Il fine ed i mezzi

Io sono un pover’uomo, ne sono ben cosciente, però da sempre mi sono interessato dell’evoluzione in tutti i settori della nostra società.

Se io metto a confronto il modo di vivere la religione (perché è questo il settore che più mi interessa) di quando ero bambino col modo attuale, mi accorgo che l’evoluzione è stata veramente profonda e radicale. Spero che questo fenomeno sia positivo ma non ne sono proprio certo. Di tanto in tanto mi nascono dei dubbi veramente seri.

A me pare che la caratteristica più evidente e riscontrabile sia che il cristiano moderno si è progressivamente sganciato da un mondo che era codificato fin nei minimi particolari, per puntare invece alla sostanza del messaggio cristiano. Mi sembra che un tempo si fosse convinti che per arrivare alla sostanza di “ama Dio con tutta la tua mente, tutto il tuo cuore e con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”, si dovesse passare attraverso una serie consistente di pratiche e di riti ben definiti.

Vorrei che per un solo momento facessimo una disanima di queste modalità: digiuno il venerdì, vesperi della domenica, vigilie, ottavari, novene, primi nove venerdì del mese, confessione pressoché settimanale, angelus, preghiere prima dei pasti, giaculatorie, fioretti, visite in chiesa, elemosine, rosario a maggio e ad ottobre, primi sabati del mese in onore della Madonna, devozione ai capitelli, medaglie, santini, scapolari, devozioni particolari e chi più ne ha più ne metta! Ora tutto questo è pressoché scomparso, anche i cristiani più devoti si confessano due, tre volte l’anno e pare trovino molta difficoltà a scoprire un qualche peccato vero e un po’ significativo da confessare.

Questo problema è sempre esistito, basti pensare che gli ebrei avevano più di seicento precetti o norme da seguire, mentre nel cristianesimo erano molto meno, però ora la semplificazione e lo sfoltimento sono diventati più rapidi e radicali.

Mi è venuto da riflettere su questo argomento qualche settimana fa quando mi è capitato di leggere l’intervista a Gesù su che cosa si dovesse mantenere della legge antica. Gesù risponde: «Non sono venuto per abolire, ma per completare», e continua: «chi insegnerà di eliminare anche un solo iota (che era la lettera più piccola dell’alfabeto) non entrerà nel Regno dei Cieli».

Sto ripensando con una certa preoccupazione a questo discorso, constatando che è sempre tanto facile demolire, ma costruire è ben più arduo e impegnativo. In questi ultimi tempi sto insistendo, e molto convinto, che dobbiamo diventare “creature nuove”, però bisogna pure che per arrivare a tale meta usiamo un qualche strumento.

Io sono vecchio, e tutto sommato i vecchi rimangono abbarbicati alla cultura del vecchio catechismo di san Pio decimo che aveva una risposta precisa su ogni argomento, ma i nostri bambini che al catechismo fanno soprattutto cartelloni, non so proprio come potranno arrivare al Regno!

12.04.2014

Fuori serie

Quando si riscontrano dei comportamenti anomali in qualche persona o in qualche categoria sociale o religiosa, la gente, imbarazzata e in difficoltà di dare un giudizio, se la cava con una battuta ormai di uso comune: “Il mondo è bello perché è vario”. Non sono molto propenso ad accettare senza alcuna riserva questa sentenza, però penso vi sia molto di vero.

Questo discorso vale per il macrocosmo umano: sarebbe difficile trovare un denominatore comune tra la mentalità dei cinesi, degli arabi, dei tedeschi, degli indiani o degli svedesi, oppure dei francesi o degli italiani. Vi sono delle mentalità, degli stili di vita, norme comportamentali estremamente diversi, ma penso anche che ci sia quasi una camera di compensazione e di complementarietà che, tutto sommato, fa della diversità una reale ricchezza.

Questo discorso vale anche per il mondo degli ordini e delle congregazioni religiose. Vi sono suore di tutte le specie possibili ed immaginabili, con le divise più diverse e con i cosiddetti “carismi” (parola molto di moda tra le suore) almeno nelle enunciazioni tanto dissimili, tanto che qualcuno ha osato affermare che solo lo Spirito Santo conosce i nomi di tutte le congregazioni religiose.

Ora però, da qualche decennio, sembra che pure dagli stessi ordini monacali, antichi e moderni, stiano emergendo dei religiosi che escono dai tradizionali binari – di norma molto statici perché fissati dalle “sante regole” – per dare delle testimonianze di fede e delle modalità di apostolato assolutamente inusitate.

In proposito ricordo la religiosa francescana, “suor sorriso”, che a suo tempo deliziò la gente con le sue canzoni briose e vivaci che davano lode a Dio in maniera fresca ed immediata, tanto diverse dai canti liturgici o popolari del passato così compassati.

Ricordo pure il francescano, padre Cionfoli, che ha cantato la lode al Signore accompagnandosi con la chitarra perfino alla “sagra del biso” a Peseggia recente c’è stata quella suoretta di cui vi ho già parlato, folgorata dalla vocazione in discoteca che, entrata in convento, continua a lodare Dio danzando dolcemente davanti al tabernacolo.

Da qualche tempo poi televisione, rotocalchi e soprattutto periodici di ispirazione cristiana hanno dedicato tutti qualche pagina, qualche fotografia e pagine di cronaca a suor Cristina, la religiosa orsolina che si esibisce a “Radio 2” in canti pop o rock. E’ capitato anche a me di vederla col microfono in mano cantare a squarciagola. Non ho capito cosa dicesse, comunque m’è parso che avesse un volto bello e pulito e penso che forse nostro Signore, a differenza di me, prete dai gusti classici, goda e gradisca questi canti moderni. Sul nuovo periodico “Il mio Papa” ho letto che questa religiosa in pochi giorni ha avuto più di 24 milioni di visualizzazioni:
“Poi, al termine della canzone, quando Raffaella Carrà ha chiesto come l’avrebbero presa in Vaticano, suor Cristina Scuccia ha sorriso: «Non lo so», ha detto «ma mi aspetto una telefonata di papa Francesco. Lui ci invita ad uscire, a evangelizzare, a dire che Dio non toglie niente. Anzi ci dona ancora di più. E io sono qui per questo».

