Addio a Fra’ Alfonso, il frate questuante, esempio di una Chiesa che rimpiango

Quando sono arrivato, giovane prete, nel 1956, a Mestre, le suore di San Paolo organizzavano banchetti davanti alla chiesa per promuovere la buona stampa e andavano pure, casa per casa, per proporre le loro edizioni e quelle di ispirazione religiosa. Altrettanto, e forse con più determinazione, facevano le Figlie della Chiesa.

A quel tempo la pastorale, ossia l’accostarsi alle anime, non era in posizione di conservazione e difesa com’è spesso oggi, ma gli operatori pastorali, preti, frati o suore che fossero, si impegnavano con iniziative e proposte magari umili ma costanti, mirate a “conquistare le anime”. Poi, pian piano, le suore di San Paolo si ridussero a far da commesse, non sempre “zelanti e brillanti”, nel loro negozio, prima in via Verdi, poi in via Poerio, infine chiesero completamente di andarsene via da Mestre. Le Figlie della Chiesa si ritirarono nel loro guscio di San Gerolamo accudendo a quella chiesa ridotta ormai a mezzo servizio.

Questi ripiegamenti su posizioni più arretrate sono ormai un fatto generalizzato, infatti sono scomparse le associazioni professionali dei maestri cattolici, dei laureati, della Fuci, degli imprenditori, dei preti di fabbrica, dell’associazione cattolica adulti, dei preti che visitano annualmente le famiglie…

Le azioni umili, concrete degli operatori pastorali sono state sostituite da discorsi complicati e da parole roboanti che, a mio modesto parere, macinano aria fritta.

Ho pensato a questo andamento qualche tempo fa, leggendo sul Gazzettino questo trafiletto.

Morto Fra’ Alfonso
Il frate questuante che aiutava i poveri.
Non vedremo più camminare per le calli veneziane, con l’immancabile sacco azzurro sulle spalle, fra’ Alfonso (al secolo Aldo Manfren), dell’ordine dei frati minori. Il frate questuante, per quarant’anni nel convento di San Francesco della Vigna, si è spento sabato nel convento-infermeria di Saccolongo, dove si trovava per le cure della malattia che l’aveva colpito quattro anni fa. Fra’ Alfonso, 74 anni, era nato a Treviso il 9 febbraio 1937. A Venezia era giunto nel 1967 e all’opera di questuante, ha affiancato le attività del patronato parrocchiale, degli Scout e dei chierichetti. Era molto amato dai ragazzi, dai quali si faceva però rispettare con regole rigorose, arrivando, per esempio, a sequestrare il pallone ai giocatori indisciplinati. Ma soprattutto girava per le case e le calli, per ognuno aveva una parola buona, un sorriso, una stretta fraterna di mano: la sua semplicità, la sua umiltà, la sua disponibilità l’hanno fatto un riferimento per tutti i veneziani. Una grandissima amicizia lo ha sempre unito ai Patriarchi.

Certamente il frate da cerca non salvava il mondo ma, a mio parere, era ancora segno di una Chiesa presente, dal respiro popolare, che si mescolava con la vita quotidiana degli uomini comuni. So che certuni giudicheranno questi miei pensieri un po’ romantici e nostalgici di un passato che ormai non c’è più. Forse questo è vero, però mi preoccupo perché il poco pare sia sostituito dal nulla, e questo non è esaltante.

Un umile suggerimento al Santo Padre

C’è una sentenza dell’antica Roma che potrei citare anche in latino, ma credo che sembrerebbe perfino ridicolo far sfoggio di una cultura che non posseggo; comunque la massima è questa: “ciabattino non occuparti di cose che non ti competono perché sono più grandi di te!”. Quindi, con estremo rispetto per l’autorità e la canizie del Sommo Pontefice, mi permetto, appunto per l’amore e il rispetto che gli porto, di fare una osservazione che spero il Patriarca, o qualcuno che ha dimestichezza col Vaticano, gli possa riferire.

Io so purtroppo, per esperienza lungamente sofferta, quanto sia difficile parlare, più difficile ancora parlare a gente numerosa ed eterogenea e so che è pressoché impossibile parlare delle cose di Dio. Avendo però il mandato di Cristo ed un messaggio meraviglioso ed essenziale per gli uomini del nostro tempo, bisogna parlare e parlare nella maniera più opportuna e maggiormente intelligibile possibile.

