimasti per età e per pensiero ai margini della nostra Chiesa, l’ho sempre sentito come “il vecchio di casa” sulla cui autorità, saggezza e paternità idealmente mi potevo appoggiare, sentendolo sempre come un sicuro punto di riferimento.

Proprio in questi ultimi giorni mi era passato per la mente di scrivergli, perché sentivo il bisogno di dirgli questi miei sentimenti, perché lui avvertisse cosa egli rappresenta per me – ma anche forse per tutti i suoi preti – quanto conti la sua presenza discreta ed appartata, ma reale e viva. Purtroppo, ancora una volta, mi sono lasciato assorbire dalle piccole vicende del mio quotidiano, così che ancora una volta la sua ricchezza spirituale ed umana mi ha preceduto.

Io, in passato, non sono stato uno dei suoi “dipendenti” più tranquilli ed ossequiosi, nonostante fossi consapevole della sua mitezza e della sua calda paternità spirituale. Ora, anche se gli anni e la fragilità hanno ridotto quasi al silenzio e relegato tra le pareti domestiche il mio vecchio patriarca, avverto più che mai la gioia e la grazia di avere ancora alle mie spalle, quale padre e protettore “il nostro vecchio di casa” e mi auguro di godere fino alla fine di questo magnifico dono di Dio.

17.03.2014

I fioretti di Papa Giovanni

Ieri mi ha raggiunto una telefonata dal contenuto un po’ insolito da parte di un nipote di Sandro Vigani, direttore di “Gente Veneta”, il settimanale del Patriarcato di Venezia e parroco della comunità di Trivignano. Don Sandro è un valido giornalista, che oltre a dirigere questo settimanale, scrive quasi ogni settimana l’articolo di fondo. Gli interventi di don Sandro sono sempre puntuali ed intelligenti.

Questo nipote, ormai affermato nel campo della stampa, con la sua telefonata mi ha chiesto di suggerirgli qualche episodio su Papa Giovanni quando era patriarca di Venezia, perché io sono stato ordinato da lui e rimango uno dei sempre più rari anziani che lo hanno conosciuto personalmente.

Non credo di poter aggiungere qualcosa di talmente nuovo su questo Papa che già non si sappia, perché sulla sua vita e sul suo pensiero c’è una letteratura quanto mai vasta ed approfondita, però conservo nella memoria alcuni flash a me cari che anticipo ai miei amici de “L’Incontro”.

Ricordo con piacere, riconoscenza ed emozione che dopo avermi ordinato sacerdote a San Marco, invitò mio padre e mia madre, persone quanto mai umili, a prendere il caffè a casa sua, nel palazzo patriarcale, quasi a ringraziarli di aver donato alla Chiesa di San Marco il loro primo figlio, anche se avrebbe potuto essere utile nella bottega di falegname di mio padre… Da questo gesto si coglie la calda umanità di Papa Roncalli.

In altra occasione ho colto invece la sua responsabilità di “capo”. Quasi sessant’anni fa mi avevano chiesto di commentare il Vangelo sul settimanale della diocesi “La voce di San Marco” e l’avevo fatto coerentemente alle mie convinzioni, come poi ho sempre fatto. Incontrandomi, Papa Giovanni mi riferì: «C’è stata qualche lagnanza per i suoi interventi. Lei continui, e sappia che alle sue spalle c’è il suo Patriarca».

Un’altra volta raccontò a noi chierici il suo primo intervento a Parigi, dove era stato nunzio apostolico. In qualità di rappresentante del corpo diplomatico, doveva fare un intervento ufficiale alla presenza di De Gaulle, che primeggiava per la sua grandeur e a quel tempo voleva chiedere le dimissioni di una sessantina di vescovi che, a parer suo, si erano compromessi col governo filotedesco del generale Pétain. Preoccupato per la Chiesa, il Patriarca ci confidò che la sera prima di quell’incontro con De Gaulle, pregò il suo angelo custode di mettersi d’accordo con quello del generale. E quando gli chiedemmo come erano andate le cose, ci rispose: «Non poteva andare che bene!». Che fede semplice ma forte!

Voglio infine sottolineare un altro aspetto di Papa Giovanni che ricordo ammirato. Il Patriarca Roncalli dava del lei anche ai più pivellini dei suoi preti. Ora va di moda che prelati e vescovi diano del tu anche ai preti che hanno il doppio dei loro anni, ma non mi risulta che accettino che i preti usino il “tu” anche con loro. Che rispetto per la persona!

16.02.2014

Il cardinale veneziano

Questa settimana è la settimana delle lettere. Il postino mi ha recapitato una lettera dalla calligrafia irrequieta, propria di una mano senile. Prima di aprire la busta è mia abitudine dare un’occhiata per vedere chi è il mittente, quasi a prevedere il contenuto della missiva. Le lettere che ricevo contengono comunicazioni; altre, e sono le più frequenti, richieste di aiuto, ed altre ancora, approvazioni o critiche che riguardano gli articoli de “L’Incontro”.

Questa volta, girata la busta, ho letto: “Arcivescovo Loris Francesco Capovilla, via Camaitino, Sotto il Monte, Bergamo.” Il nostro proverbiale “don Loris” ha usato buste non aggiornate, perché da qualche giorno deve sostituire al titolo di arcivescovo quello di cardinale.

Il biglietto a stampa inizia così: “Venerato fratello” e segue comunicando la sorpresa per la scelta di Papa Francesco di farlo cardinale, dichiarando poi la sua confusione e la sua umiltà di fronte all’attenzione del Sommo Pontefice, ed infine chiede e promette preghiere.

