I preti di oggi, operai del Vangelo o impiegati della Chiesa?

Mi piacerebbe moltissimo conoscere la vita dei preti vecchi per avere un motivo di confronto, o meglio di stimolo. Fino ad una ventina di anni fa l’impegno del sacerdote era considerata una missione, per cui veniva quasi naturale che il prete dovesse morire in trincea. Tutti i sacerdoti che io ho conosciuto nella mia infanzia ed anche nella mia giovinezza sono morti sul campo, continuando il servizio che il vescovo aveva loro assegnato fino all’ultimo respiro.

Il sacerdozio era ritenuto universalmente una missione, come quella di una madre e di un padre, e quando mai si può, anche lontanamente, pensare che un uomo o una donna possa andare in pensione dalla propria paternità o maternità!?

Col tempo però, lentamente, senza quasi che nessuno si accorgesse, si è insinuata pian piano la mentalità socialista, motivo per cui l’operaio del Vangelo è diventato l’impiegato della Chiesa. Pian piano sono arrivati lo stipendio fisso – ufficialmente uguale per tutti – le ferie estive, l’orario di lavoro, i “permessi sindacali”, che ognuno può prendersi praticamente a suo arbitrio; infine la pensione. Manca ancora la liquidazione e poi i preti potrebbero iscriversi al sindacato dei pensionati.

Questa mentalità, che ho descritto in maniera un po’ sommaria e paradossale, è una mentalità che è stata pacificamente assunta dal giovane clero, ma che anche i preti anziani hanno trovato comodo adottare. Credo che nella Chiesa veneziana siano parecchi i preti pensionati e prossimamente saranno moltissimi.

Cosa fanno, come passano la vita, che ne è del loro sacerdozio e della loro missione? Questo per me è un mistero!

Oggi un settantacinquenne che non ha troppi malanni, potrebbe avere davanti a sé almeno una decina d’anni di una possibile attività.

Qualche settimana fa, in occasione del grande incontro di preti in piazza San Pietro, ho avvertito un guizzo tagliente di don Mazzi che reclamava che i preti tornino in strada. Non molto tempo fa ho letto una bella intervista del prete padovano ultranovantenne, mons. Ferro e ne sono rimasto molto edificato. Ho sempre di fronte agli occhi poi la figura di mons. Ersilio Tonini, amico di Enzo Biagi, che è diventato per me una bandiera.

La Chiesa è saggia nel pretendere che chi occupa posti di responsabilità abbia anche le energie e la lucidità per operare, però sono convinto che nessun ministro del Signore possa credere di aver diritto alla poltrona e possa esimersi dalla consacrazione al sacrificio ricevuta un tempo.

Prediche coinvolgenti, vere, forti!

Quando la domenica mattina esco verso le 7,20 dal “don Vecchi” per iniziare il giorno del Signore nella mia piccola diocesi, composta da due parrocchiette – quella della vecchia pieve, oltre la cancellata di ferro battuto, e quella nuova, la cattedrale che sta aldilà della mura sulla quale sono fissate delle anime sante di bronzo che salgono al cielo (opera del caro amico scultore Gianni Aricò), mi capita di sentire, sempre nella radio della mia auto, la musichetta della sigla del culto della Chiesa Evangelica.

La durata di tempo che impiego a percorrere il tratto di strada dal “don Vecchi” al cimitero, mi permette di ascoltare per intero il sermone del mio “concorrente”, il pastore valdese. Di solito sono sermoni puliti, ben curati, pieni di riferimenti biblici, condivisibili in tutto, ma tutto sommato appartengono al cliché delle prediche dei nostri preti buoni, che preparano con scrupolo la parola del Signore. Per me sono come la “dolce pioggerella di marzo” del poeta della nostra infanzia Angelo Silvio Novaro.

Io sento però il bisogno di quel qualcosa di più robusto, ciò che scosse e infervorò gli apostoli racchiusi, paurosi e rassegnati, nel Cenacolo. Ho bisogno anch’io del vento gagliardo della Pentecoste, del globo di fuoco che scende dal tetto. Per due o tre anni ho ascoltato ogni domenica le prediche di quel prete alla don Camillo, dagli occhi vivi e dalla voce tonante e persuasiva, propria di Mons. Aldo Da Villa, il cappellano della battaglia dei nostri soldati ad El Alamein. Egli, ogni volta che scendeva dal pulpito, grondava di sudore, ma ogni volta pareva che prendesse per il bavero ad uno ad uno i fedeli che gremivano la chiesa e che non fiatavano di fronte alle sue argomentazioni oneste e franche. Ogni volta pareva che mettesse i fedeli con le spalle al muro dicendo a ciascuno: «questa è la salvezza!»

