Il testamento

Un mio vecchio parrocchiano che ogni anno, quando andavo a benedire la sua famiglia, ripeteva puntigliosamente che lui non era credente, un paio di anni fa mi ha scritto una lettera diffidandomi dal continuare ad invitare i concittadini a ricordarsi degli anziani poveri e suggerire a chi non aveva responsabilità e doveri verso dei congiunti, di far testamento a favore dei Centri don Vecchi.

Di certo non ho tenuto alcun conto di questa intromissione inopportuna, ho continuato per la mia strada ottenendo, fortunatamente, dei buoni risultati. Per timore che qualche altro concittadino mi accusi di autoreferenzialità, non faccio l’elenco dei lasciti ottenuti, però assicuro che i quattro Centri, con i relativi 315 alloggi protetti, non sono frutto di rapine in banca, ma il risultato di offerte e di lasciti testamentari da parte di concittadini saggi e generosi che hanno pensato anche a chi era meno fortunato di loro.

So per certo che altri concittadini hanno fatto questa scelta. Prego perché questa bella gente sono convinto che meriti una vita lunga e felice, ma spero che il giovane consiglio di amministrazione che governa attualmente la Fondazione, prima o poi raccolga i frutti dei semi che ho seminato, anche se non tutti i miei colleghi e i miei concittadini erano, o sono, di questo parere.

Più volte ho confidato a chi mi legge che io ho un’unica “padrona di casa” a cui mi sforzo di obbedire: la mia coscienza. Finora mi sono sempre trovato bene e perciò non ho nessun motivo per fare scelte diverse. Anche recentemente mi sono incontrato con un concittadino che ha avuto il coraggio e la saggezza di destinare a qualcuno che è in difficoltà il frutto della sua lunga vita di lavoro. Qualche settimana fa mi giunse la telefonata di un vecchio ingegnere che aveva intenzione di lasciare la sua casa alla Fondazione. Lo raggiunsi, lui si informò accuratamente sui progetti che stiamo perseguendo, sull’attività a favore degli anziani e poi mi confermò che avrebbe parlato col suo legale per perfezionare il testamento. Uscii dall’incontro edificato dalla lungimiranza e dalla saggezza di questo signore che ha avuto il coraggio di destinare il frutto del suo lavoro a coetanei meno fortunati.

Confesso che però faccio fatica a capire perché tanti altri concittadini che potrebbero farlo, senza nuocere a nessuno, non lo facciano, affinché la nostra città possa avere delle risposte adeguate alle urgenze più gravi di tante persone in difficoltà.

Cristo è risorto. Sì, è veramente risorto

Tante e tante volte ho riflettuto in maniera appassionata ed onesta sul “mistero” cristiano della resurrezione di Gesù, “mistero” sul quale poggia la nostra lettura del senso della vita e che apre il nostro animo alla prospettiva della vita nuova.

I testi del Vangelo per certi aspetti mi disorientano perché emergono in essi incongruenze e difformità non facilmente comprensibili. Sono però arrivato pian piano a comprendere che la resurrezione non fu una folgorazione improvvisa, lucida e perentoria che appare incontrovertibile, ma è invece un processo lento, frutto di tanti apporti diversi che pian piano hanno portato la comunità cristiana a sentire ed essere certa che quanto Gesù ha detto, fatto e rappresentato è non solo meraviglioso, ma quel Gesù è ancor vivo e presente anche dopo il venerdì santo e può aprire il nostro cuore alla speranza e alla positività della vita ed offre una risposta globale ed esaustiva al nostro bisogno di verità, amore e felicità.

Comunque, in fondo a questo processo e questo cammino, rimane sempre la necessità di un atto di fede personale, non gratuito e fideista, ma che ha motivi più che validi per essere fatto. Atto di fede quanto mai razionale e che è coerente ad una logica profonda ed esistenziale che supera di gran lunga i limiti del banale ragionare di basso livello.

Credere nella Resurrezione è un fatto esistenziale che trova motivazione nel profondo del nostro essere, il quale d’istinto rifiuta un’esistenza irrazionale ed insignificante, assurda e deludente. Credo che questo atto di fede, magari in maniera contorta, informale ed inconscia, sia proprio di ogni creatura normale.