Il mondo intero dice che il nostro Papa è un teologo di prima grandezza, un vero pozzo di cultura e la sua missione lo costringe a prendere la parola da mattina a sera sugli argomenti più diversi e rivolta alle persone più eterogenee. Io ho ascoltato il Papa a San Giuliano, alla Salute, in Croazia e l’ascolto quasi ogni settimana in occasione dell’Angelus dal balcone del Vaticano. Legge sempre, anche quando dice due parole, legge con una voce monotona, flebile ed incerta, spesso è estremamente lungo e per di più dice anche le cose più sublimi in maniera prolissa e quasi scontata; mai uno scatto di passione, mai una parola forte e turgida di fervore. La gente applaude sempre, ma credo che lo applauda perché è Papa, ma non per quello che dice e per come lo dice.

Il Papa è vecchio, più vecchio di me, è tedesco, e quindi viene da un’altra cultura, ma possibile che qualcuno che gli vuol bene, che ha confidenza non gli possa dire: «Santità, butti via talvolta la carta, ci metta un po’ di passione o perlomeno si faccia scrivere i discorsi da qualche collaboratore più brillante, che adoperi immagini più incidenti, che tenti di far breccia sul cuore dell’uomo che oggi da mane a sera sente gente che parla perfino troppo bene per ingannare il prossimo»?

Dicono che non si nasce oratori, però la Parola del Signore e della verità meritano ed esigono il nostro massimo impegno!

Ora spero che qualcuno non mi fraintenda, che pensi che io voglia insegnare qualcosa al Papa; dico questo solamente per amore verso di Lui e verso chi l’ascolta. Vorrei avere semplicemente il cuore di Caterina da Siena quando scongiurò il Papa di tornare a Roma, perché questo era bene per la Chiesa. Temo però che le persone importanti, e tra queste lo stesso Papa, corrano il pericolo di rimanere soli, senza chi li aiuti a espletare bene il loro compito.

Basta violenza!

Sarà forse l’imbragatura di acciaio in cui sono costretto a vivere che aumenta nel mio animo maggiormente il mio rifiuto assoluto della violenza e della sofferenza imposta all’uomo per i motivi più disparati.

In questi ultimi tempi sto pensando con raccapriccio ed orrore a come, dopo tanti secoli di storia, nonostante la filosofia delle religioni dell’estremo oriente, tutte tese alla non violenza e al rispetto della vita, quale l’induismo, e dopo duemila anni di storia cristiana per la quale è severamente riprovato perfino il pronunciare l’epiteto di “stolto”, ci siano nel mondo ancora tanta barbarie, tanta violenza, tortura, persecuzione e morte.

L’occidente, che si crede emancipato e civile, la Chiesa, che si ritiene apportatrice di fraternità e di amore, hanno ancora tanta strada da fare per potersi dire coerenti a queste belle e splendide verità.

Quando penso alla tortura, tranquillamente praticata non fino a ieri, ma fino ad oggi in Paesi cosiddetti cristiani, e quando penso alla “Santa Inquisizione”, alle guerre di religione e alle crociate, benedette ed auspicate non solo dagli umili fedeli, ma dalle più alte gerarchie ecclesiastiche e perfino dal Papa, mi vien da rabbrividire.

Papa Wojtyla ha chiesto perdono e qualche prelato ha perfino non condiviso e anzi criticato tale atto, mentre credo che dovremmo ogni giorno prostrarci di fronte alla storia e all’uomo per chiedere perdono per i peccati di ieri e quelli di oggi.

Bisogna che gridiamo con quanta voce abbiamo in petto e con quanta passione abbiamo nel cuore: “Basta guerre, basta violenza, basta tortura, basta pene fisiche, basta sbarre, basta sopraffazione, basta “giustizia” che non creda alla possibilità dell’uomo di redimersi, basta retorica del diritto, basta bugie per coprire l’egoismo, l’avidità, la sete di potere.

Da qualche tempo ho deciso di non sopprimere neppure una formica o una mosca molesta, perché mi pare d’aver capito che la violenza, comunque e per qualsiasi motivo esercitata, è il “vero peccato che grida vendetta al cospetto di Dio”. Mi auguro che questo rifiuto del male mi accompagni fino all’ultimo respiro della mia vita.

Fede e burocrazia della religione

Quando mi serve il numero di telefonino di un prete o di una parrocchia, mi riesce più facile cercarlo nell'”annuario” della diocesi, che non sull’elenco telefonico, dove mi è difficile scoprire sotto quale nome posso trovarlo.

L’annuario è un grosso volume di 230 pagine che esce ogni anno con gli opportuni aggiornamenti.