Vuoi vedere che finalmente questa suoretta ha trovato il modo di convertire gli uomini di oggi?

10.04.2014

Tentativi

Io leggo puntualmente, ogni settimana, il periodico “La Borromea”, che è il cosiddetto “bollettino parrocchiale della comunità cristiana di San Lorenzo. Più volte ho ripetuto che il modo di far pastorale di questa comunità rappresenta per me, in questo settore, la punta di diamante della Chiesa veneziana. Sono preoccupato che il parroco del duomo vada in pensione perché ritengo che don Fausto, con la sua pastorale, costituisca il punto di riferimento più avanzato e più valido in questo settore.

Ho appena preso in mano “il foglio” del 30 marzo 2014, gli ho dato uno sguardo sommario leggendo solamente le didascalie delle numerose fotografie, ma potrei farne anche a meno perché il foglio offre già di primo acchito, con le immagini, le iniziative, la vita dei vari gruppi, gli obiettivi ai quali tendono, le attività nelle quali sono impegnati. Le foto sono garanzia che non si tratta di “aria fritta” ad “uso esterno” e soprattutto danno la sensazione di una comunità viva, in sintonia col nostro tempo e capace di dare risposte globali e particolari ai bisogni e alle attese di tutti i ceti e di tutte le età che compongono una comunità.

Nel periodico del duomo s’avverte immediatamente l’osmosi assoluta tra quello che un tempo, e ancora oggi, viene chiamato “sacro” e il “profano” e soprattutto si avverte come la proposta cristiana sia offerta con tale sensibilità, così che ogni parrocchiano nel bisogno trovi sempre davanti a sé una porta aperta. Don Fausto, in questo settore ha intuito che l’uomo di oggi comunica e recepisce i messaggi soprattutto attraverso le immagini e quindi il foglio parrocchiale è diventato strumento di questa nuova comunicazione di massa.

Qualcuno mi ha riferito che il costo di questo settimanale tutto a colori è assai consistente, ma io credo che siano i soldi più ben spesi dalla comunità perché le permette di dialogare in maniera diretta e comprensibile con tutti.

Io avevo intuito già una dozzina di anni fa questa necessità e la validità di questo modo di comunicare, e avevo perciò dato vita alla “Gazzetta illustrata della parrocchia di Carpenedo”, però forse questa comunicazione on line era prematura perché l’uso di questo strumento non era ancora così diffuso da essere efficace e perciò ritengo che per ora la soluzione di San Lorenzo sia l’ottimale.

Più volte, seguendo l’impulso che mi è proprio, avevo suggerito a don Fausto di inviare a tutti i parroci il periodico della sua parrocchia, perché nel mondo desolante dei foglietti parrocchiali ci sia una immissione di fantasia ed un’offerta di indirizzo nuovo e più incisivo. Capisco che il gesto avrebbe potuto essere concepito come un atto di supponenza e quindi per ora spero che questo lavoro fatto in umiltà possa essere seguito da chi ha a cuore la proposta cristiana.

Talvolta spero che gli uffici specializzati della nostra curia scoprano questa soluzione e indichino questa iniziativa pilota per smuovere una staticità pastorale ora quanto mai imperante. Per ora spero e stuzzico.

06.04.2014

Una confidenza quanto mai sorprendente

Non so più dove mettere i libri su Papa Francesco. Di amici e conoscenti per grazia di Dio credo di averne veramente tanti, penso che a Mestre ci siano tante persone che mi conoscono, mi stimano e mi vogliono bene, anche se sono infinitamente più loro che conoscono me, che io loro.

Quando qualcuno di loro sente il bisogno di esprimermi riconoscenza o simpatia, va in libreria per regalarmi un volume, sapendo che io leggo molto volentieri e poi confido nei miei scritti le reazioni su quanto vado leggendo.

Immagino facilmente la scena: «Vorrei fare un regalo ad un prete, che cosa mi consiglia?», chiedono al libraio. E lui, questo signore che, tutto sommato, pur essendo un uomo di cultura, rimane infine un commerciante, va su quello che lui ritiene più sicuro, gli presenta l’ultimo volume su Papa Francesco.

Io in verità ho anche altri interessi, oltre quello di conoscere la vita e il pensiero del nostro Papa, che pur ritengo il più bel dono che Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo in questo ultimo secolo. Comunque il dono rimane tale, indipendentemente dal prezzo e dal contenuto.

Penso, senza esagerare, di avere ormai più di una dozzina di libri sul nostro Papa. Mi ci vorranno alcuni anni per leggerli tutti. Oltre ai volumi, gli amici più vicini si permettono, per via della confidenza, di farmi anche dei “doni minori”, portandomi riviste e giornali sullo stesso argomento. Spesso li sfoglio velocemente e leggo qua e là, trovando sempre sorprese quanto mai interessanti. Mi incanta la franchezza, la libertà e la schiettezza di questo Papa che sta letteralmente smontando una impalcatura vecchia e piena di tarli che pretendeva di custodire il sacro e i suoi presunti portatori.

Qualche giorno fa il Papa ha incontrato i preti di Roma, la sua diocesi, ed ha fatto loro un discorso a braccio veramente toccante. Nella pagina de “L’Osservatore Romano” in cui ho letto il discorso, ho scoperto una “perla” che mi ha inizialmente stupito, ma poi ne ho colto anche la verità e la ricchezza di contenuto. Rivolgendosi ai convenuti, ha affermato: «I preti d’Italia sono bravi, sono bravi! Io credo che se l’Italia è ancora tanto forte non è tanto per noi vescovi, ma per i parroci, per i preti! E’ vero, questo è vero! Non è un po’ di incenso per confortarvi, io la sento così!» Poi ha concluso il discorso nel suo stile inimitabile di umiltà e di umanità: «Grazie tante dell’ascolto e di essere venuti qui».

