Quella spina che punge

Al “don Vecchi” mi trovo bene, vivo una vita serena, però ogni luogo ed ogni situazione hanno la loro spina, che talvolta punge e fa sanguinare.

Per entrare al “don Vecchi” non serve, come avveniva un secolo fa, che i richiedenti esibiscano un certificato che attesti l’avvenuto adempimento al precetto pasquale o la partecipazione alla vita religiosa, però non si nasconde neanche che la parrocchia ha dato vita a questa struttura per farne un luogo in cui nasca e viva una comunità cristiana.

Al momento della domanda di ingresso tutti, pur non richiesti, snocciolano una serie di motivi veri o presunti che a loro avviso darebbero diritto di entrare in questa struttura voluta dalla comunità per i suoi membri. Quasi tutti si offrono a quella necessaria collaborazione che, sola, può abbattere i costi e rendere possibile la vita anche ai meno abbienti.

L’idillio religioso e di volontariato però dura poco, molto poco, per alcuni neanche inizia. La stragrande maggioranza è immediatamente disponibile e talora perfino avida di accaparrare ogni vantaggio possibile, non solo per sé, ma anche per i figli i quali, in maniera più o meno elegante, li hanno messi fuori di casa perché erano diventati un peso ed un ingombro.

A livello religioso poi, dichiarandosi tutti credenti e cristiani, pur avendo tutte le agevolazioni possibili ed immaginabili, al massimo una metà dei 230 residenti al “don Vecchi” di Carpenedo partecipa al precetto festivo che è celebrato ogni settimana in casa e che si può raggiungere senza alcuna difficoltà.

L’amarezza di questo rifiuto “alle nozze”, con i pretesti più banali, mi ha fatto balenare l’idea, che ancora non ho messo in pratica – ma che prima o poi finirò per attuare – di scrivere: “don Armando oggi celebra l’Eucaristia per i cristiani che abitano in questa struttura”. Non credo però che neanche così metterò in crisi molti soggetti.

L’autorità è sempre e comunque servizio

Spesso ci sono delle persone alle quali capita per caso o per scelta di leggere questo diario, che dimostrano di ammirare quanto mai la mia schiettezza e il mio coraggio.

Io non mi ero mai accorto di possedere queste preziose virtù, ho sempre invece pensato che ogni persona ha la sua dignità, la sua intelligenza e la sua libertà, e perciò ho sempre inteso che sia giusto, anzi doveroso, dare il proprio contributo al raggiungimento del bene comune, senza le pretese d’avere in tasca la verità e, meno ancora, di poterla imporre a chicchessia.

Questo vale per i “parigrado”, ossia per le persone dello stesso ceto e con le stesse mansioni. Con quelle poi che occupano posizioni di potere, sia politico che sociale e religioso, sono convinto che bisogna essere onesti, collaborare al loro servizio con i nostri pareri e la nostra critica, tenendo poi sempre presente che non siamo stati noi ad imporre loro di ricoprire certi incarichi, ma sono stati loro, ritenendosi preparati per questo servizio alla collettività, ad esibirsi, anzi a sollecitarci a suffragare col voto la loro legittima e nobile operazione di porsi al servizio dell’intera comunità.

L’autorità è servizio e il servizio è un impegno a risolvere i problemi degli amministrati. Se i cittadini non acquisiscono questa consapevolezza, viviamo sempre un rapporto equivoco di sudditanza nei riguardi delle autorità. A livello civile poi, il fatto di essere noi semplici cittadini a pagare ai nostri amministratori lo stipendio, ci autorizza, nel limite del lecito, a pretendere che essi facciano il loro dovere e che lo facciano bene, ascoltando anche noi che siamo i loro “padroni”.

Credo che sia doveroso mettere i puntini sulle “i” per evitare un’assurda sudditanza ed ancora una più assurda inversione dei ruoli. Se qualcuno poi ha puntato alla poltrona e ai ruoli che non sa o che non vuole addossarsene la responsabilità e la fatica, è doveroso tirarlo per i piedi e ricordargli che l’autorità è sempre e comunque servizio.

In questo mondo pochi inseguono una vita vera!

