La vicenda della Safilo

Qualche settimana fa ho tirato un sospiro di sollievo di fronte ad una, purtroppo insolita, notizia riportata dal giornale. Gli operai della Safilo avevano finalmente trovato un punto di accordo con i responsabili della loro azienda.

Io purtroppo somatizzo i drammi del nostro Paese: gli imprenditori che si suicidano, le aziende che chiudono o delocalizzano, gli operai che vanno in cassa integrazione, mai mi lasciano indifferente, ma sempre rimango quasi travolto da queste notizie che mi fanno immaginare uomini e famiglie che improvvisamente si sentono mancare la terra sotto i piedi.

Mi turbano pure, e talvolta mi indignano le varie bandiere appese ai cancelli delle aziende, le dichiarazioni bellicose dei responsabili del sindacato o dei più facinorosi.

Spesso c’è qualcuno che pretenderebbe che “i padroni” facessero il miracolo di offrire uno stipendio sicuro, più consistente, condizioni migliori di lavoro e sicurezza del posto, non tenendo conto che a qualche decina di chilometri dal nostro confine ci sono Stati che offrono il terreno gratis, non frappongono impedimenti burocratici pressoché insormontabili, come succede da noi, gli operai non scioperano quasi mai perché dialogano con l’azienda e non ci sono sindacalisti che, invece di lavorare, passano il tempo ad aizzare gli operai prospettando paradisi impossibili. Da noi le cose vanno ben diversamente, per cui non arrivano investitori, e quelli che ci sono o scappano o chiudono.

La soluzione trovata  per la Safilo mi pare quanto mai saggia ed equilibrata; in un momento di grossa difficoltà operai ed azienda hanno fatto ognuno la loro parte di sacrificio: forse l’azienda ha rinunciato ad un profitto maggiore e gli operai si sono praticamente ridotto lo stipendio perché nessuno fosse licenziato.  Spero proprio che questo sia un segno che anche da noi si capisca che siamo tutti nella stessa barca e che ci si salva assieme, altrimenti, se ci si incaponisce a pretendere l’impossibile, si affonda tutti assieme.

Qualche segno di cambiamento l’avevo già scorto in occasione del contratto della Fiat, ora la soluzione della Safilo spero che ne sia la conferma.  L’unico modo per affrontare e superare la crisi è sempre lo stesso: lavorare, accontentarci del possibile, dialogare e collaborare e soprattutto mettere tutti da parte l’egoismo.
Speriamo che queste due rondini annuncino primavera.

L’annuario

La settimana scorsa una volta ancora mi sono lasciato andare alla curiosità morbosa di prendere conoscenza della “ricchezza” della mia diocesi, messa in bella mostra nell'”annuario”.

Ogni anno viene pubblicato un volume assai consistente di pagine e più ancora di notizie, indirizzi, enti e persone che costituiscono la nervatura della Chiesa veneziana. Ho già scritto che provo sempre, in occasione di questa “visura”, due reazioni contrapposte: una di orgoglio per essere parte di una realtà così ricca di persone e di istituzioni impegnate per realizzare “il Regno”, la seconda di perplessità di fronte a tanta organizzazione di cui, io perlomeno, non riesco ad avvertire e soprattutto a beneficiare.

In quest’ultima rivisitazione mi sono soffermato qualche momento su una dicitura che compare forse solamente da un anno: “Ordo virginum”.

Tra le tante realtà ho scoperto che a Venezia c’è, seppur striminzita, una organizzazione ufficiale di donne vergini. L’annuario ne riporta nome, cognome, indirizzo, numero di telefono e perfino l’indirizzo di posta elettronica.

In verità lo scorso anno, ancora quando c’era il cardinale Scola, avevo sentito parlare della loro solenne consacrazione in basilica di San Marco, ora però di esse c’era tutto, ci mancava solamente la foto.

Per una strana associazione di idee mi venne in mente che il vecchio parroco della mia fanciullezza voleva che le ragazze e le donne di azione cattolica, durante le processioni, che erano piuttosto frequenti, sfilassero in centro con le bandiere dell’associazione in testa. Mi ricordo nitidamente ancora le critiche e gli appunti che la gente faceva nei loro riguardi, che credo poi tutto sommato fossero delle care creature, però come tutte le altre donne del paese

Ritengo che ci siano certe cose che esigono riserbo. Poi penso a quelle tante ragazze, signorine nubili e donne sposate, che sono dei tesori di bontà e di dedizione e che si spendono senza riserve, senza che alcuno offra loro una cornice più o meno preziosa o adeguata.

Talvolta ho parlato di una maestrina del sud che conduce il “Foyer San Benedetto”, la piccola struttura che dà alloggio ai famigliari degli ammalati dell’Ospedale dell’Angelo, a cui ricorro quando qualcuno bussa alla mia porta in cerca di alloggio e che sempre serena e sorridente risolve i casi più difficili e non appare nell’annuario della diocesi.

Ho deciso, nel mio cuore, che stamperò in proprio un “annuario segreto” per dar posto alle tante creature care e buone che incontro tutti i giorni.

