Fra cristiani e mussulmani deve valere il rispetto reciproco!

Io sono vecchio e purtroppo ogni giorno di più scopro d’avere tutti i difetti tipici dei vecchi. Uno fra i tanti, che in questi ultimi tempi ho scoperto, è che mi ripeto maledettamente.

Quando facevo il direttore del mensile “L’anziano” ho pubblicato tante volte preghiere per gli anziani, perché essi potessero chiedere al Signore di emendarli e di liberarli da certe tentazioni e difetti propri della terza età. Ricordo una preghiera che diceva pressappoco così: “Signore, ti ringrazio per aver incontrato anche delle persone più giovani di me che non mi fanno sempre osservare che `quella cosa’ l’ho ripetuta più volte”.

Ebbene, cari amici, per ottenere anche voi questo merito, sentitemi ancora una volta ripetere che al “don Vecchi” ogni settimana quasi settecento persone, per la gran parte extracomunitari, vengono a prendersi i generi alimentari che i volontari del banco alimentare preparano per loro. Spesso mi capita di essere presente alla distribuzione. I volontari, e in particolare le signore che gestiscono questo servizio, son veramente care e gentili, ma soprattutto discrete e rispettose delle regole morali alle quali i mussulmani si attengono con scrupolo.

E’ ormai di dominio comune sapere che i mussulmani non possono bere alcolici e mangiare carni suine, perciò i nostri volontari si guardano bene dall’offrire loro qualcosa che a loro non è lecito assumere. Capita però che talvolta possiamo offrire carne di pollo o di gallina, talvolta abbiamo tortellini confezionati con le verdure o la ricotta, ma essi rifiutano perfino gli omogeneizzati per i bambini.

Di fronte ai loro sospetti ai volontari, e pure a me, riesce difficile comprendere il loro comportamento che lascia intravedere il sospetto che noi attentiamo alla loro fede. Spesso mi viene da osservare come mai allora essi non hanno un minimo di attenzione ai nostri costumi, alla nostra morale e alla nostra religione?

Io concedo ai mussulmani che ospitiamo, oggi molto numerosi nelle nostre città, tutte le attenuanti possibili, però credo che sia ormai ora di attenderci e forse di pretendere la reciprocità di comportamento. La comprensione, la tolleranza e quant’altro, sono cose belle e necessarie, però credo che sia tempo di opporci in maniera più netta e più decisa ad un fondamentalismo che non si esprime solamente con la “guerra santa”, ma che è pure insito nell’integralismo e nell’intolleranza, che sono ancora in loro presenti, mentre noi li abbiamo fortunatamente rinnegati almeno quattro o cinque secoli fa.

L’organigramma del Duomo di San Lorenzo, un’iniziativa da elogiare!

All’inizio dell’anno pastorale 2010-2011, che nelle parrocchie si apre verso settembre-ottobre, la parrocchia del duomo di Mestre, San Lorenzo, che attualmente è guidata da mons. Fausto Bonini, ha pubblicato il suo organigramma con tutte le articolazioni, gli appuntamenti e le iniziative messe in programma per il nuovo anno di attività.

Non credo certamente che don Fausto, che è un prete intelligente, preparato e di grande iniziativa, abbia imparato da me, comunque anch’io avevo intuito la necessità di pubblicare all’inizio di ogni anno pastorale qualcosa del genere, ossia un organigramma ed un calendario di iniziative pastorali da attuarsi durante l’anno. Mi è sembrato che non solo fosse opportuno che la comunità cristiana desse un’immagine ordinata e seria di sé, ma che pure fosse quanto mai opportuno, anzi necessario, che i fedeli avessero punti di riferimento precisi nei riguardi dei responsabili e delle varie iniziative.

L’organigramma di Carpenedo occupava normalmente quattro-cinque facciate della rivista mensile “Carpinetum”. L’attuale patriarca, venendo a Venezia, deve essere stato favorevolmente impressionato dall’articolazione e dall’organizzazione della mia parrocchia, tanto che ad un paio di mesi dalla sua entrata volle rendersi conto, mediante una “visita privata”, del funzionamento di questa parrocchia organizzata fin nei minimi particolari, come “un’azienda” pure se “sui generis”.

L’organigramma-calendario di San Lorenzo però, è di gran lunga migliore di quello di Carpenedo di cinque anni fa; lo è per completezza e precisione di dati, per le immagini degli operatori, per l’eleganza dell’opuscolo di ben quaranta pagine stampate a colori da una tipografia industriale, per l’enorme ricchezza di informazioni, ma soprattutto perché dà la sensazione che la parrocchia si occupi di “tutto l’uomo”, dall’infanzia alla vecchiaia, dalla catechesi alla cultura, dai sacramenti alle attività sportive, dal canto alla ricerca, dalla mistica al tempo libero, dai mass-media più moderni alle residenze per studenti, dal gioco alla recitazione.