Già il fatto che il famoso segretario di Papa Giovanni si sia ricordato di me in un momento così importante della sua vita, mi ha riempito di confusione e quasi di disagio. Mi sono sentito come il ciabattino che, nel racconto di Tagore, rimane stupito e sbigottito che il cocchio del grande maragià si fermi proprio di fronte alla botteghetta di ciabattino di un minuscolo paese dell’India infinita. Ma la sorpresa ha raggiunto un limite pressoché insuperabile quando, voltando il biglietto, ho letto il testo manoscritto del Cardinal Francesco Loris Capovilla, Arcivescovo emerito: “Caro don Armando, ho pensato a te in questi giorni e mi sono detto `Quello (io) più di me meriterebbe la porpora!’. Ti abbraccio con cuore fraterno e ti ringrazio. Affettuosamente. Don Loris Francesco Capovilla”.

Sono rimasto di stucco! Per la missiva e per le parole che evidentemente sono uscite da una persona che è vissuta parecchi anni accanto a un santo ed un santo della grandezza di Papa Giovanni.

Riporto questo evento solamente per mettere in luce la nobiltà di sentimenti di questo sacerdote veneziano e per ricordare a tutti che talvolta una parola cara ed amabile può dare coraggio. Il mio rapporto con questo prelato non è mai stato particolare. Lui mi ha conosciuto quando era segretario del Patriarca Roncalli. So che avevamo in comune l’ammirazione per don Mazzolari e leggevamo ambedue l'”Adesso” che a quei tempi rappresentava l’avanguardia della Chiesa. Ma nulla di più. Eppure ogni tanto ricevo qualche suo biglietto che mi fa quanto mai piacere e dal quale ho imparato che anche a cent’anni di età – qual è quella di “don Loris”- si può ancora servire tanto bene e con tanto profitto l’uomo e la Chiesa.

Pubblico tutto questo perché la nostra città sappia che la Chiesa di Venezia ha offerto a noi e al mondo preti di questa levatura umana e spirituale.

28.02.2014

L’educazione

Ho proprio l’impressione che Renzi stia affrontando una delle prove più difficili. Da una parte Il patto con Berlusconi, che è più furbo del diavolo, le irrequietezze di quelli della sua squadra che, pur sconfitti alla grande alle urne, non si rassegnano perché come nel passato pensano di essere il sole del domani (infatti sono già comparsi i cecchini che gli sparano alle spalle). Dall’altra parte Grillo che spalleggiato da alcuni partitini – che poi sarebbero i primi ad essere tolti di mezzo qualora la “rivoluzione” del comico prevalesse – non si rassegna ad essere spiazzato, perciò sta sparando tutte le cartucce che ha in canna.

Qualche giorno fa ho immaginato Renzi come “Daniele nella fossa dei leoni”, ora avverto che quei ruggiti si fanno ancor più rabbiosi e tentano di azzannarlo mortalmente. Però non ho perso la speranza pensando al piccolo David “di bell’aspetto e dai capelli fulvi” con la sua fionda e la riserva di ciottoli del fiume, contro il gigante Golia.

Per una strana concomitanza di eventi m’è capitato, proprio in questi giorni, di poter riascoltare i canti scout che uno dei miei “ragazzi” di mezzo secolo fa mi ha regalato. Tutta una rassegna di canti pregni di entusiasmo, di ottimismo, di coraggio e di fede gioiosa, che suonano come un inno alla vita, alla giovinezza e all’avventura. E, neanche a farlo apposta, m’è capitato pure tra le mani il testamento di Baden-Powell Gilwell, il fondatore degli scout, che trascrivo, perché rappresenta per un ragazzo una meravigliosa eredità.

Mi auguro, per il bene del nostro Paese, che il Matteo “nazionale” ritorni spesso a questa “sorgente” per trovare il coraggio e la determinazione per mantenere il suo sorriso, le sue battute franche e leali e la sua volontà di servire il prossimo nonostante tutto.

Eccovi il testamento; a me fa bene rileggerlo ogni tanto, spero che faccia bene a Renzi e pure a voi.

L’ultimo messaggio del capo

Cari scouts, se avete visto la commedia Peter Pan vi ricorderete che il capo dei pirati ripeteva ad ogni occasione il suo ultimo discorso, per paura di non avere il tempo di farlo quando fosse giunto per lui il momento di morire davvero.

Succede pressappoco lo stesso anche a me e per quanto non sia ancora in punto di morte, quel momento verrà, un giorno o l’altro,- così desidero mandarvi un ultimo saluto, prima che ci separiamo per sempre.

Ricordate che sono le ultime parole che udrete da me: meditatele.

Io ho trascorso una vita felicissima e desidero che ciascuno di voi abbia una vita altrettanto felice.

Credo che il Signore ci abbia messo in questo mondo meraviglioso per essere felici e godere la vita. La felicità non dipende dalle ricchezze né dal successo nella carriera, né dal cedere alle nostre voglie.

Un passo verso la felicità lo farete conquistandovi salute e robustezza finché siete ragazzi, per poter «essere utili» e godere la vita pienamente, una volta fatti uomini.

Lo studio della natura vi mostrerà di quante cose belle e meravigliose Dio ha riempito il mondo per la vostra felicità. Contentatevi di quello che avete e cercate di trarne tutto il profitto che potete. Guardate al lato bello delle cose e non al lato brutto.

Ma il vero modo di essere felici è quello di procurare la felicità agli altri. Procurate di lasciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avete trovato e, quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di avere «fatto del vostro meglio». «Siate preparati» così, a vivere felici e a morire felici: mantenete la vostra promessa di esploratori, anche quando non sarete più ragazzi, e Dio vi aiuti in questo.