Io ormai ho vissuto un tempo così lungo da sentire gli esperti parlare di prediche bibliche, prediche catechistiche, prediche liturgiche, però rimango del parere che la predica deve essere un “Kerrima”, ossia un annuncio, sicuro senza sbavature, senza perplessità o incertezze di sorta.

Qualche domenica fa toccava parlare sulla madre di tutte le preghiere, il Padre Nostro. Io neppure mi inoltrai nel sentiero invitante del susseguirsi di questa saggia e dolce preghiera. Mi fermai al “Padre”, la cara e struggente parola con cui Cristo ci invita a rivolgerci a Dio, e tentai di incorniciare il padre del prodigo. Confessai pubblicamente che da quando “scoprii” questo volto e questo cuore, sento il rimorso d’aver pensato e parlato di Dio secondo certi schemi ecclesiastici, perché quello del prodigo è il solo vero Dio, quello che capisce, perdona, accetta i nostri limiti e le nostre rivolte assurde.

M’è parso che, finito di parlare, la gente sentisse quasi l’abbraccio forte e tenero di Dio. Come vorrei che fosse così!

La ricchezza degli uomini di Chiesa dovrebbe andare ai poveri, non in un forziere!

Ci sono delle notizie che mi deprimono e fanno tremare la mia fiducia nella Chiesa.

Qualche settimana fa “Famiglia Cristiana” ha fatto un bellissimo servizio sulle fontane che ci sono, a decine, nei parchi della Città del Vaticano. Io non sono Attila e perciò, già che ci sono, lasciamole, però non ne farei altre e non mi inebria proprio il fatto che Paolo ics, o Benedetto ipsilon, abbiano fatto costruire una o l’altra fontana! Credo che la reggia papale possa passare come un vecchio peccato che si spera che la misericordia di Dio abbia perdonato ma, per carità, non gloriamoci di queste “miserie umane”.

Mi spiace che una rivista cattolica che spesso fa prediche di sinistra non si sia accorta che i tempi del Papa re o del triregno sono passati e che dobbiamo sforzarci non solo di dimenticarli, ma pure di tornarci sopra con una certa disinvoltura.

Queste convinzioni me le porto nel cuore da sempre, le mie letture e le testimonianze cristiane che amo, hanno sempre preso le distanze dalla ricchezza, memori delle parole forti ed inequivocabili di Cristo: «Non si può servire Dio e contemporaneamente mammona», «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno”. E se non bastasse questo, la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone è là come una lapide a perpetua memoria.

Questi pensieri e questa malinconica tristezza si è rinnovata qualche giorno fa quando un amico estremamente credibile, mi ha confidato che un prelato, che io dovrei certamente conoscere, possiede in una banca – di cui m’ha fatto il nome e spiegato l’indirizzo – un’autentica fortuna. Io non immagino neppure il nome e non desidero saperlo! Però confesso che mi ha veramente turbato il pensiero che un prete della mia città, con tutti i poveri, con tutta la carenza di servizi, preferisca al loro benessere e alla loro riconoscenza, il gusto di andare in banca a rimestare il denaro come l’avaro di Molière.

Lo scorso anno la Chiesa universale ha presentato all’attenzione del mondo intero, e in particolare al clero cattolico, il povero Curato d’Ars, il quale bolliva una pentola di patate che doveva bastargli per una quindicina di giorni.

Ho l’impressione che neppure l’anno sacerdotale, con l’accolta finale di dieci-quindicimila pretini in piazza San Pietro sia servito a molto.

La festa del Redentore ha ancora senso?

Anche quest’anno Venezia e il popolo veneto hanno celebrato il 18 luglio la festa del “Redentore”. Questa volta però, come non avevo fatto seriamente nel passato, ho voluto accertarmi degli ingredienti, degli effetti di questo evento religioso. Non mi basta assolutamente più l’etichetta cristiana; ho bisogno e sento il dovere di verificare i contenuti, i dosaggi delle diverse componenti. Sono sempre più preoccupato della valenza religiosa di certi eventi, perché mi viene sempre più il terribile sospetto che contengano ingredienti “placebo” o di folklore e non abbiano più nulla in comune con la redenzione e la salvezza offerta da Cristo.

La festa del “Redentore” è nata dal fatto che i nostri padri si sentirono veramente impotenti contro la peste e ricorsero al Signore per essere salvati. Ora la “peste” è più grave e più diffusa che nel passato e i rimedi della farmacopea sociale odierna sono assolutamente nulli!