Tante volte ho dovuto confessare che il mio è veramente un microcosmo, limitato e monocorde, ma non per questo è meno interessante ed offre meno spunti per la riflessione.

Io ho sempre ammirato il monaco americano Thomas Merton, che elabora una mistica profonda ed una vera spiritualità partendo da episodi, sensazioni o intuizioni apparentemente semplici, quasi banali, però egli, prendendo spunto dalle emozioni che questi impatti con la realtà provocano nella sua sensibilità di santo e di artista viene portato ad una religiosità viva, attuale e convincente.

Io non ho certamente la statura spirituale e letteraria di questo “monaco anomalo” cresciuto in una società ed in una cultura pragmatica, o per meglio dire nevrotica, che apparentemente non sembra possa favorire la meditazione e la mistica. Sta di fatto che egli elabora il suo pensiero e la sua lettura religiosa della vita salendo verso l’alto da questi piccoli gradini.

Qualche tempo fa, dialogando con una relativamente giovane signora istriana, che aveva perso il marito e aveva un figlio fortemente handicappato, ebbi parole di comprensione e di compatimento, ma con mia viva sorpresa ella reagì e mi fece notare: «E’ vero che il mio matrimonio è durato solamente quindici anni, ma in compenso sono stati quindici anni intensi di vero e splendido amore. Non invidio altre signore, il cui matrimonio è durato quaranta e perfino cinquant’anni, ma che ebbero col marito un rapporto meschino, freddo, senza slanci e senza vero amore».

La qualità della vita per ogni persona ha un’importanza fondamentale. Purtroppo viviamo in un mondo in cui la gente non punta ad una vita vera; si lascia purtroppo vivere in una routine senza profumo e senza colore. Questa però è una povera vita alla quale, credo, non bisogna rassegnarci.

L’umanità di San Paolo

Credo che ognuno abbia il diritto di avere degli amici preferiti. Io non ho mai nascosto di avere una preferenza particolare per l’apostolo san Giacomo piuttosto che per san Giovanni. La franchezza e la concretezza di san Giacomo mi hanno sempre entusiasmato perché non la tira mai per le lunghe, non si concede svolazzi mistici, ma va al sodo immediatamente.

Nel periodo dopo Pasqua, quando la Chiesa ci fa leggere per settimane di seguito pezzi di vangelo di san Giovanni, che rimescolano in maniera monotona i soliti concetti, confesso che li affronto talvolta con disagio e talvolta perfino con un po’ di stizza. Spero che san Giovanni non me ne voglia e credo d’avere la sua comprensione, sapendo di poter contare sulla virtù di un santo.

Devo però confessare che non solamente ho le mie marcate preferenze nel mondo dei santi, dei profeti e dei testimoni dei tempi antichi e del nostro tempo, ma pure di certi scrittori sacri prediligo alcune opere piuttosto che altre.

Tutti inneggiano alla sublimità della dottrina di san Paolo e in verità ha delle grandi intuizioni, espone i passaggi fondamentali del pensiero di Cristo con competenza, anche se talvolta indulge con un periodare un po’ aggrovigliato in cui è facile perdere il filo del discorso, ma il san Paolo che prediligo e che amo è quello in cui questo convertito dimostra tutta la sua calda umanità.

La lettera a Filemone in cui Paolo affida alla comprensione e alla misericordia del padrone, ormai cristiano, lo schiavo Onesimo, anche lui convertito, ma sempre reo di fuga e quindi passibile di condanna capitale, è una lettera di una calda e struggente umanità. Così le parole con cui Paolo s’accomiata dall’amata comunità di Efeso, fanno emergere tutta la dignità e contemporaneamente tutta la tenerezza verso questi “suoi figli” che egli aveva generato alla fede.

Questo san Paolo, una volta in più, mi convince che la fede arricchisce quando “il seminatore” ama in maniera vera e profonda le persone alle quali si rivolge; questo san Paolo non è certamente meno importante del san Paolo teologo intelligente ed acuto, però è un santo che scende dalla “stratosfera teologica” per condividere con la gente la sua calda e ricca umanità.

Papa Wojtyla

Papa Wojtyla è stato una persona così profondamente umana, coraggiosa, innovativa e nello stesso tempo così asceticamente forte, che i mass-media continuano ad interessarsi di lui, a scandagliare nel profondo della sua vita.

