Il cortile dei gentili

Spesso mi sento un po’ mortificato quando incontro qualcuno che ha una bella intelligenza ed una cultura solida, e fa dei ragionamenti che fatico a comprendere fino in fondo.

Mi sono detto più volte, nel passato, che volevo accettare lucidamente e serenamente, la mia condizione di semplice “manovale”, per quanto riguarda la vera teologia, non quella “in commercio”, fatta ad uso e consumo di chi s’accontenta di tutto. Questa scelta, fatta più per necessità che per libera determinazione, vale pure per altri campi per me pressoché sconosciuti, come la filosofia, l’economia, il settore scientifico e perfino la politica.

Quando però incontro qualcuno che esplicita con lucidità, competenza e logica rigorosa qualche verità che avevo confusamente intuito e che però era rimasta nella nebbia dei miei limiti, allora provo un senso di sollievo perché avverto struggente il bisogno di conoscere, di far chiarezza, soprattutto sulle tematiche inerenti la fede e la religione, perché non vorrei mai spendermi per qualcosa che non è vero e non mi appaga totalmente. In questi casi fatico e mi arrampico per capire, ma talvolta rimango a mezza strada intuendo che, pur desiderando la verità, essa mi sfugge e non riesco ad approdarvi completamente.

Qualche tempo fa s’è rinnovato questo mio stato d’animo seguendo alla televisione una lezione del cardinal Ravasi, che è un po’ il “ministro della cultura” nell’organico del Vaticano. Questo sacerdote milanese è un uomo di una vasta e profonda cultura biblica e teologica ed ha per me il grandissimo pregio di coniugare il suo sapere con la cultura laica più aggiornata.

Nella trasmissione si illustrava la sua iniziativa religioso-culturale, denominata “Il cortile dei gentili”, denominazione derivata dalla storia di Israele che ci ricorda che nel cortile del tempio di Gerusalemme c’era la possibilità che vi potessero stare anche i “gentili”, ossia i non credenti nel Dio di Abramo.

Ravasi immagina e dà vita a questo luogo ideale nel quale il pensiero cristiano si può confrontare e dialogare anche col pensiero dei non – almeno formalmente – credenti.

Mi pare di aver capito, ascoltando gli interventi dei relatori di primo piano, di culture diverse, che la distinzione tra il pensiero cristiano e quello delle altre culture, tra credente e non credente è assolutamente labile. Mi è parso di cogliere non solamente la bellezza della gente che cerca la verità senza pregiudizi e preconcetti, nel comune desiderio di scoprire la “verità assoluta”, ma soprattutto mi pare di aver intuito che nel punto più avanzato del pensiero umano, ci sono delle convergenze estremamente rilevanti.

Per me tutto questo è semplicemente meraviglioso perché mi fa felice che il volto dell’Assoluto risulti affascinante per tutti gli uomini, soprattutto per quelli del nostro tempo.

La Chiesa e l’apparato

Ho l’impressione che la stampa laica sia perfino troppo buona nel commentare ciò che sta avvenendo in Vaticano con la fuga delle notizie riservate e la cacciata del responsabile della banca relativa. Hanno un bel da fare padre Lombardi e il cardinal Bertone nel tentare di coprire con abbondanti foglie di fico le vergogne di questo staterello sopravvissuto alle logiche della storia e mantenuto in vita quasi a solo scopo folkloristico.

Mio fratello don Roberto, con parole veramente intelligenti e cristiane, ha scritto che la sua fede non rimane neppure scalfita da questi scandali, perché la Chiesa che ama e che vuol servire è tutt’altra cosa dal cartoccio storico che la avvolge a Roma. Anche per me è la stessa cosa. Voglio aggiungere che oggi l’amo ancor più di prima, quando credevo che tutto fosse bello, pulito e santo.

Detto questo però, per onestà, credo di dover aggiungere che anch’io sono tra quelli che desiderano portare una corona di alloro a porta Pia in ricordo e ad onore dei bersaglieri dei quali lo Spirito Santo si è servito per abbattere uno Stato antistorico e antievangelico che è sopravvissuto per troppo tempo.

Credo che farei più fatica a sognare la mia Chiesa umile, bella e libera dagli intrighi della politica e della finanza, se quelle mura non fossero cadute. Penso inoltre – e credo che questo pensiero e questo sogno non siano una colpa, ma un merito – che se qualcuno si desse da fare per smantellare quello che è rimasto di quello Stato, non della Chiesa, ma dell’apparato che crede di esserne l’ostensorio, gli si dovrebbe offrire una seconda corona.

Per me rappresentano nella memoria più autentica la comunità di Gesù i santi, i martiri, i profeti; non le porpore, i nunzi apostolici, lo IOR ed anche la scenografia, spesso troppo ampollosa, che pretende di essere la cornice dorata per offrire alle genti del nostro tempo il volto santo di Gesù.

Io ho speso la vita per la mia Chiesa, sono felice e lo rifarei, perché l’amo e voglio servirla con fedeltà ed amore, ma sono convinto che essa si farà più facilmente comprendere ed amare “vestita in grembiule”, piuttosto che con le vesti regali che erano proprie dei tempi passati definitivamente.