Traduco. La peste di oggi è denominata droga, disordine sociale, cattiva politica, operatori economici bari confessi, mafia diffusa, disfacimento della famiglia, assoluta mancanza di valori, ecc… Rimedi? Una volta scartati quelli offerti dai “medici” ufficiali (sociologi, psicologi, politici), perché assolutamente inefficaci – anzi spesso nocivi – la nostra gente si rivolge al Redentore. Però, in che modo, con quale fede, con che spirito? Qui la risposta mi mette in crisi. Il ponte di barche, i “foghi”, una mangiata in barca, baldoria con gli amici, attesa di Febo al Lido, processione delle congregazioni del clero, alla quale molti preti sono costretti a partecipare per avere il dividendo, sindaco con la fascia tricolore, lezione magistrale del Patriarca!

Mi domando sempre più spesso e con più preoccupazione “che ha a che fare tutto questo col Vangelo, col messaggio di Gesù?” Quasi niente!, anzi diventa pericoloso perché questo “memoriale” svuota dei contenuti proprio l’evento religioso e può indurre gli ingenui a pensare che questa “devozione” si possa chiamare ancora “fede”.

Non sarebbe il caso di “chiudere baracca” e lasciare pure che il Comune organizzi con figuranti, per motivi turistici, la ricostruzione storica, ma cessi finalmente questo inquinamento della religione con il folklore lagunare, e introduca ulteriori elementi pagani ad una celebrazione cristiana? Sono contento di non esser io a fare questa scelta, ma prego per chi “gli tocca” che il Signore gli doni la grazia di stato!

“Signore, mandaci preti folli!”

Chi mi conosce un po’, sa che sono impegnato da un paio di anni in un’altra impresa editoriale, oltre la pubblicazione de “L’incontro” e del quindicinale per gli ammalati “Coraggio”, cioè quella del mensile “Sole sul nuovo giorno”.

A quest’ultimo periodico sono particolarmente affezionato, come un padre al più piccolo dei figli, all’ultimo nato. Il mensile è costituito da una raccolta che offre ogni giorno “un pezzo” di autore, più o meno noto, sugli argomenti più disparati, ma sempre dal contenuto molto sostanzioso e dall’involucro dai colori smaglianti. Immagino quasi che un raggio del sole nuovo del mattino illumini un aspetto vero, cruciale ed estremamente significativo della vita sempre diversa e poliedrica. Mi è sempre più impegnativo scoprire riflessioni nuove, soprattutto espresse in maniera intensa, coinvolgente, con termini ed immagini che ti prendano per il bavero e che ti mettano colle spalle al muro. Io amo tanto questo tipo di letteratura, tagliente, che ti toglie il respiro e la pace.

Qualche giorno fa mi sono messo a sfogliare un numero pubblicato mesi fa nel quale c’era questa preghiera: “Signore, mandaci preti folli!” Riecheggiava le parole di san Paolo: “Nos stulti proter Christum”, noi accettiamo di essere considerati della gente folle perché seguiamo “lo sconfitto” vincitore: Gesù.

Non so ripetervi le parole e le argomentazioni di questa singolare preghiera, perché la bellezza specifica sta proprio nella scelta dei termini e dei concetti.

Pensavo, durante la lettura, che la Chiesa veneziana ebbe, soprattutto nel passato, delle splendide figure di preti con questa “pazzia”, che in definitiva è la ricchezza spirituale ed umana espressa in modi diversi, ma sempre ricca, sebbene spesso fuori dalle righe di una ordinarietà stanca e monotona.

Mi vengono in mente figure sacerdotali come don Barecchia, il cappellano della ritirata del Don, don Dell’Andrea, che accompagna fascisti e partigiani all’esecuzione capitale, monsignor Scarpa, col suo sigaro in bocca, ma col pensiero lucido e tagliente, don Vecchi, capace di tirar giù dalle nuvole i sogni più impossibili, don Da Villa, il cappellano dei nostri soldati nella fallimentare vicenda bellica dell’Africa settentrionale, don Giuliano Bertoli, il rettore del seminario che rimane impavido sulla barricata di fronte alla contestazione e salva il seminario, don Giorgio Busso, il prete sorridente che, contro tutti, crede che il Signore chiami ancora i nostri ragazzi, don Mezzaroba, che spalanca il suo cuore e la sua casa ai parrocchiani, don Spanio, che crea “i ragazzi di don Bepi”, don Niero, che recupera in maniera arguta ed intelligente la pietà popolare della nostra gente ed altri ancora.

Pensando a queste figure sacerdotali così diverse, ma così originali ed intense, ho ripetuto, quasi sillabando, la preghiera “Signore, mandaci preti folli!”, perché ho un sacrosanto timore di incontrare preti come soldatini di piombo immobili ed insignificanti!

La “ricetta” per una chiesa gremita!