In questi ultimi anni mi è capitato di leggere articoli su articoli sulla personalità così complessa e poliedrica del Papa polacco, moderno e conservatore ad un tempo, però in dialogo costante col mondo, in posizione di forza, consapevole di essere portatore di un messaggio liberatore di cui l’uomo moderno ha assoluto bisogno.

Nello stesso periodo mi è capitato ancora di frequente di vedere servizi televisivi quanto mai interessanti, seppur di diverso valore, ma sempre testimonianti l’estrema attenzione e il grande fascino che questo Papa ha esercitato, sempre da protagonista, negli ultimi vent’anni del `900.

Quante e quante volte mi sono chiesto quale sia stato il segreto, la sorgente di questa capacità di interessare amici e nemici, di influenzare il corso della storia, di dialogare con i popoli e le culture più diverse. Non è facile dare una risposta a questi quesiti, ma ritengo che sia doveroso porcela, perché Papa Wojtyla ha impersonato il vecchio Cristianesimo in maniera moderna, comprensibile a tutti e condivisibile da molti.

Nel mio animo mi pare di intravedere, magari confusamente, ciò che di questo Papa ha affascinato il mondo. Papa Wojtyla coltivò un sano ed autentico umanesimo, fu un uomo libero fino in fondo, ebbe sempre la consapevolezza di offrire un messaggio valido, il più valido; si pose in dialogo con le nuove generazioni senza complessi e senza concessioni di comodo. Papa Wojtyla rifiutò quei complessi di inferiorità culturale che spesso affliggono gli uomini di Chiesa, si aprì ad un sano rapporto umano con credenti e non credenti, coltivò il suo fisico mediante lo sport, si permise momenti di vita vera, fuori dal mondo artificioso ed incartapecorito del Vaticano, con le sue colazioni con gli amici, tra i monti; infranse tutti gli schemi di quell’ascetismo cristiano artificioso, malinconico e pessimista nei riguardi della società. Papa Wojtyla, pur senza darlo da vedere, “picconò” un certo passato e “seminò” il futuro, o almeno il presente nella Chiesa italiana ed universale.

Non potrò mai tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere di parte del clero!

Quando sono andato in pensione, cinque anni fa, ho dovuto disfarmi della mia “biblioteca” perché, mentre la canonica di Carpenedo è un grande edificio (che faceva esclamare alla mia perpetua, con un pizzico di ironia e di disprezzo, perché non favoriva l’intimità familiare: «Questa non è una casa, ma un municipio!»), la mia nuova abitazione è una specie di cella monacale in cui ci sta solamente l’essenziale. Un vecchio armadio di noce contiene ora tutti i libri in mio possesso.

Confesso però che, mentre non mi è mai costato molto liberarmi di centinaia di volumi, che poi non mi sono mai serviti, come non servono a niente tutte le biblioteche dei preti, ora ho riempito tutto lo spazio con le varie raccolte de “La Borromea”, di “Carpinetum”, de “L’anziano”, de “L’incontro” e dei numerosi volumi che prima con l'”Editrice Carpinetum” ed ora con l'”Editrice de L’incontro” siamo andati a pubblicare in questo mezzo secolo della mia vita pastorale che ha avuto la stampa come protagonista.

Ogni tanto mi lascio risucchiare dai ricordi e dalla nostalgia e sfoglio qualcuno di quei volumi, che tutto sommato fanno un tutt’uno con la mia avventura sacerdotale.

Qualcuno di questi volumi, nonostante io li custodisca con cura gelosa, comincia ad ingiallire nella carta, come pure nei contenuti. La vita, la nostra vita, è quella che pulsa nel cuore e nelle vene oggi, il passato è un po’ il “rudere” di noi.

Qualche giorno fa ho ripreso in mano la raccolta della rivista mensile di quella parrocchia che oggi è chiamata “Il duomo”, mentre ai nostri tempo si denominava più prosaicamente “San Lorenzo”. Quante nottate passate con monsignor Vecchi, che correggeva i testi a non finire, tanto che le pagine diventavano dei geroglifici, un vero rompicapo per i tipografi. Ricordo ancora certi inviti perentori di monsignore: «Armando, fammi una didascalia, scrivimi un pezzo sui giovani e butta giù un po’ di cronaca su quell’incontro».