Il cammino di semplificazione e purificazione è in atto da tempo, ricordo ai tempi della mia giovinezza: le guardie nobili, i flabelli, il corpo militare pontificio, il triregno, la portantina. E credo che stia andando avanti in questa “liberazione” anche attraverso l’aiuto del “corvo” attuale, e così, a pari passo, come sono più belle e più evangeliche le persone degli ultimi papi, così diventerà più bello ed accettabile il loro “regno” che non è di questo mondo!

Il mio rifiuto della guerra e degli eserciti è sempre più forte!

Sono perfettamente consapevole che quanto sto sognando in questo momento della mia vita non si realizzerà mai, tuttavia sento impellente e profondo il dovere morale di battermi per questa causa. Mi è di conforto la lettura della parabola del “granello di senape” che la Chiesa ha offerto alla meditazione delle comunità cristiane qualche settimana fa.

Più volte ho confidato ai miei amici che provo malinconia al vedere tanti uomini in armi con tante medaglie e nastrini sulla giacca, quasi fossero tutti degli eroi verso i quali la società dovrebbe inchinarsi ed essere grata.

Mi indigna il fatto che lo Stato continui a spendere somme enormi per pagare tanti soldati che non fanno letteralmente nulla e che se fossero utilizzati per lo scopo per cui sono stati assunti e pagati provocherebbero solamente morte e rovina. Mi parrebbe la cosa più giusta e più saggia vendere come ferrovecchio tutto l’armamentario di morte dell’esercito ed impiegare gli uomini e il denaro risparmiati per cause più nobili e più civili.

In questi giorni poi ho visto delle immagini e letto dei fatti che hanno esasperato ulteriormente il mio rifiuto delle armi e della forza militare come strumento per risolvere i problemi che insorgono tra i diversi paesi; la forza non è mai una ragione da mettere sul tavolo, ma solamente un segno di prepotenza e di nessuna fiducia nella ragione.

Ho visto i prigionieri iracheni nudi in carcere, tenuti al guinzaglio come cani e torturati brutalmente dai soldati americani; ho visto pure prigionieri afgani sotto il sole cocente, sbeffeggiati, trattati peggio delle bestie. Ho letto di un seminarista tedesco, il cui comandante, con la pistola puntata, gli intimava di abbattere due “nemici”. Ho visto soldati tedeschi e russi costringere “il nemico” a scavare la fossa e poi collocarli sull’orlo perché vi cadessero dentro una volta colpiti a morte dai loro fucili.

Ho visto ancora tremila soldati italiani, nell’isola di Cefalonia, fatti fuori dai tedeschi con le mitragliatrici perché “traditori”.

Ho il cuore pieno di queste immagini e voglio che rimanga così perché il mio rifiuto alla guerra, ai soldati, rimanga sempre più forte.

Un tempo vedevo le guardie svizzere con simpatia e curiosità, da un punto di vista estetico, per le loro armature e le loro divise, oggi rifiuto persino queste!

So che il mio rifiuto appare ed è ancora più piccolo del “granello di senape”, ma voglio sperare che un giorno esso diventi l’albero in cui possono nidificare gli uccelli liberi e felici che danzano da mane a sera nel cielo di Dio.

Guareschi e la gente dell’Emilia

Mi è capitato recentemente di leggere su “Avvenire” un’intervista al figlio di Giovanni Guareschi. Io so poco della famiglia di questo grande narratore del nostro tempo, che nei suoi racconti ha dato volto all’Italia dell’immediato dopoguerra con uno stile e delle immagini quanto mai vive e convincenti. Non conosco neppure troppo le vicende personali dello scrittore romagnolo; so che trascorse parte della sua giovinezza in un Lager della Germania e che, ritornato in patria, diede vita ad un periodico, trascorse perfino del tempo in prigione per un presunto falso documento riguardante la condotta di De Gasperi.

Conosco invece bene la produzione letteraria di questo scrittore piacevolissimo, sornione e capace di dar volto alla mentalità, alle debolezze e alla ricchezza umana della nostra gente.

I racconti di Guareschi sono quanto mai conosciuti ed apprezzati da chi ha vissuto quel particolare periodo storico, anche perché ebbero la fortuna di essere portati sullo schermo da quei due impareggiabili attori, Gino Cervi e Fernandel, Peppone e don Camillo. Sono convinto che Guareschi non tramonterà con il passare della stagione di chi è vissuto in quell’epoca, ma che avrà qualcosa da dire anche per il futuro.

Ho letto la bibliografia su questo uomo di lettere, scoprendo che è quanto mai vasta. Io poi credo che anche da un punto di vista morale e religioso egli sia stato capace di passare mediante la sua prosa, valori autentici. A questo proposito m’è capitato di leggere persino un volume in cui un autore, di cui non ricordo il nome, ha scritto, estrapolando pensieri e battute tratte dalle sue opere: “Il catechismo di Guareschi è un catechismo particolare, però non privo di saggezza, di religiosità e soprattutto di capacità di passare valori attraverso il suo linguaggio carico di colore e di umanità”.

Tornando all’intervista ad Alberto Guareschi, “l’Albertino”, figlio dell’omonimo scrittore, persona non priva di talento, ha inquadrato il dramma dell’Emilia e della Romagna, colpite dal terremoto, ricordando la grande alluvione che sommerse il paese di Brescello, patria di don Camillo e di Peppone, narrata da suo padre.