Il mio coro domenica mattina ha ricevuto a fine messa un caldo e prolungato applauso dall’assemblea che gremiva la chiesa, occupando tutte le 220 sedie, stando in piedi lungo le pareti e gremendo pure il sagrato.

Sono troppo vecchio per chiedere alla Veritas e al Comune di ampliare la chiesa del cimitero, mi accontento anche così e spero che i fedeli della mia splendida comunità facciano lo stesso.

Essendo stonato, ma tanto stonato, ho chiesto alla “Corale Santa Cecilia” del “Don Vecchi” il dono di animare alla domenica l’Eucaristia che celebro in cimitero alle dieci. Ho avuto immediatamente la disponibilità della signora Giovanna che è il Toscanini del mio gruppo corale. Abbiamo superato qualche difficoltà per il trasporto – perché il cimitero, come tante altre parti della città, non è servito dagli autobus dell’ACTV – mediante la disponibilità di due miei coinquilini, Primo e Rino i quali, facendo la spola “Don Vecchi-cimitero” trasportano soprani, contralti, organista e maestro del coro, tutta gioventù che ruota attorno agli ottant’anni.

Fortuna mia e loro, essendo i canti facili e “cantabili”, tutta l’assemblea, se non altro per un motivo di tenerezza verso tanta veneranda età, si lascia coinvolgere e canta; qualche anziano si è unito da volontario e la signora Buggio fa da soprano solista, pur potendo essere considerata una nipotina con i suoi quarant’anni. Nino, il violinista novantenne, ogni domenica giunge in bicicletta col violino a tracolla, accompagna il coro, assieme all’armonium suonato dalla signora Dolens, e in altri momenti si esibisce con i virtuosismi che, in tempi andati, strappava gli applausi dei “foresti” e dei veneziani, quando suonava al “Lavena” o al “Quadri” in Piazza San Marco; adesso fa ancora venire i brividi e fa sognare la beatitudine del Paradiso.

Domenica scorsa la chiesa era gremita, com’era gremito il porticato antistante la porta principale. Dicono che le chiese sono deserte e che poca gente va a messa la domenica, ma se penso alla mia chiesa mi vien da concludere che bisognerebbe che le prediche fossero più corte e più sostanziose, la liturgia più curata e l’animazione più accattivante e più consona all’incontro col buon Dio che ci viene a visitare.

Mi son permesso di scrivere tutto questo perché non voglio essere il solo a beneficiare di questa “ricetta”, almeno “provare per credere!”

La società civile riscopre la visita casa per casa che i preti hanno dimenticato!

Qualche giorno fa, prima ho letto sul “Gazzettino” e poi, il giorno dopo, ho ascoltato alla radio, una notizia piuttosto singolare. Il sindaco di Meolo, un paesotto ad una ventina di chilometri da Mestre, aveva scoperto che per conoscere meglio i suoi amministrati e stabilire con essi un rapporto più costruttivo, era una buona idea andarli a visitare nelle loro case, piuttosto che attenderli nel suo ufficio nella Casa Comunale.

La notizia ha sorpreso gli operatori dei mass-media per un verso, ossia perché è piuttosto insolita una soluzione così intelligente e democratica come questa del primo cittadino di Meolo. Io invece sono rimasto sorpreso per un altro verso, per il fatto che quella che era una vecchia prassi adottata da quasi tutti i parroci anziani, e poi abbandonata col pretesto che fosse vetusta e superata, ora quasi completamente abbandonata dalle nuove generazioni di ecclesiastici, sia stata riscoperta a livello civile tra il plauso, non solamente dei concittadini amministrati, ma dall’opinione pubblica più avanzata, come soluzione d’avanguardia che attua il principio “porta a porta” e del contatto personale, come ormai sta avvenendo per le competizioni elettorali anche nei grandi Paesi del mondo.

Povere parrocchie, ma soprattutto poveri preti: assumono la prassi retributiva dei Paesi socialisti, quando questi le hanno abbandonate perché favoriscono il disimpegno e la tentazione di non far nulla e abbandonano prassi consolidate e sicuramente efficaci benché impegnative e faticose.

Proprio in questi ultimi tempi il “Datore di lavoro dei sacerdoti” ha fatto, attraverso la pagina del Vangelo domenicale, alcune affermazioni piuttosto ostiche ma precise a proposito dei suoi aspiranti discepoli: «Gli uccelli hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma il figlio dell’uomo non ha neppure una pietra su cui posare il capo» – «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» – «Chi pone mano all’aratro e poi si volta indietro è adatto per il Regno».