Ogni tanto qualcuno dei miei vicini mi dice che sono troppo esigente con me stesso e con gli altri, più spesso mi dico che sono troppo caustico con i preti. Credo che questi “critici” abbiano ragione. Da parte mia ho avuto nel mio passato un’avventura sacerdotale con i miei parroci – mons. Mezzaroba, mons. Da Villa e mons. Vecchi – così bella e così intensa che non riesco, non posso e non voglio tollerare la pigrizia, l’indolenza e il quieto vivere, che ora mi pare siano imperanti anche nel clero veneziano.

“le corti” e il Vangelo, un rapporto un po’ difficile!

Al mattino ascolto sempre, non perché mi interessi troppo, ma perché l’orario della rubrica coincide con il tempo che dedico alla toilette personale e al rifacimento del letto, “Il santo del giorno” di Rai uno, tenuta dal prelato mons. Cosmo Francesco Ruppi. E’ una rubrica di cui sono poco entusiasta perché è sempre un po’ ampollosa e convenzionale. A parere di questo ecclesiastico, i nostri “vecchi santi” raccolgono ancora grandi simpatie dalla nostra gente e il loro culto è ancora in auge, mentre in realtà essi sono purtroppo relegati nelle guide turistiche delle chiese in cui sono sepolti o di cui sono titolari.

Qualche giorno fa tirai le orecchie sentendo che proprio in quel giorno si celebrava san Celestino V, definito in maniera un po’ sprezzante da Dante, che ebbe motivi in realtà futili, d’avercela col suo successore Bonifacio VIII, “il Papa del gran rifiuto”. Il cronista raccontò sommariamente la storia ufficiale di questo Papa che, unico fra tutti i Papi, rinunciò al soglio pontificio per ritirarsi a pregare in solitudine.

Io non ho mai dedicato tanto tempo ed attenzione a questa vecchia storia, conosco solamente le vicende che vennero prima, durante e dopo questo povero diavolo di Papa, attraverso il volume di Silone “L’avventura di un povero cristiano”. Silone, socialista, pur non intruppato nella disciplina del partito, è rimasto sempre un po’ anticlericale, anche se accolto amorevolmente da don Orione tra i suoi orfanelli.

Mentre sentivo il racconto convenzionale del prete che redige la rubrica, mi venne in mente un episodio del racconto di Silone che scrive che portarono a firmare una serie di documenti a Papa Celestino. Egli pretese che lo si informasse sul contenuto e il segretario gli disse, con candore curiale, che si trattava dell’aumento del tariffario che si praticava nei bordelli degli Stati Pontifici! Povero Celestino! Santo, semplice e povero come era, come poteva coniugare la sua aspirazione ad essere un autentico discepolo di Gesù, con un mondo che era avvezzo a tutti i compromessi?

S’è spento da poco il clamore dello scandalo del vescovo Marcincus e siamo nel 2000, non ai tempi di Celestino, ed ora si parla già di un altro filone di intrallazzi finanziari che pare abbiano a che fare con le banche vaticane! Non so se il Vaticano abbia sfornato tanti santi tra i suoi monsignori, funzionari di curia, ma di certo mi pare che ci sia una qualche difficoltà tra “le corti”, siano pure ecclesiastiche, e il Vangelo.

Quell’intollerabile retorica!

Io odio la retorica, qualsiasi retorica! La retorica patriottarda, che il nostro Capo di Stato pare voglia alimentare, finisce per resuscitare ciò che sembrava, se non morta, almeno in calo. Questo inconveniente ogni tanto fa capolino, ma peggio ancora arrischia di fare i disastri che ha fatto nel passato.

Io ho sempre presente una frase di Pittigrilli, un autore che oggi è pressoché dimenticato. Il quale affermava che dietro a certe parole magiche, quali libertà, democrazia, giustizia, Patria, popolo e via dicendo, si nascondono gravi magagne; esse sono come dei paraventi dietro cui si nasconde tutta la sporcizia di una società falsa e corrotta. Ogni tanto avvengono, per i motivi più diversi, queste sbruffate di retorica della Patria, della resistenza, dei crocifissi, della democrazia, o certi altri valori, certamente nobili e condivisibili, ma che sono usati talvolta con disinvoltura e talaltra con cinismo da parte dei protagonisti, spesso interessati, della vita pubblica del nostro Paese.