Questa mattina nella mia meditazione ho letto la confessione di un cristiano dell’Argentina che racconta che la nonna, emigrata dalla Russia, il giorno di Pasqua “sollevava la tazza da té, salutava la sua famiglia sorridendo con queste parole: “Cristo è veramente risorto!”. Mio fratello, don Roberto, scrisse un paio di anni fa nel suo bollettino parrocchiale, di un funzionario del partito comunista di Mosca che tenne una lezione di due ore ad un auditorio perplesso e silenzioso, sulla validità scientifica delle tesi dell’ateismo. Quando ebbe finito la lezione chiese se c’erano obiezioni. Si alzò un vecchio affermando con voce ferma e decisa: «Cristo è risorto!». Al che l’intero auditorio balzò in piedi quasi di scatto e ribadì: «Cristo è veramente risorto!».

Sono convinto che faccia parte dell’uomo di ogni tempo la coscienza che la vita non è un inganno ed una beffa, ma un cammino verso la pienezza. Il fatto che in Russia, dopo settant’anni di ateismo ufficiale, di oppressione, persecuzione e decine di milioni di morti, si sia ripreso l’insegnamento religioso nella scuola, ne è una prova, checché ne possa pensare lo sparuto drappello di atei militanti che ogni tanto “pontifica” anche nella nostra Italia.

Passione, Morte e Resurrezione 2013

Quest’anno, nel periodo di Pasqua, non stavo bene: una brutta influenza ha fiaccato le mie forze fisiche ed intorpidito la mia mente. Tante, forse troppe volte, ho confidato ai miei amici che all’approssimarsi delle festività più importanti del calendario cristiano mi prende un grande tormentone perché, avendo coscienza del messaggio veramente importante che esse offrono anche all’uomo di oggi, trovo molta difficoltà, quando tento di calarlo nella sensibilità della nostra società perché diventi fonte di speranza e di salvezza.

Quest’anno alle difficoltà di sempre si è aggiunto questo torpore mentale dovuto al malessere dell’influenza. Nella mia riflessione era, si, germogliato qualche virgulto di verità, pur fragile e timido, che sembrava potesse offrire un apporto importante alla freschezza e all’attualità del messaggio evangelico, però ancora una volta mi sono imbattuto nelle difficoltà di sempre.

Avevo intuito che ogni volta che la Chiesa ci impone la lettura della Passione, durante la settimana santa, d’istinto e per tradizione si è portati ad assistere, pur con rispetto ed attenzione, al racconto della passione, morte e resurrezione di Cristo, che riassumono l’intervento con cui Cristo ci apre le porte alla speranza sugli sbocchi positivi della nostra vita, però nell’atteggiamento di chi ascolta il racconto di una storia importante e coinvolgente però avvenuta due millenni fa, della quale al massimo noi siamo chiamati a far memoria.

La luce invece che mi si è accesa quest’anno, è che questo racconto ci offre la chiave di lettura di una realtà esistenziale in cui siamo direttamente coinvolti e che ce ne fa protagonisti comunque. Oggi sono chiamato a leggere, riconoscere e vivere negli eventi del 2013 e nei personaggi attuali, i comportamenti positivi e negativi vissuti tanti secoli fa dai protagonisti della passione, morte e resurrezione di Gesù.

Quello che è importante, anzi determinante, è la capacità di leggere, vedere e vivere il mistero cristiano nella vita degli uomini del nostro tempo, sui quali ci informano ogni giorno i mass media. E’ doveroso conoscere la passione, morte e resurrezione che 2000 anni fa hanno aperto l’animo dell’uomo alla speranza e alla salvezza, ma è assolutamente necessario che si sappiano riconoscere questi misteri nel tempo presente, che ci si senta coinvolti e si sia coscienti della “parte” che stiamo svolgendo in essi. Ognuno deve domandarsi: “Sono proprio io che scelgo il mio ruolo nel “mistero cristiano” o è invece la realtà della vita ad assegnarmelo? Perché, se così fosse, correrei il pericolo di trovarmi senza volerlo nei panni di Pilato, di Erode, di Giuda, piuttosto che in quelli di Giovanni, di Maria, della Veronica, della Maddalena!».

Ho tentato di passare questo messaggio assolutamente importante, ma l’ho fatto in maniera goffa e, temo, incomprensibile. Ritento perciò, con questo mio scritto, di farlo meglio, però non so se con miglior risultato.

L’esorcista

Qualche giorno fa mi sono lasciato andare, come credo capiti a molti, al capriccioso piacere di smanettare il telecomando della televisione, nella speranza di scoprire qualcosa che potesse interessarmi. Per caso andai a finire nel canale della televisione vaticana.

Era prevedibile, ma non certo – dato che la televisione è dei vescovi, del Vaticano o della Chiesa – che il programma fosse attinente a tematiche religiose. Infatti mi imbattei in un programma che non poteva essere meno “spirituale e religioso”. Il solito giornalista un po’ addentro al mondo ecclesiastico, incalzava di domande un frate esorcista.