Il vostro amico
Baden-Powell Gilwell

04.02.2014

“Diario proibito”

Tre o quattro settimane fa, sfogliando quel bel quindicinale che è “Il nostro tempo” di Torino, sono stato attratto dal titolo di una critica su un’opera di una scrittrice russa, Olga Berggol’c. Il volume ha come sottotitolo esplicativo: “La verità sull’assedio di Stalingrado”. Ho letto la critica, dalla quale ho appreso che l’autrice scrisse per due anni il diario della sua vita a Stalingrado durante l’assedio, durato 900 giorni, da parte delle armate naziste. Il giornalista sottolinea che questa donna fu costretta a nascondere il diario nel cortile del caseggiato per non aver noie con la polizia perché era già stata incarcerata per un anno per motivi quanto mai banali.

Il mio interesse per questo libro aveva due motivi. Il primo: vedere come questa scrittrice aveva impostato il suo diario, nel desiderio di apprendere qualcosa di specifico, dato che quello che scrivo io ogni settimana risulta un po’ elemento portante del nostro periodico. Secondo – motivo più consistente: sono stato sempre attratto dalle vicende tragiche dell’ultima guerra. Il fatto poi che il diario si rifacesse all’assedio di Stalingrado fece riemergere dalla mia memoria un volume di una tragicità infinita: “Le ultime lettere da Stalingrado”, contenente le lettere spedite dai soldati della Wermacht assediati a Stalingrado. La raccolta di queste lettere è successiva nel tempo a quanto documentato nel succitato volume, perché tratta del periodo durante il quale i tedeschi, espugnata Stalingrado, a loro volta rimasero accerchiati dalle divisioni sovietiche.

Devo confessare che non ho trovato in questo “Diario proibito” ciò che mi aspettavo, però ho scoperto due verità importanti. La prima: per una donna l’interesse più importante, anzi assoluto, è la bellezza dell’amore suo e quello dell’uomo amato. L’autrice del volume parla in maniera intensa delle sue vicende amorose che neppure la condizione tragica della città assediata e bombardata giorno e notte riescono ad appannare. L’amore per lei viene assolutamente prima di tutto.

Finora, nonostante i miei 85 anni di età, non avevo ancora scoperto così chiaramente questa verità. La seconda, non meno importante, anche se l’avevo intuita da tanto tempo: l’utopia di Lenin, di Trotzkij fu un grande sogno del tutto condivisibile sul piano teorico, però il tentativo di realizzare questa utopia da parte di Stalin, dittatore sanguinario e spietato – ossia il cosiddetto “comunismo reale” – fu un qualcosa di talmente disumano, irrispettoso della persona, della sua dignità e della sua libertà, che ben difficilmente si può immaginare qualcosa di peggiore. Anche per i comunisti più incalliti il “Comunismo reale” della Russia di Stalin naufragò in una burocrazia soffocante, gestita da funzionari faziosi, arrivisti, illiberali, sospettosi, delatori e cretini, che censuravano, incarceravano ed uccidevano gli uomini migliori, ossia quelli più liberi ed intelligenti.

L’autrice credeva in maniera assoluta nell’utopia socialista come riscatto dall’oscurantismo e dispotismo zarista, però, da persona intelligente, rifiutava e condannava senza appello l’oscurantismo e la meschinità dell’apparato statale del suo Paese, sognando non solo la pace, ma pure tempi nuovi e diversi.

La lettura del volume mi ha riconfermato nella convinzione che le grandi utopie – e tra queste anche quella cristiana – incarnandosi si impoveriscono sempre, ma se sono gestite da uomini che non amano la libertà, la verità e se non accettano la critica di chi la pensa diversamente, sono destinate ad opprimere e schiavizzare i popoli anziché elevarli.

27.01.2014

Il primo passo falso di Renzi

Fino ad un anno fa non sapevo neppure che Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze, esistesse. Poi ci sono state le primavere del partito democratico, che non solo hanno dato notorietà al segretario Bersani, ma pure al suo competitore Renzi. Allora venni a sapere che questo giovane politico proveniva dalle file dello scoutismo, l’associazione a cui sono fortemente legato per esserne stato l’assistente per più di trent’anni. M’accorsi pure che aveva una parlata briosa, simpatica ed accattivante, facile alla battuta ad effetto, ma pure dimostrava una decisione sorprendente nelle proposte politiche che andava facendo.

Tutto questo mi rese quanto mai simpatico questa nuova speranza della politica. Quando poi Renzi mise in testa alla sua campagna elettorale che “considerava suo onore meritare fiducia” ed, una volta sconfitto, ammise subito la vittoria del suo competitore, si felicitò con lui e si mise a disposizione per tutto quello che Bersani credesse opportuno, tutto ciò aumentò la mia fiducia.

La disinvoltura di questo ragazzo, il suo ottimismo, la sua volontà di fare subito e bene quelle riforme che attendiamo da decenni, crebbe la mia speranza di poter finalmente contare su un cavallo di razza che avrebbe potuto cambiare il volto della disastrata e deludente classe politica italiana.

La brillantissima vittoria, con una maggioranza notevole, fece il resto, tanto che finalmente mi parve che il trio Letta, Alfano e Renzi, giovani, intelligenti, di cultura cristiana, avrebbe risollevato le sorti del nostro Paese. Avvertii però che questo mio entusiasmo, che non tenni affatto nascosto ma che anzi palesai ai quattro venti, non era condiviso neppure da tutti i miei cari amici. Tuttavia, non avendo alternative, continuai a sperare nell’arrivo della “primavera” anche nel nostro parlamento e nel nostro Paese. Non mi nascosi le difficoltà che sono apparse fin da subito dopo l’affermazione elettorale del sindaco di Firenze, tanto che lo immaginai come “Daniele nella fossa dei leoni” pronti a sbranarlo al primo passo falso.

