Fede e ragione

Uno dei grandi problemi che hanno tormentato la coscienza dei credenti responsabili e dei laici onesti soprattutto nel passato, è stato “Il rapporto tra fede e ragione”. Il problema è presente anche oggi, ma a me pare meno violento, meno astioso, anzi più corretto, rispettoso e nobile tra i rappresentanti più intelligenti e più onesti delle due sponde opposte.

Di certo questo discorso non può essere affrontato correttamente e con qualche risultato tra bigotti o credenti esaltati da una parte e dall’altra atei militanti faziosi e in cerca di battute ad effetto, o motivazioni che giustificano una condotta amorale.

Ultimamente ho letto lo scambio di opinioni tra Scalfari e il cardinal Martini e lo stesso giornalista e papa Francesco e ne sono rimasto edificato per la pacatezza, il rispetto e lo spirito di comprensione e di ricerca che ho avuto modo di cogliere tra i “contendenti”. Ora sto completando la lettura di uno scambio epistolare tra Umberto Eco e lo stesso cardinal Martini e vi trovo lo stesso garbo, spirito di ricerca, rispetto e comprensione reciproca. Se il dialogo e il confronto avvenisse sempre con questo stile, sono portato a pensare che ne risulterebbero arricchiti gli uni e gli altri.

Per quanto mi riguarda personalmente mi sono sempre rifatto ad una sentenza che penso ci sia stata offerta dalla “scolastica”, ossia da san Tommaso d’Aquino: “Credo ut intelligam et intelligo ut credam”. Il senso di questa affermazione credo sia pressappoco questo: “Tento di indagare, di cercare e ragionare per dare supporto e giustificazione alla mia fede e uso la fede per giungere oltre la mia comprensione del mistero in cui sono immerso”.

Su questo assioma poggia la mia testimonianza di cristiano e di sacerdote; questo vale per la mia vita personale, ma vale pure per il mio impegno pastorale nei riguardi dei fedeli, degli agnostici e pure dei non credenti che incontro sul mio cammino. Tutto questo tento di viverlo con umiltà e con rispetto, specie nei riguardi della fragilità dei semplici e delle persone con poca cultura, però questo è il filo conduttore del mio pensare e del mio agire.

Fatta questa affermazione, debbo pur confessare che ogni mia professione di fede passa per un crogiolo di domande, di verifiche, spesso faticoso e sofferto, però mi guardo bene dal vendere fumo o “articoli” della cui bontà non sono convinto. Sono quindi portato a scartare in partenza rivelazioni, apparizioni e pratiche che sanno di portento o di facile miracolo.

Quanto sono convinto della creazione, della paternità di Dio, del suo dialogo con le creature, altrettanto rifiuto tutto quello che sa di magico e talvolta perfino di miracoloso viene fatto passare come pensiero di Dio. Lascio volentieri ad altri farsi propagandisti di paccottiglia religiosa, perché il Dio in cui credo è un Dio serio e non da baraccone.

03.07.2014

L’uomo e la divisa

Una persona colta che mi onora della sua amicizia un paio di giorni fa mi ha donato un volumetto dell’Editore Bompiani con un titolo che ha stuzzicato immediatamente la mia attenzione: “Carlo Maria Martini – Umberto Eco. In che cosa crede chi non crede?”.

Io da sempre sono un uomo in ricerca. Le verità a cui sono approdato non mi bastano, e la coscienza mi costringe a verificarle ogni giorno, motivo per cui il dialogo epistolare tra il grande vescovo di Milano e Umberto Eco – che prima non sapevo fosse non credente – mi interessa quasi in maniera morbosa.

Umberto Eco l’ho conosciuto attraverso la lettura del suo grande romanzo “Il nome della rosa”, che si potrebbe definire un “giallo”, opera che mi ha interessato per la trama, ma soprattutto per la descrizione dotta e puntuale dei movimenti religiosi radicali presenti nella Chiesa al tempo di Francesco d’Assisi, pagine di storia che conoscevo poco.

Il cardinale Martini l’ho scoperto soprattutto dopo la sua morte. Di lui ho ammirato la cultura profonda, l’onestà intellettuale, la saggezza nel pazientare il ritardo della Chiesa nella storia e nell’accompagnarla, quasi paternamente, verso il suo aggiornamento.

Ho letto quasi per metà il volumetto scoprendo ancora una volta la mia modesta cultura e l’altrettanto modesta intelligenza. Eco e Martini sono due “grossissimi calibri”, per loro è normale “volare alto”, così che per me diventa difficile seguirli nei passaggi quanto mai difficili. Comunque per oggi mi soffermo su una battuta iniziale di Eco che mi stimola a riflettere su un antico problema per me non ancora risolto della nostra, pur avanzata, società.

Dice Eco, rivolgendosi a Martini: «Non mi ritenga irrispettoso se mi rivolgo a lei chiamandola per il nome che porta e senza riferimenti alla veste che indossa. Ci sono persone il cui capitale intellettuale è dato dal nome con cui firmano le loro idee e non dal titolo che è premesso a quel nome».

Questo atteggiamento che Martini, nella sua risposta, accetta cordialmente, sottolinea che il valore di un discorso non è ancorato al titolo, alla divisa o al posto che una persona occupa, ma al valore della persona e del pensiero che essa offre. Nel nostro mondo c’è ancora troppo spirito di sudditanza, di riverenza ai gradi che contrassegnano la divisa o la “sedia occupata”. Pure l’uomo di oggi pare non si sia ancora liberato dalla soggezione della divisa e dei ruoli e non si sia emancipato da un certo servilismo civile ed intellettuale. Ci ha provato la rivoluzione francese a spogliare le persone dalle “etichette superflue” chiamando tutti “cittadino”, come pure s’è cimentata quella russa chiamando tutti “compagno” e perfino quella cristiana chiamando tutti “fratello”.