Di interessante, nel programma, non c’era che le linee belle e armoniche di un’abbazia che appariva sullo sfondo ma sia il giornalista, che brillava di quella petulanza propria dei fedeli da sagrestia, sia il frate, piuttosto corposo e rubicondo che non aveva affatto i tratti dell’asceta, ma che si definiva esorcista autorizzato, sia infine l’argomento estremamente marginale alle vere problematiche della fede, tutto era quanto mai deludente e desolante. Lo squallore del dialogo su un argomento così retrivo era ulteriormente immeschinito dalle carrellate su immagini medioevali di demoni truculenti con orecchie da asino, occhi spiritati e tridenti mostruosi.

Nonostante l’istintivo rifiuto e la sensazione di irritazione, indugiai qualche po’ di tempo a sentire dissertare questo frate da baraccone sulle strategie per sconfiggere il diavolo e liberare gli “indemoniati” per i quali – io sono ben convinto – sarebbe più necessario rivolgersi ad uno psicologo o, meglio ancora, ad uno psichiatra, che hanno metodiche e farmaci ben più efficaci e seri delle trovate del frate.

Io ho già le mie gatte da pelare, ma sentivo la tentazione di dire alla redazione dell’emittente vaticana: «Non avete qualcosa di più serio e di meno antireligioso da mandare in onda? Non avete capito che il demonio oggi è altrove e veste diversamente? Cercatelo tra i politici che non si mettono d’accordo mentre il Paese affonda, tra i burocrati che appesantiscono di carte l’economia così da farla implodere, le parrocchie che non si occupano dei poveri, gli ecclesiastici che si mettono in mostra per far carriera, i vescovi che “credono” di esprimere il Vangelo con riti pomposi, le lobbies internazionali che in maniera lucida e disinvolta mettono in pericolo l’economia del mondo, i magnati che spremono il sangue dei poveri, i governanti che spendono il denaro dei sudditi comprando armamenti ed aerei da combattimento…. ed altri ancora. Là, di certo, troverete il demonio e i suoi amici! Però, per debellarlo, ci vuole ben altro che un prete esorcista, le sue benedizioni e la sua acqua santa!

Di certo quel frate spenderebbe meglio il suo tempo se tentasse di educare al coraggio, all’onestà, alla coerenza, all’impegno civile, lasciando a chi è del mestiere curare gli psicopatici, gli esauriti o i perversi!

La responsabilità dei testimoni

In questa società, che è stata definita “liquida” perché molti sono arrivati a concludere che non ci sono più verità certe, valori assoluti, persone attendibili, sento il bisogno di aggrapparmi a qualcosa che tiene, qualcosa che regga. Tutti, credo che abbiano bisogno di questi punti di riferimento e di ancoraggio.

Ho già scritto di aver partecipato ad una conferenza di Cesare Maestri, la famosa guida alpina, alpinista trentino di sesto grado che è anche un ottimo narratore. Ricordo che in una bella serata organizzata dall’associazione culturale della mia vecchia parrocchia, egli ci raccontò alcuni episodi delle sue imprese di scalatore. Ne ricordo uno in particolare.

Un tardo pomeriggio si scatenò una bufera improvvisa mentre lui arrampicava lungo una parete ripidissima. A causa di questa bufera non poteva più né salire né scendere. Non gli rimase allora che piantare un chiodo sulla roccia, appendervi la sua amaca ed aspettare. Sotto di lui c’era uno strapiombo di quattrocento metri, la sua salvezza dipendeva esclusivamente dalla tenuta di quel chiodo!

Ricordo ancora i brividi di angoscia che ho provato mentre egli con bravura, intercalando l’italiano con qualche battuta in trentino per rendere più efficace il racconto, descrisse la situazione quanto mai drammatica, nel sentire che la sua vita dipendeva dal chiodo conficcato nella roccia.

Ebbene, ogni volta che qualcuno tenta di smontarmi o cerca di far cadere qualche mia convinzione profonda, o che qualche testimone a cui faccio riferimento frana dal piedestallo in cui l’ho posto, avverto il brivido dello “strapiombo”, il venir meno di un mio punto di presa.

Qualche mese fa i mass media ci hanno informato del dramma di Pistorius, il giovane sud africano che perse le gambe da bambino ma che, con caparbietà, tenacia e determinazione riuscì a diventare un campione, nonostante le sue “gambe di ferro”. Le doti di questo ragazzo mi han riempito l’animo di ammirazione: un uomo senza gambe che diventa campione di corsa è una cosa veramente straordinaria, che offre la prova che dentro di noi abbiamo delle stupende risorse.