Ogni volta che prendo in mano questo volume, provo delle sensazioni strane che vanno dall’orgoglio di appartenere ad una realtà così ricca ed articolata, alla delusione che un “marchingegno” così complesso non produca dei risultati di ordine spirituale così eclatanti che finora a me non è mai capitato di scorgere.

Queste osservazioni così elementari da potersi considerare perfino banali, mi hanno posto un problema molto più importante che finora non ho mai affrontato seriamente e che, meno che meno ho risolto, cioè il rapporto tra fede e religione o, meglio ancora, tra fede e Chiesa. Da sempre ho ritenuto che la fede sia la gioiosa certezza che Dio mi ama, mi perdona, mi aiuta e mi attende in fondo alla strada della mia vita, mentre ho pensato che la religione, e più ancora la Chiesa, siano gli strumenti che dovrebbero illuminare, giustificare e sorreggermi nel mio credere.

Mi ritrovo ora a constatare che mentre il mio atto di fede è semplice, essenziale, personale, il “marchingegno” della religione e della Chiesa è un qualcosa di mastodontico, complesso, artificioso e burocratico. Quando mi ritrovo a pregare “Dio mio!” e poi penso al volume di 300 pagine che racchiude le gerarchie, l’organizzazione ecclesiastica, gli istituti, gli operatori religiosi, le congregazioni, commissioni e quant’altro, mi pare che ci sia una sproporzione evidente.

So che la mia fede deve essere alimentata, sorretta, custodita e difesa, però temo che l’immenso carrettone costruito nei secoli per adempiere a questo compito sia veramente eccessivo.

In questo momento della mia vita sogno una religione ed una Chiesa più povere, più leggere e più essenziali, perché temo che si corra il rischio che questo enorme meccanismo possa soffocare quel soffio leggero che mi fa credere, amare e sperare. Non ho ancora tutto chiaro, però sento che la mia Chiesa deve spogliarsi neppiù di paludamenti, formule, ingranaggi ed istituzioni che arrischiano di assorbire ogni energia e farmi dimenticare il motivo per cui sono state costruite.

Un parere che conta davvero

Nonostante i ripetuti interventi della curia e dello stesso Patriarca, la stampa locale ha pubblicato, seppur in tono discreto, qualche mugugno per le spese eccessive, per l’accoglienza del Papa a Venezia. La diocesi ha ripetuto a chiare lettere che queste spese non sono state sostenute dagli enti pubblici, ma dalla generosità dei fedeli che hanno voluto accogliere in maniera degna il Sommo Pontefice.

Però, ai tempi di Roma, si diceva un po’ ipocritamente, che il popolo aveva lo “ius murmorandi”, il diritto di criticare. Oggi questo presunto diritto ha raggiunto vertici esponenziali, si critica su tutto e su tutti e Venezia non è immune da questa “malattia”.

Non si voleva il Mose, nonostante la città vada sott’acqua venti, trenta volte all’anno; ora non si vuole la Tav, l’Orlanda bis, nonostante Campalto abbia protestato mille volte per il traffico; non si vuole il nuovo carcere; non si vuole il centro per gli immigrati, non si vuole la Castellana bis…. Pare che ormai si voglia solo quello che non è possibile o che porti solo danni e disagi ad altri!

L’autorità è fragile, per cui c’è un ristagno ed un immobilismo, nella vita veneziana, che paralizza ogni innovazione ed ogni iniziativa.

Fortunatamente il Patriarca, da buon lombardo, ha tirato dritto e s’è imposto perché la Chiesa di Venezia e del Veneto accogliesse con dignità e calore il Santo Padre che stanco, fragile e curvo, porta le chiavi pesanti di San Pietro.

Credo che questa linea di fermezza, anche se non condivisa da quella frangia fisiologicamente dissenziente, trovi riscontri positivi tra la gente. Circa trecentomila fedeli (così diceva l’informazione) si sono sobbarcati molti disagi pur di poter applaudire il Santo Padre e pregare con lui per questa nostra povera società.

Qualche giorno prima del grande evento, la signora Pedrocco, moglie di un piccolo imprenditore del marmo, che ha l’azienda in via del cimitero, è venuta in chiesa a farmi un’offerta perché è stato richiesto a suo marito di fornire la lastra di marmo per l’altare. «Pensi, don Armando, a noi è toccato l’onore di offrire il marmo dell’altare in cui il Papa dirà la messa!»

Questa cara ragazza, non nuova alla generosità, era letteralmente trasfigurata! Questo è il parere che conta, altro che i malcontenti di sistema!