Spero che prima o poi riusciamo a considerare ogni creatura “Persona”, non togliendo o aggiungendo qualcosa di fuorviante a motivo del titolo o del posto che occupa nella società, perché ognuno è quello che è e non quello che pretende o si illude di essere.

23.06.2014

L’origine remota

Ho già raccontato che al liceo ebbi per un paio d’anni un insegnante di storia assai originale nel modo di ragionare, ma che comunque era un uomo assai saggio ed intelligente. Si trattava del professor Angelo Altan, personaggio di cui ho raccontato che comperava il Gazzettino, lo metteva nel suo scrittoio e lo leggeva dopo settimane dicendoci che così aveva modo di valutare l’intelligenza dei giornalisti e la consistenza dell’evento di cui scrivevano. Questo professore, quando faceva lezione su un particolare evento storico, cominciava sempre con l’inquadrarlo citando le ragioni remote e prossime che avevano prodotto quell’evento. Il suo discorso era di certo intelligente e colto, ma noi studenti talvolta, celiando, dicevamo che avrebbe sempre dovuto partire da Adamo ed Eva e dal relativo peccato originale, e lui, stando al gioco, affermava: Perché no! Ogni evento dipende sempre dall’origine da cui è sorto!Ÿ.

Mercoledì scorso, 14 maggio, durante l’inaugurazione del “don Vecchi 5” è intervenuto anche il consigliere regionale Gennaro Marotta, il quale si arrogò un certo merito nei riguardi della nuova struttura per anziani in perdita di autonomia. Ne raccontò la genesi che io avevo totalmente dimenticato.

Le cose andarono così: il dottor Bacialli, direttore dell’emittente “Rete Veneta”, mi invitò a partecipare ad un dibattito sulla residenzialità degli zingari, forse sapendo che io avevo affermato più volte che quella del sindaco Cacciari di costruire a Favaro le casette per gli zingari mettendoli tutti assieme era stata una grossa “castroneria”: ghettizzandoli era come favorire certe loro abitudini malsane.

Lo studio televisivo è alla periferia di Treviso. All’andata mi accompagnò Bacialli stesso e per il ritorno chiese al consigliere Marotta di portarmi a casa, perché da solo mi sarei di certo perso nel labirinto delle strade della Marca Trevigiana.

Nei tre quarti d’ora di strada fu giocoforza parlare e io gli parlai degli anziani, argomento che mi stava a cuore. Marotta mi promise di darmi una mano per come poteva. Infatti qualche settimana dopo accompagnò il dottor Remo Sernagiotto, assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, al “don Vecchi”. L’assessore rimase “folgorato” dalla struttura, dalla dottrina da cui nasceva e dall’economicità della gestione. Sposò immediatamente il progetto di affrontare una esperienza pilota per risolvere il problema degli anziani che si trovano in quella zona grigia che sta fra l’autosufficienza e la non autosufficienza. Attualmente le strutture che provvedono alla non autosufficienza, sono strutture costosissime per la società e per di più di stampo, tutto sommato, ottocentesco, che privano il soggetto di ogni rimasuglio di autonomia.

Da quell’incontro nacque la sfida della Fondazione di sperimentare un progetto assolutamente innovativo che rispetti la persona e le permetta di rimanere tale anche nel disagio della vecchiaia. Da quell’incontro nacque la proposta del mutuo a tasso zero in 25 anni e l’offerta di una modestissima diaria per offrire un minimo di assistenza agli anziani che sarebbero stati accolti.

Il mio piccolo sacrificio di dedicare una serata a quel dibattito ha prodotto una struttura del costo di quattro milioni di euro che per almeno cent’anni metterà a disposizione degli anziani poveri di Mestre 65 alloggi. Ne è valsa la pena!

22.05.2014

Morte inutile?

Ho appena celebrato una messa in suffragio di Matteo Vanzan, il giovane lagunare morto a Nassiriya in Irak in un’azione che consentisse di poter trasportare aiuti ad una base italiana attaccata e circondata da guerriglieri iracheni.

Mi ha fatto piacere che l’Associazione di ex Lagunari del paese di Matteo abbia organizzato ancora una volta la deposizione di una corona di alloro presso la sua tomba e la celebrazione dell’Eucaristia in suffragio nella mia chiesa, perché soltanto alla luce del messaggio di Cristo questi drammi umani si possono comprendere e, pur con fatica, accettare, perché in questa prospettiva di fede tutto ha senso e significato.

Io ho conosciuto solamente dopo la morte questo giovane ed ho finito per volergli bene perché la sua “dimora eterna” attuale è ubicata all’interno del nostro camposanto il quale ospita la più grande comunità di fedeli e quindi lo ritengo mio parrocchiano. Ho approfondito questa “amicizia” attraverso quanto hanno detto di lui i giornali e i vari cappellani militari che si sono avvicendati durante questi ultimi dieci anni.

Come dicevo, questa mattina la sezione dell'”Associazione lagunari in pensione” del paese natio di Matteo ha chiesto a me il compito di ricordarlo al Signore, ai compagni d’arma e ai cittadini. Ho accettato volentieri questa richiesta perché Matteo è uno dei “parrocchiani” che conosco meglio. Ho guidato con fede e fiducia la preghiera dei numerosi presenti: militari in servizio, e militari in pensione, famigliari, compagni d’arma e cittadini, chiedendo al Signore “la vita nuova e migliore” per questo giovane che ha ritenuto di impegnarsi per creare un mondo nuovo attraverso il servizio militare e che ha pagato assai cara la sua scelta di servire l’umanità in questa maniera.