“Questo è il giorno che Dio ha fatto per noi. Rallegriamoci e siamo lieti”

Oggi, di prima mattina, come ogni giorno, dedico qualche tempo alla meditazione.

I miei amici sanno che le mie riflessioni hanno come fonte “Il cenacolo”, un opuscolo bimestrale edito dalla Chiesa metodista di Genova. Le riflessioni hanno come base un testo del Vecchio e del Nuovo Testamento, elaborate ogni giorno da un membro diverso di quella congregazione che vive nelle nazioni di ogni parte del mondo. Adopero questo testo perché la sorgente dei pensieri nasce sempre dalla Bibbia, perché l’elaborazione è molto concreta e profuma sempre di una fede limpida, certa, talvolta perfino troppo candida ed elementare per la mia sensibilità un po’ sofisticata e contorta.

Questa mattina, partendo dal testo biblico “Il tuo cuore conservi le mie parole; osserva i miei comandamenti e vivrai (Proverbi 4-4), l’estensore, un fedele del Sud Africa, Melaie Leo, riferiva che nella sua comunità viveva una anziana signora quasi centenaria, che per moltissimi anni s’era dedicata all’animazione della gioventù della parrocchia, che quando rispondeva al telefono non s’accontentava di dire “Pronto”, ma soggiungeva sempre “Questo è il giorno fatto dal Signore per noi”, quasi a suggerire di cogliere a cuore aperto, di buon grado, con letizia e curiosità “le sorprese” e i doni che il Signore prepara ogni giorno per noi.

M’è piaciuto quanto mai questo pensiero e sono uscito di casa con la predisposizione a cogliere il meglio di questo giorno, che mi avrebbe offerto un’esperienza unica ed irripetibile e di certo positiva. Infatti, fin dall’inizio della giornata, ho cominciato a raccogliere incontri, sensazioni, parole, sentimenti, scorci di bellezza e di umanità veramente splendidi ed interessanti.

Ho fatto il proposito che d’ora in poi, fin dal primo risveglio, vorrò ripetermi: “Questo è il giorno che Dio ha fatto per noi. Rallegriamoci e siamo lieti”, tentando di raccogliere i risvolti positivi di ogni incontro e tenere fisso lo sguardo sulla parte del bicchiere “mezzo pieno”.

Mi piacerebbe avere il coraggio di ripetere anch’io a chi mi telefonerà, la considerazione offertami dalla Bibbia. Temo di non riuscire a farlo perché non ho ancora vinto il “rispetto umano” che ancora mi condiziona.

Ricordo che quando dirigevo “Radiocarpini” corrispondevo telefonicamente con un parroco della Sardegna che pure usava la radio come strumento pastorale. Ogni volta che mi telefonava, non solamente mi salutava con “Sia lodato Gesù”, ma continuava soggiungendo: «Diciamo una preghiera» e cominciava, senza indugi: «Padre nostro che sei nei cieli»
A questo mondo ci sono fortunatamente tante, tante “anime belle”.

Il Comune deve mettere in sicurezza via Orlanda!

Spero che quando questa pagina vedrà la luce io avrò ricevuto la concessione per mettere in sicurezza l’uscita e l’ingresso del Centro don Vecchi di Campalto che ospita ottanta anziani.

Sono passati ormai otto mesi dai primi approcci con il Comune e con l’Anas per garantire che gli anziani del “don Vecchi” potessero uscire e rientrare al Centro senza incorrere in pericolo di morte. La pratica, nonostante le promesse ufficiali dell’assessore alla viabilità, avv. Ugo Bergamo, e dell’ingegnere responsabile dell’Anas, si sono impantanate nei relativi uffici senza che ci fossero spiragli di speranza.

Sennonché, per puro miracolo, non c’è scappato il morto. Una signora che era venuta a visitare sua madre al “don Vecchi”, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso che ha scaraventato la sua auto nel fosso riducendola ad un rottame.

L’incidente ha mosso le acque, tanto che mi arrivarono due o tre comunicazioni dall’Anas. Poi la pratica si insabbiò di nuovo. Sono passati ancora due mesi ed ogni volta che telefono pare che l’indomani arrivi il permesso. Però non arriva.

Mi pare di ritrovarmi dentro il racconto “Aspettando Godot”, l’attesa vana di una risoluzione.

Una volta che quegli enti mi dessero il permesso a mettere in sicurezza, a mie spese, la salita e la discesa dall’autobus, il problema non sarà ancora risolto perché i miei vecchi non potrebbero usare la bicicletta e le loro gambe per fare una spesa a Campalto, mancando una pista ciclopedonabile che permetta loro di uscire – come ha detto un’anziana residente – dalla loro “prigione” dorata, ma che comunque rimane prigione.

In questi ultimi giorni m’è venuta in mente una strategia imparata da un mio vecchio parrocchiano, Bepi Toldo, il quale, avendo tentato di farsi pubblicare una lettera dal “Gazzettino” e non riuscendoci, la rispedì per 87 volte, finché i redattori capitolarono!