Quello che ha attratto la mia attenzione, e che soprattutto ha destato nel mio animo felice stupore ed ammirazione, è la visione globale dell’uomo e quindi della relativa pastorale.

Lo scorso anno scrissi a don Fausto per complimentarmi, quest’anno non l’ho fatto per non ripetermi. Dall’esame attento ed entusiasta dell’opuscolo, che offre l’immagine della parrocchia di San Lorenzo, mi è sorto solamente un sentimento amaro e triste: “Purtroppo San Lorenzo è la mosca bianca”, aldilà dei suoi confini pare che abitino solamente i “barbari”!

Vivere in pieno anche il tempo della vecchiaia!

I giovani che sognano alla grande, che si battono per i grandi ideali, hanno tutta la mia ammirazione; essi mi fanno sognare e m’aiutano a combattere la mia battaglia per non lasciarmi vincere dal conformismo, dal quieto vivere o dalla preoccupazione di non aver noie.

Sono ben conscio che né John, né Bob Kennedy sono stati dei santi, comunque il loro sogno di “nuove frontiere”, la loro audacia nel proporre un cambiamento radicale, m’han fatto del gran bene!

Non c’è nulla di più bello che dei giovani che sognano, che lottano e si spendono per “missioni impossibili”, però confesso che quasi mi sono più d’aiuto le testimonianze di coerenza e di coraggio dei vecchi che rimangono in trincea e all’attacco anche dopo la pensione.

Mentre scrivo queste “confessioni”, mi passano davanti agli occhi alcuni di questi “grandi” anziani. Vedo Papa Roncalli, il Papa che ebbe il coraggio di promuovere il Concilio per il rinnovamento della Chiesa, quando aveva già superato la soglia della vecchiaia.

Vedo la figura apparentemente gracile del novantenne vescovo di Ravenna, il cardinal Tonini, presente a tutti i dibattiti, prendere posizione con decisione e senza timore di sorta. Ricordo il cardinal Bevilacqua, il vecchio confessore di Paolo sesto, che accettò il cappello cardinalizio a condizione che il Papa gli permettesse di continuare a fare il parroco di una parrocchia di Milano.

Ammiro don Loris Capovillla, l’arcivescovo emerito di Loreto, già segretario di Papa Giovanni che, nonostante abbia superato abbondantemente i novant’anni, scrive, parla e continua a dar voce alla testimonianza profetica del Papa buono.

Assai di frequente mi arrivano delle pubblicazioni di “don Loris”, il giovane prete della Rai veneziana di un tempo, con i saluti scritti con una grafia sconnessa ed incerta, ma che sempre mi edificano, mi stimolano a non mollare e mi fanno intravedere il volto più bello della vecchiaia.

Ho concluso che la “pensione” è una realtà che s’addice ai burocrati e ai fannulloni, ma non agli uomini veri e meno ancora ai preti che credono!

La predicazione al giorno d’oggi

Io ero e sono ancora avido di ascoltare i miei colleghi preti nei loro interventi durante i quali i sacerdoti sono richiesti di proporre una lettura religiosa dei fatti della vita.

Quando ero parroco non perdevo mai l’occasione di ascoltare con attenzione prediche e sermoni dei miei confratelli. Talvolta ne rimanevo veramente edificato per la capacità di inquadrare in una cornice di speranza e di vita questi eventi, rifacendosi essi alle grandi verità cristiane. Più spesso però questi ascolti mi servivano, e molto, in negativo, ossia mi aiutavano a comprendere le strade da non battere e i pensieri da non dire.

Nella predicazione in genere c’è ancora tanto, troppo di ripetitivo, di scontato, di non sentito e non sofferto; tante parole non sanno di riflessione, di appassionata ricerca e di profumo spirituale. Ho l’impressione che oggi la predicazione lasci ancora molto a desiderare.

Ora il mio cammino è diventato tanto solitario e privo di questo necessario confronto, non avendo più occasione di ascoltare i confratelli. Le rare volte che ho l’opportunità di seguire in televisione le trasmissioni che le varie emittenti fanno della messa festiva, mi imbatto spesso in discorsi letti, ineccepibili da un punto di vista di teologia e spiritualità da manuale, ma privi di anima, di respiro umano, di attualità, di incidenza sulla sensibilità e sulle coscienze.

