Mio Dio, cosa abbiamo fatto?

Sono sessant’anni che faccio il prete e da almeno sessant’anni so che Gesù afferma che i suoi discepoli devono “essere sale” e “luce” per i fratelli; perciò questo discorso dovrebbe essere per me arcinoto, eppure domenica scorsa, quando la Chiesa ancora una volta mi ha fatto leggere questa pagina del Vangelo, ho avuto una reazione tutta particolare, come avessi toccato un filo della luce scoperto.

La lettura del Vangelo in questi ultimi anni mi riserva queste reazioni quanto mai forti e particolari. Quando ho preso in mano il testo per prepararmi al sermone per i miei fedeli, la prima reazione pressoché istintiva è stata: “Ma Gesù caro, tu presumi troppo da noi, siamo tutti poveri diavoli che tirano la carretta e perciò mi pare che sia un po’ troppo pretendere che siamo coloro che danno sapore alla vita e che sappiamo inquadrare lucidamente le sue complicate problematiche.

Ma poi, pensando che il progetto di Cristo su di noi è quello che aiutiamo gli uomini del nostro tempo a vivere una vita bella e felice, ossia che aiutiamo il prossimo a cogliere il “sapore” della vita e ad inquadrare le sue problematiche in maniera lucida e comprensibile – cosa che è propria di chi ha la luce – m’è parso che questo messaggio cristiano sia un qualcosa che va al cuore della vita e non un’aggiunta marginale strana e preoosché insignificante che complica l’esistenza. Quindi sono stato “costretto” a fare un altro gradino ancora più faticoso pensando alla mia religiosità e a quella della quasi totalità dei discepoli di Gesù di oggigiorno.

Al che, è uscito dal profondo del mio spirito quasi un lamento doloroso ed angosciato: “Dio mio, a che cosa abbiamo ridotto il messaggio di Cristo che dovrebbe andare oltre l’esistenza?”, e sono stato costretto ad analizzare con sincerità e quasi con crudezza il modo in cui viviamo il progetto di Gesù: abbiamo ridotto un qualcosa di vitale e di essenziale del vivere ad un complesso di riti, di pie pratiche, di discorsi melensi ed inconsistenti, di ritualità astruse e quasi magiche che lasciano la vita qual’è, anzi talvolta la rendono più cupa, meno appetibile, quasi un castigo piuttosto che un bel dono.

Mi venne in mente allora una invettiva di quell’ateo lucido e tagliente che è stato André Gide: “Come pretendete di essere testimoni del Risorto voi che camminate sul ciglio della strada con occhi bassi, tristi e lagnosi?”. E nello stesso tempo mi brillarono luminose e belle le parole del testamento di quel grande pedagogo cristiano che fu Lord Baden Powell, che ho riletto in questi giorni: “Io, ragazzi, ho vissuto una bellissima vita, così sarà anche per voi se tenterete di far felici gli altri e di lasciare il mondo un po’ più bello e più buono di quello che avete trovato”.

Una volta di più capisco che il cristianesimo esige contenuti, non timbri, cerimonie o distintivi, o formule appiccicate alla vita.

03.02.2014

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