Forte di questo esempio, non appena avrò il primo permesso, ho deciso che ogni settimana manderò al sindaco Orsoni, all’assessore Bergamo e a quello dei lavori pubblici una petizione per ottenere la pista ciclopedonabile. La cosa mi è resa meno dispendiosa perché ho scoperto che posso usare l’ufficio protocollo di via Ca’ Rossa per l’invio delle lettere senza pagare un soldo.

Terrò pure informati i ventimila lettori de “L’incontro” pubblicando anche per loro la richiesta, sperando che Bondi dimagrisca i quattromilaseicento dipendenti comunali per renderli più efficienti.

“Accoglilo pure lui, Signore”

Recentemente ho sentito il dovere di dire la mia sul suicidio del grande regista Monicelli, vecchio e affetto da un male incurabile. Mi sono sforzato di ripetere che il mio discorso si rifaceva ad una visione ideale della vita e della morte. Per il dramma del singolo non provo che comprensione e calda pietà, per cui confesso che più volte ho pregato il buon Dio che accogliesse nel suo Cielo questo suo “Figliol prodigo”.

In quell’occasione ho pure scritto che nella mia lunga vita di prete mi sono trovato più volte coinvolto in questi gesti estremi e sempre ho provato un sentimento di sgomento, di profonda tristezza, quasi una desolazione di fronte a chi rinuncia a continuare a cogliere il dono della vita, a chi non comprende che nel magnifico ecosistema della società ognuno ha un compito ed ognuno deve fare la sua parte.

Sono pure convinto che queste scelte estreme non sono mai lucide e razionali, ma sempre determinate da uno stato d’animo in cui s’è rotto all’interno dell’animo un equilibrio per cui sfugge dalla volontà il dominio di sé.

Ricordo il colloquio con una ragazza credente che aveva tentato di suicidarsi con l’acido muriatico, ma che si riuscì a salvare. Le chiesi: «perché l’hai fatto?» e lei non seppe giustificarsi se non affermando: «In quel momento non ho visto di fronte a me che quella soluzione!».

Queste esperienze mi han sempre aiutato ad inquadrare positivamente il commiato religioso anche per questi fratelli, partendo dalla paternità del Padre e dall’altra parte dalla loro ricerca errata della pace interiore, che agli occhi del Signore equivale ad una preghiera angosciosa ed accorata.

Qualche giorno fa s’è celebrato nel piazzale del cimitero, sotto un sole cocente e in mezzo al traffico degli automezzi, il “funerale dell’architetto Peghin”. Nulla di più squallido e desolante; per chi vi ha partecipato; la vita è apparsa come un assurdo, un inganno ed una beffa della natura.

Nella stessa mattinata “ho salutato” un concittadino che, fiducioso, era stato sempre consapevole di camminare verso la casa del Padre per ricevere il suo abbraccio e per sentirsi dire: «Entra e facciamo festa, perché eri lontano e sei tornato». In quell’occasione ebbi l’opportunità di dire a Dio: «Accoglilo pure lui, Signore, Tu gli hai offerto la dimora eterna col battesimo e l’hai chiamato “figlio”, egli Ti “ha pregato” costruendo case per altri tuoi figli; Ti ha cercato sul sentiero dell’armonia e della bellezza, perseguite con la sua professione.»

Ora sono certo che il Signore gli ha aperto la porta senza esitazioni e che ora è con la sua amata sposa. Mi spiace solamente per chi, in quell’occasione, non s’è sentito ripetere queste splendide verità che danno senso alla vita e alla morte.

Guai se il patriottismo diventasse disprezzo degli altri!

Fino a qualche anno fa, quando imperava la cultura marxista, solamente se qualcuno osava pronunciare il nome “Patria”, era guardato con sospetto e apostrofato come fascista. La cosa era anche comprensibile perché da un lato il Duce e i suoi seguaci avevano esasperato il sentimento dell’amor patrio, riempiendo il Paese di un nazionalismo becero, partigiano e prepotente e dall’altro lato perché le masse operaie per qualche decennio s’erano illuse che “il sole dell’avvenire” dovesse sorgere presso il Cremlino all’ombra della bandiera rossa.

Finalmente, cominciando da Ciampi, gli italiani hanno riscoperto l’inno di Mameli e pare che lo preferiscano a “Bandiera rossa” o a “Biancofiore”, hanno tirato fuori il tricolore e lo sbandierano ora con perfino troppo orgoglio e per motivi alquanto futili.

La domenica delle semifinali mi è capitato di vedere con piacere che dal commissario Prandelli al calciatore Balottelli, prima della partita, hanno cantato a squarciagola l’inno di Goffredo Mameli che, se si legge il testo al di fuori della euforia patriottica, contiene delle frasi quanto mai tronfie d’orgoglio e sprezzanti nei contenuti.

Di certo gli italiani “sportivi” non vanno per il sottile e cantano, gridano e scorazzano per la città per stordirsi un po’ e dimenticarsi di tutti i guai patrii.