Per molto tempo ho letto la critica artistica di un “esperto” d’arte. Ogni volta avevo l’impressione che questo signore avesse riempito un contenitore di un certo frasario attinente all’argomento, lo scuotesse un po’ e poi, pari pari, mettesse per iscritto quello che occasionalmente veniva fuori. Certi preti credo che non siano molto lontani da questo espediente.

Le mie prediche hanno un campo limitato: il commento del Vangelo della domenica e i funerali. Confesso con rossore che non è infrequente che riceva complimenti per questi miei sermoni che io invece reputo più che modesti e per i quali mi tormento più che mai perché la Parola di Dio e i fratelli sono convinto che meriterebbero molto di meglio. Ogni volta però che ricevo qualche parola di lode, non manco di domandarmi. “Se per così poco le persone sentono il bisogno di ringraziare, quanto povera e deludente deve essere la predicazione nelle varie parrocchie?”

L’importanza del rinnovamento del messaggio cristiano

Forse le mie attenzioni e le mie riflessioni sono fatue e profane per un vecchio prete, però anche da questa fatuità il mio animo viene stimolato a pensieri più interessanti.

Con le prime brezze dell’autunno, quando l’estate non era ancora finita, ho cominciato a notare che le donne avevano iniziato, come costrette da una legge misteriosa, a portare stivali di fogge diverse, ma sempre stivali, sopra delle calzamaglie che raggiungevano faticosamente delle gonnelline leggere ed evanescenti.

La nuova moda è cominciata come i piovaschi d’estate: una goccia qui, una lì, un’altra ancora, fin quando pian piano la pioggia scende spessa e pesante dal cielo. In poche settimane non vedo che stivali aggraziati, calzamaglie attillate e gonnellini da “Pantalone”. Ragazzine, ragazze, giovani donne e donne attempate, in un battibaleno si sono vestite come le divise degli eserciti di un tempo.

Io non ho crociate da fare contro la moda, è inutile ed assurdo opporsi, soltanto immagino che il prossimo anno avremo ai Magazzini San Martino un flusso grandioso di stivali, calzamaglie e gonnelline, perché di certo è immaginabile che gli stilisti inventeranno qualcosa di diverso.

Le nostre donne sono evidentemente quelle di sempre però, vestite alla moda, sembrano nuove. Questa osservazione, frivola di certo per un vecchio prete, mi ha suggerito di chiedermi: “Qualcosa del genere dovremmo trovare anche per le verità e i valori cristiani, perché non si riducano ad essere stantii, poco interessanti e fuori moda”.

Il guaio però è che nelle nostre curie e nei pensatoi ecclesiastici abbiamo quasi sempre “stilisti” statici, ripetitivi, che non sanno rendere belle e interessanti e nuove le verità di sempre. Io mi riprometto di darmi da fare, ma ad ottant’anni temo che mi sarà difficile rendere affascinanti e fresche le verità di fede che però renderebbero veramente nuova ed affascinante la vita dei credenti.

Il felice incontro con le opere di padre Enzo Bianchi

Don Marco, il giovane prete che fu mio collaboratore in parrocchia per una decina di anni, sentiva il bisogno di fare ogni tanto delle esperienze d’ordine mistico. Abbastanza di frequente lasciava la parrocchia per qualche giorno per andare a vivere nelle foresterie di qualche convento sia di frati che di monache contemplative.

Negli ultimi tempi in cui rimase a Carpenedo ha frequentato abbastanza spesso la Comunità di Bose, ove è priore un certo frate, Enzo Bianchi. Ebbi quindi modo di conoscere in maniera più approfondita la vita, la spiritualità e il messaggio e la testimonianza di questa esperienza monastica del nostro tempo.

Già nel passato avevo sentito qualche lezione di questo uomo di Dio. In verità non ne ero stato particolarmente entusiasta. La voce un po’ monotona, l’aspetto poco gradevole o perlomeno poco ricco di fascino e gli argomenti che trattò in quelle occasioni, me l’avevano fatto collocare nel comparto un po’ stantio del mondo dei frati.

Una maggiore conoscenza della sua personalità, della soluzione monastica a cui ha saputo dar vita e soprattutto la lettura di un suo splendido libro “Il pane di ieri” del 2008, m’hanno offerto una visione nuova e più felice di questo monaco dei nostri tempi e mi ha riconciliato col monachesimo attuale.

Qualche settimana fa un mio carissimo amico, magistrato in pensione, mi ha regalato l’ultima opera di padre Enzo Bianchi “Ogni cosa alla sua stagione”, un volume che sto letteralmente divorando e che mi apre l’animo su un mondo sconosciuto di infinito incanto mistico e poetico. Don Bianchi parla della sua esperienza di uomo della contemplazione, coniugando la sua esperienza mistica a quella esistenziale del suo passato e della sua terra.