Ci ho pensato sopra. E come non ci si può pensar sopra ad un discorso del genere, quando da secoli siamo abituati al “Palazzo”, all’eccellenza, all’ossequio comunque, ai vestimenti un po’ stravaganti per foggia e colore, ma soprattutto ad un’autorità indiscussa, ad un’obbedienza spesso acritica e non responsabile!?

L’umanizzazione di queste “categorie” della Chiesa è di certo non l’ultimo dei problemi del nostro tempo. Anche se, con tutta franchezza, dobbiamo dire che vi sono nel nostro Paese dei vescovi santi e intelligenti, comunque anche a questa categoria credo che la “primavera” di Papa Francesco abbia qualcosa da offrire di vero e di opportuno.

26.03.2014

Vangelo al vertice

Tante volte ho citato una sentenza di Ignazio Silone, l’autore de “L’avventura di un povero Cristiano” (Celestino V), che si definiva “cristiano senza Chiesa e socialista senza partito”.

Bisogna andare alla sorgente perché altro è aprire con gesto meccanico il rubinetto dell’acqua e vederla scorrere per lavare la pentola o pulirsi le mani e altro è andare a vederla sgorgare dalla roccia, fresca e pulita. Alla sorgente c’è il mistero, la poesia, l’autenticità, mentre l’acquedotto fornisce acqua trattata col cloro, nel rubinetto prevale la banalità del gesto che ti fornisce un servizio utile, ma senza la ricchezza del mistero.

Mi sono posto mille volte il problema della religiosità del credente e soprattutto del cristiano di oggi. Il modo con cui oggi alimentiamo la fede, adoriamo il sommo Iddio e rendiamo vivo il nostro credere, spesso è incolore, insapore e talora perfino insignificante e banale. Per riscoprire la nostra fede penso che sia ormai sempre più necessario che andiamo “alla sorgente”. Per scoprire la religiosità di Cristo, il modo di rapportarsi col Padre e di tradurre in vita questo rapporto.

Gesù era di certo un uomo di fede, infatti in tutti i passaggi della sua vita e nell’affrontare gli eventi, si rivolgeva sempre prima al Padre con un rapporto profondo (mi vien da dire “esistenziale”) però non possiamo dire né che fosse un “uomo di Chiesa” – per spiegarmi meglio, un “clericale” – né, meno che meno, un bigotto. Andava al tempio e sempre si comportava in maniera reattiva ed anticonformista. Basti pensare a come ha reagito con i venditori ambulanti, alla sua presa di posizione in sinagoga a Nazaret e nelle sue parabole. Ad esempio il discorso sulle offerte, sul fariseo e il pubblicano. Infine credo che la sua religiosità diventasse sempre solidarietà con gli ultimi, i più infelici, i più bisognosi di aiuto. Gesù è stato definito “uno che visse per gli altri”, la sua fede diventa amore e coinvolgimento con i drammi del prossimo.

Non è che nella Chiesa di ieri e di oggi non ci siano stati e ci siano ancora cristiani veri, discepoli di questo Gesù, però la Chiesa strutturata non sempre ha dato immagine alla religiosità dei cristiani in genere e dei cattolici, in specie di questo tipo.

Un tempo i discepoli più fedeli e più autentici di Gesù si trovavano negli ultimi gradini del Popolo cristiano. Oggi fortunatamente la lezione di religiosità di stampo evangelico finalmente ci giunge dal vertice. Ho appena letto un titolo sul “Nostro Tempo”, il quindicinale di Torino: “Francesco, il Pontefice anticlericale!”. E ieri sera ho appreso che Papa Francesco gode del 97% di gradimento. Finalmente possiamo, senza perplessità, essere orgogliosi della nostra guida. Ora tocca a noi seguirlo sulla strada di Gesù.

18.03.2014

“La benedizione delle case”

Ognuno ha i suoi problemi ed io di certo non mi sento diverso da tanti altri. Pur sapendo che su questo argomento ho parlato anche recentemente e soprattutto nel passato ne ho trattato in lungo e in largo, ci ritorno ancora una volta a proposito della “benedizione delle case”, una vecchia pratica pastorale quasi totalmente dimenticata dai preti di oggi.

Lo faccio perché da un paio di giorni ho terminato la benedizione delle case dei centonovantatrè residenti del “Centro don Vecchi” di Carpenedo. E’ mia ferma convinzione, collaudata da sessant’anni di pratica sacerdotale, che sia fondamentale, anzi assolutamente necessario, avere un rapporto diretto e personale con i propri parrocchiani, anche se la mia parrocchietta conta solamente 193 “case” e duecentotrenta parrocchiani.

Il cardinale Scola, nostro vecchio Patriarca, pur non essendo riuscito ad attuarla, parlava della necessità della “presenza nel territorio” da parte della Chiesa locale. Credo che non ci sia riuscito soprattutto perché i preti non ci sentono da questo orecchio, un po’ perché sono pochi ma, temo, per il fatto che hanno lo stipendio assicurato come gli statali, elemento che normalmente toglie iniziativa e spirito di sacrificio.

Il primo motivo è smentito dal fatto che i parroci più zelanti e che perciò hanno comunità più vive, lo fanno ancora; modestamente io lo faccio da sessant’anni e non solo ora che ho 193 famiglie, ma anche quando ne avevo duemilaquattrocentocinquanta.