Un culto forse troppo legato alla rievocazione

Il 13 giugno, festa di sant’Antonio da Padova, ho visto su “Telechiara” un lungo servizio sul “santo”. La parte che ho guardato con più attenzione è stata la rievocazione storica del trasporto del corpo del santo dall’Arcella alla basilica ora a lui dedicata. Non si è trattato di una semplice processione con preghiere e canti, come quelle abbastanza frequenti che avevano luogo nel mio piccolo paese di campagna, quando in due lunghe file – uomini davanti e donne dietro il baldacchino – si procedeva per le vie del paese recitando il rosario, si trattasse della Madonna come del Sacro Cuore, intervallando le avemarie con i soliti canti di chiesa. A Padova il rito si avvicinava piuttosto ad una ricostruzione storica, con tanto di figuranti, carro a ruote piene trainato da buoi, con tanto di banda, di confraternite di vario tipo in divisa, di labari e di gruppi di ogni genere, che per le grandi occasioni indossano grandi mantelli multicolori. E poi paggi e soldati con uniformi medioevali.

Io non sono un grande esperto del settore, ma questa, piuttosto che una processione caratterizzata dal silenzio, dalla preghiera e dalla testimonianza umile ma intensa di fede, m’è sembrata uno spettacolo, pur interessante, organizzato da un regista non di grandissima levatura.

Purtroppo, prima una pioggerella fastidiosa e quindi un temporalone, hanno determinato un fuggi fuggi generale di preti, suore e figuranti verso la basilica, mentre gli spettatori si son ritirati sotto i portici, dei quali Padova abbonda.

Sono profondamente convinto che la basilica del “santo” rappresenti un vero centro di spiritualità che fa certamente del bene, però che assorbe un gran numero di frati che concorrono con riti, prediche e quant’altro a mantenere efficiente l’apparato che richiama ogni anno centinaia di migliaia di pellegrini. Forse essi sarebbero più produttivi per il regno se si inserissero nelle parrocchie ora sguarnite di sacerdoti.

Poi, senza togliere nulla all’importanza religiosa dell’attività del santuario, ho il grave timore che la religione si riduca pian piano alla rievocazione di esperienze di fede del passato, piuttosto che alla promozione di testimoni che con la vita seminino la semente evangelica tra la gente del nostro tempo. Spero però tanto che tutto questo sia una mia esagerata preoccupazione.

Il prezzo di essere “libero e fedele”

Un signore che mi vuole veramente bene e che forse ha una stima esagerata nei miei riguardi, qualche giorno fa, nel ripetermi che legge sempre e molto volentieri “L’incontro”, mi diceva: «Don Armando, apprezzo quanto mai il suo ripetere: voglio essere “libero e fedele”».

Io sono stato evidentemente molto contento di sentirmelo dire, ma soprattutto sono stato felice che egli avesse colto quello che per me è un punto di forza nell’affrontare la complessa avventura della vita. Quel motto è troppo bello e troppo alto perché sia nato dalla mia consapevole mediocrità, perciò devo confessare a questo lettore e a tutti gli amici de “L’incontro” che “libero e fedele” è il principio ispiratore della filosofia di quel grande profeta del nostro tempo che fu don Primo Mazzolari.

Don Mazzolari, che non ho mai incontrato fisicamente, ma che conosco molto bene dalla lettura dei suoi numerosi scritti, come tutti i profeti di ogni tempo, affrontò momenti estremamente difficili, fu combattuto non solamente dai “nemici”, ma soprattutto fu oggetto del “fuoco amico”, ossia passò i peggiori guai per i provvedimenti e le sanzioni emanati da una parte della gerarchia ecclesiastica poco aperta e poco preoccupata di conoscere e dialogare con i tempi nuovi.

Quando quel caro signore sottolineò positivamente la dottrina che ha sempre ispirato le mie scelte, mi venne d’istinto di domandarmi: “Quanto è costata a me questa scelta di fondo?” Non certamente il prezzo che ha dovuto pagare don Mazzolari! Io per fortuna sono vissuto in tempi diversi, più lontani dalle code di un certo spirito di inquisizione, che non è mai stato estirpato completamente negli apparati ecclesiastici. Il prezzo è stato infinitamente inferiore, ma posso affermare senza tema di smentita che anche oggi l’essere libero e l’essere fedele costano. Costano ugualmente la libertà ed altrettanto la fedeltà.

Anch’io ho pagato in solitudine e amarezza questo prezzo, ma confesso, con onestà e con orgoglio, che non ne sono assolutamente pentito e che mai e poi mai ho ritenuto questo prezzo alto o, peggio ancora, esagerato.

Un giorno dissi a monsignor Vecchi: «Perché non si possono trovare cose belle, ma a poco prezzo?» E monsignore, che talvolta aveva il vezzo di sentenziare, mi rispose: «Ricordati, Armando, che le cose tanto sono belle tanto costano di più».