Confesso però che non sono rimasto dispiaciuto di questo povero guizzo di italianità, ma confesso altresì che sarei stato molto più contento se tutto fosse avvenuto per motivi più seri e più validi. Se gli italiani fossero più innamorati della loro terra, se difendessero la purezza dell’acqua dei loro fiumi, il verde dei loro boschi, la bellezza delle splendide opere d’arte che posseggono, se partecipassero di più alla vita politica del loro Paese, se fossero più impegnati nel volontariato, se si facessero maggior carico dei problemi della miseria e della fame del terzo mondo, se fossero più preoccupati dell’efficienza delle loro fabbriche, se conoscessero di più i loro poeti e i loro artisti, se… Credo che darebbero un’attestazione di italianità molto più valida e costruttiva.

Io sono nato nell’era fascista, ho fatto la guardia al monumento dei caduti in divisa da balilla e col moschetto che fortunatamente non poteva sparare per cui, a livello di sentimenti, potrei anche capire questo patriottismo a cui ero avvezzo, però ora capisco che bisogna costruire l’Europa. Questo obiettivo non è certamente facile, quindi, finché manteniamo nel limite del gioco questo patriottismo, può passare, ma guai se diventasse disprezzo e irrisione non solo degli antagonisti nel campo, ma anche delle nazioni europee che rappresentano.

Solo lavorando insieme si possono cambiare le cose, non con gli scontri!

Ho imparato da solo quanto sia faticoso pensare con la propria testa ed andare contro corrente. Pare assurdo, eppure è vero anche oggi che la gente ama accodarsi agli altri, pensare, dire e fare le stesse cose.

Per me è stata una scoperta inebriante comprendere che ogni uomo è unico e irripetibile, è in una parola: persona.

Ogni persona nel cosmo è come una tessera minuta, con una sua forma ed un suo colore, tessera che assemblata si coniuga con i miliardi di altre tessere di differente colore e di diversa struttura, e tutte assieme danno volto alla meraviglia del creato.

Dice la Bibbia che Dio ci chiama per nome, perché siamo individui e persone non fatte a stampo, ma usciamo dalla mente di Dio come opera unica. L’operazione più assurda è quella di pianificare gli uomini, rapportarsi a loro come massa umana e non come singole persone.

Sono convinto che la standardizzazione prodotta dai mass-media, dai dittatori, dai capitani d’industria, dai sindacati, dai politici e perfino dai superiori delle congregazioni religiose, sia un’opera blasfema che, prima di offendere l’uomo, offende Dio stesso che ci volle diversi l’uno dall’altro, perché la diversità arricchisce, mentre l’uniformità impoverisce e distrugge la persona. Il rispetto per la persona nella società è un’esigenza radicata ed un dovere sacro. Solo così ogni persona offre il suo apporto e dona il suo contributo.

In questi giorni c’è stato l’assalto all’arma bianca contro il ministro Fornero che s’è permessa di fare un’affermazione sacrosanta, ma che per gli stupidi e le persone irreggimentate è suonata a bestemmia, avvalendosi di una frase della costituzione che non c’entra veramente nulla. La Fornero, che è un’esperta in questo settore, e che forse potrebbe tirarci fuori da un immobilismo stereotipato che ha ammazzato la nostra economia, s’è permessa di dire: «Il lavoro non è un diritto». Di certo non auspicava che aumentino i disoccupati, ma voleva affermare che solo mettendoci insieme, solamente ognuno facendo la sua parte, ognuno mettendo sul tavolo il meglio delle sue risorse, si può sperare di creare delle condizioni per le quali ogni cittadino possa trovare il suo posto, dare il suo contributo specifico e guadagnarsi il pane col sudore della sua fronte.

Quello che è assurdo non è la verità pronunciata dalla Fornero, ma chi invece pensa di far scaturire il lavoro attraverso lo sciopero, l’esposizione delle bandiere, gli slogan, lo scontro sociale e il vecchio odio di classe che è la cosa più anacronistica per come è oggi organizzata la nostra società.

Non so se la frase coraggiosa della Fornero sarà una scudisciata che farà prendere coscienza delle responsabilità personali; io lo spero. Non è però improbabile che chi vive di scontri e di illusioni non addormenti ancora una volta la coscienza dei cittadini, con conseguenze disastrose.

Perché questa diffusa allergia al matrimonio religioso?

Un paio di mesi fa dedicai “l’editoriale” a Cesare Prandelli, “l’eroe” d’Italia del 2012. Scrissi in quell’articolo di fondo che avevo molto ammirato quel tecnico del calcio, cresciuto in oratorio, con una famiglia regolare, con moglie e figli, con dei sani principi e dalla vita esemplare.

Ero stato edificato dal fatto che avesse messo da parte il calcio per due anni per essere accanto alla moglie in un momento particolarmente lusinghiero per la sua carriera di allenatore. Mi ero perfino commosso nel venire a sapere che aveva accompagnato con dignità e amore la sua sposa, che purtroppo è morta in ancor giovane età, tenendosi accanto i due figli.

Nel mondo corrotto, spendaccione, aperto a tutti i compromessi aver potuto incontrare un uomo dal volto pulito, che si comportava da vero educatore nei riguardi dei membri della squadra, ch’era forse più preoccupato di crescerli come uomini veri, piuttosto che essere impegnato a farne dei supercampioni, mi aveva rafforzato nell’idea d’aver finalmente scoperto, anche in questo mondo fittizio, un galantuomo ed un educatore esemplare.