Quando apprendo le decine e centinaia di migliaia di crimini derivati dalla “resistenza”, dal fascismo, dal comunismo, mi vengono i brividi, anche se bandiere di diverso colore, bande con musiche diverse e parole bolse tentano di coprire la sofferenza, la morte di tante creature umane.

A me piacciono i giovani che issano il tricolore sul pennone della città, non il tricolore che avvolge le bare di giovani mandati a morire contro altri giovani per gli interessi di altri ancora!

Ad accendere nella mia coscienza questo “odio” è stata una delle lettere dei soldati tedeschi assediati a Stalingrado in partenza con l’ultimo aereo tedesco verso la Germania. Diceva l’autore di una di queste lettere inviata ai suoi amici: “Io sul palcoscenico ho recitato tante volte la parte del soldato che muore gloriosamente per la Patria, suscitando gli applausi della platea. Altro però è vedere i soldati morire qui in mezzo al fango, nelle trincee gelide. L’altro ieri ho visto un soldato impigliato tra i cingoli del suo carro armato bruciare come una torcia umana, mentre chiamava disperatamente sua madre!”

Oggi non posso più sopportare la retorica dei nostri parlamentari o dei nostri presuli, ma non riesco neppure più ad accettare quella che riguarda il passato. Ormai è tempo di essere onesti e di cercare assieme, mediante il dialogo, il bene e la felicità dell’uomo, anche se è tanto difficile farlo. Le scorciatoie tradiscono sempre e non portano lontano!

Il buonsenso perduto

Credo di essere diventato pian piano una specie di “Rifugium peccatorum” per gli addetti ai mass-media. Quando pensano di aver bisogno di un parere da parte di un prete, che non risponde secondo i manuali, ma interroga la sua coscienza e poi dice apertamente il suo parere, ricorrono facilmente a questo povero vecchio.

Io accetto sempre per molti motivi: primo, perché anche questi giornalisti sono fratelli da aiutare, secondo perché ritengo doveroso che ognuno dia il suo contributo alla ricerca del bene e della verità; perché non dovrei contribuire anch’io? Terzo: spesso anch’io ho bisogno di loro e perciò è giusto che “una mano lavi l’altra”! Il guaio è che in certi settori ho acquisito una certa competenza, mentre in molti altri sono anch’io l’uomo della strada che non possiede ricette sperimentate.

Qualche giorno fa “Antenna veneta” mi chiese un parere su un fatto un po’ scabroso. Un quindicenne avrebbe avuto delle attenzioni morbose nei riguardi di ragazzini che andavano al catechismo in una parrocchia. Io, ripeto, non sono né uno psicologo né un sociologo, sono semplicemente un uomo che ha vissuto una vita intera tra gli uomini. Risposi che ritenevo soltanto dannoso che la stampa se ne occupasse, suscitando un altro polverone sui già troppi polveroni che sono per l’aria per la omofobia, la pedofilia, la omosessualità e via dicendo. In queste cose, una volta accertata la verità, senza bisogno di carabinieri, del tribunale e di quant’altro, il parroco metta la situazione sotto controllo, inviti i genitori dell’imputato quindicenne a farlo aiutare da gente esperta e competente e tenti di sgonfiare un problema che può magari essere inesistente.

A questo mondo un po’ di buonsenso conta di più di tutta la “Benemerita”, la polizia di Stato, la magistratura e tutto il resto di un mondo che chiacchiera spesso per niente e mescola aria fritta!

Purtroppo il nostro “Tonino nazionale” ha fatto la sua fortuna elettorale con l’aiuto della magistratura, su un certo legalismo formale, infettando l’intera opinione pubblica su discorsi che finiscono per favorire l’illegalità e la perdita di valori.

Spunti di riflessione davvero preziosi!