Leggendo le confidenze spirituali di quest’uomo del Monferrato, ho via via avuto l’impressione che anche oggi ci siano delle voci solitarie che “gridano nel deserto: «Preparate la via del Signore!»”

Son felicissimo di aver incontrato quest’uomo del silenzio e della solitudine, con lui ho camminato durante l’ultimo avvento, incontro al Signore.

L’Immacolata spiegata agli uomini di oggi

Quando la Chiesa s’è decisa a non usare più il latino nella liturgia, ha fatto un gran passo in avanti. Era tempo che la gente comune, e non solamente la piccolissima frazione di persone che aveva studiato il latino, potesse comprendere le parole della preghiera della comunità e il messaggio dei testi sacri. Però, ogni giorno di più, mi convinco che quello doveva e deve essere solamente il primo passo perché i fedeli possano comprendere il messaggio cristiano.

L’annuncio evangelico è nato e cresciuto nella sua elaborazione in culture estremamente diverse da quella corrente e perciò parole, e soprattutto concetti, se non sono decodificati e tradotti nella nostra “lingua parlata”, rimangono tuttora discorsi astrusi e, per la sensibilità del nostro tempo, geroglifici incomprensibili per il popolo; semmai possono avere un qualche riscontro solamente entro la casta specifica dei pochi indiziati, ma temo che anche per questi essi rimangano, anche se compresi letteralmente, verità fredde e per nulla incidenti sull’opinione pubblica e sulla sensibilità delle persone del nostro tempo.

Il “mistero” dell’incarnazione rappresenta certamente la volontà di Dio di toccare la mente e il cuore delle creature di ogni tempo specifico per aiutarle a vivere nel modo migliore.

In occasione della dolce e calda festa dell’Immacolata mi sono posto, più di sempre, questa domanda: “Ma che cosa può dire ed interessare ai miei fedeli il fatto che io dica loro che la Madonna fu concepita senza peccato originale?” “Nulla, assolutamente nulla!” Ho tentato quindi di affermare che questa festa ci presenta una donna, Maria, che non è la risultante e l’epilogo di tutte le manomissioni e le debolezze avvenute nella catena delle generazioni passate, ma una splendida creatura, un capolavoro originale in tutto il suo splendore, che il Signore ha voluto presentarci così com’è uscita dalla Sua sapienza e dal Suo amore, senza manomissioni, ritocchi, sfregi e restauri come avviene per ognuno di noi.

Quindi m’è parso di dover suggerire che l’unica cosa da farsi è prendere coscienza ed ammirare la bellezza della Madonna, bella per l’armonia del suo corpo e bella ancora per l’armonia e lo splendore della sua anima.

Avere una Madre così bella, e sapere che noi ne condividiamo la natura, anche – come affermava monsignor Vecchi – se ora siamo ridotti, per il male nostro e quello dei nostri padri, a delle “magnifiche rovine”, può metterci la nostalgia e il desiderio di tendere, o perlomeno sognare, l’antico splendore originario del progetto di Dio nei nostri riguardi. Avere un “campione” sotto gli occhi, con cui confrontarci è certamente una grazia, per la quale è giusto fare una pausa di riflessione l’otto dicembre, festa della Madonna Immacolata.

L’opera di Antonio Fogazzaro mi aiuta ancora a capire i tempi d’oggi

Verso Antonio Fogazzaro ho sempre nutrito un sentimento di ammirazione, sia per le sue qualità di ordine letterario, sia per le sue posizioni a livello religioso. “Piccolo mondo antico”, il romanzo più noto di Fogazzaro, è stato per me uno dei primi romanzi più impegnativi che ho letto ai tempi della mia adolescenza. Sono rimasto incantato dall’atmosfera romantica, sempre ovattata e ricca di sentimento che inquadra il travaglio tra la nostalgia di un passato amato e familiare, e l’oggi, ormai proiettato verso nuovi orizzonti. Questo romanzo mi ha fatto sognare e rimpiangere l’infanzia, però mi ha costretto a non chiudere gli occhi verso i tempi nuovi.

Più adulto ho avuto modo di conoscere pure le vicende amare di questo cattolico teso a leggere in maniera nuova e nella lunghezza d’onda della cultura del tempo, che sentiva i sintomi di una nuova primavera spirituale, e che pagò con la messa all’indice de “Il santo”, il romanzo che mette meglio a fuoco le sue tesi religiose. Il processo sognato dal Fogazzaro, nonostante il pesante intervento della gerarchia ecclesiastica del tempo, continuò a svilupparsi e in buona parte fu recepito dal Consiglio Ecumenico Vaticano Secondo.