Da questa intervista emerge la grande carica di umanità di questa popolazione, la sua volontà di risorgere comunque, la sua fede atavica, nonostante le rivoluzioni di pensiero, l’abitudine mentale alla concretezza e al lavoro. Verità che ho potuto riscontrare nelle dichiarazioni dei terremotati che i giornali-radio frequentemente ci hanno riferito in questi giorni amari.

“Vogliamo vedere Gesù!”

Ogni anno, quando celebro la festa del “Corpus Domini”, la prima sensazione che provo è quella dolce, da ricordi della mia infanzia. Quando di primo mattino, il parroco con l’ostensorio usciva sotto il baldacchino portato da quattro cappati in tonaca rossa. Apriva la processione per le vie del paese la Croce, poi gli uomini, la banda, quindi i bambini con gran ceste piene di petali di fiori che spargevano abbondantemente dove doveva “passare Gesù”. Ultime le donne.

Ricordo ancora le prediche appassionate del mio vecchio parroco che “indicava” a Gesù dove doveva guardare, chi doveva aiutare e chi doveva raddrizzare!

Ora non so se avvenga ancora così, comunque a questi dolci ricordi si sovrappongono oggi nel mio animo pensieri ben più consistenti e vitali. Quest’anno, per il “Corpus Domini”, ho cominciato con l’invitare i miei fedeli a riscoprire il volto di Gesù, lasciando i ritratti al loro posto per decorare le pareti delle case e della chiesa, invitando invece a scoprire, come gli apostoli sul monte Tabor, l’affascinante figura del nostro Maestro e Salvatore, sottolineando più che mai, sulla frase di Pietro: “Da chi andremmo, Signore, se soltanto tu hai parole di vita eterna!”.

In un mondo in cui abbiamo scoperto che le personalità dei capi sono squallide, interessate ed avide di potere e di denaro, la figura di Cristo emerge come qualcosa di splendido e di insostituibile, unico punto fermo a cui affidare la nostra vita.

Poi ho tentato di condurre per mano la mia gente perché sia conscia che ogni giorno Gesù si ripropone nella figura dell’uomo in difficoltà e nel bisogno: avevo fame, ero ignudo, ero ammalato, ero in carcere.

Gesù oggi lo posso e lo devo incontrare vivo, soprattutto nella quotidianità; l’Eucaristia del tabernacolo è quasi solamente occasione per sentirmi ripetere da Cristo ove lo posso incontrare, servire ed amare realmente.

Infine ho ripreso il discorso dei greci razionalisti che chiedono a Filippo, l’apostolo: «Vogliamo vedere Gesù!». La gente del nostro tempo, infettata dall’illuminismo e dal positivismo, è satura di parole e non sa che farsene delle prediche, ma vuole vedere con i propri occhi la persona del nostro Maestro e Salvatore.

Allora raccontai come Madre Teresa di Calcutta andò a Bologna in un grande teatro a ricevere un premio. Presentava Romina Power, la quale chiese a questa vecchia suora in sahri, curva e dal volto grinzoso, che faticosamente aveva salito la scaletta del palco: «Ci dica qualcosa!». Madre Teresa disse poche frasi in inglese, con concetti quanto mai noti a tutti. Quando però tacque, la gente si alzò in piedi e continuò ad applaudire per dieci minuti, perché i presenti avevano visto in lei Gesù.

Terminai dicendo che di “pensieri religiosi” il mondo è saturo, ma invece esso è ancora desideroso di “vedere” in noi il volto e la persona di Gesù!
Noi oggi siamo, volenti o nolenti, “il corpo di Cristo”!

La resa dei cattolici

Un tempo avevo una collaboratrice che comperava “Il Gazzettino” quasi esclusivamente per leggere gli avvisi mortuari; era curiosa di sapere chi se ne andava dalla nostra città.

A quel tempo mi sembrava una scelta o, peggio ancora, una mania un po’ macabra. Poi mi accorsi che anch’io, tristemente, in qualche modo la sto imitando, quando in certi tempi dell’anno leggo con morbosità e amarezza che le suore se ne vanno dalle scuole materne, o i religiosi chiudono certe attività per mancanza di vocazioni.

Spesso ho la sensazione che “il mio piccolo mondo antico” in cui sono nato, cresciuto e in cui ho sognato, si stia sfaldando e che ogni tanto perda qualche pezzo. Certe notizie negative però sono più consistenti, tanto da mettermi in affanno e farmi provare un senso di desolazione e di sconfitta.

Poche settimane fa ho letto sui giornali un pezzo che forse a pochi sarà parso significativo e triste e invece per me è stato come aver sentito le campane a morto, perché s’annunciavano che i vescovi del Triveneto hanno deciso di non finanziare più “Telechiara”, l’emittente televisiva cattolica del Nordest che da trent’anni parla delle vicende della diocesi e delle comunità cristiane del Triveneto.