Un amico, letto l’articolo, avendolo conosciuto personalmente, mi riconfermò quanto avevo appreso e vi aggiunse di suo.

Pur non essendo un fanatico del calcio, ho seguito il recente campionato europeo e m’è parso che veramente Prandelli avesse cresciuto un gruppo di ragazzi coeso di amici, compreso quel Mario Balottelli che deve essere, a mio parere, veramente un soggetto quanto mai difficile. L’aver letto che dopo la partita Prandelli andava in “pellegrinaggio” durante la notte, è stata la ciliegina per cui l’avrei proposto come vero campione in umanità.

Sennonché l’altra sera c’è stato un cronista che ha parlato delle “donne dei campioni”. E’ stato bello vedere questi campioni con i propri piccoli in braccio, o l’abbraccio del rude e scontroso Balottelli a sua madre a cui ha dedicato i suoi gol. Nella breve rassegna, il giornalista ha concluso che pure la “compagna” di Prandelli ha sempre presenziato alle partite.

Io non voglio e non posso giudicare alcuno, e questa notizia non cambia l’opinione e la stima sul tecnico della nazionale, ma sono costretto a chiedermi, una volta ancora, perché oggi c’è una allergia così diffusa al matrimonio religioso? Non c’è ormai famiglia, la mia compresa, che non sia colpita da questa scelta o da questa moda. E ancora, mi sto chiedendo se per Dio e per gli uomini sia importante che due creature si amino veramente o se invece si impegnino di fronte a Dio con l’attuale formula nuziale, anche se talvolta si scopre poi che han preso un abbaglio, ma che tra loro non c’era vero amore.

Un nubendo, laureato in storia, mi disse, qualche anno fa, che nella Chiesa il sacramento del matrimonio è relativamente recente, mentre in tempi lontani si chiedeva solamente aiuto al Signore con una preghiera.

Sono in affanno; ora prego che comunque la gente si voglia bene ed offra ai suoi figli un nido caldo di amore.

Un’ingiustizia che grida al cospetto di Dio e degli uomini!

Ho già scritto che uno dei miei coinquilini del Centro don Vecchi mi ha donato, un paio di anni fa, una “Punto” usata, ma che è tanto bella che quasi mi vergogno di usare un’automobile così bella. Se la confronto con le due “Cinquecento” usate, alla Citroen ballerina di 300 di cilindrata e alla “Seicento” con le quali ho viaggiato negli ultimi quarant’anni della mia vita, ora mi pare di avere un’auto di rappresentanza.

Tra le molteplici prestazioni, la mia auto ha perfino la radio, motivo per cui, durante il tragitto “don Vecchi”-cimitero e viceversa, mi si offre anche l’occasione di un aggiornamento. Ora “imbrocco” giornali radio, ora rassegna stampa, ora anche dei servizi intelligenti ed aggiornati.

Qualche giorno fa un certo signore, in una delle tante rubriche di Rai uno, ha svolto un tema che mi ha fatto pensare e in quest’ultimo tempo mi ritorna con insistenza. Diceva questo conferenziere che negli ultimi duecento anni s’è sviluppata la convinzione che il mondo economico avrebbe continuato a offrire nuovi servizi e beni di consumo in maniera sempre superiore. Dobbiamo però domandarci: “Chi ha beneficiato di questa continua crescita e di questo arricchimento?”. E continuava ad affermare, con ragione evidente, che forse al massimo un quarto della popolazione del mondo aveva potuto beneficiare di questo arricchimento, mentre gli altri tre quarti non solo non ne avevano goduto, ma forse sono rimasti anche più poveri di quando tutti gli uomini vivevano miseramente.

Un tempo, senza comunicazioni di massa, con popoli che dominavano con la forza, la cosa poteva passare. Ora però, in un mondo globalizzato a tutti i livelli, non solo questa patente ingiustizia “grida al cospetto di Dio”, ma sta accumulando una reazione che prima o poi vedrà i popoli poveri pretendere con la forza della disperazione di avere anche la loro parte di benessere e non accettare più di morire di fame sfruttati dai popoli più ricchi.

Sto leggendo un ponderoso volume sulla vita, le opere e il messaggio dell’Abbé Pierre, ove queste disuguaglianze e la fame del mondo vengono documentate in maniera puntuale e nitida, dimostrando l’insensibilità, l’avidità e l’egoismo sfrenato dei popoli occidentali, sordi alla morte per miseria e per fame di milioni e milioni di persone.

Se il mondo occidentale non cambierà modo di vivere e di sperperare, sarà giustamente costretto a farlo sotto la pressione di questo mondo di miseri e di sfruttati. Se la crisi economica ci aiuterà a capire questo per tempo e a scegliere di vivere in maniera più degna, bisognerà ringraziare Dio per la crisi, perché ci risparmierà da una punizione quanto mai certa e cruenta.

Esperienze preziose

Ringrazio veramente il Signore che durante la mia lunga vita mi ha fatto fare delle belle esperienze, rendendomi sempre curioso del nuovo e aiutandomi a non vivere mai nelle retrovie, ma sempre in prima linea, ricevendo talora qualche colpo dal “nemico” e, forse più spesso, delle “ferite” dal “fuoco amico”. Comunque sia quello che queste mi sono state sempre sostanzialmente di aiuto.