Al mio entusiasmo, non da tutti condiviso, succedettero le prime preoccupazioni per la sua entrata spavalda a gamba tesa nell’agone politico, ove vi sono “leoni” ben più feroci di quelli di Daniele. E alla preoccupazione si aggiunse una incipiente delusione. La dichiarazione di Renzi di voler legiferare subito sui “matrimoni di fatto” tra gli omosessuali mi fece salire alla memoria le sagge parole della Bibbia: “Fortunato e saggio chi si fida del Signore ed infelice chi confida nell’uomo”.

Con tanti problemi assolutamente urgenti ed inderogabili – la disoccupazione, le tasse, la gioventù senza lavoro – che Renzi si impunti sui matrimoni gay mi pare davvero sorprendente. Non ho nulla in contrario che lo Stato si occupi anche di questa gente, ma penso che si debba cominciare con qualcosa di più serio e urgente. Spero proprio che a questo passo falso di Renzi non ne seguano altri di simili.

16.01.2014

Il povero “dio” di Scalfari

Io raramente ho letto “Repubblica” e perciò non conosco bene Scalfari che ne è stato il fondatore e che tutt’oggi, pur non essendo più il direttore, scrive per Repubblica editoriali di gran peso. Soltanto ultimamente, avendo letto con sommo piacere i dialoghi di Scalfari col cardinal Martini, prima, ed ora con Papa Francesco. ho apprezzato la sua vasta cultura e il suo stile fresco, scorrevole, immediato e piacevolissimo. Quando Scalfari descrive la cornice e l’atmosfera dei suoi incontri con questi due uomini di Dio, è veramente insuperabile. Mi pare di ritrovare l’essenzialità, la piacevolezza e l’incanto di Indro Montanelli del Corriere della sera e di Ricciardetto di Epoca.

Pure ho ammirato la sua sensibilità, la delicatezza e l’affettuosità nel dialogare sia con Martini che con Papa Francesco. Mi è sembrato quasi che avvertisse qualcosa di sublime in queste due personalità e si sentisse onorato e, nello stesso tempo, soggiogato dall’autorevolezza, dalla santità e dalla saggezza di questi due sacerdoti: mai una parola di troppo, mai un cenno di polemica, ma sempre grande rispetto ed attenzione al loro argomentare.

Io da questa lettura ho concluso che, se anche non lo confessa, Scalfari senta una profonda nostalgia della fede e ne sia un ricercatore appassionato, anche se ribadisce le sue dichiarazioni di ateismo dal quale non osa ancora sbarazzarsi per aprirsi alla luce e alla verità.

Dove però Scalfari cade in maniera rovinosa è quando egli parla del suo “dio”. Allora casca il palco e avverti di scoprire un pensiero fragile, macchinoso, di stampo scientista, tutta roba da vecchio illuminismo da soffitta.

Papa Francesco si rivolge a Scalfari con un accento di paternità, ma anche di profondo rispetto; gli chiede: «Come pensa sia quell'”essere” che lei afferma sia il supporto di fondo della sua filosofia? Mi può chiarire il suo pensiero ?». Al che mi pare che Scalfari si arrampichi affannosamente sugli specchi rispondendo: «L’essere è un tessuto di energia, energia caotica, ma indistruttibile ed in eterna caoticità. Da quella energia emergono le forme quando l’energia arriva al punto di esplodere. Le forme hanno le loro leggi, i loro campi magnetici, i loro elementi chimici che si combinano casualmente, evolvono ed infine si spengono».

Il povero “dio” di Scalfari che è “caotico” ed in “eterna caoticità” sarebbe la sorgente dell’universo, che è più ordinato di un orologio svizzero con leggi fisse e coordinate le une alle altre, che sempre e per secoli esprimono l’ordine quasi perfetto dell’universo, sia in ogni creatura che nell’uomo.

Credo che anche lo studentello delle prime classi del liceo, che abbia studiato un po’ di “logica”, o di “teodicea” di san Tommaso, metterebbe in difficoltà il pur illustre e prestigioso giornalista.

Il tallone d’Achille di Scalfari è veramente rovinoso e da questo si capisce che finora esso non gli ha permesso di scoprire l’ordine dell’universo.

15.01.2014

L’avallo di Papa Francesco

Un paio di mesi fa ho dedicato una pagina del mio diario al pensiero religioso di padre Ernesto Balducci. Questo sacerdote, appartenente all’ordine dei Padri Scolopi, fiorentino di nascita e morto in un incidente automobilistico una ventina di anni fa, fu quanto mai noto al tempo della ricostruzione perché nel dopoguerra fondò una bellissima rivista di ispirazione cristiana; “Testimonianze”, mensile che ho seguito con tanta ammirazione per moltissimi anni e che poi ho lasciato perché mi è parso che la linea editoriale si fosse spostata eccessivamente a sinistra a livello politico e fosse un po’ troppo di fronda a livello ecclesiale.

Ritrovai padre Balducci un paio di anni fa leggendo un ottimo volume di don Piazza sulla vita e sul pensiero del sacerdote friulano, parroco, se non per punizione, ma di certo confinato, in una minuscola parrocchia dal suo vescovo perché “non facesse troppi danni” a livello di pensiero. Don Piazza è un grande ammiratore di padre Balducci, tanto da dedicargli una sua struttura di accoglienza per i profughi del mondo.

Infine, tre o quattro mesi fa, qualcuno mi regalò un volume quanto mai arduo da capire, dello stesso padre scolopio, “L’uomo planetario” nel quale, tra l’altro, questo intellettuale sosteneva la tesi che il meticciato dei popoli avrebbe finito di essere tale anche a livello religioso. Questo avrebbe portato ad un ecumenismo reale che avrebbe dato vita ad un denominatore comune tra le religioni spingendole ad operare per la pace e il benessere dell’uomo.