Io ho assistito, una trentina di anni fa, alla nascita di questa creatura così promettente. In quel tempo c’era un fermento tra i cattolici ed un forte desiderio e volontà di aver voce presso l’opinione pubblica. Fu il tempo in cui spuntarono dal niente decine di radio di matrice ecclesiale. Io ebbi la fortuna di partecipare a quella stagione felice e promettente in cui, da pionieri, abbiamo dato vita alle “radio private”. Infatti con “Radio Carpini” ho partecipato alla tentata conquista dell’etere da parte dei cattolici. In verità non fu un’impresa di popolo, ma solamente di alcuni volonterosi; preti, vescovi e le parrocchie se ne sono stati alla finestra a guardare passivamente.

Pian piano queste voci si spensero abbandonando e lasciando il campo libero a certe emittenti banali, prive di proposte e ricche di volgarità. La “morte” di Radiocarpini la piango ancora amaramente. Ora pare che sia giunta alla fine anche Telechiara, l’emittente televisiva.

Questo annuncio funebre mi addolora quanto mai, perché la sento come una grave sconfitta: un’altra volta ancora i cattolici si rifugiano all’ombra del campanile che, prima o poi, finirà anche lui per non suonare più le campane.

I cattolici si stanno ritirando sempre più in sagrestia, pare che rinuncino a confrontarsi con chi crea opinione pubblica, con chi impone la sua tesi.

Ho letto su “Gente Veneta” un pezzo di mio nipote don Sandro, vicedirettore del periodico diocesano, da cui mi pare di capire che anche il nostro settimanale “Gente Veneta” è ormai sulle “linee del Piave”. Temo che anche in questo settore non tiri più aria di conquista ma di resa e ciò mi addolora quanto mai.

La coerenza di Madre Teresa

Ho già scritto di aver terminato di leggere un volume pubblicato da “Famiglia Cristiana” che contiene soprattutto il pensiero di Madre Teresa di Calcutta, testimone e profeta del nostro tempo. Spero però di scoprire, prima o poi, un testo che mi offra una biografia più attenta ed intelligente che incornici e presenti meglio questa singolare testimonianza di Madre Teresa.

Già nel passato mi è capitato di leggere, da adolescente, l’autobiografia di Santa Teresa di Lisieux, la giovane carmelitana che ha offerto ai cristiani del nostro tempo la splendida testimonianza di una santità autentica, realizzata attraverso una scrupolosa attenzione nel far bene le piccole cose che sono il tessuto della quotidianità. Allora non mi piacque un granché, perché lei mi era parsa una creatura sentimentaloide, con una personalità un po’ dolciastra. Fortunatamente, molti anni dopo, m’è capitato di leggere un’opera dello scrittore olandese Van Der Meersch, che ha inquadrato in maniera limpida ed intelligente l’umanità di questa giovane carmelitana coraggiosa e dal cuore grande, che s’è fatta santa mediante la “piccola via”, ossia col dare pienezza agli aspetti minuti del quotidiano.

Tornando a Madre Teresa, nonostante le carenze del testo letto, ho però scoperto che lei non era una vecchia suora tutta delicatezza ed amore: ebbe infatti un carattere forte e deciso, abbandonò la sua congregazione che le parve tarpasse le ali alle suore – scelta estremamente impegnativa -. Un giorno, quando un giovane prete, con una conferenza, propone tesi che lei ritenne pericolose per la sua comunità, lo licenziò decisamente e poi, per più di un’ora, smontò le teorie che lui aveva offerto.

Madre Teresa, innamorata di Cristo in maniera appassionata, visse poi dei tempi oscuri in cui strinse i denti senza sentire che Dio le era accanto, ricevette visite, offerte e riconoscimenti da parte di personalità, che a questo mondo contano, senza però lasciarsi vincere da soggezione ed orgoglio, continuando a portare avanti la causa degli ultimi e di Cristo.

Ho capito che questa donna rimase se stessa in ogni situazione, perseguì in maniera estremamente determinata ciò che la coscienza le dettava, mai si adattò ai modelli che la cultura, la tradizione e perfino la Chiesa di allora portava avanti come validi. Fu fedele alla sua missione fino alla fine, riuscendo a dire al mondo che anche la creatura più umile è degna di rispetto e di affetto.

Come nel nostro tempo ci sono state purtroppo delle personalità forti che seminarono violenza e distruzione, altrettanto ella visse in positivo questa forza. Il mondo intero si inchinò di fronte alla sua proposta ed intuì quanto fosse valida.

Ho concluso che ogni persona deve rimanere se stessa fino in fondo, perché uno dei mali più gravi è quello di accettare di farsi modellare sugli stampi proposti dell’opinione pubblica e dai “poteri forti” che non sono solamente quelli dell’economia.

La santità personale

In tutta la mia vita di prete mi sono sempre impegnato a fondo per studiare strategie per passare il messaggio di Cristo alla gente del nostro tempo. Credo di aver speso il meglio della mia intelligenza e del mio cuore, del mio tempo e delle mie risorse economiche per vedere come usare gli attuali strumenti di comunicazione sociale perché “la buona semente” raggiungesse tutti e perché il messaggio arrivasse in modo particolare a quella porzione di umanità che la Chiesa ha affidato alla mia cura pastorale.