Comunque ritorno sulla mia esperienza attuale. Pur incontrando cento volte al giorno i miei “parrocchiani” nei “vicoli”, nel “corso” o nelle “piazzette” del piccolo borgo del don Vecchi, l’incontro in casa, con la preghiera comune, con l’impartire la benedizione ed un rapporto caldo e fraterno, è tutt’altra cosa!

Confesso che sono stato enormemente gratificato dalla piccola “fatica” che questa pratica pastorale ha comportato. Non si pensi che io viva in un nuovo piccolo paradiso terrestre. Anch’io ho una fetta di parrocchiani non praticanti, anch’io ne ho perfino uno che tiene la porta chiusa e mi rifiuta. Comunque è stato tanto bello e consolante avvertire un caldo legame di fraternità, sentire che se anche qualcuno non pratica il rito religioso, rimane tutto sommato, e continua a vivere, da “figlio di Dio”.

La “presenza sul territorio” e il dialogo personale credo che rimangano insostituibili anche se sono pratiche nate secoli fa.

12.03.2014

Il prete e i soldi

Ho già raccontato che in quest’ultimo tempo ho fatto due incontri che mi hanno aiutato (sarebbe meglio dire “mi hanno costretto”) a fare una seria e rigorosa verifica sul mio rapporto col denaro. Su questi due incontri ho già riferito, ma li riprendo perché sono una premessa indispensabile al pensiero che voglio esporre.

Il primo incontro è stato con un collega che si era offerto di prendersi cura della vita religiosa dei residenti al Centro don Vecchi di Campalto. Ho tentato di fargli avere un compenso, com’è nella prassi consolidata da una tradizione più che secolare. Dapprima ho provato a farlo secondo le modalità consuete, ma lui si è cortesemente rifiutato di ricevere quella mercede che un po’ ipocritamente, nel mondo ecclesiastico, è definita “offerta”, ma che in realtà è un compenso. Ho tentato pure anche con soluzioni più eleganti, dicendo che era per la sua parrocchia e per i suoi poveri, ma il rifiuto è stato altrettanto netto e deciso. Infine mi disse chiaro e tondo che aveva fatto una scelta personale di non accettare in alcun modo qualsiasi offerta in occasione di un suo “servizio religioso”. Di fronte ad una testimonianza così bella non potei che essere estremamente ammirato e fare un esame di coscienza sul mio comportamento al riguardo.

Secondo incontro, sempre a riguardo del prete e il denaro, è stata la recente lettura casuale di un volume di un prete della Brianza che dava la stessa testimonianza del collega di cui ho appena riferito, ma che in più teorizzava questa scelta documentandola in maniera veramente seria con testi della Sacra Scrittura e della tradizione patristica.

Al che ho fatto un altro esame di coscienza ancor più serio e rigoroso riguardo il mio comportamento. Sono giunto a queste conclusioni che fanno il punto su questo argomento che spesso costituisce il tallone di Achille per molti preti e su cui l’opinione pubblica è quanto mai sensibile. Penso di non aver mai chiesto un centesimo per il mio servizio sacerdotale (messe, battesimi, funerali, matrimoni, benedizioni varie). Ho sempre accettato quello che spontaneamente i fedeli mi hanno offerto e mi offrono, però in passato l’ho in parte devoluto per le necessità della chiesa e delle sue strutture pastorali e il resto per i poveri.

Attualmente non ho più alcuna struttura a cui pensare, quindi destino tutto ai poveri. Vivendo al “don Vecchi” la mia pensione, pur modesta, mi basta, anzi ne avanzo. Come ho già scritto nel passato, preferisco destinare il denaro sempre a chi ne ha bisogno, però investendolo in strutture, piuttosto che favorire l’accattonaggio di mestiere e non risolvere alcunché.

Raramente ho la possibilità di fare queste precisazioni, quando però mi se ne offre la possibilità lo faccio perché lo ritengo non solo opportuno, ma doveroso. Ad esempio pretendo che le imprese di pompe funebri, in occasione dei funerali, diano ai famigliari dell’estinto una busta prestampata nella quale dico a chiare lettere la mia assoluta disponibilità a celebrare il funerale a titolo gratuito, aggiungendo però che chi desiderasse fare un’offerta sappia che essa va totalmente ai poveri.

Finora questa è la mia scelta, disposto a cambiarla se mi giungessero altre motivazioni. So che questo non mi libera da insinuazioni, sospetti o accuse, però mi mette la coscienza in pace, che è la cosa che maggiormente mi preoccupa.

17.02.2014

I fioretti di Papa Giovanni

Ieri mi ha raggiunto una telefonata dal contenuto un po’ insolito da parte di un nipote di Sandro Vigani, direttore di “Gente Veneta”, il settimanale del Patriarcato di Venezia e parroco della comunità di Trivignano. Don Sandro è un valido giornalista, che oltre a dirigere questo settimanale, scrive quasi ogni settimana l’articolo di fondo. Gli interventi di don Sandro sono sempre puntuali ed intelligenti.

Questo nipote, ormai affermato nel campo della stampa, con la sua telefonata mi ha chiesto di suggerirgli qualche episodio su Papa Giovanni quando era patriarca di Venezia, perché io sono stato ordinato da lui e rimango uno dei sempre più rari anziani che lo hanno conosciuto personalmente.

Non credo di poter aggiungere qualcosa di talmente nuovo su questo Papa che già non si sappia, perché sulla sua vita e sul suo pensiero c’è una letteratura quanto mai vasta ed approfondita, però conservo nella memoria alcuni flash a me cari che anticipo ai miei amici de “L’Incontro”.

Ricordo con piacere, riconoscenza ed emozione che dopo avermi ordinato sacerdote a San Marco, invitò mio padre e mia madre, persone quanto mai umili, a prendere il caffè a casa sua, nel palazzo patriarcale, quasi a ringraziarli di aver donato alla Chiesa di San Marco il loro primo figlio, anche se avrebbe potuto essere utile nella bottega di falegname di mio padre… Da questo gesto si coglie la calda umanità di Papa Roncalli.