Più di qualche amico mi ha fatto osservare che parlo troppo spesso di vecchiaia e di problemi inerenti la morte. Sono d’accordo con loro, però a mia difesa o “discolpa” debbo dire che vivo al “don Vecchi”, luogo in cui tutte le problematiche dei residenti e della direzione vertono quasi esclusivamente sulla vecchiaia e il tempo in cui non sono al “don Vecchi” lo trascorro in cimitero,

In questi ambienti che cosa posso incontrare di esilarante e di molto diverso dalle considerazioni che questi due ambienti mi suggeriscono?

Detto questo, debbo pur affermare che sia la casa degli anziani che quella dei morti offrono degli spunti quanto mai stimolanti per la riflessione, per la saggezza e fors’anche per la santità. Sapeste quante volte mi piacerebbe che qualcuno potesse ascoltare certi discorsi che sento e fare le esperienze che questi ambiti di vita mi offrono.

Da tanto tempo osservavo una signora di mezza età che se ne stava un bel po’ davanti ad uno dei cippi dei “campi comuni” del nostro cimitero. (Fare questa osservazione non è cosa rara, spesso queste care donne puliscono il piccolo marmo, riordinano i fiori, tagliano l’erba con la forbice; in una parola “accarezzano” ciò che copre i resti della persona amata). Però avevo osservato che questa signora, dopo aver fatto queste piccole incombenze per le quali serve poco tempo, se ne stava ancora a lungo borbottando qualcosa. Mi accostai, ormai la mia figura è di casa in camposanto, perché è una vita che lo frequento. Chiesi quale fosse il motivo del parlottare fitto fitto. Lei con tenerezza, e nello stesso tempo con grinta, mi rispose senza batter ciglio: «Sono qui a rimproverare mio marito perché mi ha lasciato troppo presto, con tutte le difficoltà e i guai che una donna sola deve affrontare; i patti non erano questi!» Poi mi guardò perplessa per vedere la mia reazione. Le misi una mano sulla spalla e lei s’acquietò.

Questa è la fede nell’aldilà che mi piace, non quella delle formule mielose di certe preghiere. Da allora m’è più facile dialogare con tutta quella cara gente che riposa accanto alle strade sconnesse del nostro cimitero.

Quanti preti vivono oggi una vita da prete?

Guardando con un occhio un po’ critico la vita, le scelte, le abitudini dei preti di questo inizio di secolo, mi domando sempre più di frequente: Esiste ancora “la missione”, “l’avventura cristiana”? Non dico: “il senso dell’eroico”, del “martirio” o dell'”Immolazione”, ma semplicemente una vita da preti in cui questi soggetti, rinunciano di loro spontanea volontà ai “diritti”, ai “privilegi” e ad una vita confortevole e comoda?

Io mi sono scandalizzato quando ho scoperto che molti secoli fa, quello, che poi è diventato san Vincenzo de Paoli, s’è fatto prete per uscire dalla vita miserevole dei contadini bretoni, per cercare nella classe sacerdotale quell’agiatezza medioborghese che il ceto sacerdotale un tempo offriva. Quando però “don Vincenzo” comprese la missione del prete, la sua vita cambiò radicalmente, tanto da diventare “il prete dei poveri” per antonomasia.

Non penso che oggi gli ormai pochi soggetti che entrano in seminario lo facciano per trovare agiatezza, però ho veramente paura che essi, una volta trovatisi dentro il clero, per i motivi più vari finiscano per scegliere una vita tutelata da norme sindacali sui generis: stipendio comunque garantito, vacanze estive, orario di lavoro ben determinato, viaggi culturali in Europa ed oltreoceano, tempo per la navigazione in internet; in pratica essi scelgono di operare nel campo che preferiscono, delegando ai diaconi o ai laici i compiti più ingrati, scegliendo una routine di vita senza scossoni e senza sforzi eccessivi!

Spero che queste mie sensazioni siano solo frutto del farneticare di un povero vecchio, che non si trova più a suo agio in questo nuovo mondo che ha ritmi, stili di vita ed esigenze ben diverse dal passato del dopoguerra, quando l’intera società ha dovuto rimboccarsi le maniche per la ricostruzione post bellica. Sento però sempre più frequentemente cristiani che fanno osservazioni del genere. I risultati poi, se non dipendono solamente dalla secolarizzazione, sono tuttavia poco incoraggianti!