Cristo è nella realtà della vita e del mondo

L’onda lunga del mistero pasquale non cessa di lambire la mia anima, seppure la celebrazione liturgica della Resurrezione sia abbastanza lontana. Penso che sia giusto che l’eco dell’alleluja di Pasqua canti nel cuore dei fedeli non solamente durante il sacro rito che fa memoria e rinnova l’annuncio, ma continui a cantare nel cuore di chi ha recepito la lieta notizia e sente il dovere di riportarla a chi ancora non è giunta.

Nella mia vita di prete e soprattutto nei miei sermoni non mi sono mai stancato di ripetere che il dono del Signore non può rimanere racchiuso nel breve tempo della celebrazione liturgica, ma anzi che questa celebrazione è quasi solo l’occasione e il mezzo per recuperare, rafforzare la lieta notizia e per rilanciarla per illuminare la vita quotidiana con questa verità che permette di leggere in modo nuovo o da un’angolatura che supera il contingente.

A proposito delle apparizioni di Gesù dopo la Resurrezione, il cui racconto la Chiesa ci fa leggere nei giorni e nelle settimane dopo Pasqua, quest’anno ho fatto un’altra piccola “scoperta” che mi ha prima incuriosito e poi fatto felice. Ho notato che i luoghi in cui Cristo si è manifestato, dopo la sua morte, ai suoi discepoli, non sono luoghi sacri, quali il tempio o la sinagoga, e le persone a cui s’è mostrato non sono degli “addetti ai lavori”, quali i sacerdoti o i leviti o semplicemente i farisei scrupolosi e pignoli, osservanti delle rubriche liturgiche, ma sempre luoghi “profani” e persone “laiche”.

Faccio alcuni esempi: alla Maddalena s’è fatto vedere in cimitero, ai discepoli di Emmaus prima per strada e poi in osteria, a Pietro e Giovanni mentre erano in barca a pescare, agli altri discepoli nel cenacolo, che in sostanza non era che una povera sala da pranzo.

Questa constatazione m’ha portato a pensare che bisogna che desacralizziamo i luoghi e i tempi normalmente dedicati all’incontro con Dio. A ben pensarci Gesù ha detto alla samaritana: «E’ giunto il tempo, ed è questo, che Dio non si adora in questo o quel luogo, ma i veri adoratori lo adorano in spirito e verità».

Un tempo m’è parso di dover mettere in guardia dal “magico”, ora mi vien da pensare che dobbiamo accostarci anche al “sacro” con una certa cautela, mentre tutta la realtà della vita e del mondo diventa un autentico ostensorio di Cristo.

Ricordo di Papa Vojtyla

A Pasqua chiudono il cimitero, luogo del mio ministero, a mezzogiorno, per cui potevo godere di una mezza giornata di riposo.

Nel primo pomeriggio mi sono concesso un’oretta di televisione, potendo così seguire una rubrica, condotta da quel simpatico e intelligente giornalista che io reputo essere Giletti. Ho acceso il televisore dopo il breve “pisolino”, quando ormai il programma era iniziato da qualche tempo, rammaricandomi di aver perso la parte iniziale della trasmissione. Era in corso un’intervista con l’ex direttore della sala stampa del Vaticano, Joaquin Navarro Valls, persona che è stata a stretto contatto con Papa Carol Vojtyla per più di vent’anni.

Giletti è certamente un giornalista sciolto, brillante e intelligente, oltre che ricco di umanità e il suo interlocutore medico e giornalista, altrettanto intelligente e preparato, ma soprattutto capace di tradurre in testimonianza palpitante le sue “confidenze” sulla vita e sul modo di operare di quel meraviglioso Papa polacco, prima immagine splendida di vitalità e poi icona della sofferenza.

Dall’intervista è emersa soprattutto la calda umanità del pontefice e la sua fede forte e capace di determinare ed illuminare la sua vita e il suo ministero.

Più volte mi sono commosso, leggendo nel volto tanto espressivo di questo “servitore della Chiesa” l’ammirazione incondizionata e l’ebbrezza, quasi, di poter offrire agli ascoltatori una immagine così bella e così alta del “Papa venuto da lontano”.

Nei miei ottant’anni di vita ho “incontrato” capi di stato, artisti, uomini di cultura e di scienza, che hanno attraversato, come meteore, il cielo di questo e dello scorso secolo, ma forse la figura più bella, più completa e più positiva è stata quella del nostro pontefice, che ha saputo tradurre il Vangelo di Cristo nell’unica lingua comprensibile e la più amata dagli uomini del nostro tempo l’autenticità.