Con monsignor Vecchi, ripeto ancora una volta, ho sempre avuto un rapporto totalmente dialettico, rapporto che credo sia stato inevitabile a motivo dell’età, della provenienza e della sensibilità diversa, però per me lui è stato comunque un maestro valido per tanti motivi. Uno di questi è quello che monsignore mi insegnò che bisogna sempre verificare sul campo, accertarsi in prima persona per valutare ogni esperienza ed ogni scelta o orientamento pastorale.

A tal proposito voglio far riferimento a tre esperienze particolari. Al tempo in cui sembrava che la Francia fosse l’antesignana e la punta di diamante nel campo della pastorale e della liturgia, andammo insieme a vedere cosa si faceva in Francia. In realtà abbiamo scoperto cose interessanti, ad esempio l’uso del foglietto parrocchiale l’apprendemmo da quel viaggio e lo abbiamo propagato a Mestre.

In quella esperienza capimmo però che allora, in Francia, c’erano delle avanguardie interessanti, ma il grosso era ancora arroccato al tempo della post-rivoluzione.

Quando stavamo sognando la mensa per i poveri e quello che riguardava le iniziative caritative, andammo a Brescia, che a quel tempo rappresentava il top del settore. E quando, al tempo del Concilio abbiamo sentito il bisogno di verificare l’impianto dell’associazionismo giovanile, siamo andati a Milano, quando don Giussani aveva appena dato vita a “La gioventù studentesca”, la madre di “Comunione e liberazione”.

In quella occasione, avendo partecipato, in una grossa parrocchia, all’incontro di un numeroso gruppo di giovani del movimento appena nato, sono stato colpito dal modo con cui si svolgeva l’incontro. Fissato l’argomento, ognuno poteva ordinatamente offrire il suo contributo, ma non poteva polemizzare o anche ribattere su quello che aveva detto l’amico. Questo metodo evita inutili diatribe e discussioni e fa emergere il meglio che si possa ricavare su un argomento.

Ho tentato per tutta la vita di introdurre questa metodologia, poche volte ci sono riuscito. Molto probabilmente ciò non è avvenuto perché tutti devono essere d’accordo in partenza su valori di fondo, cosa che per l’individualismo della gente della laguna è piuttosto difficile.

Il vento della riforma

Da quando ho cominciato a prendere coscienza del bisogno di rinnovamento, ma soprattutto in quest’ultimo tempo, ho sempre sentito parlare di riforme, di rinnovamento.

Il discorso attualmente riguarda il mondo della politica e lo sa solamente Dio di quanto ci sia bisogno di svecchiare la nostra società, di cacciare i baroni che imperano e sperperano negli enti pubblici, di applicare anche ai dipendenti dello Stato e del parastato i criteri che regolano il lavoro dei dipendenti degli enti privati, di mettere in riga e di curare la produttività e l’efficienza della burocrazia, di tirar giù dall’empireo i magistrati, di ridimensionare gli stipendi degli sportivi e di purificare la classe politica, di dare regole più serie al sindacato e tant’altro ancora.

Però questo discorso che è pure esploso nei riguardi della Chiesa ai tempi del Concilio Vaticano secondo e nei tempi immediatamente successivi ad esso, si pone anche per la Chiesa che ugualmente è composta da uomini che sono fatti della stessa pasta di chi si occupa di impresa, di giustizia, di politica o di sindacato e di quant’altro.

Dopo la breve ed irrequieta primavera del Concilio, ho la sensazione che quasi tutto sia ritornato come prima e che il cammino della liberazione dalle incrostazioni della tradizione, della purificazione e del rinnovamento sia estremamente lento e fatto più di aspirazione che di fatti concreti.

Nel passato si è proceduto alla riforma del codice di diritto canonico, riforma pressoché inutile perché mi pare che tale codice serva veramente a poco e tratti spesso di questioni che non interessano ad alcuno.

Mentre penso che sarebbe quanto mai urgente e necessaria la riforma del breviario, ossia di quel testo di meditazione e di preghiera ch’è fatto dovere ad ogni sacerdote dedicargli un certo tempo ogni giorno. Io ho sempre recitato e recito ancora ogni giorno il breviario e spero che il Signore tenga conto almeno della fatica notevole che mi costa.

Sono veramente convinto che la Bibbia, nel suo complesso, sia uno degli strumenti con cui Dio ha scelto di parlare all’uomo di tutti i tempi, però auspico una radicale riforma nella scelta dei testi contenuti nel breviario.

In questo momento in cui sento un particolare e, credo, fecondo sentimento di rifiuto alla violenza, mi costa all’inverosimile leggere testi in cui si mette Dio a servizio della vendetta, della ferocia e della crudeltà, per favorire un piccolo popolo spesso prepotente, ambizioso ed interessato.
Mi auguro che il vento della riforma riprenda a soffiare anche nella mia Chiesa.