In altra occasione ho colto invece la sua responsabilità di “capo”. Quasi sessant’anni fa mi avevano chiesto di commentare il Vangelo sul settimanale della diocesi “La voce di San Marco” e l’avevo fatto coerentemente alle mie convinzioni, come poi ho sempre fatto. Incontrandomi, Papa Giovanni mi riferì: «C’è stata qualche lagnanza per i suoi interventi. Lei continui, e sappia che alle sue spalle c’è il suo Patriarca».

Un’altra volta raccontò a noi chierici il suo primo intervento a Parigi, dove era stato nunzio apostolico. In qualità di rappresentante del corpo diplomatico, doveva fare un intervento ufficiale alla presenza di De Gaulle, che primeggiava per la sua grandeur e a quel tempo voleva chiedere le dimissioni di una sessantina di vescovi che, a parer suo, si erano compromessi col governo filotedesco del generale Pétain. Preoccupato per la Chiesa, il Patriarca ci confidò che la sera prima di quell’incontro con De Gaulle, pregò il suo angelo custode di mettersi d’accordo con quello del generale. E quando gli chiedemmo come erano andate le cose, ci rispose: «Non poteva andare che bene!». Che fede semplice ma forte!

Voglio infine sottolineare un altro aspetto di Papa Giovanni che ricordo ammirato. Il Patriarca Roncalli dava del lei anche ai più pivellini dei suoi preti. Ora va di moda che prelati e vescovi diano del tu anche ai preti che hanno il doppio dei loro anni, ma non mi risulta che accettino che i preti usino il “tu” anche con loro. Che rispetto per la persona!

16.02.2014

Aria nuova in Chiesa

Nella Chiesa stanno accadendo cose che soltanto un anno fa erano assolutamente inimmaginabili. Per secoli ha imperato una impostazione sacrale della realtà ecclesiastica per cui sembrava che solamente attraverso la persona del Papa, del vescovo e del parroco arrivasse la volontà di Dio, non solo per i membri della Chiesa ma per tutta la comunità. L’impostazione gerarchica era rigida, i suoi interventi pressoché inappellabili, i responsabili della Chiesa sembravano gli unici depositari della Rivelazione; erano essi stessi prigionieri di questo schematismo rigido e assoluto.

Io che ho sempre amato don Mazzolari, ho conosciuto a fondo i drammi della sua coscienza di prete che, per intuito, intelligenza e santità, prevedeva il domani, ma gli fu impedito in tutti i modi di offrire il suo contributo ad aprirsi ai tempi nuovi. Certi vescovi e congregazioni vaticane sembravano i “padroni” non solo delle coscienze dei cristiani, ma di Dio stesso.

Papa Francesco, chiamato a Roma da “un Paese posto alla fine del mondo”, senza encicliche, sinodi e quant’altro, ha svuotato dall’interno questo mondo misterioso e sacrale e l’ha umanizzato, rendendo ogni rapporto più umano.

L’opera di questo Papa che si porta in viaggio la borsa con le sue cose, che telefona al giovane padovano dicendogli: «Diamoci del tu», che fa la carità come ogni persona di cuore, che dialoga con un fior fiore di laico qual è Scalfari, che promette all’anziana vedova sopraffatta dal dolore per la morte del marito di telefonarle almeno una volta al mese e che a chi gli fa osservare “come può fare cose del genere con tutti i suoi impegni?”, risponde: «Perché mi piace fare il prete!».

L’atteggiamento di questo Papa in undici mesi ha fatto crollare quell’impostazione mistica un po’ simile a quella dell’imperatore del Giappone o al “Figlio del Cielo” che governava la Cina.

Le folle che ogni giorno riempiono piazza San Pietro avallano ogni giorno di più questa scelta e il suo modo assolutamente nuovo di gestire i rapporti con i fedeli. Questo nuovo stile si sta diffondendo a macchia d’olio anche nelle periferie della Chiesa più di quanto non si potesse immaginare.

Ho conosciuto, tramite il bollettino parrocchiale, un anziano parroco di una minuscola parrocchia della pedemontana e qualche giorno fa ho letto queste espressioni.

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Carissimo mio vescovo Antonio e sigg. vescovi veneti, io amo l’essenziale, l’ecclesiale. Siamo però al débacle…. di tutto e abbiamo chiese vuote. La mia no… mai! Ma coraggio!
Fatevi vedere di più tra la gente, meno ideologie e carte di monsignori…
Chiedo scusa, ringrazio e prego sempre con gioia per tutti voi e avanti con i santi e con i briganti! Memento semper in Domine Mariaque.

Semonzo 21.02.14
don Giovanni Bello

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Io, in passato, per molto meno ho ricevuto richiami ufficiali. Comunque son contento che nella Chiesa si respiri finalmente uno spirito di famiglia e di autentica fraternità e reciproca e serena collaborazione.

10.03.2014

Predicare

Uno dei crucci nella mia attività di sacerdote è certamente la predica. Sapeste come invidio i nostri parlamentari quando li ascolto alla televisione nei frequentissimi dibattiti, tavole rotonde, talk show che vengono trasmessi. Ammiro la dialettica, le immagini, la capacità di portare avanti le loro tesi, il linguaggio sciolto, forbito e brillante. Spero che sia tutto, come loro affermano, per amore al proprio Paese.

Comunque sono bravi e per me rimarrebbero tali anche se sapessi che lo fanno solamente per interesse.

Mentre io, prete, a cui è stato affidato il messaggio più importante per l’uomo e i valori dei quali la nostra società ha veramente bisogno, annaspo, tartaglio e mi aggroviglio nonostante non pensi altro da mane a sera per trasmettere questo messaggio, questa parola di Dio che dovrei offrire su un piatto d’oro, sia perché è il messaggio del Creatore, sia perché è diretto ai miei concittadini e fedeli che amo quanto mai e che avrebbero diritto ad un discorso limpido e convincente.