La Chiesa si è macchiata di mille magagne, ma se è ancora capace di esprimere uomini del genere, rimane la realtà più importante e più positiva del nostro tempo.

Il dramma dei preti di oggi

L’opinione pubblica radicale pensa che il prete sia uno che rappresenta il passato meno nobile e che campa sull’ignoranza e sui pregiudizi di ceti meno acculturati e più retrivi della società attuale. Mentre la gente normale è convinta che il sacerdote sia ancora una funzione sociale tesa soprattutto ad educare le nuove generazioni a valori sani e condivisibili.

Le persone di questo ceto, che tutto sommato amano, in qualche modo, il sacerdote ed apprezzano la sua funzione sociale, immaginano che il sacrificio maggiore che la Chiesa richiede ai suoi preti sia quello del celibato, che pone il prete in una condizione di solitudine pressoché disumana.

Di certo anche questo è un problema, ma almeno per me, non il più grave. Da parte mia il peso maggiore per un sacerdote oggi, è quello di avere un messaggio, delle verità, delle proposte, una lettura della vita, e non possedere parole, schemi mentali e motivazioni facilmente comprensibili dalla nostra gente. Io ho spesso la sensazione di avere una proposta, ma di essere quasi un “muto” che non ha suoni per passarla agli uomini che ancora vengono in chiesa per attingere speranza e coraggio per vivere.

In occasione dell’ultima Pasqua, ancora una volta ho sofferto e penato molto, senza forse riuscire, almeno a mio parere, a spiegare che oggi possiamo fare incontrare gli uomini del nostro tempo col Risorto, nella misura in cui riusciamo a formare cristiani capaci di assimilare il discorso di Gesù, che con le parole e con l’esempio ha proposto l’uomo nuovo del Vangelo, l’uomo rigenerato, l’uomo della resurrezione, che ha vinto la prepotenza, la meschinità, la paura, l’egoismo avendo creduto in Dio amore, verità e vita.

Nel profondo del mio spirito baluginava quel giorno questa verità, ma credo d’aver faticato, con scarsi risultati, a donare la verità di questa proposta che superava positivamente “il miracolo della risurrezione” poco incidente nella vita dei fedeli. Questo per me è il più grosso dramma del prete, oggi.

Vorrei una Chiesa fatta di Vangelo e semplicità!

Sono del tutto d’accordo con coloro che continuano a ripetere che l’abito non fa il monaco, però resto ancora convinto che una certa qual importanza, anche se non rilevante, la fa pure “l’abito”.

Partendo da questa convinzione fui tra dei primi, assieme a don Vecchi, che smisi la tonaca per il clergyman, però non condivido la scelta dei preti che si sono sbarazzati in maniera disinvolta da ogni segno che indichi la loro appartenenza al clero.

Non sono certamente i “termini” che qualificano le scelte e le persone, ma i contenuti. I comunisti, in proposito, hanno tagliato corto e sono stati quanto mai radicali, sostituendo ogni denominazione dell’autorità con il termine “compagno”, ma la loro è stata solamente ipocrisia, perché certi “compagni” lo erano più degli altri, così da diventare despoti e dittatori.

Prima dei comunisti anche la Rivoluzione francese aveva tentato di risolvere il problema dell’eccessivo peso dei gradi coniando il termine “cittadino”, ma pure la loro fu solamente un’ipocrisia.

Gesù tentò anche lui una riforma radicale introducendo il termine “fratello”, ma i suoi seguaci nel tempo non sono stati assolutamente fedeli a questo termine, e gli hanno preferito l’ampollosità spagnolesca di altri quali, Monsignore, Eccellenza, Eminenza, Santità e via dicendo.

A me in verità non disturbano più di tanto queste locuzioni, ma mi sembrano stonate, fuori tempo o, perlomeno, fuori moda. Mi interessa di più che le persone definite da questi termini siano paterne ed operino in spirito di autentico servizio piuttosto che di governo, ma confesso che non mi dispiacerebbe che certe parole scomparissero dal vocabolario ecclesiastico, come certi segni, sacri palazzi, fasce e bottoni rossi, cuffie e vesti dalle fogge strane, stemmi araldici e cose del genere sono qualcosa che penso sporchino la semplicità; ad essi preferisco segni e parole che sappiano di Vangelo piuttosto che di cerimoniale.