Ammettere le proprie debolezze

Quando i giornali hanno parlato del corvo nero che sta gracchiando in Vaticano, mi sono detto: “Ci mancava anche questa!”. Non so se siano i corvi i volatili che si nutrono delle carogne, comunque il corvo che ha cominciato a farsi udire dai palazzi di ciò che rimane dello Stato pontificio, di sicuro vive di marciume.

Vedere il nostro vecchio Papa sempre più fragile, piangere sui preti pedofili ed ora sentirlo anche tradito dalle persone che gli stanno più vicine e che dovrebbero collaborare per rendere la Chiesa più bella e più fedele al messaggio di Gesù, intuire che lo IOR, la banca del Vaticano, continua probabilmente ad intrallazzare come ai tempi di Marcincus, è un qualcosa che amareggia tutti i cristiani e che rende ancor più pesanti le chiavi di Pietro.

Non bastasse questo, in questi giorni è scoppiato pure lo scandalo di Villareggia, la promettente comunità missionaria nata una ventina di anni fa nel Chioggiotto e sviluppatasi in maniera portentosa. Povero Papa! Povera Chiesa!

Questa volta la piena ammissione della fragilità dei componenti di questa comunità e gli immediati provvedimenti per curare la ferita, sono stati, pur nella tristezza, un modo nuovo e più nobile di presentarli alla comprensione del mondo. Ammettere finalmente le proprie debolezze è un costume nuovo nella Chiesa, che spesso nel passato ha giudicato in maniera spietata gli altri, ora l’ammissione delle sue miserie che la rende più umana, più vera e più credibile.

Io partecipo fino in fondo al disagio, al dolore, alla richiesta di perdono da parte del Papa e di ogni cristiano, ed assieme a loro chiedo scusa ai fratelli e al mondo intero per questo scandalo che sporca il volto di Cristo. Però mi viene da dire: “Felice colpa! Che ci fa prendere coscienza della nostra povertà, ci rende tutti più umili e più comprensivi verso le miserie degli altri e più fiduciosi nella misericordia di Dio”.

Una volta ancora mi pongo un annoso problema che mi pare non ancora sufficientemente affrontato, almeno nella Chiesa cattolica: cioè non esiste solamente il sesto comandamento, ma ce ne sono dieci! Credo che nella confessione e nel pentimento dovremmo aggiungere pure altri peccati ecclesiastici che riguardano i preti in carriera, quelli con poco zelo, quelli che si pavoneggiano con vesti e con titoli, quelli che non si impegnano con i poveri, quelli che non si aprono al dialogo, quelli che non sono impegnati nella ricerca della verità, quelli che si accontentano di essere degli stipendiati dall’Ente Chiesa piuttosto che tendere ad essere testimoni e profeti di Cristo in questo nostro mondo.

Confesso che io temo che spesso non si prendano sempre in considerazione peccati diversi e non meno gravi di quelli della carne.

La sinistra di Dio che dona speranza

Temo, anzi sono certo, che talvolta mi ripeto. Non dovrei neppure essere tanto preoccupato perché quello della ripetitività è un difetto comune a tutti gli anziani. Il guaio è poi che non mi ricordo neppure se una certa esperienza l’ho già detta o no, motivo per cui mi riesce pressoché impossibile accorgermi quando mi capita questo inconveniente senile.

Ho però qualche motivo per rasserenarmi. Infatti per tanti anni sono vissuto accanto a monsignor Aldo Da Villa, che fu mio parroco a San Lorenzo. Un magnifico prete!

Monsignore, in giovinezza, aveva fatto il cappellano militare in Libia; per lui quella fu un’esperienza forte, tanto che spesso ci raccontava episodi della sua guerra. Io l’ascoltavo sempre volentieri perché era un ottimo narratore, ma don Giancarlo, mio collega più giovane e più garibaldino, spesso alzando la mano, faceva cenno con le dita, due, tre, quattro: tante erano le volte che aveva sentito la stessa storia.

Ebbene io mi lascio andare ad una mia esperienza con relativa applicazione, sperando che nessuno alzi la mano.

Ho visto un film, tanti anni fa, una pellicola un po’ scontata e a tema: un pilota americano, colpito, è costretto a gettarsi col paracadute in territorio nemico (mi pare un Paese asiatico). Per sfuggire alla cattura non trova di meglio che indossare la tonaca da prete e presentarsi ad una piccola comunità che era priva di sacerdote. Il pilota fa così bene la parte del prete che l’intero villaggio rifiorisce a vita religiosa. La dottrina del film voleva dimostrare che Dio adopera bene anche la “mano sinistra”, cioè salva anche non usando le forme consuete e non consacrate.

Oggi ho quasi l’impressione che il buon Dio usi soprattutto la sinistra, piuttosto che la mano destra. A darmi questa sensazione sono stati molti scandali e manchevolezze commesse dalla “mano destra”, mentre fortunatamente ci sono cose belle fatte da uomini e strumenti “non addetti” formalmente a questo compito.

Ultimamente ho letto su “Nostro tempo” una bellissima testimonianza di una giornalista milanese del mondo cattolico, Mariapia Bonanate, che ha trovato la forza di assistere il marito colpito da una gravissima malattia, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore, meditando “Il diario” di Etty Hillesun, ebrea olandese, morta in un Lager nazista.