Io mi sento un uomo ricco perché, tutto sommato, ho conservato fino a tarda età, sia la mia libertà che la fedeltà alla mia coscienza e al messaggio che la Chiesa porta avanti, bene o male, da venti secoli.

Sulle critiche alla Chiesa Cattolica di questi mesi

Confesso che sono più che stufo di sentir parlare di pedofilia. Siamo tutti convinti che è un sacrilegio turbare l’innocenza dell’infanzia e che la colpa raddoppia o si triplica quando si tratta di sacerdoti o di religiosi in genere.

E’ giustissimo esecrare la pedofilia, ancor più giusto farlo nei riguardi dei preti che si macchiano di questa gravissima colpa, mi pare più che mai necessario mettere fuori dalla tentazione le persone che sono ammalate di questa devianza, ma ora basta! Dedichiamoci a tutte le devianze: alla violenza, all’imbroglio, a smascherare tutti i crimini sociali dei politici, dei banchieri, dei sindacati, delle lobbies internazionali, ma smettiamola di rimescolare nel passato, di accusare chi con discrezione e misericordia ha tentato di salvare chi ha sbagliato e di recuperarlo alla vita normale.

Si va predicando con infinita ipocrisia che il carcere deve tendere al recupero sociale del condannato, i più avanzati culturalmente predicano ed insistono sulle pene alternative alla galera e poi si fa di tutto per screditare in ogni maniera vescovi saggi e prudenti, misericordiosi e buoni che hanno già attuato ciò che avanguardie sociali stanno auspicando. Mi commuove il vecchio Papa che invita alla penitenza e alla conversione, però credo che sia ormai finito il tempo di recuperare la logica e i metodi di don Camillo, perché certi “democratici” nuovo stampo, hanno una morale per conto loro e a loro uso e consumo.

Ci sono ancora preti e vescovi che non posso che amare!

Io sono forse troppo critico ed esigente nei riguardi sia della Chiesa alta come di quella bassa. Dai parroci e giovani preti mi aspetterei più dedizione, più passione, più coraggio, più iniziativa. Ho l’impressione che il basso clero stia combattendo oggi, quasi rassegnato, una battaglia di posizione, rintanato nelle anguste e buie trincee piuttosto che uscire allo scoperto, avendo coscienza di possedere il messaggio più valido, la “notizia” migliore.

Non so rassegnarmi ad una Chiesa di dipendenti annoiati che aspettano la fine del mese o di funzionari esecutori di ordini superiori, ma senza iniziativa.

Quante volte non ho pensato a quello che si dice del giovane Alessandro Magno, che era preoccupato che non ci fossero più battaglie da combattere e da vincere, più mondo da conquistare.

Qualcuno mi ha criticato duramente quando ho scritto di sentirmi quasi come quei pochi soldati giapponesi che non s’erano accorti che la guerra era stata dichiarata finita. Per me la guerra per la diffusione del Regno non dovrebbe finire mai!

Alla Chiesa alta rimprovero la propensione per l’ampollosità dei riti, la tendenza a crearsi la corte di palazzo, i discorsi aulici e il mancato immergersi nel popolo e nella storia. Però debbo pur ammettere, e di questo sono solamente lieto e anche profondamente orgoglioso, che spesso sia in una chiesa che nell’altra, scopro delle splendide figure di preti e di vescovi, in ogni caso di discepoli di Gesù.

In occasione del pellegrinaggio al santuario della Madonna dell’Olmo, ho scoperto che il vescovo Carraro, il cappuccino padre Flavio, che ho conosciuto come padre guardiano dei cappuccini di Mestre, poi vescovo di Verona, una volta in pensione, ha scelto come sua “dimora episcopale” il convento della piccola comunità francescana, condividendo con essa, come semplice frate, sia il “coro” che il desco pur essendo poco presente perché il suo zelo apostolico lo spinge ad accettare ogni invito alla predicazione

Forse la Madonna dell’Olmo non sa che per me è stata una vera grazia questa notizia che mi aiuta a credere ed amare preti e vescovi compresi, nonostante tutto!

Papa Wojtyla

Papa Wojtyla è stato una persona così profondamente umana, coraggiosa, innovativa e nello stesso tempo così asceticamente forte, che i mass-media continuano ad interessarsi di lui, a scandagliare nel profondo della sua vita.

In questi ultimi anni mi è capitato di leggere articoli su articoli sulla personalità così complessa e poliedrica del Papa polacco, moderno e conservatore ad un tempo, però in dialogo costante col mondo, in posizione di forza, consapevole di essere portatore di un messaggio liberatore di cui l’uomo moderno ha assoluto bisogno.