In questi giorni, avvertendo il risucchio che il tipo di fede e di Chiesa, proprio della mia infanzia, esercita ancora nel mio spirito e l’istintiva diffidenza che, a livello inconscio, provo nei riguardi del nuovo modo di impostare i problemi religiosi e la pastorale dei tempi nuovi, m’è parso di capire che la generazione che sta chiudendo con la vita non può non rimpiangere il suo “piccolo mondo antico”.

Forse per questo faccio fatica ad accettare che i giovani preti diano per scontato l’allontanamento di una grande maggioranza dei battezzati, accettino passivamente lo sfascio della famiglia cristiana, non sognino che il numero dei cittadini del territorio geografico della parrocchia non coincida con quello dei “parrocchiani”, l’accettino abbastanza serenamente una pratica religiosa attorno al quindici per cento!

Poi comprendo che solamente chi è nato in tempi diversi provi nostalgia di un mondo religioso che non c’è più o va scomparendo, mentre chi è nato in questo tempo non conosce che questo e perciò crede il presente l’unico possibile. Tra le pene della vecchiaia c’è anche questa ed io purtroppo la sopporto di malavoglia e senza alcuna rassegnazione.

Pensando ai nuovi preti

Talvolta mi accorgo di essere duro, esigente e deluso dalle nuove generazioni di sacerdoti. Spesso ho la sensazione che siano dei rassegnati, degli uomini sempre in difesa o, peggio, in ritirata. Talora ho l’impressione che non abbiano né sogni, né coraggio per vivere all’attacco, ma che si accontentino del piccolo gregge, rinchiuso nello steccato all’ombra del campanile e per nulla preoccupati di scendere nella mischia ove si costruisce il domani e la storia.

Mi fa tristezza il pensiero di gente che possiede una verità che potrebbe illuminare la vita, dare profumo all’impegno, far sognare “nuove frontiere”, mentre si riduce a vivere un quotidiano stinto, insapore ed immeschinito da un valore basso e con orizzonti limitati.

Poi spesso mi dico che anche i preti sono figli del nostro tempo, caratterizzato dal pensiero debole, dalle verità smorte e da un nichilismo imperante e senza respiro, con pochi ideali e meno dimestichezza con la fatica e la lotta.

Forse noi vecchi preti, che siamo vissuti nella seconda metà del novecento, siamo stati più fortunati, da un punto di vista ideale, perché abbiamo avuto la fortuna di vivere “il risorgimento” del dopoguerra, sorretto da leaders di grande statura morale, abbiamo respirato a pieni polmoni l’aria profumata di primavera del Concilio Ecumenico che ha fatto fremere la Chiesa e la fede ed infine siamo pure stati investiti dall’uragano del ’68, che ha travolto ciò che era fittizio, ma ha aperto nuovi orizzonti alle coscienze a livello della giustizia, della solidarietà e della libertà.

Io non so che cosa augurare ai nuovi preti, spero però che non si rassegnino a vivere una vita mediocre e non si lascino condizionare dall’aria stanca ed asfittica della società attuale.

Comunione di intenti fra preti, a Campalto succede

Spesso tra noi preti facciamo dei discorsi complicati e macchinosi sulla fraternità sacerdotale e sui mezzi per acquisirla e consolidarla. I risultati in verità non sono molto appariscenti. Se penso alle parrocchie della nostra città e ai parroci relativi, mi pare di trovarmi di fronte un arcipelago di isolette con campanili diversi, sempre circondate dai caselli doganali ai loro confini. Siamo ancora ben lontani dall’aver realizzato una sinergia di intenti, di iniziative e di mentalità.

E’ più che giusto che ognuno curi il suo orticello con passione, però dovrebbe essere altrettanto giusto che si tenesse conto dell'”economia di mercato” e che non lasciassimo a nessuno le problematiche che superano il respiro parrocchiale. Oggi fortunatamente non ci sono più le liti di un tempo ed è raro che qualcuno si metta a sentinella ai confini della sua repubblichetta, però ci vorrà ancora tempo per aver coscienza di dover sviluppare una pastorale d’insieme.

Ho la sensazione che a questo riguardo non solo nei due ultimi decenni non si sia progredito un granché, ma addirittura che si sia più vicini al regresso che allo stallo!

Fortunatamente ogni tanto avvengono dei “miracoli” che aprono il cuore alla speranza. A me è capitato qualche settimana fa, in rapporto alla costruzione del “don Vecchi” di Campalto. Vicino alla nostra struttura si dovrebbe costruire una chiesa copta e il terreno antistante alla nostra struttura è di proprietà di questa chiesa cristiana, ma separata, per non so proprio per quali motivi, dalla Chiesa di Roma.