“L’apostolato per i gentili”

Le mie “strategie” pastorali si sono sempre rifatte alla “dottrina” dell’attacco, piuttosto che della difesa. Ho sempre ammirato i cristiani che, consapevoli di avere un messaggio quanto mai valido, si sono impegnati “a tempo e fuori tempo”, come afferma san Paolo, per donare ai fratelli la realtà più preziosa che avevano: il Vangelo, la lettura della vita fatta da Cristo.

Come confesso che mi hanno provocato sempre un senso di miseria quei credenti che si barricano dentro le parrocchie, in atteggiamento di difesa da non so quale “nemico” e passano la vita in interminabili discussioni tra di loro sul “sesso degli angeli”.

Io sono della scuola di san Paolo, che quando si trattò di dividersi il “campo di lavoro” disse a Pietro: «Voi occupatevi pure delle `pecore’ d’Israele, mentre io mi impegno a favore dei “gentili”, termine che oggi corrisponde ai cosiddetti “lontani”. Ma prima di san Paolo, lo stesso Gesù aveva affermato in maniera esplicita: «Il medico è fatto per gli ammalati, non per i sani», «Io sono venuto non per i giusti, ma per i peccatori!»

Debbo anche aggiungere che non mi sono mai rassegnato al pensiero che chi non osserva tutte le regole canoniche sia un “perduto” per sempre. Queste persone che “soffrono l’odore delle candele” non credo proprio che li dobbiamo pensare come ex cristiani, o cristiani irrecuperabili.

Ricordo un vecchio parroco di San Pietro di Murano, che durante un’assemblea di preti in cui si discuteva di queste cose, s’alzò e affermò con forza: «Questa gente che voi considerate lontani ha ancora la “grazia santificante” ricevuta col battesimo!» In merito a questi discorsi io ogni giorno di più scelgo sempre più convinto e sempre con più decisione “l’apostolato per i gentili”. Ai cosiddetti “lontani” dedicherò le forze residue per aiutarli a sentirsi, pure loro, amati dal Signore e per aiutarli ad essere coscienti che ci sono mille altri modi, fuori da quelli canonici, per amare e servire il buon Dio».  L’impegno sociale, l’autenticità, il perseguire la libertà e la verità ad ogni costo, l’amore alla giustizia e alla pace, penso che siano le “preghiere” certamente preferite dal buon Dio, che ha fatto dire a suo Figlio: «Non chi dice Signore Signore entrerà nel Regno, ma chi fa la volontà del Padre mio!».

Ancora un pensiero a suor Maria Luisa, per me “un garibaldino in convento”

Ultimamente è morta, dopo una lunga ed operosa vita, suor Maria Luisa delle canossiane di Mestre. Una suora “sui generis”, meravigliosa e stupenda per me, che tutto sommato tendo ad essere anticonformista, ma che credo, per quanto ne so io, possa aver creato almeno qualche problema per la sua congregazione e per il suo convento in particolare.

Suor Maria Luisa, donna non estremamente colta, ma estremamente intelligente, s’è interessata di tutto e di tutti, non c’era settore della vita o tipo di personalità o di dramma umano che non la coinvolgesse come donna e come credente. So che era laureata in lettere e che ha insegnato soprattutto nella scuola pubblica, ma anche i bambini, i poveri, la catechesi, gli ammalati e i drammi umani la coinvolgevano in maniera totale; era una donna che non si impegnava a risolvere i problemi in genere, ma era interessata soprattutto all’uomo, alla persona e all’individuo, che in realtà è l’unico soggetto non fittizio, ma vero.

Tante volte mi sono domandato “Ma come ha fatto a rimanere in convento per una vita intera, ove le regole, il carisma, la tradizione, la comunità, i superiori sono, in genere, più rigidi delle sbarre di una prigione e tutto tende ad appiattire, a standardizzare le persone costringendole a modelli preconfezionati, mediante un’ascetica che è esattamente opposta ai criteri del Padre eterno? Dio ci ha creati diversi, tanto che ogni creatura è assolutamente unica, perché a qualcuno è capitato lo sfizio di pretendere per tutti lo stesso abito, lo stesso modo di vivere, operare e pregare?”.

Alla notizia della morte di suor Maria Luisa, suora che nella mia fantasia ho sempre inquadrata come il titolo di un vecchio film “Un garibaldino in convento”, ho pregato perché il Signore mandi in ogni comunità religiosa di qualsiasi tipo, almeno una suor Maria Luisa che metta in crisi “il sistema”.

…Gesù rimarrebbe deluso?