Devo ammettere che, con l’aiuto di una schiera veramente numerosa di collaboratori, questi strumenti, almeno da un punto di vista esteriore, sembravano vincenti. Da un lato ho adoperato in maniera massiccia gli strumenti di comunicazione di massa, dando vita ad una emittente squisitamente religiosa con duecento volontari e con una rete di ripetitori che coprivano l’intera diocesi, non solamente, ma arrivava a tutta la fascia compresa dall’alta trevigiana fino a quasi Ravenna.

Ho pure usato, con estrema larghezza, il messaggio a mezzo scrittura, dal settimanale “Lettera aperta” ai mensili “Carpinetum” e “L’anziano”, i periodici che hanno raggiunto una tiratura quanto mai consistente.

L’altro strumento che ho ritenuto efficace è stato quello della solidarietà, ponendo in atto dalla “Bottega solidale” al “Ritrovo” per gli anziani, dalla villa asolana per le vacanze dei vecchi a tutte le strutture per offrire residenza, vedi il “don Vecchi”. Credo che queste scelte mi abbiano guadagnato la simpatia dell’opinione pubblica, soprattutto dei cosiddetti “lontani”.

Temo invece che mi abbiano alienato la simpatia di tutti coloro che avrebbero desiderato un prete a loro uso esclusivo, cioè i cosiddetti “vicini”. Comunque, dall’alto dei miei ottant’anni, non sono scontento delle mie scelte. Le rifarei, se ne avessi l’opportunità.

Invece temo di non aver curato sufficientemente quella che nell’uso corrente della Chiesa si definisce “la santità personale”, alla quale in verità non ci terrei troppo neanche ora, se viene interpretata come un comportamento devozionale o mortificazione di quei doni specifici che il buon Dio dona a ciascuno. Temo ancora di non aver curato tutti gli aspetti minori di quel sano umanesimo cristiano, testimoniati da Gesù nel Vangelo.

Ormai non ho quasi più il tempo per farlo, però mi riprometto, almeno, di terminare in bellezza, impegnando più tempo e tensione interiore per vivere una vita di fede più intensa ed esemplare.

Sono contro tutti i fannulloni!

Qualche persona mi ha chiesto come mai ce l’ho tanto con i preti, miei colleghi. Non credo proprio che le cose stiano così. Ho un’ammirazione sconfinata, che rasenta l”adorazione” verso certi preti, miei colleghi, impegnati, coerenti, che non si risparmiano, che sono in costante ricerca di soluzioni pastorali sempre più adeguate ai tempi nuovi, che amano la loro gente e soccorrono i loro poveri, che tengono bene le loro chiese, che si preparano le omelie, che curano i loro bambini e i loro giovani e si fanno in quattro per il bene della loro comunità.

Sentirei un forte desiderio di scrivere i loro nomi, ad uno ad uno, con accanto le motivazioni che mi spingono a questa stima.

Il clero della nostra città, tutto sommato, è un bel clero, ogni prete ha doti particolari, risorse specifiche, talvolta anche con risultati diversi perché ogni comunità può aver avuto, precedentemente, pastori più o meno validi, perché l’estrazione sociale è diversa, per la collocazione della chiesa, per la tradizione di ogni singola comunità. Comunque, quando scorgo un prete coerente e che lavora, mi tolgo tanto di cappello e provo rispetto, reverenza e stima nei suoi riguardi e mi dispiace che poco si apprezzino i risultati positivi.

Però quando vedo chiese chiuse la gran parte del giorno, canoniche con porte sbarrate, patronati deserti, chiese in disordine; quando apprendo che il parroco riceve si e no un paio d’ore alla settimana, quando nessuno risponde al telefono, quando le messe sono ridotte al minimo e le visite alle famiglie quasi nulle, quando il lavoro da prete si rifà a criteri sindacali, quando ogni motivo è valido per uscire dalla parrocchia, quando si accampa diritto di ferie o si afferma che non ci sono poveri nella parrocchia, allora provo la stessa tentazione di denuncia.

Qualche giorno fa ho letto su un “bollettino parrocchiale” che nei mesi di giugno, luglio e agosto, in una parrocchia con un numero di anime pressappoco uguale a quello che avevo io nella mia, si celebrerà una sola messa; allora scatta in me un sentimento di rifiuto.

Ritengo giusto che i cristiani sappiano quello che debbono pretendere dai loro preti. Oggi tutte le istituzioni, dalla politica alla scuola, dal sindacato alla pubblica amministrazione, sono messe sotto accusa e c’è una richiesta forte di bonifica dei fannulloni e dei furbi. Perché tutto questo non dovrebbe essere opportuno anche per il mondo ecclesiastico?

Sono convinto che una certa denuncia che nasce dall’amore verso la propria Chiesa, non sia una cattiveria, ma un sacrosanto dovere!

Una vecchia mania

Ormai da quasi una decina di anni vive con me al “don Vecchi” mia sorella Rachele nata, tra i sette figli dei nostri genitori, immediatamente dopo di me e quindi mi segue come età ad un paio di lunghezze.

Mio cognato Amedeo, compagno dei giochi d’infanzia, era un capomastro di impareggiabile bravura; sennonché, una ventina di anni fa, un ictus prima lo portò sull’orlo della fossa e poi, fortunatamente, si salvò, ma rimase fortemente condizionato.