Nello stesso periodo mi è capitato ancora di frequente di vedere servizi televisivi quanto mai interessanti, seppur di diverso valore, ma sempre testimonianti l’estrema attenzione e il grande fascino che questo Papa ha esercitato, sempre da protagonista, negli ultimi vent’anni del `900.

Quante e quante volte mi sono chiesto quale sia stato il segreto, la sorgente di questa capacità di interessare amici e nemici, di influenzare il corso della storia, di dialogare con i popoli e le culture più diverse. Non è facile dare una risposta a questi quesiti, ma ritengo che sia doveroso porcela, perché Papa Wojtyla ha impersonato il vecchio Cristianesimo in maniera moderna, comprensibile a tutti e condivisibile da molti.

Nel mio animo mi pare di intravedere, magari confusamente, ciò che di questo Papa ha affascinato il mondo. Papa Wojtyla coltivò un sano ed autentico umanesimo, fu un uomo libero fino in fondo, ebbe sempre la consapevolezza di offrire un messaggio valido, il più valido; si pose in dialogo con le nuove generazioni senza complessi e senza concessioni di comodo. Papa Wojtyla rifiutò quei complessi di inferiorità culturale che spesso affliggono gli uomini di Chiesa, si aprì ad un sano rapporto umano con credenti e non credenti, coltivò il suo fisico mediante lo sport, si permise momenti di vita vera, fuori dal mondo artificioso ed incartapecorito del Vaticano, con le sue colazioni con gli amici, tra i monti; infranse tutti gli schemi di quell’ascetismo cristiano artificioso, malinconico e pessimista nei riguardi della società. Papa Wojtyla, pur senza darlo da vedere, “picconò” un certo passato e “seminò” il futuro, o almeno il presente nella Chiesa italiana ed universale.

Non potrò mai tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere di parte del clero!

Quando sono andato in pensione, cinque anni fa, ho dovuto disfarmi della mia “biblioteca” perché, mentre la canonica di Carpenedo è un grande edificio (che faceva esclamare alla mia perpetua, con un pizzico di ironia e di disprezzo, perché non favoriva l’intimità familiare: «Questa non è una casa, ma un municipio!»), la mia nuova abitazione è una specie di cella monacale in cui ci sta solamente l’essenziale. Un vecchio armadio di noce contiene ora tutti i libri in mio possesso.

Confesso però che, mentre non mi è mai costato molto liberarmi di centinaia di volumi, che poi non mi sono mai serviti, come non servono a niente tutte le biblioteche dei preti, ora ho riempito tutto lo spazio con le varie raccolte de “La Borromea”, di “Carpinetum”, de “L’anziano”, de “L’incontro” e dei numerosi volumi che prima con l'”Editrice Carpinetum” ed ora con l'”Editrice de L’incontro” siamo andati a pubblicare in questo mezzo secolo della mia vita pastorale che ha avuto la stampa come protagonista.

Ogni tanto mi lascio risucchiare dai ricordi e dalla nostalgia e sfoglio qualcuno di quei volumi, che tutto sommato fanno un tutt’uno con la mia avventura sacerdotale.

Qualcuno di questi volumi, nonostante io li custodisca con cura gelosa, comincia ad ingiallire nella carta, come pure nei contenuti. La vita, la nostra vita, è quella che pulsa nel cuore e nelle vene oggi, il passato è un po’ il “rudere” di noi.

Qualche giorno fa ho ripreso in mano la raccolta della rivista mensile di quella parrocchia che oggi è chiamata “Il duomo”, mentre ai nostri tempo si denominava più prosaicamente “San Lorenzo”. Quante nottate passate con monsignor Vecchi, che correggeva i testi a non finire, tanto che le pagine diventavano dei geroglifici, un vero rompicapo per i tipografi. Ricordo ancora certi inviti perentori di monsignore: «Armando, fammi una didascalia, scrivimi un pezzo sui giovani e butta giù un po’ di cronaca su quell’incontro».

Ogni tanto qualcuno dei miei vicini mi dice che sono troppo esigente con me stesso e con gli altri, più spesso mi dico che sono troppo caustico con i preti. Credo che questi “critici” abbiano ragione. Da parte mia ho avuto nel mio passato un’avventura sacerdotale con i miei parroci – mons. Mezzaroba, mons. Da Villa e mons. Vecchi – così bella e così intensa che non riesco, non posso e non voglio tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere, che ora mi pare siano imperanti anche nel clero veneziano.

“le corti” e il Vangelo, un rapporto un po’ difficile!