Torri di Babele dei nostri tempi

Circa un mese fa è saltata la capocchia di un vulcano della lontana Islanda, il fumo del quale ha messo a terra migliaia di modernissime macchine che solcano il cielo e milioni di passeggeri che sono soliti spostarsi da un paese all’altro mediante l’aereo.

Non c’è stato niente da fare: motori, piloti, organizzazioni internazionali sono rimasti a terra per una cosa così effimera qual’è la polvere del fumo. Pochi giorni dopo una piattaforma, che estrae il petrolio dal fondo del mare, si è rovesciata per un’onda anomala o per un banale incidente tecnico e tutto questo ha messo in ginocchio la potenza più grande del mondo, sporcando in maniera quasi irrimediabile l’oceano, uccidendo pesci e uccelli ed imbrattando le coste più belle del mondo.

Non si tratta della sfida di una potenza atomica, ma di un semplice ghiribizzo della natura, che s’è stufata delle briglie e del morso che l’uomo le ha posto in bocca, obbedendo invece al comando di un generale con molte più stellette di quelle di quei generali che tutti conosciamo.

In questi giorni mi sono ricordato della storiella che Giovannino Guareschi premette al suo “Mondo piccolo”. L’uomo con la sua arroganza e protervia s’è messo in mente di andare ad occupare il trono di Dio, costruendo ancora una volta una torre di Babele. Tanto strepita che il buon Dio s’è stufato ed ha mosso la falangina del dito mignolo della mano sinistra, rovesciando rovinosamente la torre con la quale gli uomini, ancora una volta, stavano tentando di scalzarlo dal suo trono.

In questi giorni tante volte ho pensato all’arroganza e alla supponenza di certi scienziati, di certi uomini di cultura, di certi politici e di certi sociologi, ed ho concluso che sento un infinito compatimento verso tutta questa povera gente che non riesce neppure a liberare il cielo dalla polvere o a mettere il tappo ad un pozzo di petrolio, mentre vorrebbe dar lezioni all’Onnipotente! Quanta più bella figura farebbero se se ne stessero quieti e zitti!

L’utopia

Per tanto tempo ho coltivato una falsa concezione della parola “utopia”. M’ero convinto che la sua traduzione più esatta fosse espressa dalla parola “illusione”. A ribadire questo concetto, che ora ritengo del tutto sfasato ed erroneo, aveva contribuito la lettura di Cervantes, con i suoi protagonisti: don Chisciotte e il fedele scudiero Sancio Panza.

Da parecchi anni ormai mi si sono aperti gli occhi, interpretando in maniera radicalmente diversa questo termine, tanto che l’utopia è entrata a pieno titolo e in maniera positiva non solo nel mio linguaggio, ma nella mia lettura della vita. L’utopia costituisce per me quasi un valore assoluto verso cui tendere ad ogni costo e con tutte le nostre forze, anche se convinti che non riusciremo mai a realizzare quel valore e a raggiungere in maniera completa quella meta.

L’utopia è un obiettivo nobile ed alto, da conquistare sempre più, pur coscienti di non raggiungerlo mai, perchè è impossibile che l’uomo, essere finito, possa contenere qualcosa che lo supera e che è più grande di lui; ma tutto ciò non deve esimere l’uomo dal continuare nel suo sforzo per far proprio questo valore.

Ricordo certe lezioni di monsignor Vecchi, il quale ci confondeva con certe affermazioni che ora capisco quanto fossero sagge ed intelligenti. Chi mai potrà appropriarsi completamente del concetto di verità, di giustizia, di bellezza? Forse nessuno. Però, man mano che uno procede in questa direzione, sempre più si arricchisce di questo valore, anche se rimarrà una meta inarrivabile nella sua entità sostanziale.

I sogni, gli ideali e i valori sono dei nobili fratelli minori dell’utopia; essa però rimane la regina perché tutto sommato è una manifestazione dell’Ente Supremo che ci permette di “abitare in Lui” nella misura in cui riusciamo a progredire nella sua “conquista”!

In quella predica ho evitato banalità patriottiche o religiose per sognare un futuro di pace e ricerca del bene comune!