Mi è parso giusto raccogliere e riproporre la testimonianza personale di questo concittadino in armi e dell’evento della sua morte. Da un lato ho quindi affermato che è sempre doveroso sottolineare positivamente la scelta di un giovane che aveva ideali, che sapeva il probabile costo della sua decisione e che poi ha pagato questo prezzo così elevato. Ma dall’altro lato non ho potuto fare a meno di affermare con assoluta convinzione che non bisogna educare i nostri giovani a “morire per la Patria”, ma formarli a vivere a favore di essa. Ognuno deve mettere sul tavolo della vita il meglio di sé per il bene di tutti.

Pur provando un certo imbarazzo per aver davanti dei militari con belle uniformi e addosso un sacco di onorificenze, ho affermato che è ora che le questioni interne ed internazionali risolvibili con la ragione siano affrontate con il dialogo e perfino col compromesso, ma mai più con le armi.

Confesso che attualmente provo una vera nausea quando vedo in giro uniformi e sento parlare di campagne e di spese militari; mi pare che quel mondo appartenga ormai ai secoli di piombo e che la più bella operazione che potrebbe far Renzi sarebbe quella di vendere per ferro vecchio cannoni e carri armati e mandare a lavorare in fabbrica o in campagna le decine di migliaia di uomini che “vivono per la guerra”.

20.05.2014

Il Vangelo di “don Spritz”

Questa mattina ho terminato di leggere “L’odore del gregge”, il volume uscito da poco del giovane prete padovano don Marco Pozza. Di questo prete, che ho incontrato per caso un paio di anni fa sullo schermo della televisione, ho parlato altre volte perché, per un certo verso, è un sacerdote “sui generis” dell’ultima generazione, con una mentalità, un linguaggio e un comportamento per me, educato alla vecchia maniera, del tutto particolare.

Non posso dirvi che sono stato “folgorato” dalla lettura della sua opera, comunque sono stato interessato a conoscere questo prete a motivo dell’età, perché nella nuova generazione sacerdotale vi sono parecchi giovani preti che sono più vicini, come mentalità, al primo millennio che al terzo in cui viviamo altri più vicini al quarto millennio. Comunque “don Spritz”, come l’hanno denominato i giovani, è l’espressione più autentica della mentalità, del comportamento e del linguaggio dei giovani del nostro tempo.

Faccio un rapido cenno alla sua biografia e alla sua personalità. Don Pozza è nato nel padovano nel 1979, ha quindi 35 anni. Mandato dal suo vescovo a Roma presso l’Università gregoriana a specializzarsi in teologia, una volta laureato è tornato a Padova, dove è stato incaricato di assistere i carcerati dell’istituto penitenziario patavino “I Due Palazzi”.

Da ciò che ho potuto capire questo prete ha una notevole presa sui giovani ed un enorme seguito nel sito internet che egli ha aperto e che cura attualmente. Dalla foto riportata nel suo volume è un bel ragazzo con due occhi vivacissimi e sorridenti.

Nel volume, che è uscito da poco, egli inquadra alcune delle principali parabole del Vangelo dandone una interpretazione quanto mai personale, usando una terminologia che certamente si rifà al linguaggio giovanile, tutta piena di iperbole ed espressioni tipiche del gergo dei nostri giovani. Conclude il volume con una confessione personale nei riguardi di Cristo intitolata “Vi racconto il mio Gesù”.

Ripeto: lo stile è tutto frizzante, spumeggiante, esagerato, tanto che leggendo mi riaffiorava alla memoria la scena delle folle di giovani che si dimenano, applaudono e si esaltano all’ascolto di certi cantanti che a me fanno pena e disgusto perché mi sembrano burattini vestiti da pagliacci che saltellano sul palco emettendo suoni striduli e irritanti.

Di certo “don Spritz” è in sintonia con un mondo che io non voglio rifiutare in maniera pregiudiziale, ma che comunque faccio estrema fatica a comprendere e ad accettare. Sono però felicissimo che il giovane collega conosca il linguaggio di questo “mondo nuovo” e sappia comunicare con esso offrendogli la parola di Gesù.

Confesso che ho fatto fatica a leggere fino in fondo questo testo coloratissimo di immagini che pur si rifanno al testo sacro e spero tanto che invece i nostri “ragazzi da discoteca” ed anche da sballo incontrino finalmente chi parla la loro lingua ed offra sbocchi positivi al loro vivere.

19.05.2014

“Il Quinto Evangelo”

Molti anni fa mi è capitato di leggere un volume di Mario Pomilio intitolato “Il quinto evangelio”. In questo volume l’autore afferma che la rivelazione del Nuovo Testamento raccolta dai quattro evangelisti Marco, Luca, Matteo e Giovanni, non termina con l’ultimo evangelista ma l’azione di Dio nella storia umana è continuata e continuerà fino alla fine del mondo. Questa azione continua di Dio è recepita nel “quinto evangelo”, quello che è redatto da ciò che l’uomo riesce a recepire di divino in ciò che accade nel mondo. La rivelazione e la redenzione non si sono concluse, ma sono un fatto permanente perché Dio ama e salva l’uomo in ogni tempo ed in ogni situazione.

Questo discorso per me è stato di capitale importanza perché mi sono sentito dentro l’attenzione e il progetto di Dio per la mia salvezza.