L’impresa ha trovato comodo usare questa fascia di terra massacrandola con il trasporto dei materiali, promettendo ai preti copti che una volta terminati i lavori, avrebbero ripristinato il terreno e “pagato il disturbo”.

Questi sacerdoti, che io non ho neppure mai visto, risposero che semmai suddetto importo lo dessero a me per completare i lavori. Sono rimasto quanto mai edificato da questa amabile fraternità.

Con queste premesse, tra il “don Vecchi” e la chiesa copta di Campalto non solo ci sarà un assoluto rapporto ecumenico, ma arriveremo fin dall’inizio alla comunione completa, prima che ci arrivino gli esperti dei vertici copti e cattolici! Ancora una volta si capisce che i fatti risolvono molto di più che le parole!

Il coraggio del nostro Patriarca

Io seguo, come sempre, da lontano le imprese del mio vescovo, ma per questo non è che non le segua e non mi senta coinvolto meno di quei miei confratelli che non possono sopravvivere se non sotto le sue sottane.

Non è che neanche al Patriarca tutte le ciambelle riescano col buco, ma sempre più spesso fa centro non solo nelle gare di “patronato”, ma anche nelle competizioni regionali, nazionali e perfino internazionali.

Ho l’impressione che tanto più alto è il livello delle persone che sono coinvolte nei suoi interventi, tanto meglio il nostro Patriarca riesce ad offrire contributi credibili e condivisibili.

Avevo letto con interesse ed attenzione l’apporto di pensiero che ha offerto recentemente alla Regione, poi qualche giorno dopo mi è capitato di vedere la registrazione dell’evento mandato in onda da Telechiara, l’emittente televisiva delle diocesi del Triveneto. Il Patriarca mi è apparso brillante, convincente ed originale nel proporre soluzioni avanzate ed innovative nei rapporti tra le diverse fazioni politiche che in questo momento si scontrano, si insultano con un linguaggio da portuali e da donne di strada.

Il discorso sulla “etica civile”, sui valori condivisibili, ho l’impressione che abbia fatto breccia sui costituenti la “carta fondamentale” del Veneto. Mi è rimasto però il timore che la Lega sia interessata ad un passaggio fra il paganesimo celtico iniziale e la cristianità e che il cosiddetto Popolo della libertà abbia più che mai bisogno del consenso di quello che è rimasto della Vandea d’Italia.

Sono grato al Patriarca per il suo coraggio, per la sua abilità e per la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda del mondo che conta!

Bossoli e candele

Nei ricordi della mia infanzia il mese di settembre era contrassegnato come “il mese dei traslochi”. Per san Martino, l’11 di novembre, quando i raccolti erano terminati, molte famiglie cambiavano di casa o di podere per i motivi più diversi. Era tempo triste. La gente caricava su un carro le poche e povere masserizie, abbandonava la terra lavorata con tanta fatica, per andare ad abitare in altre case, a lavorare in altri poderi sconosciuti. Quello di novembre era il mese di rimpianti, di sensazione di perdere un po’ del passato per affrontare situazioni comunque ignote e preoccupanti.

Mi viene da pensare che gran tempo dell’estate ormai trascorsa, il nostro Patriarca, assieme a qualche collaboratore tra i più vicini, l’abbia passato pensoso e preoccupato davanti alla grande scacchiera della diocesi, composta da 128 quadratini bianchi e neri a seconda della vitalità o dell’inerzia delle 128 parrocchie.

Il cardinale Urbani, che governò la nostra Chiesa in tempi difficili, adoperando un’immagine da sagrestia, diceva che era sempre in difficoltà perché aveva i bossoli, ma le candele non erano mai della misura giusta. Vincere questa partita a scacchi credo che sia quanto mai difficile, se non impossibile

I preti d’oggi non sono più, come si diceva una volta, dei soldati obbedienti che vanno dove comanda il capo. Le comunità non accolgono più, come un tempo, qualsiasi prete come l’inviato della Divina Provvidenza. L’incontro tra i “bossoli” e le “candele” è ormai quasi impossibile.

I preti sono pochi, molti preti veneziani sono vecchi, le parrocchie stanche e in abbandono avrebbero bisogno di pastori intraprendenti. I migliori preti dovrebbero quindi lasciare comunità ben avviate, efficienti, soprattutto conosciute, per recuperarne altre alla deriva.

Quante volte nel passato mi sono chiesto come farà il mio successore a conoscere persone tanto diverse con problematiche religiose così complesse.