La tesi mi affascinava, ma l’ho presentata con le pinze, temendo che avesse qualcosa di ereticale, perché ammetteva un pluralismo religioso impegnato soprattutto a cercare il Regno dei Cieli quaggiù, pur non escludendo quello dell’aldilà. Dentro di me ho sempre pensato che il buon Dio gradisse di più che noi, suoi figli, ci aiutassimo ad andar d’accordo e a vivere una vita possibilmente più felice, piuttosto che fossimo troppo impegnati in riti misteriosi che abbondano di acqua santa e di nuvole di incenso, ma soprattutto che noi perdessimo troppo tempo in contese dottrinali, peggio ancora in “guerre sante”.

Confermo che ero molto preoccupato di non andar troppo fuori dal seminato. Però il volume che sto leggendo “Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, dialogo tra credenti”, va molto oltre, tanto da farmi sentire un vetero cattolico, conservatore, quanto mai retrogrado e superato dalle posizioni del Santo Padre.

Man mano che procedo a leggere i discorsi del Papa, tanto più mi sento innamorato di questa dottrina fresca, limpida ed innovativa. Cosicché, alla proposta timida di Enrico, mio amico e collaboratore, di dar vita a qualcosa che faccia cassa di risonanza alla rivoluzione di Papa Francesco, ho aderito immediatamente e con entusiasmo. Così è nato il piccolo nuovo settimanale “Il messaggio di Papa Francesco”

13.01.2014

Camminare con le proprie gambe

Non so se gli altri sono fatti diversamente ma io, quando mi imbatto in un ostacolo, sia sociale che religioso, finché non l’ho “filtrato”, non ne ho colto quello che ha di positivo per averne un arricchimento, continuo a rimuginare il discorso o l’esperienza finché non li ho assimilati ed armonizzati con la mia filosofia di vita.

La lettura di qualche tempo fa del volume di Balducci, “L’uomo planetario”, poi di quello di padre Enzo Bianchi della Comunità di Bose sul messaggio cristiano nel nostro tempo, poi ancora del volume del cardinal Ruini su Dio nel pensiero contemporaneo, ed ora de “Il dialogo” di Enzo Mauro – tutti volumi a livello universitario scritti da pensatori di altissimo livello, però per me quanto mai ostici – mi ha creato più di una difficoltà, costringendomi ad una riflessione quanto mai faticosa.

Tutti questi pensatori, credenti o meno, vanno al nocciolo del messaggio cristiano, ne studiano i contraccolpi col pensiero oggi dominante, ne danno un’interpretazione quanto mai difficile citando altri studiosi ancora più astrusi di loro. E’ stato quindi fatale che mi domandassi che fine fanno allora il catechismo, le tradizioni, la liturgia, le pratiche della nostra religione, tutte realtà di cui è intessuta la vita religiosa.

Di primo acchito ho avuto l’impressione che essi passassero come un bulldozer sopra una cristalleria bella e pregiata ma tanto fragile di fronte a tanta possenza.

Mi capitò un’altra volta questa sensazione dopo aver partecipato, da giovane prete, ad una conferenza del famosissimo teologo tedesco Karl Raner sul sacerdozio. Andò avanti un’ora intera facendo tutte le ipotesi possibili ed immaginabili sul sacerdozio, tanto che alla fine della conferenza l’idea della missione sacerdotale che mi ha determinato a fare il prete ne usciva massacrata non riuscendo più a capire chi fossi e che cosa facessi a questo mondo. Un mio insegnante mi rasserenò dicendo che quella di Raner era ricerca pura e teoria ad alto livello, ma che doveva essere mediata e calata nella vita a livello esistenziale.

Così penso sia anche per questi ricercatori ai massimi livelli e cioè che le loro teorie devono incarnarsi nelle formule consuete. Ho capito che nella vita di tutti non solo c’è spazio, ma che ad esempio, per quello che riguarda la fede, tutto lo spazio va riempito con: la messa, il breviario, il rosario, le novene, le giaculatorie, i funerali e i matrimoni. Sono arrivato alla conclusione che la fede, come la verità, la bellezza e l’amore sono verità alte e pressoché indefinibili e, da un punto di vista teorico, forse poco appaganti umanamente, che però vanno mediate riducendole a parole e gesti umili e semplici che, soli, le possono rendere utilizzabili anche dagli illetterati.

Se io domandassi a questi testoni: «Cos’è l’amore?», di certo mi farebbero un discorso altrettanto ostico e difficile di quello sulla Chiesa e la fede, però poi nella pratica l’amore è quella realtà dolce che fa cantare il cuore e rende bella la vita e si alimenta e si esprime con le cose più elementari: uno sguardo, una carezza, un bacio, cose che anche gli analfabeti sanno far bene.

La ricerca è importante, ma la vita lo è ancor di più. Talvolta può esser utile che quella piccola casta di studiosi se la vedano fra di loro, mentre noi continuiamo a vivere.

21.01.2014

Il vecchio e il mare

Da qualche giorno a questa parte in rapporto alla lettura di un volume in cui eminenti pensatori esprimono il loro pensiero molto critico su Dio, sul cristianesimo e sulla Chiesa, mi torna in mente un lungo e famoso racconto di Heminway, “Il vecchio e il mare”. Lo riassumo in poche parole per chi non l’avesse letto, perché possa comprendere il mio stato d’animo.

Il libro racconta la vicenda di un vecchio pescatore che esce in mare per la pesca e fortunatamente, ma con tanta fatica, riesce a prendere un grosso pesce, ma data la sua mole non è in grado di caricarlo a bordo, quindi lo lega alla barca sperando di portarlo in qualche modo a riva. Purtroppo altri pesci, quanto mai voraci, glielo mangiano letteralmente e il pescatore, dopo tanta fatica, arriva alla sponda con solamente la lisca del grande pesce. Il romanzo rispecchia la visione pessimistica del grande narratore che finì per togliersi la vita nonostante i suoi successi. La storia, pur narrata con stile limpido e avvincente, è di una grande tristezza.