Durante gli anni della teologia in seminario avevamo anche un’ora alla settimana di “sacra eloquenza”, ma si trattava di materia pressoché preistorica in rapporto al linguaggio e allo stile attuale. Nonostante ciò in passato i preti facevano sempre bella figura perché gli ascoltatori non avevano altro con cui confrontare i discorsi dei loro preti. Ora ognuno si arrabatta come può. Quando poi qualcuno mi rivolge complimenti per il sermone, mi fa più male che bene perché penso che se ammirano un discorso così zoppicante, quanto più poveri devono essere quelli per i quali non solo non si complimentano, ma anzi criticano.

L’argomento della predica mi interessa quanto mai, perciò sto sempre con le orecchie tese per imparare, anche se poi finisco per parlare come mi è più congeniale.

Attualmente a Mestre i fedeli sono quanto mai ammirati dal modo di predicare di monsignor Longoni che celebra a Carpenedo. Io l’ho ascoltato più volte ammirando le sue prediche che sono autentiche lezioni, ben fatte, intelligenti e convincenti.

C’è pure un altro stile che ammiro: quello di don Lidio Foffano che celebra al “don Vecchi” di Campalto. Ha una predicazione che si rifà ad un dialogo costante e puntuale con la minuscola comunità che partecipa all’Eucaristia.

Spesso poi leggo sui periodici “Il nostro tempo”, “Credere”, “Gente Veneta”, “A sua immagine” o su “L’Avvenire”, i commenti al Vangelo domenicale, spesso però si rifanno ad un misticismo abbastanza formale, ma che corre su lunghezze d’onda astrali e temo che ben difficilmente possano “colpire” le coscienze delle persone del nostro mondo che sono ben estranee a concetti che nella nostra società sono fuori corso.

Altri si rifanno abbondantemente ai testi della Sacra Scrittura, però temo che se questi non vengono attualizzati rimangano ben lontani dai nostri interessi quotidiani.

Per quel che mi riguarda non ho mai fatto una scelta razionale, ma penso di essermi rifatto sempre al mio istinto e alla mia sensibilità; punto sempre ad un messaggio essenziale che partendo dal pensiero di Cristo abbia un forte impatto non solo razionale, ma pure emozionale che apra lo spirito e il cuore ad orizzonti aperti e convincenti e che motivino e diano significato alla vita.

Un tempo ho letto che questa formula è definita Kerigmatica, ossia una proposta forte che apra l’animo ai suggerimenti del Signore. Spero che sia così!

07.03.2014

Intimità

Ieri ho fatto delle confidenze sul nobile gesto di incoraggiamento e di gratificazione giuntomi da “don Loris” Capovilla, che mi ha fatto veramente del bene, anche perché non sono assolutamente abituato a parole e attenzioni del genere da parte del mio mondo ecclesiastico. Non posso lagnarmi di certo di alcuno perché ho i riscontri che mi merito, perché non frequento le congreghe, penso con la mia testa, faccio le cose di cui sono convinto, sono esigente con me stesso e con gli altri, non sopporto formalismi di alcun genere.

Di solito, spesso, le parole di conforto mi giungono dalla gente umile e semplice con la quale condivido l’avventura cristiana del giornale, della “cattedrale tra i cipressi” e del “don Vecchi”, e che mi è particolarmente cara e mi fa sentire di vivere in una grande e meravigliosa famiglia di amici che si vogliono veramente bene. Comunque la missiva del venerando segretario di Papa Giovanni ha fatto emergere dalla mia memoria un lontano ricordo che non ha nulla a che fare con l’amabile attenzione dell’amato e fedele segretario di Papa Giovanni.

Durante una conversazione con noi seminaristi, il vecchio e saggio Patriarca ci fece una particolare confidenza di ordine spirituale, ma pure esistenziale, che mi ha fatto del bene. Ricordo che il Patriarca che aveva, come credo sia vero per ogni vescovo, tanti impegni, ci confidava che durante le sue intense giornate pastorali, ogni tanto faceva uno stacco ed entrava nella sua “celletta interiore” per raccogliersi in se stesso, per dare significato e consistenza a quello che stava facendo e per incontrarsi con Dio per potersi adeguare alla sua santa volontà.

Credo che in questa pratica ci fosse una grande saggezza: viviamo in maniera pressoché nevrotica, sospinti e tirati da ogni parte, siamo travolti da una valanga di parole, opinioni e pareri, ci occupiamo di mille cose, tanto che non ci rimane mai un momento per noi stessi, per vivere in intimità col nostro spirito e col nostro cuore. Anche i tempi dedicati alla preghiera arrischiano di ridursi a momenti e formule di meditazione perché corrispondono a doveri prescritti. Aveva ragione Papa Giovanni: abbiamo bisogno di momenti di intimità, di solitudine interiore e di dialogo sincero con Dio.

Qualche tempo fa mi capitò per mano un volume che ai tempi del seminario si citava di frequente, ma che poi avevo quasi dimenticato, “Imitazione di Cristo”, di Tommaso da Kempis. Ho cominciato a sfogliare alcune pagine, scoprendo una sorgente fresca e limpida di saggezza e spiritualità. Mi sono chiesto: “Come ho fatto a trascurare un discorso così saggio per dedicarmi a letture seppur positive ma poco dense di vera sapienza?”.

Ho rinnovato il proposito di ritagliarmi ad ogni costo qualche spazio di tempo da riservare solo a me e ad attingere da sorgenti sicure ricchezza per lo spirito.

01.03.2014

Il cardinale veneziano

Questa settimana è la settimana delle lettere. Il postino mi ha recapitato una lettera dalla calligrafia irrequieta, propria di una mano senile. Prima di aprire la busta è mia abitudine dare un’occhiata per vedere chi è il mittente, quasi a prevedere il contenuto della missiva. Le lettere che ricevo contengono comunicazioni; altre, e sono le più frequenti, richieste di aiuto, ed altre ancora, approvazioni o critiche che riguardano gli articoli de “L’Incontro”.