Al mattino ascolto sempre, non perché mi interessi troppo, ma perché l’orario della rubrica coincide con il tempo che dedico alla toilette personale e al rifacimento del letto, “Il santo del giorno” di Rai uno, tenuta dal prelato mons. Cosmo Francesco Ruppi. E’ una rubrica di cui sono poco entusiasta perché è sempre un po’ ampollosa e convenzionale. A parere di questo ecclesiastico, i nostri “vecchi santi” raccolgono ancora grandi simpatie dalla nostra gente e il loro culto è ancora in auge, mentre in realtà essi sono purtroppo relegati nelle guide turistiche delle chiese in cui sono sepolti o di cui sono titolari.

Qualche giorno fa tirai le orecchie sentendo che proprio in quel giorno si celebrava san Celestino V, definito in maniera un po’ sprezzante da Dante, che ebbe motivi in realtà futili, d’avercela col suo successore Bonifacio VIII, “il Papa del gran rifiuto”. Il cronista raccontò sommariamente la storia ufficiale di questo Papa che, unico fra tutti i Papi, rinunciò al soglio pontificio per ritirarsi a pregare in solitudine.

Io non ho mai dedicato tanto tempo ed attenzione a questa vecchia storia, conosco solamente le vicende che vennero prima, durante e dopo questo povero diavolo di Papa, attraverso il volume di Silone “L’avventura di un povero cristiano”. Silone, socialista, pur non intruppato nella disciplina del partito, è rimasto sempre un po’ anticlericale, anche se accolto amorevolmente da don Orione tra i suoi orfanelli.

Mentre sentivo il racconto convenzionale del prete che redige la rubrica, mi venne in mente un episodio del racconto di Silone che scrive che portarono a firmare una serie di documenti a Papa Celestino. Egli pretese che lo si informasse sul contenuto e il segretario gli disse, con candore curiale, che si trattava dell’aumento del tariffario che si praticava nei bordelli degli Stati Pontifici! Povero Celestino! Santo, semplice e povero come era, come poteva coniugare la sua aspirazione ad essere un autentico discepolo di Gesù, con un mondo che era avvezzo a tutti i compromessi?

S’è spento da poco il clamore dello scandalo del vescovo Marcincus e siamo nel 2000, non ai tempi di Celestino, ed ora si parla già di un altro filone di intrallazzi finanziari che pare abbiano a che fare con le banche vaticane! Non so se il Vaticano abbia sfornato tanti santi tra i suoi monsignori, funzionari di curia, ma di certo mi pare che ci sia una qualche difficoltà tra “le corti”, siano pure ecclesiastiche, e il Vangelo.

Quanti preti vivono oggi una vita da prete?

Guardando con un occhio un po’ critico la vita, le scelte, le abitudini dei preti di questo inizio di secolo, mi domando sempre più di frequente: Esiste ancora “la missione”, “l’avventura cristiana”? Non dico: “il senso dell’eroico”, del “martirio” o dell'”Immolazione”, ma semplicemente una vita da preti in cui questi soggetti, rinunciano di loro spontanea volontà ai “diritti”, ai “privilegi” e ad una vita confortevole e comoda?

Io mi sono scandalizzato quando ho scoperto che molti secoli fa, quello, che poi è diventato san Vincenzo de Paoli, s’è fatto prete per uscire dalla vita miserevole dei contadini bretoni, per cercare nella classe sacerdotale quell’agiatezza medioborghese che il ceto sacerdotale un tempo offriva. Quando però “don Vincenzo” comprese la missione del prete, la sua vita cambiò radicalmente, tanto da diventare “il prete dei poveri” per antonomasia.

Non penso che oggi gli ormai pochi soggetti che entrano in seminario lo facciano per trovare agiatezza, però ho veramente paura che essi, una volta trovatisi dentro il clero, per i motivi più vari finiscano per scegliere una vita tutelata da norme sindacali sui generis: stipendio comunque garantito, vacanze estive, orario di lavoro ben determinato, viaggi culturali in Europa ed oltreoceano, tempo per la navigazione in internet; in pratica essi scelgono di operare nel campo che preferiscono, delegando ai diaconi o ai laici i compiti più ingrati, scegliendo una routine di vita senza scossoni e senza sforzi eccessivi!

Spero che queste mie sensazioni siano solo frutto del farneticare di un povero vecchio, che non si trova più a suo agio in questo nuovo mondo che ha ritmi, stili di vita ed esigenze ben diverse dal passato del dopoguerra, quando l’intera società ha dovuto rimboccarsi le maniche per la ricostruzione post bellica. Sento però sempre più frequentemente cristiani che fanno osservazioni del genere. I risultati poi, se non dipendono solamente dalla secolarizzazione, sono tuttavia poco incoraggianti!