“Diario proibito”

Tre o quattro settimane fa, sfogliando quel bel quindicinale che è “Il nostro tempo” di Torino, sono stato attratto dal titolo di una critica su un’opera di una scrittrice russa, Olga Berggol’c. Il volume ha come sottotitolo esplicativo: “La verità sull’assedio di Stalingrado”. Ho letto la critica, dalla quale ho appreso che l’autrice scrisse per due anni il diario della sua vita a Stalingrado durante l’assedio, durato 900 giorni, da parte delle armate naziste. Il giornalista sottolinea che questa donna fu costretta a nascondere il diario nel cortile del caseggiato per non aver noie con la polizia perché era già stata incarcerata per un anno per motivi quanto mai banali.

Il mio interesse per questo libro aveva due motivi. Il primo: vedere come questa scrittrice aveva impostato il suo diario, nel desiderio di apprendere qualcosa di specifico, dato che quello che scrivo io ogni settimana risulta un po’ elemento portante del nostro periodico. Secondo – motivo più consistente: sono stato sempre attratto dalle vicende tragiche dell’ultima guerra. Il fatto poi che il diario si rifacesse all’assedio di Stalingrado fece riemergere dalla mia memoria un volume di una tragicità infinita: “Le ultime lettere da Stalingrado”, contenente le lettere spedite dai soldati della Wermacht assediati a Stalingrado. La raccolta di queste lettere è successiva nel tempo a quanto documentato nel succitato volume, perché tratta del periodo durante il quale i tedeschi, espugnata Stalingrado, a loro volta rimasero accerchiati dalle divisioni sovietiche.

Devo confessare che non ho trovato in questo “Diario proibito” ciò che mi aspettavo, però ho scoperto due verità importanti. La prima: per una donna l’interesse più importante, anzi assoluto, è la bellezza dell’amore suo e quello dell’uomo amato. L’autrice del volume parla in maniera intensa delle sue vicende amorose che neppure la condizione tragica della città assediata e bombardata giorno e notte riescono ad appannare. L’amore per lei viene assolutamente prima di tutto.

Finora, nonostante i miei 85 anni di età, non avevo ancora scoperto così chiaramente questa verità. La seconda, non meno importante, anche se l’avevo intuita da tanto tempo: l’utopia di Lenin, di Trotzkij fu un grande sogno del tutto condivisibile sul piano teorico, però il tentativo di realizzare questa utopia da parte di Stalin, dittatore sanguinario e spietato – ossia il cosiddetto “comunismo reale” – fu un qualcosa di talmente disumano, irrispettoso della persona, della sua dignità e della sua libertà, che ben difficilmente si può immaginare qualcosa di peggiore. Anche per i comunisti più incalliti il “Comunismo reale” della Russia di Stalin naufragò in una burocrazia soffocante, gestita da funzionari faziosi, arrivisti, illiberali, sospettosi, delatori e cretini, che censuravano, incarceravano ed uccidevano gli uomini migliori, ossia quelli più liberi ed intelligenti.

L’autrice credeva in maniera assoluta nell’utopia socialista come riscatto dall’oscurantismo e dispotismo zarista, però, da persona intelligente, rifiutava e condannava senza appello l’oscurantismo e la meschinità dell’apparato statale del suo Paese, sognando non solo la pace, ma pure tempi nuovi e diversi.

La lettura del volume mi ha riconfermato nella convinzione che le grandi utopie – e tra queste anche quella cristiana – incarnandosi si impoveriscono sempre, ma se sono gestite da uomini che non amano la libertà, la verità e se non accettano la critica di chi la pensa diversamente, sono destinate ad opprimere e schiavizzare i popoli anziché elevarli.

27.01.2014

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