Questa volta, girata la busta, ho letto: “Arcivescovo Loris Francesco Capovilla, via Camaitino, Sotto il Monte, Bergamo.” Il nostro proverbiale “don Loris” ha usato buste non aggiornate, perché da qualche giorno deve sostituire al titolo di arcivescovo quello di cardinale.

Il biglietto a stampa inizia così: “Venerato fratello” e segue comunicando la sorpresa per la scelta di Papa Francesco di farlo cardinale, dichiarando poi la sua confusione e la sua umiltà di fronte all’attenzione del Sommo Pontefice, ed infine chiede e promette preghiere.

Già il fatto che il famoso segretario di Papa Giovanni si sia ricordato di me in un momento così importante della sua vita, mi ha riempito di confusione e quasi di disagio. Mi sono sentito come il ciabattino che, nel racconto di Tagore, rimane stupito e sbigottito che il cocchio del grande maragià si fermi proprio di fronte alla botteghetta di ciabattino di un minuscolo paese dell’India infinita. Ma la sorpresa ha raggiunto un limite pressoché insuperabile quando, voltando il biglietto, ho letto il testo manoscritto del Cardinal Francesco Loris Capovilla, Arcivescovo emerito: “Caro don Armando, ho pensato a te in questi giorni e mi sono detto `Quello (io) più di me meriterebbe la porpora!’. Ti abbraccio con cuore fraterno e ti ringrazio. Affettuosamente. Don Loris Francesco Capovilla”.

Sono rimasto di stucco! Per la missiva e per le parole che evidentemente sono uscite da una persona che è vissuta parecchi anni accanto a un santo ed un santo della grandezza di Papa Giovanni.

Riporto questo evento solamente per mettere in luce la nobiltà di sentimenti di questo sacerdote veneziano e per ricordare a tutti che talvolta una parola cara ed amabile può dare coraggio. Il mio rapporto con questo prelato non è mai stato particolare. Lui mi ha conosciuto quando era segretario del Patriarca Roncalli. So che avevamo in comune l’ammirazione per don Mazzolari e leggevamo ambedue l'”Adesso” che a quei tempi rappresentava l’avanguardia della Chiesa. Ma nulla di più. Eppure ogni tanto ricevo qualche suo biglietto che mi fa quanto mai piacere e dal quale ho imparato che anche a cent’anni di età – qual è quella di “don Loris”- si può ancora servire tanto bene e con tanto profitto l’uomo e la Chiesa.

Pubblico tutto questo perché la nostra città sappia che la Chiesa di Venezia ha offerto a noi e al mondo preti di questa levatura umana e spirituale.

28.02.2014

Una dottrina assolutamente innovativa

Qualche tempo fa ho sentito un politico che alla televisione ha fatto un’osservazione che di primo acchito mi ha sorpreso, ma che poi, ripensandoci, mi è apparso quanto fosse giusta, anche perché da molti anni la sto applicando anch’io con buoni risultati.

Questo politico, a proposito della grave crisi economica, affermava che potremmo facilmente risolverla se sfruttassimo i nostri immensi giacimenti di “petrolio”. Al che, le persone con cui stava parlando, lo hanno guardato, sorprese di fronte ad un’affermazione che di certo non trova riscontri nel nostro territorio (ai tempi di Mattei si tentò di trivellare qua e là il nostro Paese ma con risultati assai scarsi; neanche oggi risulta che recentemente si siano fatte “scoperte” del genere).

Allora il parlamentare affermò: «Noi abbiamo enormi “giacimenti” d’arte e di cultura; se li sfruttassimo giustamente potremmo ricavarne risorse enormi!» Il turismo è già una voce importante sul bilancio italiano, ma potrebbe diventare mille volte più ricco se sfruttassimo a dovere il patrimonio artistico pressoché infinito del nostro Paese. Purtroppo chi ci governa non valorizza minimamente quanto la natura, i nostri padri e il buon Dio ci hanno regalato in maniera più che generosa. Un discorso del genere lo vorrei fare anch’io, portando, prove alla mano, ai miei colleghi, alle parrocchie e a tutti coloro che hanno a cuore la nostra Chiesa e la povera gente. Il buon Dio ci ha donato il comandamento della “carità” che è un vero “giacimento di petrolio” a livello pastorale, a livello di credibilità, come pure a livello economico. Io posso affermare coi fatti che la carità non è una voce passiva che porta in rosso il bilancio, anzi è una delle risorse più consistenti nel bilancio di una parrocchia, di una qualsiasi associazione benefica.

La Fondazione dei Centri don Vecchi ne è la prova più lampante. In vent’anni stiamo già pensando alla sesta struttura e già mettiamo a disposizione degli anziani in difficoltà economica quasi 500 alloggi e abbiamo il Polo Solidale del “don Vecchi” che aiuta parecchie migliaia di poveri tutti i mesi e contemporaneamente tutti i bilanci sono in attivo.

E’ ora che si affermi chiaramente che la carità non fa passivi, anzi è una delle voci più sicure e più promettenti a tutti i livelli. Provare per credere!

Tante volte mi sono offerto di insegnare “la formula” che non ha nulla di magico, ma che poggia sulla verità che l’la realtà più bella e feconda esistente al mondo. Non cerchiamo altrove: il “petrolio” lo abbiamo in casa!

26.02.2014

Mio Dio, cosa abbiamo fatto?

Sono sessant’anni che faccio il prete e da almeno sessant’anni so che Gesù afferma che i suoi discepoli devono “essere sale” e “luce” per i fratelli; perciò questo discorso dovrebbe essere per me arcinoto, eppure domenica scorsa, quando la Chiesa ancora una volta mi ha fatto leggere questa pagina del Vangelo, ho avuto una reazione tutta particolare, come avessi toccato un filo della luce scoperto.