Le mie “passeggiate spirituali”, com’è giusto e comprensibile per un prete, si svolgono sugli interessanti sentieri della Bibbia e, in particolare, prediligono le pagine del Vangelo.

Il mio animo divaga attratto dalle parole, dai messaggi e dalle verità in cui mi imbatto ad ogni pié sospinto. Come avviene per ogni divagazione della mente parto da una parola o da una immagine e poi, condotto dalla fantasia o dallo Spirito, mi ritrovo ad osservare ed approfondire le verità più diverse, ma sempre ottimali.

Qualche giorno fa m’è capitato di imbattermi in alcune realtà a cui Gesù è ritornato più di una volta nei suoi discorsi. Cristo, rivolgendosi ai suoi discepoli, disse loro: «Voi dovete essere la luce del mondo, il sale della terra e ricordatevi che la luce è destinata ad illuminare e il sale a dare sapore, perché se non adempiono a questa loro funzione, non servono a nulla, possono essere buttate tranquillamente nel cassonetto dei rifiuti!”

Da questi incontri m’ha colpito l’idea che se la luce è destinata ai luoghi bui, il sale agli alimenti senza sapore, il lievito alla pasta inerte e pesante, se queste devono essere le caratteristiche essenziali dei cristiani, ne consegue che i discepoli di Gesù non sono, nel pensiero del loro maestro, gente di convento, da congrega chiusa, da sagrestia, da ombra di campanile o da comunità che vivono dietro staccionate o dietro al reticolato, ma gente da barricate, gente destinata a trascinare, persone che s’immergono nella società, nella storia, nei problemi e nei drammi più difficili, per aprire vie nuove, che portano a soluzioni positive.

Tolstoi, il grande drammaturgo russo, in uno dei suoi racconti, immagina Cristo che, in incognito, va a visitare le comunità che dicevano di rifarsi al suo insegnamento, ma con sua amara sorpresa, scopre che non assomigliano per nulla al progetto da lui sognato.

Temo che oggi la delusione di Gesù non sarebbe meno amara e sconsolata, perché pare che i cristiani temano i luoghi in cui pulsa il cuore della società e in cui si fa la storia.

Riflessioni su un incontro con i confratelli della terraferma

Oggi, dopo tantissimo tempo, non completamente per mia volontà, ma a causa delle mie mille magagne, dell’ostinazione di occuparmi fino in fondo di ciò che credo, a torto o a ragione, che sia il dovere del mio ufficio, e forse perché non direttamente interessato ai problemi che si dibattono, ho partecipato, seppur parzialmente, ad un incontro con i confratelli della terraferma.

A causa di un recente e notevole calo dell’udito, ho fatto fatica a capire quello che si diceva, comunque ho provato delle strane sensazioni. Avevo l’impressione di partecipare costantemente, seppur da lontano, alle vicende della mia diocesi, mediante la lettura della stampa diocesana, sentendomi coinvolto nelle problematiche che essa affronta, però questa mattina ho avvertito di essere piuttosto lontano e quasi estraneo ai discorsi e ai problemi affrontati.

Ciò mi è dispiaciuto alquanto e mi ha spinto a rinnovare il proposito, in verità poco attuato in passato, di partecipare più frequentemente a suddetti incontri, pur preoccupato che la mia partecipazione, che non sarebbe mai passiva, possa diventare una voce fuori coro e stonata.

Il mio disagio è cominciato col fatto di non conoscere molti dei presenti – questo è comprensibile perché io appartengo ormai all'”antico testamento” – per continuare nel sorprendermi per le fogge così diverse nel vestire dei preti – ma mi son detto che “l’abito non fa il monaco”- e per finire poi con la cosa più importante: non avvertire un linguaggio che mi è ormai estraneo e delle problematiche che tutto sommato non mi paiono così importanti, non solo per il bene della società attuale, ma anche per il Regno!

Non so se debbo essere in pena o essere contento di parlare ormai la lingua parlata dalla gente e non quella del clero ed essere preoccupato solamente delle cose che io ritengo essere essenziali per trasmettere il messaggio che credo possa salvare gli uomini d’oggi dalla miseria, dalla solitudine e dalla disperazione di una vita fatua ed inconsistente.

Sono tornato a casa preoccupato di sentirmi un po’ estraneo al linguaggio clericale e poco coinvolto dai problemi sofisticati a cui esso si appassiona. Perché oggi la mia preoccupazione è invece quella di seminare speranza, solidarietà e fiducia che Dio ci vuol bene, nonostante tutto, e che Cristo rimane tra gli uomini del nostro tempo anche se sono deludenti e poco riconoscenti per tutto quello che ci dona.

