Sono del tutto d’accordo con coloro che continuano a ripetere che l’abito non fa il monaco, però resto ancora convinto che una certa qual importanza, anche se non rilevante, la fa pure “l’abito”.
Partendo da questa convinzione fui tra dei primi, assieme a don Vecchi, che smisi la tonaca per il clergyman, però non condivido la scelta dei preti che si sono sbarazzati in maniera disinvolta da ogni segno che indichi la loro appartenenza al clero.
Non sono certamente i “termini” che qualificano le scelte e le persone, ma i contenuti. I comunisti, in proposito, hanno tagliato corto e sono stati quanto mai radicali, sostituendo ogni denominazione dell’autorità con il termine “compagno”, ma la loro è stata solamente ipocrisia, perché certi “compagni” lo erano più degli altri, così da diventare despoti e dittatori.
Prima dei comunisti anche la Rivoluzione francese aveva tentato di risolvere il problema dell’eccessivo peso dei gradi coniando il termine “cittadino”, ma pure la loro fu solamente un’ipocrisia.
Gesù tentò anche lui una riforma radicale introducendo il termine “fratello”, ma i suoi seguaci nel tempo non sono stati assolutamente fedeli a questo termine, e gli hanno preferito l’ampollosità spagnolesca di altri quali, Monsignore, Eccellenza, Eminenza, Santità e via dicendo.
A me in verità non disturbano più di tanto queste locuzioni, ma mi sembrano stonate, fuori tempo o, perlomeno, fuori moda. Mi interessa di più che le persone definite da questi termini siano paterne ed operino in spirito di autentico servizio piuttosto che di governo, ma confesso che non mi dispiacerebbe che certe parole scomparissero dal vocabolario ecclesiastico, come certi segni, sacri palazzi, fasce e bottoni rossi, cuffie e vesti dalle fogge strane, stemmi araldici e cose del genere sono qualcosa che penso sporchino la semplicità; ad essi preferisco segni e parole che sappiano di Vangelo piuttosto che di cerimoniale.