Qualcuno si domanderà che rapporto c’è tra questo racconto e la lettura appena terminata del volume “Dialogo” di Ezio Mauro, Edizione Einaudi, volume che raccoglie gli incontri di Scalfari con Papa Francesco, poi corredato dalla critica di eminenti studiosi quali Veronesi, Enzo Bianchi, Cacciari, Boff ed altri ancora. I discorsi di questi studiosi si muovono ad altissimo livello intellettuale, di certo superiore alla mia preparazione culturale e alla mia intelligenza. Molti di questi critici poi sono pensatori non credenti o laici, così che dal loro discorso ho avuto la sensazione di correre il pericolo che possano erodere i miei valori fondamentali che, tutti, si rifanno al messaggio cristiano e alla tradizione.

Mi è venuta tanta paura che alla fine della vita, dopo aver scoperto un messaggio che ha motivato la mia esistenza e che m’è parso finora il migliore e quello assolutamente vero, questi liberi pensatori me lo possano ridurre ad una povera lisca di pesce inutile e piena di spine.

Rimango convinto che l’aggiornamento, il dialogo e il confronto, siano utili, anzi necessari, però questo va bene se fatto ad armi pari e con contendenti dello stesso “peso”, cose che però io non posseggo.

Mi sono consolato con una storiella tanto meno nobile ma efficace. Un barcaiolo porta in mare uno studioso illustre ma saccente. Questi domanda al povero gramo se conosce una teoria, poi un personaggio, quindi un’opera d’arte e il marinaio è costretto a dire, mortificato, sempre di no. Al che lo studioso gli dice: «Hai perso metà della tua vita». Ma mentre parlano, scoppia nel lago un furioso, improvviso temporale. Allora il barcaiolo chiede al suo illustre trasportato: «Lei sa nuotare?» «No!», gli risponde quello. Allora il poveretto, pressoché illetterato, conclude: «Allora lei ha perso tutta la vita!»

Per ora scelgo la parte del barcaiolo, anche se poco colto!

20.01.2014

La dottoressa Corsi

Attendevo da un paio di settimane con trepidazione questa telefonata, e purtroppo ora mi è giunta: la dottoressa Francesca Corsi, funzionario di alto livello del Comune di Venezia, è morta.

A motivo dei Centri don Vecchi in questi ultimi vent’anni il rapporto con questa donna è stato frequente, stretto e quanto mai collaborativo. Ho sognato e mi sono battuto con fatica e molta determinazione per la soluzione che col tempo è stata identificata nel Centro don Vecchi a favore degli anziani, ma ero sprovvisto di esperienza e conoscenza degli ingranaggi degli enti pubblici, mentre lei, che ha speso una vita all’interno di queste realtà, intelligente e determinata com’era, ha condiviso con me e mi ha offerto frequentemente soluzioni determinanti a livello legale e burocratico che da solo non sarei mai stato in grado di risolvere.

La dottoressa Corsi in questi ultimi vent’anni, all’interno dell’assessorato alle politiche sociali del Comune di Venezia, ha ricoperto ruoli di alto livello nel settore che riguarda gli anziani e i disabili, io l’ho conosciuta sui banchi della scuola quando insegnavo alle magistrali e lei era ancora una ragazzina.

Nacque, fin da allora, un rapporto di simpatia e di condivisione. Forse sono stato un docente anomalo, perché ho sempre tentato di passare valori piuttosto che aride nozioni dottrinali. Onestamente penso che i miei alunni abbiano colto e condiviso il messaggio di solidarietà in cui ho sempre creduto e che rappresenta il cuore del messaggio evangelico.

Francesca, da quanto ho potuto riscontrare, fu una delle alunne che recepì in maniera più seria e sostanziale questa proposta e l’attuò in maniera del tutto personale attraverso un suo itinerario spesso sofferto, ma sempre coerente.

Sulla testimonianza umana e sociale della dottoressa Corsi spero di ritornare con più calma e serenità. Ora la notizia della sua scomparsa mi turba troppo, anche perché sento rimorso per non averle detto più spesso e più apertamente il mio affetto, la mia ammirazione e la mia riconoscenza. Un sentimento di pudore e di rispetto reciproco ha sempre caratterizzato il nostro rapporto, tanto che io stupidamente le ho sempre dato del lei, nonostante le volessi tanto bene e condividessi tanto a fondo il suo modo di operare e la sua reale dedizione al prossimo, dedizione che superava in maniera abissale il suo dovere professionale.

Chi mi ha annunciato la morte della dottoressa Corsi, mi ha riferito che lei ha chiesto ad un suo collega a cui era legata da sentimenti di stima e di condivisione, che fossi io a celebrare il suo funerale. Questo mi assicura che l’intesa fu vera e profonda, nonostante il diaframma di un pudore che, soprattutto da parte mia, ha impedito un rapporto più caldo ed affettuoso.

Ora la piango, ma sono certo che la comunione di ideali con questa bella creatura mi aiuterà nel mio impegno a favore degli anziani e che assieme potremo fare ancora qualcosa di buono per i fratelli più fragili.

17.01.2014

La gratuità sacerdotale

Come mi lasciano assolutamente indifferenti le disquisizioni spirituali, i voli mistici e le esegesi meticolose delle pagine dei testi della Sacra Scrittura, per quanto esse mi possano apparire alte e sublimi, così invece mi mettono radicalmente in crisi le scelte esistenziali di preti e di laici che tentano di tradurre nella vita concreta il messaggio cristiano.