Un giorno il sagrestano suonava la campana e il prete aspettava i parrocchiani in chiesa, non importava chi ci fosse dentro la lunga tonaca nera, in quel tempo era comunque il parroco, il pastore. Ora le cose non stanno più così: ogni anima è una conquista, le attese sono molteplici, una più complessa dell’altra.

Negli ultimi due mesi spesso sono passati davanti ai miei occhi quelli che ora se ne stanno andando, perdendo un patrimonio, acquisito faticosamente, di conoscenze, e quelli che stanno arrivando, con compiti impossibili. Ora non è più tempo di strategie o di progetti, ora può vincere solo la Grazia di Dio!

Gli ultimi bellissimi interventi del Patriarca Scola

Gli interventi del nostro Patriarca sono sempre di spessore, ricchi di contenuto, ma soprattutto costruttivi e tesi a guardare positivamente al domani con proposte mai banali, partigiane e moralistiche. Talvolta mi sono lagnato perché mi sembrava che il livello degli interventi del nostro vescovo fossero poco comprensibili per la gente comune, pur capendo che chi proviene dalle aule universitarie si è abituato ad un linguaggio tecnico, ad un modo di parlare con dei passaggi di pensiero veloci che presuppongono conoscenze vaste e che danno per scontata una certa cultura.

Tutto questo mi aveva fatto concludere che mentre nella conversazione il nostro Cardinale era caldo, immediato, convincente, nelle omelie mi pareva che passasse frequentemente sopra i capelli, non facendo centro sul cuore e sulla testa dei fedeli.

A tale proposito, tempo fa ho letto, con sorpresa, un intervento su un bollettino parrocchiale di un giovane prete che scriveva che i giovani ai quali il Patriarca si era rivolto, in una particolare circostanza, avevano capito si e no il trenta o quaranta per cento del discorso. Pochino in verità!

Mi pare che tutto questo sia ormai superato. Evidentemente l’incontro frequente con la gente delle parrocchie ha facilitato il nostro vescovo a mettersi nella lunghezza d’onda del nostro popolo. Quello che però mi ha fatto enorme piacere sono certi interventi di quest’ultimo tempo, ancora più puntuali, incisivi e propositivi delle lezioni magistrali che il Patriarca è solito tenere in occasione del Redentore.

Ho trovato quanto mai interessante l’intervista rilasciata dal nostro Cardinale, durante il Meeting di Rimini, al giornalista Paolo Viana sul dovere di “Risvegliare la nostalgia di Dio” nella situazione storico-esistenziale del nostro Paese. Non un discorso campato in aria, o puramente teorico, ma inserito nelle problematiche di palpitante attualità. Come m’è quanto mai piaciuta la presa di posizione anticonformista nei riguardi di “Famiglia Cristiana” che, da qualche tempo, pretende di diventare l’apologeta ufficiale di sinistra del cattolicesimo italiano.

Talvolta pare che i vescovi si guardino bene dal dire parole fuori dal coro, soprattutto per quanto riguarda tesi portate avanti dai cattolici della sinistra. Il Patriarca ha giustamente preso posizione, pur sapendo che la stampa cattolica che si ritiene d’avanguardia, s’accoda a quella laica.

Questi interventi mi fanno felice perché da sempre sogno un vescovo libero che abbia il coraggio, in nome di Cristo, di sporcarsi le mani sulle vicende non sempre nobili degli uomini, perché convinto che il messaggio cristiano è per l’uomo storico e non per quello da manuale.

A volte anche chi ha Fede deve procedere al buio

Un paio di settimane fa ho dedicato l’editoriale de “L’incontro”, ed un articolo di riferimento abbastanza consistente, a Madre Teresa di Calcutta. Sono convinto che quella vecchia suora albanese che ha sposato la causa degli ultimi dei bassifondi della megalopoli indiana, Calcutta, sia l’immagine più diffusa, più nitida e più convincente della solidarietà cristiana. Teresa di Calcutta ha fatto comprendere al mondo che l’aspetto più essenziale e più vero del messaggio di Gesù, consiste in un amore sconfinato, tanto da apparire quasi assurdo.

Nella Chiesa sono pressoché infiniti i focolai di carità che illuminano il mondo, essi ardono in ogni comparto della vita e, pur essendo tanto diversi per consistenza e per il modo con cui si esprimono, sono sempre riconducibili al comandamento di Cristo “Ama il prossimo tuo come te stesso”.