Più recentemente ho letto un altro volume, del giornalista Luigi Accattoli altrettanto illuminante e complementare a quello di Pomilio; si intitola “Fatti di Vangelo” e riporta il frutto della ricerca di questo pensatore. Egli infatti raccoglie fatti, episodi, incontri, discorsi espressi da uomini di alto profilo spirituale che, riferendosi al messaggio di Gesù contenuto nei Vangeli, compiono azioni e scelte in linea con la proposta che il Figlio di Dio è venuto a farci.

Posso ben dire che per me la lettura di questi due volumi non solo è stata illuminante, ma ha cambiato radicalmente la mia lettura del progetto di salvezza contenuta e descritta dai Vangeli. Perciò la mia fede non è stata più ancorata al passato e non mi sono più limitato a riviverla attraverso il “memoriale” che la riprende e la ripropone con i gesti liturgici che recuperano il ricordo di fatti avvenuti secoli fa, ma mi sento totalmente immerso nell’abbraccio di Dio che mi ama, mi parla e mi salva con parole e fatti a me contemporanei.

Il mio Dio non è rimasto il vecchio Dio conosciuto al catechismo e nei miei studi di teologia, ma è diventato un Dio contemporaneo, presente nel mio oggi, che mi parla, mi guida e mi salva oggi. Il mio Dio non è più quello “un po’ vecchiotto” conosciuto attraverso i discorsi e le immagini del passato, ma è un Dio vestito con gli abiti di oggi, che mi parla con la lingua parlata oggi, il Dio con cui posso colloquiare come con uno che è dentro alla mia storia, ai miei drammi e alle mie attese.

Non so se sia riuscito a descrivere questa mia evoluzione interiore. Vorrei dire che oggi non mi sentirei né cristiano né credente, se non avessi scoperto il “Dio dei viventi”. A buona ragione devo confessare che sono enormemente grato a Pomilio e ad Accattoli, “evangelisti” dell’oggi che hanno reso l’avventura cristiana come un’avventura piena di fascino che mi coinvolge fino al “midollo” dell’anima.

09.05.2014

Marco e Francesco

L’altro ieri ho letto che il consenso a Renzi sfiora il settanta per cento. Sono molto contento perché finalmente Cincinnato ha trovato almeno un discepolo, cosa non facile nel nostro tempo.

Il nostro nuovo Presidente del Consiglio non ha fatto il discorso compassato dell’antico romano: “O mi accettate così, altrimenti torno a fare il contadino e vorrà dire che se Roma riterrà di avere bisogno di uno come me, mi troverà al lavoro nei miei campi”. Il Matteo, fiorentino fino al midollo, ha fatto un ragionamento più scanzonato: “O la va o la spacca!”. La sostanza però è sempre la stessa!.

Sono contento perché, seppur ora si tratta soltanto di qualche mosca bianca, pare che nel nostro Paese finalmente compaia qualcuno che si mette tutto in gioco.

Papa Francesco, da quanto ho letto, supera presso i Veneti il 90 per cento di consensi; mi pare che lui la pensi alla stessa maniera. La sua rivoluzione è una delle più radicali e di più rapida esecuzione. Pure Papa Francesco è uno che punta al sodo, che non si fa imbrigliare dal perbenismo ossequioso e inconcludente e che si sta giocando totalmente sull’obiettivo di una Chiesa povera per i poveri e soprattutto su una Chiesa di stampo evangelico senza mediazione e gradualità di sorta.

L’ultima di questo pontefice che non cessa di sorprendere, è la telefonata a Marco Pannella, il più anticlericale degli anticlericali esistenti non solo in Italia ma nel mondo intero. Il fatto che poi sia stata la Bonino a chiedere questa telefonata – almeno da quanto affermano i giornali – mi fa ancora più tenerezza e soprattutto mi fa capire che quando gli obiettivi sono veri, su di essi finiscono per convergere le persone oneste e sensibili alle istanze dei deboli.

Bella la testimonianza di Pannella! Che si batte da una vita perché le carceri siano più umane, ma soprattutto perché tendano realmente al recupero umano e sociale dei detenuti, mentre i politici piuttosto di affrontare e risolvere i problemi del Paese, sembrano totalmente impegnati a trovar motivi per far prevalere la loro parte e a conservare ulteriormente la propria sedia.

«Le sono accanto, l’aiuterò con la mia parola e la mia preghiera», promette Francesco. «Berrò un caffè in suo onore», ribatte il leader radicale. Una volta ancora si capisce che quando le persone sono oneste e gli obiettivi sono validi, si trova sempre un’intesa, mentre quando non c’è onestà di fondo e motivazioni valide tutto diventa pretesto per litigare e dividersi.

03.05.2014

La vecchia maestra

Sono convinto che pure per i bambini dei nostri giorni la maestra delle elementari sia una figura importante, rappresenti un’autorità nel campo del sapere perché lei apre ai bambini orizzonti nuovi e più vasti di quelli offerti dalla loro mamma. Talvolta sarei tentato di lasciarmi scappare che le maestre di oggi, che si fanno dare del tu dagli alunni, che vestono alla moda, che (per rispetto alla libertà dei bambini?) hanno l’eccessiva preoccupazione di non condizionarli, non hanno l’importanza, l’autorità delle vecchie maestre di un tempo.

Le maestre dei miei tempi erano autentiche educatrici, passavano non solo nozioni, ma soprattutto valori, perché offrivano verità tutto sommato certe e condivise dalle famiglie e società. Praticamente le maestre di un tempo rappresentavano l’interfaccia del sacerdote che possedeva delle verità certe, dei valori non discutibili.