Mia sorella e mio cognato, una volta sposati i quattro figli, erano rimasti terribilmente soli, tanto che a tutti in famiglia sembrò che al “don Vecchi” avrebbero trovato un alloggio alla portata della modestissima pensione e soprattutto “un borgo” in cui sarebbe stato facile intessere nuovi rapporti umani. E così fu. Amedeo visse tempi veramente sereni, concludendo un paio di anni fa la sua vita, circondato dall’affetto e dalla stima della nostra comunità.

Mia sorella invece, che ha ereditato dal babbo una facilità di intessere amicizie, ha un dialogo facile e piacevole con tutti ed una capacità di collaborare senza farsi condizionare dagli anni e dagli acciacchi. Ogni tanto mi capita di sorprenderla a raccontare fatti della nostra famiglia, episodi della nostra infanzia, incuriosendo le sue amiche con episodi che io, piuttosto riservato, ho sempre tenuto per me, non perché mi vergogni del mio passato più che modesto, ma perché sono piuttosto introverso e solitario: l’opposto di lei.

Credo che talvolta però aggiunga ai racconti qualcosa di suo, comunque queste evocazioni mi portano a galla sentimenti, abitudini e manie proprie della mia infanzia e spesso mi fanno comprendere che la personalità di quel bambino dai pantaloncini corti è rimasta viva tuttora, nonostante che una valanga di anni l’abbia ormai coperta.

Qualche giorno fa l’ho sentita raccontare, con una certa enfasi, e con la mimica di un’attrice provetta, la mia mania dell’ordine. Abitavamo in una casetta di campagna: da un lato c’era un fornello per la polenta, dall’altro il pollaio che mio padre sorvegliava col suo schioppo calibro 16, il giardinetto e il cortile. La mamma affidava a me, che ero il più grande, il compito di scoparlo ogni pomeriggio. Mi aiutavano qualche volta anche le mie sorelle. Io però ero incontentabile e maniaco: non solo pretendevo che fosse perfettamente pulito, ma esigevo che il cortile risultasse quasi un’opera d’arte, che le scopate fossero ordinate ed armoniose.

Son passati settant’anni, ma i Centri don Vecchi hanno la stessa impronta: non una pianta, una foglia, un quadro, una sedia, possono rimanere fuori dal loro posto!

Da grande, negli scritti di ascetica e di morale, ho imparato la giustificazione: “Conserva l’ordine e l’ordine ti salverà”. Mi pare che i residenti al “don Vecchi” “bongré o malgré” hanno imparato la lezione ed osservino anche loro le mie vecchie manie!

Quanto avrei potuto fare di più!

Sono sempre stato convinto che i sogni non sono per nulla premonitori del futuro prossimo o lontano, ma invece consistono in una rielaborazione particolare, fuori dalla logica razionale, di ciò che ci è successo o di quello che andiamo pensando.

Non mi preoccupa perciò per niente, né mi fa sperare in qualcosa di positivo non previsto, quello che sogno durante la notte, semmai il sogno mi invita ad approfondire le sensazioni, gli eventi o i pensieri che hanno determinato quel sogno.

Il racconto agli altri dei propri sogni, soffermandosi su particolari o passaggi strani, spesso annoia solamente. Perciò mi guardo bene dal raccontare i miei sogni agli amici per non tediarli; già sono fin troppi i motivi che ci costringono a guardare ciò che avviene nella realtà.

Nonostante questa consapevolezza, oggi mi lascio andare, una volta tanto, ad una confidenza rivolta agli amici più cari raccontando, in maniera estremamente concisa, un sogno che mi ha turbato a tal punto da destarmi dal sonno con un sentimento quasi angoscioso, costringendomi a ripensare al sogno come occasione di approfondimento interiore. Ho sognato, nitidamente e con gioia, mamma e papà con volti sereni e composti, ma che subito mi han detto che erano morti.

Non so per che strana logica ho concluso che anch’io sono prossimo alla morte. La mia riflessione però non l’ho colta come una delle conclusioni scontate che passano come l’acqua sopra i sassi del torrente senza lasciare traccia, ma ha suscitato nel mio animo un qualcosa che mi ha estremamente coinvolto e turbato, tanto che credo che mai ho affrontato questo evento in maniera così emotivamente intensa.

Il giorno successivo non ho fatto altro che inquadrare la mia esistenza come un’esperienza ed una storia ormai quasi conclusa e mi sono quasi costretto a dare un giudizio complessivo a Dio della mia vita per il giudizio finale.

Essa mi è parsa una gran bella avventura, piena di incontri, di possibilità, ricca di esperienze. Forse non potevo aspettarmi qualcosa di meglio. Mi sono sentito un privilegiato di fronte a tante vite incolori, monotone; però, Dio mio, ho capito di quanto avrebbe potuto essere più intensa, più generosa e più coraggiosa. E quante miserie avrei potuto evitare.

Uno dei miei ragazzi, giornalista al Corriere della Sera, mi ha proposto un giorno di scrivere la mia biografia. Ho rifiutato nella maniera più decisa: preferisco mettere nel cuore misericordioso del Signore la mia esistenza perché, facendo il bilancio globale, mi pare di osservare un immenso deficit tra quello che avrei potuto esprimere e quello che ho effettivamente realizzato delle mie potenzialità.
Il confronto tra possibilità e risultato reale è qualcosa di preoccupante.