Alcuni mesi fa, in una delle infinite pagine dei miei diari, confessai la mia sorpresa di fronte ad una precisa presa di posizione di un mio collega che avevo tentato in qualche modo di ricompensare per essersi reso disponibile a celebrare i divini misteri nel Centro don Vecchi di Campalto. E’ arcinoto che i settanta, ottanta anziani residenti nel Centro di Campalto sono particolarmente segregati a motivo di via Orlanda, una strada supertrafficata e della assoluta impossibilità di raggiungere perfino la vicina parrocchia di Campalto, sia a piedi che in bicicletta.

In verità non è che ci sia stata una richiesta corale per avere la messa festiva in casa, però un certo numero di residenti ne avrebbe gradito la celebrazione ed io più di loro. Dopo notevoli peripezie piuttosto negative, un parroco di una parrocchietta vicina, si offrì spontaneamente di farlo. Ne fui edificato e, com’è d’uso, cercai di fargli avere una ricompensa adeguata. Non ci fu verso! Rifiutò cortesemente, ma altrettanto decisamente, ogni compenso diretto o indiretto. Avendo io insistito ulteriormente, riferendomi ad una prassi consolidata in proposito, mi disse che aveva scelto di rifiutare sempre ogni compenso in occasione di qualsiasi servizio religioso da lui prestato.

Ripeto: fui assai edificato e su questa sua scelta feci un serio esame di coscienza sul mio modo di comportarmi in proposito. Io non ho mai chiesto nulla e di certo non chiederò nulla in futuro per le mie prestazioni religiose, però, avendo deciso di devolvere ai poveri fino all’ultimo centesimo di quanto mi si offriva, ho sempre accettato le offerte, spesso anche molto generose.

Conclusi che le due scelte, pur essendo diverse, fossero soluzioni accettabili e condivisibili entrambe. Senonché qualche settimana fa, un mio amico mi regalò un volume: “Lettera all’amico vescovo”. Capii subito che il titolo è un pretesto letterario per proporre in maniera decisa la tesi ideale perseguita dal sacerdote milanese, don Luisito Bianchi che, riferendosi all’affermazione del Vangelo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, non solo rifiutava le offerte in occasione di celebrazioni delle messe e dei sacramenti, ma scelse di mantenersi lavorando: con prestazioni di lavoro intellettuale quale traduttore di testi, e manuale quale manovale in fabbrica, o inserviente in ospedale, rifiutando la “paga” che col concordato di Craxi il prete riceve dallo Stato e dalla Chiesa.

Questa testimonianza, che ritengo bella, luminosa e profetica, non penso che sia realisticamente e positivamente praticabile da tutti i preti perché farebbe mancare una disponibilità di cui oggi il popolo cristiano ha assoluto bisogno, però rimane essa un monito e costringe ad una verifica della quale c’è anche oggi assoluta necessità.

Il tempo della vendita delle indulgenze è fortunatamente finito da un pezzo, ma la necessità di una vita sobria, povera, disinteressata e generosa da parte dei preti, purtroppo è ancora terribilmente attuale.

29.12.2013

Papa Francesco, l’uomo dell’anno

Penso che siano gli americani ad essere amanti, in maniera particolare, dei sondaggi a livello mondiale sui personaggi che maggiormente si impongono sull’opinione pubblica, arrivando poi a nominare colui che è emerso maggiormente come la “persona dell’anno”. Per quanto ne so io normalmente si tratta di qualche attrice che s’è imposta per la sua avvenenza fisica, di uno sportivo particolarmente dotato a livello atletico, o talvolta qualche politico che esce dal mazzo, ammirato per aver vinto qualche impresa difficile a livello sociale.

Può darsi che a livello religioso si siano imposte figure come Madre Teresa di Calcutta, ma mai ho sentito dire che un membro della gerarchia ecclesiastica, e soprattutto un Papa, in questo mondo così secolarizzato e così critico nei riguardi della Chiesa istituzionale, abbia ricevuto la “corona” di persona dell’anno. Cosa ha fatto Papa Francesco per imporsi all’attenzione o all’ammirazione dell’opinione pubblica mondiale? Mi pare che finora non abbia ancora fatto nulla di straordinario, anche per quanto riguarda le riforme; ha mosso, si, i primi passi per dei cambiamenti significativi, però non è ancora emerso niente che abbia mostrato un volto nuovo nell’organizzazione della Chiesa.

Il nostro Papa penso invece abbia incantato le folle non usando strategie particolari e facendo leva su un impianto pastorale veramente innovativo, ma ritornando semplicemente allo stile del Vangelo: occupandosi degli ultimi, parlando una lingua comprensiva a tutti, allontanandosi dalle sofisticazioni teologiche, adottando lo stile della gente del popolo, parlando della bontà e della misericordia del Padre e aprendosi con semplicità al dialogo con tutti, non facendosi fagocitare dal protocollo, dallo stile curiale ed abbandonando gli orpelli di una sacralità fatta di parole magiche, di indumenti strabilianti e lontani dall’essenzialità del vestire della gente comune.

Papa Francesco sta portando avanti una rivoluzione pari, per radicalità, a quella del suo omonimo che l’ha fatta, otto secoli fa, partendo dalla sua Assisi, senza gesti eclatanti, senza paroloni altisonanti, senza strumenti sofisticati, ma fidandosi solamente della sua umanità, dei suoi doni naturali e soprattutto dello stile di Gesù.

Quando in passato leggevo nel Vangelo che folle di migliaia uomini, senza contare le donne e i bambini, andavano ad ascoltare Gesù perfino dimenticandosi di mangiare, mi pareva qualcosa di miracoloso ed esagerato. Ora, fatte le debite proporzioni, è la stessa cosa: la folla di fedeli che oggi, con qualsiasi tempo va ad ascoltare ed acclamare il Papa, ha come unità di misura le diecimila persone, toccando spesso le centomila e, arrivando in Brasile, a quattro milioni!

Nella pastorale pare che non ci sia nulla da inventare, basta semplicemente seguire fedelmente il Maestro Gesù!