Io ricordo con autentica venerazione ed enorme riconoscenza le mie insegnanti che mi hanno passato senza perplessità i principi fondamentali del vivere civile. L’aver fatto per molti anni il consulente ecclesiastico dell’A.I.M.C. (Associazione Italiana Maestri Cattolici) mi ha fatto conoscere ed amare questa categoria di persone che rappresentano un punto fermo nel campo dell’educazione alla vita civile e pure religiosa.

Ricordo che uno dei principi basilari di questa categoria di insegnanti era che la religione costituisce il principio fondante e il coronamento della pedagogia. La lettura poi del “Libro Cuore” del De Amicis e di “Mondo piccolo” di Guareschi, ha dato volto ancora più sublime e sacro alla personalità della vecchia maestra.

Alcuni giorni fa ho celebrato il commiato religioso di una vecchia maestra di Carpenedo che a novant’anni di età ha lasciato questo mondo per incontrarsi con quel Padre che aveva fatto conoscere ed amare a generazioni e generazioni di scolari. C’era nel mio animo il desiderio e il bisogno di trovare parole care per incorniciare il volto e la missione di quella vecchia maestra che con autorità indiscussa e assoluta tranquillità aveva insegnato i principi del vivere a ragazzi della mia vecchia ed amata parrocchia.

Mi dispiacque di non avere parole belle e care quanto quelle di De Amicis e di Guareschi per offrire un ritratto bello ed adeguato al ruolo svolto dalla vecchia maestra Annalisa Gusso, ma mi è dispiaciuto ancora di più che la chiesa non fosse gremita da quel popolo di bambini che avevano avuto da lei la prima educazione al vivere sociale e pure religioso.

16.04.2014

Un “mio ragazzo”

Un tempo osservavo con una certa ironia le mamme che parlavano dei figli trentenni come fossero ancora dei ragazzini. Ora tocca anche a me di cadere nello stesso errore e probabilmente di essere commiserato dai preti più giovani.

Le ragazze alle quali ho fatto scuola alle magistrali ora sono tutte nonne e in pensione da un bel po’ di anni. Quando mi capita di incontrarle e mi dicono: «Non si ricorda di me, don Armando?, sono la Stefania della terza C, o la Paola della quarta D», io, di fronte a queste signore brizzolate e, nonostante i “ritocchi”, un po’ avvizzite, mi trovo a sorprendermi perché a quei nomi nella mia memoria corrispondono ragazzine frizzanti, tutto brio e avvenenza.

Così mi è capitato qualche giorno fa con uno dei ragazzi incontrato a San Lorenzo nel 1956, quando fui nominato assistente di un gruppo di una settantina di giovani appartenenti all’Azione Cattolica. A quei tempi i militanti si contavano a decine e decine. Quando l’addetto alle pompe funebri mi chiese di fissare il funerale di un certo Tullio Niero, ebbi subito la sensazione di ricordare quel nome, corrispondente ad un giovane dalla voce calda, un po’ burlone, semplice operaio, con qualche po’ di complesso nei riguardi degli amici d’infanzia e di associazione, quasi tutti studenti, però sempre cordiale e affettuoso.

Da quel tempo sono passati quasi sessant’anni. L’avevo incontrato qualche rarissima volta ma tanto tempo fa. Ora ho scoperto che, in pensione da molti anni, ormai ottantenne, acciaccato per una brutta caduta, ridotto a non poter più camminare, era finito in casa di riposo.

La vita usura un po’ tutto – immagini, pensiero, comportamento – e, quando va bene, ti riduce ad un rudere non sempre neanche interessante.

Celebrai il commiato, commosso e partecipe, pregando con particolare fervore perché il Signore l’accompagnasse nel suo Cielo dandogli nuova giovinezza. Poi non potei non chiedermi come appaio io, più vecchio di cinque anni del mio ragazzo, agli occhi della gente del “nuovo mondo”!

Mi sono un po’ commiserato e poi ho ringraziato mentalmente la mia cara gente che mi sopporta ancora come sono.

15.04.2014

Il caudatario

La redazione di “Gente Veneta”, il settimanale della nostra diocesi è poco numerosa ma assai versatile. Io ne provo quasi invidia perché ogni settimana quei tre quattro giornalisti riescono a sfornare 32 pagine fitte fitte di avvenimenti, di notizie e di commenti che riguardano la vita ecclesiale del Patriarcato di Venezia, delle parrocchie, ma pure la vita civile delle nostre due città e dei grossi paesi che compongono la nostra diocesi. Inoltre presentano i grandi eventi che riguardano la Chiesa universale, mentre le nostre dodici pagine de “L’Incontro” escono spesso assai tribolate.

Nel numero del 12 aprile di “Gente Veneta”, come ho accennato nell’editoriale (de “L’Incontro” del 15/6/2014, NdR), la redazione ha dedicato pagine su pagine e molti servizi, tutti assai interessanti, sulla vita veneziana del cardinal Roncalli e ciò in occasione della sua santificazione. Fra i tanti articoli, tutti interessanti, ho letto con curiosità quello di Serena Spiazzi Lucchesi, che si rifà alle confidenze di don Sergio Sambin che oggigiorno deve essere uno dei preti più anziani della diocesi, ma che ai tempi di Roncalli ne era il giovane cancelliere (ossia l’addetto alla stesura degli atti ufficiali del Patriarca Roncalli).

