L’uomo e la divisa

Una persona colta che mi onora della sua amicizia un paio di giorni fa mi ha donato un volumetto dell’Editore Bompiani con un titolo che ha stuzzicato immediatamente la mia attenzione: “Carlo Maria Martini – Umberto Eco. In che cosa crede chi non crede?”.

Io da sempre sono un uomo in ricerca. Le verità a cui sono approdato non mi bastano, e la coscienza mi costringe a verificarle ogni giorno, motivo per cui il dialogo epistolare tra il grande vescovo di Milano e Umberto Eco – che prima non sapevo fosse non credente – mi interessa quasi in maniera morbosa.

Umberto Eco l’ho conosciuto attraverso la lettura del suo grande romanzo “Il nome della rosa”, che si potrebbe definire un “giallo”, opera che mi ha interessato per la trama, ma soprattutto per la descrizione dotta e puntuale dei movimenti religiosi radicali presenti nella Chiesa al tempo di Francesco d’Assisi, pagine di storia che conoscevo poco.

Il cardinale Martini l’ho scoperto soprattutto dopo la sua morte. Di lui ho ammirato la cultura profonda, l’onestà intellettuale, la saggezza nel pazientare il ritardo della Chiesa nella storia e nell’accompagnarla, quasi paternamente, verso il suo aggiornamento.

Ho letto quasi per metà il volumetto scoprendo ancora una volta la mia modesta cultura e l’altrettanto modesta intelligenza. Eco e Martini sono due “grossissimi calibri”, per loro è normale “volare alto”, così che per me diventa difficile seguirli nei passaggi quanto mai difficili. Comunque per oggi mi soffermo su una battuta iniziale di Eco che mi stimola a riflettere su un antico problema per me non ancora risolto della nostra, pur avanzata, società.

Dice Eco, rivolgendosi a Martini: «Non mi ritenga irrispettoso se mi rivolgo a lei chiamandola per il nome che porta e senza riferimenti alla veste che indossa. Ci sono persone il cui capitale intellettuale è dato dal nome con cui firmano le loro idee e non dal titolo che è premesso a quel nome».

Questo atteggiamento che Martini, nella sua risposta, accetta cordialmente, sottolinea che il valore di un discorso non è ancorato al titolo, alla divisa o al posto che una persona occupa, ma al valore della persona e del pensiero che essa offre. Nel nostro mondo c’è ancora troppo spirito di sudditanza, di riverenza ai gradi che contrassegnano la divisa o la “sedia occupata”. Pure l’uomo di oggi pare non si sia ancora liberato dalla soggezione della divisa e dei ruoli e non si sia emancipato da un certo servilismo civile ed intellettuale. Ci ha provato la rivoluzione francese a spogliare le persone dalle “etichette superflue” chiamando tutti “cittadino”, come pure s’è cimentata quella russa chiamando tutti “compagno” e perfino quella cristiana chiamando tutti “fratello”.

Spero che prima o poi riusciamo a considerare ogni creatura “Persona”, non togliendo o aggiungendo qualcosa di fuorviante a motivo del titolo o del posto che occupa nella società, perché ognuno è quello che è e non quello che pretende o si illude di essere.

23.06.2014

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