28.12.2013

La richiesta di don Enrico

C’è un antico detto espresso dalla saggezza della cultura di Roma antica, “Le parole volano, mentre gli esempi trascinano”. Io sento un bisogno estremo di esempi e di testimonianze, anche se apparentemente sembrano modeste. Quando riesco a cogliere qualcuna di queste scelte coerenti ad affermazioni e spesso discorsi altisonanti, non solo sono felice, ma veramente mi sento bene.

Credo di aver affermato più volte, in queste mie riflessioni pubbliche, che mi aspetto dai sacerdoti un minimo di coerenza. Forse sarà populismo da prete, ma confesso che i preti che cambiano automobile di frequente, o scelgono macchine potenti e costose, oppure sentono il bisogno di andare in vacanza in capo al mondo, o che si preoccupano di assicurarsi la villetta o un appartamento spazioso per la loro vecchiaia, potranno avere l’eloquenza di Bossuet o Lacordaire, però i loro discorsi non mi turbano affatto, per me sono acqua fresca, anzi finiscono per irritarmi.

Nel contempo confesso pure che quando scopro nei miei colleghi passione per le anime, dedizione, amore per i poveri o ricerca di una pastorale che risponda alle esigenze degli uomini del nostro tempo, questi preti mi edificano e mi mettono positivamente in crisi.

Qualche giorno fa mi raggiunse una telefonata di don Enrico Torta, l’attuale parroco di Dese, quel prete che recentemente si schierò pubblicamente con i poveri, dicendosi disposto a guidare la rivoluzione dei derelitti per ottenere il necessario per vivere e che fece scalpore sulla stampa cittadina per un paio di giorni.

Don Enrico, con quella sua voce calda e serafica, mi disse al telefono: «Don Armando, mi daresti una cameretta al don Vecchi? A fine anno compio 75 anni, quindi dovrei andare in pensione, ma ho promesso al Patriarca di rimanere in parrocchia fino al giugno del 2014. Ti chiedo fin d’ora se posso contare su un minialloggio nel Centro don Vecchi di Campalto».

La richiesta di questo buon prete, mite e intelligente, ha toccato il mio animo come se avessi ricevuto una telefonata da Papa Francesco o, meglio ancora, se avessi incontrato Gesù risorto in persona!

Già venti anni fa avevo messo a disposizione, con dichiarazione formale al patriarca Luciani, sei appartamentini studiati ad hoc per preti anziani, però se fosse stato per le richieste dei preti veneziani, essi sarebbero sfitti da vent’anni. La scelta di condividere la vita dei poveri a chiacchiere è condivisa da tutti, però con i fatti moltissimi. preferiscono quella borghese. Comunque finché si riesce ad incontrare sulla nostra strada preti come don Torta, che sceglie così per la sua sistemazione da pensionato, si può continuare a sperare che la Chiesa veneziana avrà futuro.

07.11.2013

“Le chiavi del Regno”

Origene, uno dei più grandi scrittori ecclesiastici della Chiesa antica, sosteneva che, pur esistendo l’inferno, nessuno ne sarebbe stato rinchiuso perché gli pareva assurdo che il sacrificio di Gesù, Figlio di Dio, non riuscisse a portare a salvezza ogni uomo, per quanto perduto.

Questa tesi non fu condivisa da tanti teologi e soprattutto da tanti mistici (ci fu infatti perfino una santa che, in base ad una presunta visione, disse che le anime che andavano all’inferno erano tanto numerose quanti i fiocchi di neve che cadono durante una grande nevicata). La tesi di Origene fu ripresa qualche decennio fa da Papini, il famoso poeta fiorentino convertitosi in età matura.

Io che non sono né un teologo né un mistico, ma semplicemente una povera creatura che ama e crede nel Dio fattoci conoscere da Gesù, con grande semplicità e fiducia sono più vicino ad Origene e a Papini che ai predicatori che ho ascoltato nella prima infanzia, preti e frati che sembravano degli specialisti degli altiforni dell’inferno e parlavano, con dovizia di particolari, delle pene infernali.

Ho già detto, adoperando solamente il sentimento e il cuore, che penso che Pannella si guadagni un posto in prima fila in Paradiso per le sue campagne e per le innumerevoli quaresime a favore della legalità, degli aiuti al Terzo mondo, della “giustizia giusta” e, più recentemente, per la questione del sovraffollamento delle carceri e soprattutto per una giustizia che sia veramente impostata per il recupero e per la redenzione dell’uomo e non solo per una detenzione disumana.

In quest’ultimo tempo poi sto pensando che pure il buon Napolitano, cresciuto alla scuola delle Botteghe oscure e che ebbe per compagni di classe Togliatti, Paglietta, Ingrao, Longo e via di seguito, stia conquistandosi “le chiavi del Regno” con scelte decise e coerenti al messaggio evangelico, prima accettando la croce pesante della presidenza della Repubblica nonostante l’età che gli avrebbe dato diritto ad una meritata e serena pensione, poi portando pazienza con dei parlamentari che più litigiosi e arroganti di così non se ne potrebbero trovare, infine invitando il Parlamento a mettersi una mano sul cuore per rendere le sentenze più rapide. Ci sono infatti migliaia e migliaia di cittadini in carcere per mesi prima del processo e tutti gli altri, pur condannati, che vivono in condizioni terribili per sovraffollamento.

Da ragazzo lessi “Le chiavi del Regno” in cui Cronin afferma che per arrivare al Regno ci sono infinite strade. Ora mi viene da pensare che sono sempre più numerosi i concittadini che scelgono strade alternative a quella indicata dalla Chiesa e mi pare che procedano anche con sicurezza e rapidità verso il “Regno”. Vuoi vedere che Origene prima, e Papini poi, avevano ragione!

08.10.2013