Le nostre colpe

Ci è stato insegnato fin da bambini a riconoscere le nostre cattiverie e a batterci il petto in segno di pentimento. Continuo, come tutti i praticanti, a farlo all’inizio della messa prima di incontrarmi con nostro Signore. Purtroppo, molto spesso questo atto si riduce ad essere puramente formale, o al massimo esprime il dispiacere per qualche cattiveria appena commessa.

Almeno per me, è molto raro che la mia “confessione” sia una vera ammissione di colpa nei riguardi di Dio e della società alla quale il mio peccato arreca sempre quella rottura di armonia che è invece la condizione essenziale per un buon vivere. Meno che meno il mio battermi il petto esprime il dolore per le cattiverie attuali e passate commesse dalla comunità a cui appartengo.

Papa Vojtyla prima, e Ratzinger poi, hanno compiuto questo gesto profetico. Sono assolutamente convinto che per questi uomini di Dio la richiesta di perdono sia stata una vera ammissione di colpa per i peccati gravi della Chiesa. Non credo però che la loro “confessione” abbia coinvolto anche l’intera comunità cristiana, come sarebbe giusto che fosse. C’è stato anzi qualcuno che si è ufficialmente dissociato da questa ammissione di colpa.

Ora che la televisione digitale ci offre la possibilità di una informazione più vasta, ho scoperto il canale “Rai storia”, che seguo con estremo interesse. M’è capitato di vedere, qualche settimana fa, i locali sotterranei appena aperti al pubblico, ove la “Santa” Inquisizione, fino a pochi secoli fa, sedeva in tribunale e soprattutto le prigioni orride ove i condannati per “delitti di pensiero” dovevano scontare lunghi anni di detenzione: un orrore da far rabbrividire!

Ho pensato, con infinita tristezza, ai discepoli del poverello di Assisi e di san Domenico, che si sono prestati a questa operazione così disumana e soprattutto così opposta al pensiero di Gesù, ed ho concluso che in ogni caso l’uomo non può e non deve mettere mai a servizio di qualsiasi apparato, sia pure quello della propria Chiesa, se questo non è conforme alla propria coscienza e alla propria umanità. Ho pensato pure che anch’io sono figlio di quella colpa e che io pure posso rendermi colpevole di questi crimini, perciò debbo battermi il petto per motivi di solidarietà esistenziale, anche per le colpe della mia Chiesa, colpe che non sono poche né piccole.

Le sagge parole del Cardinale Tettamanzi e di Sant’Agostino

Il Cardinale di Milano, monsignor Tettamanzi, ha affermato che preferisce uno che si dichiara non credente, ma in sostanza è una persona seria e un cittadino integerrimo, piuttosto di chi si dice cristiano ma in realtà è un uomo inconsistente ed un credente puramente formale.

Io condivido da sempre questa lettura del credere e da decenni seguo il vessillo di sant’Agostino su cui è scritto: “Vi sono uomini che Dio possiede e la Chiesa non possiede ed altri uomini che la Chiesa possiede, ma Dio non possiede”. Il nominalismo nel campo della fede è un solenne e potente imbroglio perché etichette, distintivi, pratiche e quant’altro non definiscono in maniera assoluta il pensiero del Figlio di Dio.

Nonostante Gesù ormai venti secoli fa abbia affermato in maniera chiara e solenne: «Non chi dice Signore Signore entrerà nel Regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre», più vado avanti negli anni, più capisco che mentre c’è una certa facilità a formare e coltivare bigotti, è molto più difficile costruire “uomini nuovi” che odorino di Vangelo e realizzino l’autentico umanesimo cristiano.

E’ vero che è molto più facile assistere ad una funzione, accodarsi ad una processione o recitare qualche formula al mattino e alla sera, che essere uomini liberi, giusti, pacifici, coraggiosi ed autentici. Però è pur vero che una certa prassi pastorale, una predicazione di maniera, un desiderio smodato d’aver un certo seguito, producono con facilità e naturalezza bigotti piuttosto che gli uomini nuovi di cui parla il Vangelo.

La nostra predicazione, la catechesi e la pastorale, se non puntano a formare una umanità sana ed autentica, fatalmente finiscono per produrre manichini vestiti da cristiani, ma non uomini ricchi di speranza, di buona volontà. Perciò non credo che valga la pena mettere in produzione prodotti falsificati e taroccati checché ne possano pensare le anime pie!