In quell’articolo monsignor Sambin accenna alla “corte patriarcale”, che era formata dal segretario, mons. Loris Capovilla, da lui stesso in qualità di cancelliere, da don Paolo Trevisan, crocifero, e da don Carlo Seno come caudatario, ossia chierico incaricato di sorreggere la “coda” (una specie di telo lungo tre quattro metri, che costituiva lo strascico dei paludamenti patriarcali). Io ricordo pure che alle cerimonie liturgiche c’era anche un nobiluomo con lo spadino ed una guardia della basilica, vestito con un costume del `700, oltre ad un piccolo stuolo di chierici, in abito liturgico, per il servizio.

Il cardinal Roncalli è stato una persona aperta ai tempi nuovi nella sostanza, però nella forma apparteneva al “Piccolo mondo antico” che in pochi decenni è quasi scomparso e di cui Papa Francesco sta “scopando via” gli ultimi rimasugli.

Mentre leggevo queste cose con una certa morbosità, pensavo che lo stesso Roncalli ebbe in gioventù qualche noia perché sospettato di tendenze moderniste, e nella maturità qualche altra perché non ha mantenuto una distanza assoluta nei riguardi dei socialisti in congresso a Venezia e perché nella stessa nostra città c’erano dei cattolici come Vladimiro Dorigo che erano considerati troppo “di sinistra”.

Una volta ancora devo concludere che nella Chiesa ognuno deve fare la sua parte per adeguarla ai tempi nuovi e sbaglia non chi va avanti, ma chi tenta di ingessarla in un passato che comunque sarà spazzato via dall’evolversi della situazione.

14.04.2014

Fuori serie

Quando si riscontrano dei comportamenti anomali in qualche persona o in qualche categoria sociale o religiosa, la gente, imbarazzata e in difficoltà di dare un giudizio, se la cava con una battuta ormai di uso comune: “Il mondo è bello perché è vario”. Non sono molto propenso ad accettare senza alcuna riserva questa sentenza, però penso vi sia molto di vero.

Questo discorso vale per il macrocosmo umano: sarebbe difficile trovare un denominatore comune tra la mentalità dei cinesi, degli arabi, dei tedeschi, degli indiani o degli svedesi, oppure dei francesi o degli italiani. Vi sono delle mentalità, degli stili di vita, norme comportamentali estremamente diversi, ma penso anche che ci sia quasi una camera di compensazione e di complementarietà che, tutto sommato, fa della diversità una reale ricchezza.

Questo discorso vale anche per il mondo degli ordini e delle congregazioni religiose. Vi sono suore di tutte le specie possibili ed immaginabili, con le divise più diverse e con i cosiddetti “carismi” (parola molto di moda tra le suore) almeno nelle enunciazioni tanto dissimili, tanto che qualcuno ha osato affermare che solo lo Spirito Santo conosce i nomi di tutte le congregazioni religiose.

Ora però, da qualche decennio, sembra che pure dagli stessi ordini monacali, antichi e moderni, stiano emergendo dei religiosi che escono dai tradizionali binari – di norma molto statici perché fissati dalle “sante regole” – per dare delle testimonianze di fede e delle modalità di apostolato assolutamente inusitate.

In proposito ricordo la religiosa francescana, “suor sorriso”, che a suo tempo deliziò la gente con le sue canzoni briose e vivaci che davano lode a Dio in maniera fresca ed immediata, tanto diverse dai canti liturgici o popolari del passato così compassati.

Ricordo pure il francescano, padre Cionfoli, che ha cantato la lode al Signore accompagnandosi con la chitarra perfino alla “sagra del biso” a Peseggia recente c’è stata quella suoretta di cui vi ho già parlato, folgorata dalla vocazione in discoteca che, entrata in convento, continua a lodare Dio danzando dolcemente davanti al tabernacolo.

Da qualche tempo poi televisione, rotocalchi e soprattutto periodici di ispirazione cristiana hanno dedicato tutti qualche pagina, qualche fotografia e pagine di cronaca a suor Cristina, la religiosa orsolina che si esibisce a “Radio 2” in canti pop o rock. E’ capitato anche a me di vederla col microfono in mano cantare a squarciagola. Non ho capito cosa dicesse, comunque m’è parso che avesse un volto bello e pulito e penso che forse nostro Signore, a differenza di me, prete dai gusti classici, goda e gradisca questi canti moderni. Sul nuovo periodico “Il mio Papa” ho letto che questa religiosa in pochi giorni ha avuto più di 24 milioni di visualizzazioni:
“Poi, al termine della canzone, quando Raffaella Carrà ha chiesto come l’avrebbero presa in Vaticano, suor Cristina Scuccia ha sorriso: «Non lo so», ha detto «ma mi aspetto una telefonata di papa Francesco. Lui ci invita ad uscire, a evangelizzare, a dire che Dio non toglie niente. Anzi ci dona ancora di più. E io sono qui per questo».

Vuoi vedere che finalmente questa suoretta ha trovato il modo di convertire gli uomini di oggi?

10.04.2014

“Resistenza e resa”

Nota della Redazione: questo intervento di don Armando risale a varie settimane prima della scomparsa del Patriarca emerito Marco Cé.

Tanti anni fa ho letto un bel libro di Bonhoeffer, il santo pastore protestante fatto uccidere da Hitler pochi mesi prima della fine dell’ultima guerra mondiale. Quest’uomo fu un autentico uomo di Dio, ma pure un tedesco che seppe “resistere” al nazismo allora imperante, per cui prima fu imprigionato in un lager e poi impiccato per la sua coerenza ai valori cristiani che non erano compatibili col nazismo.