La riflessione e la stesura dell’apertura di quel numero de “L’incontro” m’ha quasi costretto a ripensare ad un aspetto non molto noto della spiritualità e della vita interiore di quella donna di Dio, così attiva nei riguardi dell’uomo, ma contemporaneamente così tesa all’adorazione del Signore, tanto che nella regola della congregazione religiosa che ha fondato, è previsto ed imposto un tempo molto ampio per la meditazione e la preghiera.

Nel suo diario, pubblicato dopo la morte, emerse, con sorpresa somma, che ella ebbe tempi prolungati e dolorosi di aridità spirituale; sentiva Dio tanto lontano, quasi le fosse indifferente, e perfino vi sono accenni in cui sembra che Dio fosse scomparso dal suo cuore. Questo “silenzio di Dio” nei riguardi di Teresa di Calcutta, fece grande sorpresa nell’opinione pubblica, tanto che la stampa laica arrivò a dire che probabilmente essa aveva perso la fede. Molta gente è convinta che Dio debba essere sempre colui che apre la via e che il suo discepolo debba sentirsi come legato a corda doppia al capocordata che assicura la salita.

Un tempo un prete veneziano mi disse che la fede assicura il cammino come le briccole segnano i canali della laguna, o le luci dei lampioni della strada diventano punti di riferimento per chi corre al buio.

E’ da tanto che ho capito che la fede non illumina a giorno il cammino; la fede è una luce che balugina ogni tratto di strada, è un chiodo sulla roccia che incontri ogni qualtanto, però vi sono sempre tratti che rimangono bui, pareti su cui devi aggrapparti da solo. Sarebbe comodo avere una strada sicura ed illuminata e che all’uomo non bastasse che metterci la buona volontà e il sacrificio per procedere.

Teresa di Calcutta continuò al buio fino in fondo, seguendo l’illuminazione che aveva ricevuto tanto tempo prima.

L’apprendere questi aspetti della suora dei poveri m’è di grande conforto, facendomi capire che devo continuare anche quando mi sento solo, abbandonato e con l’angoscia d’aver fatto una scelta impossibile.

Il nostro compito è continuare a proporre il modello di famiglia uscito dalla mente di Dio!

Ormai non c’è quasi più famiglia, compresa la mia, che conta due fratelli ed un nipote preti e il vecchio padre che alla domenica prendeva almeno due messe ed era pronto a dare la vita per la Democrazia Cristiana, che non abbia qualcuno dei membri dell’ultima generazione sposato civilmente o convivente con qualche formula particolare.

Ogni tanto mi capita di leggere nella stampa locale o sentire in qualche intervista a carattere nazionale, le statistiche tra sposati in chiesa e sposati in municipio o conviventi in qualche modo. Ha fatto notizia il sorpasso economico ed industriale della Cina sul Giappone mentre, con mia sorpresa, non pare faccia più notizia ma sia dato per scontato, il sorpasso di matrimoni civili su quelli religiosi, ma non mi sorprenderei neppure che prima o poi la spuntassero i “matrimoni di fatto”.

A questa situazione, che coinvolge il sociale, la morale e la religione, s’aggiungono le aberrazioni della famiglia, che hanno come vessilliferi ed apripista i radicali, ai quali si accodano spesso, in buona compagnia, comunisti delle varie specie, molti elementi del PD, i repubblicani e il piccolo codazzo che si rifà ai vecchi liberali e soprattutto i massoni.

Io sono sgomento di fronte a questo fenomeno che sta travolgendo, o perlomeno minacciando paurosamente, la più umana, la più bella delle realtà, rappresentata dalla famiglia, non dico cristiana, ma la vera famiglia. Spessissimo mi domando da che cosa è nata questa catastrofe.

Annoto con curiosità ed ansia le motivazioni che sono addotte: la secolarizzazione, i valori ormai fragilissimi o scomparsi dal nostro mondo, l’insicurezza economica, il rifiuto di ciò che si ritiene formale di certe messe in scena faziose ed inconsistenti, la burocratizzazione ed i percorsi di guerra imposti dalle parrocchie, la volubilità e la corta durata dell’amore-attrazione, la moda imposta dai mass-media, la dissacrazione da parte di un laicismo antireligioso, la superficialità affettiva, l’arrendevolezza dei credenti e mille altre cose ancora.

Se la famiglia non è agonizzante, di certo è malata ed investita da una pestilenza. Io non mi sento il medico capace di curare un morbo così pernicioso, comunque sono convinto che non dobbiamo arrenderci, che come educatori di ogni livello dobbiamo proporre, più convinti di sempre, il modello di famiglia uscito dalla mente di Dio come la proposta più alta e più nobile e più corrispondente ai bisogni dell’uomo, convinti che prima o poi la natura avrà certamente il sopravvento sui pasticci dell’uomo.