Quando i resti mortali di Matteo Vanzan, il giovane lagunare caduto a Nassiria, colpito da una scheggia di granata, tornarono in Italia avvolti nel tricolore, ci fu grande commozione e lutto in tutto il Paese. La giovane età, l’entusiasmo per la professione scelta e l’amore di Patria instillatogli dal padre carabiniere, toccarono le corde più profonde del cuore degli italiani.

La famiglia di Matteo vive in un paesetto dell’interland, ma non so per quale motivo ha scelto di seppellirlo nel “campo pagante” proprio vicino all’ “Altare della Patria”del cimitero di Mestre. Spesso ho visto il padre e i famigliari fermarsi in preghiera vicino alla tomba del loro caro ed ogni anno, a metà maggio, prima il reggimento dei lagunari e poi la sezione locale dei reduci dell’arma, organizzano una messa al campo in suo suffragio.

Qualche anno fa è venuto per la celebrazione proprio il cappellano che condivise in terra irachena il dramma dei nostri ragazzi; in quell’occasione questo bravo prete disse parole toccanti, lontane da quella retorica patriottica che oggi suona sempre più stonata, parole che hanno ben inquadrato la testimonianza di questo giovane che credeva negli ideali di libertà e di democrazia e per essi incontrò la morte.

Quest’anno chiesero a me di celebrare la messa e commemorare il sacrifico di questo giovane. Stetti molto attento ad avere un estremo rispetto per i nostri soldati e per i valori per cui essi operano. Però credetti opportuno ribattere che oggi dobbiamo educare i nostri giovani a vivere e non a morire per la Patria e ribadire che le armi e la forza in genere sono uno strumento antiquato e fuori corso per stabilire l’ordine, la giustizia, la libertà e la democrazia. I nuovi strumenti sono oggi il dialogo, la ricerca del bene comune e il rispetto per la vita e per la cultura di ogni Paese; con essi dobbiamo perseguire questi valori condivisibili da tutti.

I militari, vecchi soldati in pensione e cittadini comuni mi ascoltarono attenti e m’è parso che abbiano condiviso fino in fondo il mio discorso, che finalmente usciva dalle solite banalità patriottiche e religiose.

Ancora sulle persone di Dio prima che della Chiesa

Molti anni fa, quando ero cappellano a San Lorenzo, portavo frequentemente la comunione ad una signora anziana di Riviera 20 settembre, che non poteva uscire di casa per una infermità; era un’ottima persona e molto religiosa. Il marito mi apriva la porta con tanta cordialità e tanta deferenza, non partecipava però alla comunione della moglie, ma sembrava non solo connivente, ma felice delle pie pratiche della moglie e delle mie visite.

Col passare del tempo e l’aumentare della familiarità, mi prese la curiosità di sapere come la pensasse a livello religioso. Feci il furbo, pur essendo stato io sempre maldestro in certe cose, ed un giorno dissi a questo signore: «Dato che vengo a portare la comunione alla signora, mi costerebbe nulla portarla anche a lei, pur sapendo che lei può uscire di casa». Dapprima mi parve un po’ imbarazzato, ma mi disse poi con tanta bonomia e tanta umanità: «Mi dispiace, don Armando, darle questa delusione, ma io, pur avendo grande rispetto per la Chiesa, venerazione per il Sommo Pontefice (a quel tempo era Papa Giovanni XXIII) e pur essendo innamorato della spiritualità francescana, penso di non essere credente!»

Quel signore era un vecchio socialista che s’era battuto ai suoi tempi per il riposo domenicale dei lavoratori, per la giornata lavorativa di dieci ore e per tante altre cause per cui i socialisti erano impegnati, mentre i clericali pensavano alle funzioni religiose.

Rimanemmo amici, io l’ammirai per la sua autenticità e per il suo umanesimo. Non gli proposi mai di fare la comunione e meno ancora tentai di “convertirlo”. Lui era già convertito e pregava già con la sua onestà intellettuale, il Paradiso se l’era già guadagnato con la sua lotta per l’uomo.

Da allora ho sempre avuto un sacro rispetto, e quasi una venerazione, per quegli uomini che sant’Agostino chiamava “persone che Dio possiede e la Chiesa non possiede”.