Purtroppo di questo volume ricordo bene il titolo, ma non le argomentazioni sottili di quest’uomo di cultura. Mi è tornato alla memoria il titolo in occasione di un caro biglietto di augurio che il cardinale Marco Cè, già nostro amato pastore, mi ha inviato in occasione del mio ottantacinquesimo compleanno. Come forse qualcuno ricorderà il vecchio cardinale si complimentava benevolmente con me sapendomi ancora sulla “barricata”, mentre confessava che lui ha dovuto arrendersi, facendo seguire a questa informazione delle belle parole ricche di fede con le quali si abbandonava alla volontà di Dio, consapevole che anche la sua “resa” a livello operativo poteva essere feconda per la Chiesa di Dio e il bene delle anime.

Il Patriarca Cè ha solamente tre anni più di me, ma in questi ultimi anni era in precarie condizioni di salute, avendo delle grosse difficoltà di deambulazione, difficoltà che l’altro ieri l’hanno portato ad una rovinosa caduta in casa con la rottura del femore, però fino a pochi mesi fa aveva continuato a predicare corsi di ritiri ed esercizi spirituali nella casa della diocesi al Cavallino.

La “resa” di questo sant’uomo ritengo sia solo apparente perché nella sostanza è rimasto per tutti noi un testimone di Dio che, come Mosè, è ancora con le mani alzate in preghiera per i preti e i cristiani della sua diocesi.

A me invece conviene la prima parte del titolo di Bonhoeffer, ossia “Resistenza”, però è una resistenza sempre più precaria e più fragile, tanto da dover dichiarare che è più apparente che reale. Mi pare che i “bollettini di guerra” che comunico alla mia gente siano molto simili a quelli dell’esercito italiano nell’ultimo conflitto, “ritirate strategiche”, ma comunque sempre ritirate. Avverto più che mai una fragilità fisica, mentale e psicologica, tanto che ogni giorno di più penso che sia giunto il tempo di resistere solamente all’interno del fortino della fede e della preghiera. Il mondo di cui mi sto occupando mi affascina ancora, però ho sempre più paura di ridurmi come quei combattenti che in vecchiaia finiscono per distruggere ciò che hanno costruito in gioventù.

Anch’io, ogni giorno di più, penso di abbracciare la seconda parte del volume di Bonhoeffer: Resa.

30.03.2014

Don Spritz

Qualche mese fa mi sono imbattuto in una trasmissione televisiva, non so più in quale canale, su due religiosi particolari. La prima era una giovane suora che aveva avuto un passato da protagonista in discoteca, ed una volta “convertita” e fattasi suora, continuava a cantare le lodi del Signore danzando come fanno le ragazze nelle missioni d’Africa o dell’America del sud. Ho visto qualche carrellata di queste “preci” particolari e vi confesso che non mi è dispiaciuta. Non solo non aveva nulla di irriverente, anzi, nelle movenze tipicamente femminili di un corpo bello e armonioso si avvertiva veramente la preghiera di lode all’onnipotente e sommo Signore. Di certo non assomigliava a Santa Brigida o santa Cunegonda, però mi è parsa più autentica e più comprensibile.

Il secondo era un giovane prete padovano, anticonformista all’ennesima potenza, che incantava i giovani nel posto dove loro sono, cioè al bar. Per questo, non so se i vecchi preti o i giovani, gli hanno affibbiato l’appellativo di “don Spritz”. Avevo tentato di seguire la vicenda di questo giovane prete, apprendendo che il vescovo di Padova lo aveva mandato a Roma a studiare e ho pensato che avesse evitato di mandarlo a Barbiana, come don Milani – perché avrebbe arrischiato di grosso – e l’avesse invece come “esiliato” in un’università tenuta dai gesuiti. Poi venni a sapere che, ritornato da Roma, l’aveva assegnato a fare l’assistente nel carcere cittadino dei “Due Palazzi”, un carcere ove si scontano anche gli ergastoli, un luogo quindi ancora “più sicuro”.

Poi persi di vista questo prete particolare, don Marco Pozza conosciuto come “don Spritz”. Ma qualche giorno fa ho scoperto su “Avvenire”, il quotidiano dei cattolici italiani, una breve recensione di un suo volume uscito qualche settimana fa. Ritagliai il foglio, chiesi a suor Teresa di comperarmelo perché io sono “imbranato” per queste cose e lei, com’è suo costume, trovò più comodo e conveniente fare una confidenza ad un amico comune e il giorno dopo arrivò, come dono di compleanno, il volume.

Il titolo sa di Papa Francesco: “L’odore del gregge” però sa decisamente anche del suo giovane autore. Il sottotitolo mi è un po’ più misterioso “Squarci di misericordia sul far della sera”.

Aperta la prima pagina ho letto la dedica che inquadra in maniera lucida questo prete anticonformista, ma che ama pazzamente Dio e l’uomo, suo capolavoro. La dedica dice così: “A chi sbaglia, a chi ha sbagliato e a chi sbaglierà”. Non c’è male come introduzione! Il volume ha un’impostazione d’avanguardia, il testo è impreziosito da splendide foto, talora romantiche talora di estrema novità e sorpresa.

Ho cominciato la lettura con avidità. L’autore è un uomo che sa adoperare la parola come un rasoio e sa inserire la vita e le sue esperienze di Vangelo con estrema abilità e competenza. Spero che da questa lettura sbocci nel mio cuore come un bel fiore di questa incipiente primavera.

27.03.2014

“Il Messia?”

Seguo con interesse, curiosità e preoccupazione le vicende di Matteo Renzi, il ragazzo che lo scoutismo ha regalato alla politica e soprattutto al nostro Paese.