Questa creatura, dai costumi inizialmente abbastanza disinvolti, ritorna a Dio scegliendo di condividere il dramma della sua gente e, pur nella desolazione e nella bufera più nera del lager nazista, trova fiducia e coraggio ammirando un gelsomino che fa spandere i suoi fiori bianchi e profumati nonostante il mondo le stia cadendo addosso.

Talvolta la sinistra di Dio è così dolce e rasserenante per cui posso attendere il Signore su ogni strada e dalle persone che meno immaginavo potessero offrire l’amore del Padre.

La pastorale del mondo dell’arte

Stavo cercando l’indirizzo di un mio confratello che la curia ha incaricato di occuparsi dei beni di valore artistico della Chiesa veneziana, sperando che sia pure delegato ad occuparsi della pastorale del mondo dell’arte.

Io sono appassionato di tutto quello che esprime armonia e bellezza, convinto più che mai che la “bellezza” sia una strada che porta a Dio. Nella mia vita ho cercato con tutte le mie risorse di portare nella mia comunità questo “raggio di Dio” così dolce e suadente.
La galleria “La Cella”, con le sue 400 mostre, la biennale di arte sacra e lo sterminato numero di quadri con i quali ho ornato le pareti delle strutture della comunità, sono una testimonianza di questa mia convinzione.

Ora sto continuando questo servizio pastorale con l’apertura della galleria “San Valentino”, presso il Centro don Vecchi di Marghera, ma sto incontrando notevoli difficoltà.

Consultando il Prontuario della diocesi per la ricerca dell’indirizzo dell’architetto don Caputo, mi sono lasciato prendere dal desiderio di scoprire il meccanismo estremamente complesso della nostra diocesi: nomi, strutture, commissioni, incarichi, deleghe, organismi… Ogni volta che consulto questo volume che la curia cura con estrema pignoleria e stampa puntualmente ogni anno, da un lato mi sento orgoglioso di appartenere ad una Chiesa che abbraccia ogni ambito, pensa e provvede ad ogni aspetto della vita di tutti i suoi membri, dispone di un numero straordinario di collaboratori specialisti in ogni settore – tanto che non potrei desiderare qualcosa di meglio – dall’altro lato resto pensoso sulle ricadute reali di aiuto che questa organizzazione offre ai combattenti della prima linea.

Il settore della cura pastorale di quello splendido mondo degli artisti e della loro produzione, forse non sarà il punto focale della pastorale diocesana, ma neppure può essere abbandonato a se stesso perché non cresca incolto come l’orto di Renzo Tramaglino di venerata memoria.

Constatando come a Mestre e nell’interland, con una popolazione di duecentomila anime non vedo quasi nulla in proposito, spero che la mia richiesta di aiuto trovi una risposta finalmente esauriente.

Pensieri per uno dei “miei ragazzi” di un tempo

Ho ripetuto che i “miei ragazzi” e i fedeli di cui mi sono occupato, li “scopro” ogni giorno su tutte le sponde della vita, con risultati diversi e valori persino opposti. Talvolta gioisco perché mi pare che il risultato dei miei sforzi sia stato veramente positivo, talaltra invece mi amareggio constatando che, almeno da un punto di vista superficiale, posso osservare solamente frutti stantii e striminziti, foglie o, peggio ancora, alberi scheletrici apparentemente senza vita, ed infine rovi.

Ricordo che qualche mese fa ho incontrato una signora di mezza età che mi ha salutato con calore e familiarità e quando s’accorse che io cercavo con un certo affanno, di ricordarmi dove l’avevo incontrata, mi disse pronta: «Non si ricorda, don Armando, che è stato lei a sposarmi?». Non ricordavo affatto, perché altro è incontrare una ragazza nel fiore degli anni, ebbra del suo amore, altro è incontrare per caso in strada una donna di mezza età un po’ sfiorita!

Soggiunsi, riferendomi alle sue nozze: «Com’è andata?». «Bene, mi rispose, sono felicemente divorziata!». Rimasi di stucco! pensando alle parole cariche di letizia, di promesse e di speranze che di certo le avevo rivolto il giorno delle sue nozze. Non tutte le ciambelle mi sono riuscite col buco, anzi!

In questi ultimi mesi sto tribolando, angustiandomi e pregando per uno dei “miei ragazzi” finito in carcere. Al pensiero di saperlo dietro le sbarre, lontano da casa, disonorato dai giornali, il mio cuore piange veramente. Mi pare impossibile, eppure è avvenuto.

In questi ultimi tempi ho letto una storia che mi ha fatto pensare: un galeotto, condannato a morte per un grave delitto, in carcere si converte, tanto che la Chiesa lo sta portando sugli altari.

Spero che comunque la triste ed amara esperienza aiuti il mio ragazzo a ripensare alla sua vita, a ciò che conta, che gli faccia comprendere che la serenità non viene dal successo, dal denaro e dall’affermarsi comunque, ma da quei valori che il suo vecchio prete senza carriera, ha tentato di passargli nel tempo della sua adolescenza.

Ora però soffro, prego e spero per lui e per i suoi cari. Che Dio mi ascolti!