La lettura del Vangelo in questi ultimi anni mi riserva queste reazioni quanto mai forti e particolari. Quando ho preso in mano il testo per prepararmi al sermone per i miei fedeli, la prima reazione pressoché istintiva è stata: “Ma Gesù caro, tu presumi troppo da noi, siamo tutti poveri diavoli che tirano la carretta e perciò mi pare che sia un po’ troppo pretendere che siamo coloro che danno sapore alla vita e che sappiamo inquadrare lucidamente le sue complicate problematiche.

Ma poi, pensando che il progetto di Cristo su di noi è quello che aiutiamo gli uomini del nostro tempo a vivere una vita bella e felice, ossia che aiutiamo il prossimo a cogliere il “sapore” della vita e ad inquadrare le sue problematiche in maniera lucida e comprensibile – cosa che è propria di chi ha la luce – m’è parso che questo messaggio cristiano sia un qualcosa che va al cuore della vita e non un’aggiunta marginale strana e preoosché insignificante che complica l’esistenza. Quindi sono stato “costretto” a fare un altro gradino ancora più faticoso pensando alla mia religiosità e a quella della quasi totalità dei discepoli di Gesù di oggigiorno.

Al che, è uscito dal profondo del mio spirito quasi un lamento doloroso ed angosciato: “Dio mio, a che cosa abbiamo ridotto il messaggio di Cristo che dovrebbe andare oltre l’esistenza?”, e sono stato costretto ad analizzare con sincerità e quasi con crudezza il modo in cui viviamo il progetto di Gesù: abbiamo ridotto un qualcosa di vitale e di essenziale del vivere ad un complesso di riti, di pie pratiche, di discorsi melensi ed inconsistenti, di ritualità astruse e quasi magiche che lasciano la vita qual’è, anzi talvolta la rendono più cupa, meno appetibile, quasi un castigo piuttosto che un bel dono.

Mi venne in mente allora una invettiva di quell’ateo lucido e tagliente che è stato André Gide: “Come pretendete di essere testimoni del Risorto voi che camminate sul ciglio della strada con occhi bassi, tristi e lagnosi?”. E nello stesso tempo mi brillarono luminose e belle le parole del testamento di quel grande pedagogo cristiano che fu Lord Baden Powell, che ho riletto in questi giorni: “Io, ragazzi, ho vissuto una bellissima vita, così sarà anche per voi se tenterete di far felici gli altri e di lasciare il mondo un po’ più bello e più buono di quello che avete trovato”.

Una volta di più capisco che il cristianesimo esige contenuti, non timbri, cerimonie o distintivi, o formule appiccicate alla vita.

03.02.2014

La controriforma

Una quindicina di giorni fa m’è arrivato “L’annuario del Patriarcato di Venezia”. Per chi non fosse addentro alle cose della curia, specifico che questo annuario consiste in un volume abbastanza corposo che contiene tutto quello che si vuol conoscere sulla struttura della diocesi di Venezia: associazioni, comitati, sacerdoti, suore, frati, uffici, commissioni, diaconi, chiese, rettorie, scuole, case di riposo, ecc… Tutto è elencato in maniera ordinata con indirizzi, numeri di telefono ed e-mail relativi.

L’annuario è un piccolo capolavoro per come è impostato, tanto che la consultazione è quanto mai agevole e quindi vi si può trovare facilmente quello che può interessare. Chi avesse a che fare con la Chiesa di Venezia dovrebbe poter disporre di questo strumento quanto mai utile, anzi indispensabile.

L’annuario è aggiornato ogni anno, cosicché, quando mi arriva, lo sfoglio con una certa curiosità perché documenta il lento evolversi di una realtà quanto mai complessa. Ogni anno il primo sentimento che trovo è un moto di orgoglio nello scoprire che la mia diocesi è una realtà così articolata da avere una risposta per ogni tipo di esigenza che abbia a che fare con la Chiesa locale; per un cristiano come me, che in passato ha denunciato spesso carenze, nel leggere l’annuario c’è la tentazione di ricredersi perché esso dà un volto quasi perfetto della nostra Chiesa diocesana.

Quest’anno poi in questo compendio ho scoperto con sorpresa una specie di controriforma. Tutti ricorderanno che l’anno scorso tenne banco per almeno un paio di settimane una notizia che per qualche curioso sembrò un cenno di riforma ecclesiastica in linea con la sobrietà di Papa Francesco e sembrò allineare il nostro clero allo stile sobrio del nostro pontefice: ossia il declassamento dei monsignori a preti normali, con la conseguenza della rinuncia non soltanto al titolo – che sapeva dell’ampollosità del settecento – ma anche a una certa bardatura filettata di rosso che a me sembrava anacronistica e fuori tempo, ma che a qualcuno poteva sembrare un segno di merito o di eccellenza nel campo sacerdotale.

I miei amici ricordano di certo che avevo plaudito a questa “mini-rivoluzione” perché sono sempre stato convinto che preti, vescovi o semplici cristiani debbano, su indicazione di Gesù, confondersi nella massa dell’umanità come il lievito o il sale nelle vivande, praticamente diventando presenti ma non vistosi. Come non mi entusiasma la “casta” dei politici, così, e forse meno, non mi entusiasmo per il “ceto” degli ecclesiastici.

Apprendo però che tutto questo è rientrato e che quindi è avvenuta una specie di mini-controriforma perché sul suddetto annuario, che è un testo ufficiale della curia, sono ricomparsi in bella evidenza i titoli onorifici dei sacerdoti più eminenti della nostra diocesi.

Ora mi sento quasi fortunato perché ridivengo uno dei pochi che sono solamente “soldati semplici”, condizione che ritengo un vero privilegio.

01.02.2014