Io, che per moltissimi anni ho fatto l’educatore scout, ho tentato di passare alle centinaia di ragazzi tra i dieci e i vent’anni che ho incontrati sulla mia strada, questa verità: ai piccoli, che la vita è un bel gioco, e ai grandi che essa è una bella avventura che ognuno deve vivere stando “al timone della sua barca” tentando di servire i fratelli. A Matteo Renzi, ora Capo del Governo del nostro Paese in uno dei momenti più critici e cruciali della sua storia, i suoi “capi” hanno insegnato le stesse cose e lui stesso l’ha fatto da adulto ai ragazzi del suo “reparto” e del suo “clan”.

E’ vero che pure all’interno di questa cornice ognuno traduce il messaggio attraverso la sua personalità specifica. Renzi è un fiorentino, ha perciò la battuta facile e tagliente ed ho la sensazione che sia, di natura sua, talvolta un po’ sbruffoncello e talaltra temerario, perciò sia portato ad offrire il suo “servizio” nel contesto di questo tipo di personalità.

Ora mezza Italia lo sta aspettando al varco per vedere cosa realmente sa fare. Temo però che troppa gente pretenda che lui sia un nuovo Messia che con la bacchetta magica risolva i malanni ormai atavici del nostro Paese. Monsignor Da Villa, che fu un mio parroco quanto mai saggio ed intelligente, quando nel passato anch’io pretendevo dal mio vescovo qualcosa di simile, mi diceva: «Guarda, Armando, che neppure il Messia, Figlio di Dio, ha messo a posto completamente il mondo perché, quando poco più che trentenne qualcuno, infastidito dal suo messaggio radicale, ha tentato di metterlo a tacere per sempre, neppure Lui aveva portato a termine la sua “riforma”».

Pretendere che Renzi faccia un “miracolo”, cambi l’Italia è, più che una illusione, una assoluta stoltezza. Il nostro Paese ha bisogno di una nuova mentalità, una nuova cultura, un nuovo stile di vita. Per arrivare a questo occorrono decenni e decenni e soprattutto che, se non tutti, almeno molti remino dalla stessa parte. Io sarei contento se Matteo Renzi riaccendesse almeno una speranza, offrisse il suo piccolo apporto, facesse sognare che è possibile almeno sperare.

Un paio di settimane fa mi pare di aver sentito in una trasmissione televisiva che per il Parlamento, per il Senato e per il Quirinale “lavorano” milleottocento dipendenti, che il Presidente della Repubblica ci costa più della Regina d’Inghilterra e del Presidente degli Stati Uniti d’America e che in Parlamento sono ricomparsi “i franchi tiratori”. Solamente per risolvere questo ci vorrà almeno un secolo, per non parlare d’altro!

Sarò riconoscente a Renzi e ad ogni altro che tenterà di raddrizzare le gambe dell’Italia, anche se riuscirà a farle fare in avanti soltanto un passo da formica.

21.03.2014

La predica del padre carmelitano

Quando facevo il consulente religioso dell’Associazione dei Maestri Cattolici, si organizzavano di frequente delle lezioni di carattere pedagogico e didattico. Ne ricordo una in particolare di una docente di pedagogia dell’Università di Padova, che affermava che le verità che resistono di più al passare del tempo sono quelle che qualcuno ha scritto per primo sulla coscienza del bambino. Credo che sia vero.

Per quanto riguarda la mia vita cristiana e di prete, anch’io, a livello pastorale ricordo più nitidamente le mie prime esperienze sacerdotali e le “direttrici di marcia” che ho appreso dai miei primi parroci e dai sacerdoti e religiosi che ho incontrato da fanciullo e da adolescente.

Da questa convinzione è nata in me la scelta, quando ero parroco, di privilegiare il mondo dei bambini e dei giovani ed oggi mi sforzo soprattutto di seminare nei miei sermoni delle verità forti offerte con grande convincimento in maniera che possano essere, per i fedeli, punti di riferimento e di aggancio piantati con decisione nella coscienza perché reggano anche quando infuria la tempesta di sentimenti, di opinioni e di tesi divergenti.

A tal proposito ricordo la predica di un padre carmelitano che ho ascoltato durante un ritiro spirituale in seminario forse ai tempi del ginnasio o della prima liceo. Questo sacerdote aveva imperniato il suo discorso sul fatto che ognuno deve far chiarezza dentro di sé ed avere nitida l’idea di quale sia la meta che vuole raggiungere nella sua vita.

Ci fece in proposito un esempio su cui ho riflettuto tantissime volte e che mi ha sempre salvato da sbandamenti e da infatuazioni apparentemente fascinose. Disse: «Se io incontro per strada un uomo e gli chiedo dove sta andando, perché ho bisogno che mi aiuti a raggiungere un posto poco conosciuto, se questi è una persona cortese mi dirà dove sta andando, ma se gli chiedessi quale sia la meta ultima della sua vita, molto probabilmente mi guarderebbe stupito come se io fossi un balordo».

A questo mondo affondiamo letteralmente in un mare di parole, opinioni, congetture, informazioni ed interessi, però troppi non hanno ancora affrontato il problema dei problemi: “Cosa fare della vita, qual’è la sua meta finale, qual’è il traguardo che giustifica e dà senso e giustificazione ad ogni sforzo?”.

Io sono grato al fraticello carmelitano che tanti anni fa ha seminato nella mia coscienza questo interrogativo che mi ha costretto a darmi una meta precisa e definita.

Spero che questa mia confidenza convinca anche altri a fare lo stesso perché questa è vera saggezza.

19.03.2014