La Messa è un’occasione per lasciarci trasformare dallo Spirito Santo

Per molto tempo ho condiviso, con gioia interiore, la formula nata dal Concilio Vaticano Secondo, che ha definito la Santa messa “il memoriale della passione, morte e resurrezione di Gesù”. Nel catechismo di san Pio X che mi fu insegnato si diceva che la messa è “la rinnovazione incruenta del sacrificio della croce”.

Sono convinto che la formulazione del Concilio sia più valida, perché passa il concetto che con l’Eucaristia si fa la precisa memoria di un evento lontano nel tempo e che è reso attuale dal rito sacro. Forse si tratta di una sottigliezza, però mi pare che questa precisazione rende più vivo e attuale ciò che è avvenuto venti secoli fa.

Debbo però confessare che neanche questo passo in avanti mi convince completamente più. Penso e tento di passare nella coscienza e nel cuore dei fedeli che celebrano con me il rito eucaristico che ogni celebrazione è un evento religioso assolutamente nuovo, che ci coinvolge personalmente e che avviene in una cornice, in un’atmosfera ed in una situazione esistenziale assolutamente nuova ed irripetibile. Il ricordo di ciò che è avvenuto duemila anni fa è solamente una guida per cogliere meglio e più facilmente il dono e l’esperienza di Dio che andiamo facendo giorno dopo giorno.

Da parecchio tempo vado ribadendo questo concetto, tentando di far comprendere ai fedeli che non vengono alla domenica in chiesa a commemorare un fatto lontano, ma a vivere un avvenimento religioso totalmente nuovo per noi che vi stiamo partecipando.

La difficoltà sta però nel riuscire a coinvolgere totalmente i presenti all’Eucaristia, che talvolta, pur avendo essi un atteggiamento serio e corretto, danno la sensazione di presenziare ad una commemorazione fatta con formule ripetitive.

Quest’anno dicevo ai miei fedeli: «Vedete, noi questa mattina siamo qui poveri, fragili, timorosi, non totalmente convinti che lo Spirito Santo ci può trasformare, può far scattare quel nonsoché che ci dà coraggio e volontà di uscire per dare una testimonianza convincente che Dio è con noi, che non ci lascia soli e che ci offre la possibilità di diventare testimoni credibili».

Rimane spesso, dentro al fedele, una resistenza, un inconscio rifiuto a lasciarsi totalmente coinvolgere, a chiudere gli occhi e a lasciare che lo Spirito entri ed operi quella trasformazione che da soli non riusciremo mai ad attuare.

Ricordo che un tempo, avendo invitato in parrocchia un gruppo di “Rinnovamento dello Spirito” per prepararci ad una festa importante, chi conduceva la preghiera – che per gli aderenti a questo rinnovamento è sempre gioiosa, entusiasta, felice – faceva osservare che taluno di noi era ancora “rigido” e non si apriva allo Spirito. Aveva ragione!

Spero piano piano di riuscirci io per primo per aiutare poi la mia comunità a vivere veramente e in pienezza questa esperienza religiosa esaltante ed autenticamente cristiana.

I nuovi scanali nella Chiesa

Ci mancava anche il corvo in Vaticano!
I giornali ci riferiscono della sofferenza del Papa e di certe macchinazioni di prelati della curia vaticana che stanno tentando di mettere le premesse per eleggere domani un Papa di loro gradimento.

Ho tentato di capire un po’, ho chiesto a della gente più preparata di me, ma non sono riuscito a cavare un ragno dal buco. Prima la cacciata in malo modo del presidente della banca vaticana con una lista di accuse pesanti, poi il maggiordomo che sottrae documenti segreti non si sa per farne che o consegnarli a non so chi, quindi una commissione di vecchi cardinali che si mettono a fare il mestiere della polizia giudiziaria e i pubblici ministeri! Mi ha dato l’impressione che si ritorni ai secoli di piombo, mentre il Santo Padre appare sempre più fragile, tanto da non riuscire più a fare i quattro passi per percorrere la basilica di San Pietro. Povero Papa, alle prese prima con i preti pedofili, poi con i prelati cospiratori!

Il Papa mi fa sempre più tenerezza e mi desta infinita ammirazione per il coraggio e la determinazione con cui tenta di far pulizia nell’apparato di Santa Madre Chiesa.

Tutti questi guai ci vedono sgomenti, però ci fanno anche sperare in una purificazione profonda che si sbarazzi dei rimasugli di un apparato burocratico, retaggio dei tempi del triregno.

La voce più onesta e più accorata tra le voci lagnose e scontate che ho sentito deprecare l’accaduto ed esprimere solidarietà al Papa, è stata quella di don Gallo, il vecchio prete dei portuali e dei poveri di Genova, il quale ha esclamato in maniera accorata: «Questa non è la mia Chiesa, la Chiesa che amo e per cui vivo!» Mi è parso di notare in quella voce l’auspicio di una “Chiesa in grembiule”, come l’ha sognata don Tonino Bello, il compianto vescovo di Barletta.

I preti e i cristiani, e soprattutto i prelati che non vivono a contatto con i poveri, che non sono in dialogo con gli uomini reali del nostro tempo, diventano fatalmente dei burocrati dell'”azienda Chiesa” e fatalmente sono tentati dalla spirito del “mondo” da cui Gesù ci ha nesso in guardia.

Basta con l’assurda logica delle armi!

Un concittadino che mi onora della sua amicizia, un mese fa mi ha donato un libro di Primo Levi: “La tregua”.

Di questo autore avevo letto, una decina di anni fa, una antecedente opera: “Se questo è un uomo!”, lungo racconto della sua “passione”, durante la guerra, nel campo di concentramento di Auschwitz.

La lettura di quel volume ha segnato profondamente la mia coscienza e turbato il mio animo in maniera talmente forte da farmi rifiutare la guerra in maniera assoluta. Non solo! Ma a farmi provare una repulsione istintiva ed assoluta per tutto quello che si rifà alle armi e alla retorica che avvolge il mestiere più assurdo, che è quello del soldato.

Durante i miei studi di morale, avevo appreso la distinzione tra guerra giusta ed ingiusta, i discorsi sulla legittima difesa a livello personale o nazionale; ora però rifiuto e ritengo disumano e sacrilego ogni scontro armato da qualsiasi ragione sia motivato.

Da bambino sono stato balilla ai tempi del Duce, e durante gli anni della scuola elementare e media sono stato educato da una retorica nazionalista a tutto spiano. Ora però il mio rifiuto della logica delle armi è assoluto, tanto che mi danno fastidio perfino le alabarde e le armature delle guardie svizzere del Vaticano – che in realtà sono poco più che soldati da operetta!

I racconti di Primo Levi, vittima dell’antisemitismo, e poi i successivi approfondimenti, mi hanno fatto capire a quale brutalità e degrado umano faccia arrivare il nazionalismo e la mentalità che anima qualsiasi esercito del mondo.

Già in passato ho scritto del mio rifiuto di festeggiare la nostra repubblica con la parata militare, e l’ho fatto per motivi di carattere economico, ma ora lo faccio soprattutto per la logica che supporta quell’infinito numero di cittadini in armi che sono assolutamente inutili per il bene del Paese, gravano sulla sua economia e, qualora entrassero in azione, non produrrebbero altro che quella barbarie assurda, stupida e nefasta descritta così crudamente nei volumi di Primo Levi, l’ebreo torinese che sopravvisse al Lager, ma non alle conseguenze, tali da portarlo al suicidio.

Anche lo scorso 2 giugno, vedendo la sfilata di tanti concittadini in armi, le loro divise, i loro petti carichi di medaglie, il loro passo marziale e la retorica propria di ogni esercito, ho provato malinconia, rifiuto e persino ribrezzo ed ho sognato che ci capiti un nuovo presidente della repubblica che la sostituisca con un ballo o con una sagra paesana a livello nazionale.

Dico tutto questo, pur provando sommo rispetto per chi ha dovuto pagare con la vita l’insensatezza dei governi del passato e del presente.

La dottrina di Madre Teresa di Calcutta

Proprio in questi giorni ho terminato di leggere il volume che il settimanale “Famiglia cristiana” ha recentemente pubblicato su Madre Teresa di Calcutta, fondatrice di una delle ultime congregazioni che sono nate nella Chiesa di oggi. Questo volume non si può definire “biografia”, perché di essa traspare solamente un po’ dal testo e un po’ dalle note di chi ne ha curato l’edizione. Credo che il volume si possa considerare il testo col quale questa piccola grande donna di Dio espone il suo pensiero e la sua dottrina.

Mi ero illuso di trovarvi dentro quei “pezzi di pregio” che vengono riportati un po’ ovunque nella stampa di carattere religioso, ma neppure questo vi si trova nel corposo volume. Il discorso che Madre Teresa fa, sembra la raccolta di ammonizioni che lei fa alle sue discepole per passar loro i punti fondamentali della sua scelta spirituale.

Madre Teresa ritorna, quasi in maniera ossessiva, su alcuni punti che devono caratterizzare la sua congregazione: vivere in maniera assolutamente povera, porsi al servizio dei poveri più poveri, fidarsi in maniera totale dell’aiuto di Dio e non chiedere aiuti da nessuno, amare e servire Gesù nei più poveri ed abbandonati, far capire che scegliere di aiutare i poveri è un dono ed una grazia, scegliere i loro assistiti tra gli ultimi nella scala della povertà ed abitare edifici semplici e modesti.

Ebbene, pur con questa “dottrina”, che sembra assolutamente ardua o forse impossibile, Madre Teresa ha reclutato in questo momento difficilissimo per le vocazioni religiose, un vero esercito di discepole e di aderenti e ha fondato case in tutti i Paesi del mondo, sia in quelli più poveri, come in quelli più ricchi, case aperte per gli uomini dell’ultimo livello umano e sociale. Con questa dottrina a Madre Teresa si sono aperte tutte le porte di nazioni di cultura cristiana, mussulmana o totalmente laica.

Il volume, confesso, mi ha messo in crisi, ma credo che metterebbe in crisi il Vaticano, i vescovi e le canoniche con i relativi occupanti.

Sono convinto che il messaggio di Cristo oggi possa farsi accettare dagli uomini del nostro tempo solamente quando si manifesta con scelte radicali e contro corrente e sia testimoniato con questa assoluta coerenza.