La mia delusione però, di fronte al suo gesto brutale e feroce, è stata veramente grande e mi ha fatto capire che se dentro di noi vengono a mancare i valori dello spirito, si può incorrere in bassezze veramente deludenti. Chi nella società riesce ad emergere ha la grave responsabilità morale di non far venir meno il sostegno morale della sua testimonianza.

Un “filone d’oro”

Ho letto un’affermazione che mi ha colpito e mi ha fatto riflettere. In un libro di meditazione l’autore diceva che l’uomo è come l’acqua di una sorgente che sgorga dalla roccia e scende verso la pianura. Se quest’acqua è incanalata diventa energia e si trasforma in luce, altrimenti finisce per imputridirsi nella palude melmosa.

Ho pure letto un’altra storiella ancora più convincente, che non ricordo bene, ma che diceva pressappoco così. Il Signore versa ogni giorno sul conto corrente personale di ogni uomo un importo consistente che però deve essere speso entro la giornata, altrimenti va bruciato come avviene ogni giorno quando in banca si registrano le perdite senza che l’intestatario abbia deciso e fatto alcuna operazione. Morale: il buon Dio ogni giorno offre ad ogni uomo una “somma” consistente di intelligenza, di amore, di possibilità, ma se questa somma non la si impiega in maniera fruttuosa a mezzanotte il versamento va sprecato e non aumenta il conto in banca.

Gesù ha annunciato questa verità attraverso la parabola dei talenti, affermando che l’uomo che ha sepolto il suo talento, non solo non riceve alcun premio, ma anzi va castigato.

Oggi le persone sagge denunciano, preoccupate, e talora giustamente sdegnate, gli sperperi colossali che avvengono nella nostra società. Migliaia e migliaia di tonnellate di pane, agrumi, verdura e di ogni altro genere alimentare, che potrebbero sfamare popoli interi, vanno sprecate.

Ebbene, quando penso ai miei concittadini – pensionati, casalinghe, persone che non fanno lavori logoranti, che hanno un orario di lavoro ridotto, che sono intelligenti, capaci, forti, e che lasciano che la loro ricchezza umana si imputridisca nella palude melmosa, o sia “bruciata” dall’inerzia e dall’egoismo, mi viene da disperarmi! Quante volte i miei appelli cadono nel vuoto! Quante volte tanta gente continua a perder tempo e a buttar via questi meravigliosi doni di Dio!

Si, ci sono anche persone che fanno autentici miracoli, che “fanno fiorire il deserto”, ma ce ne sono fin troppe che si chiudono in un egoismo che le distrugge senza che se ne accorgano.

Al “don Vecchi” abbiamo scoperto un “filone d’oro” col quale potremmo distribuire ogni giorno quindici-venti quintali di frutta e verdura ed arrischiamo che vadano perduti, mentre tanti ne avrebbero estremo bisogno, perché in una città di duecentomila abitanti non riusciamo a trovarne una decina che si renda disponibile a dare una mano ai poveri e a guadagnarsi il Paradiso a buon mercato!

Perché la gente non canta più?

Potrà sembrare strano che un vecchio prete si interessi di Sanremo e delle canzonette, però anche questo fa parte della vita ed io voglio vivere nel cuore della vita del nostro tempo e non ai suoi margini o nei suoi binari morti. Non ripeto la mia età per giustificare questi miei pensieri e credo che tutti convengano e comprendano che ogni uomo è legato al suo “piccolo mondo antico” in cui è nato e si è aperto alla vita. Ora il mio piccolo mondo antico è scomparso o è al tramonto. Mi permetto quindi una confidenza fatta da un vecchio alla gente d’oggi, fatta con discrezione e rispetto, sperando che possa essere accettata e, semmai, fatta motivo di verifica e di discussione.

Quando io ero bambino, adolescente e pure in quella giovinezza che mi ha accompagnato fino agli anni del dopoguerra e della ricostruzione, la gente cantava per strada, mentre lavorava, quando faceva filò nelle stalle per stare al caldo. Anche a quei tempi s’aggiungevano sempre nuove canzoni, ma sempre erano motivi che cantavano tutti, tutti conoscevano e creavano un’atmosfera dolce e serena, nonostante i tempi molto più difficili di quelli di oggi.

Mio padre faceva il carpentiere e ricordo che quando gli portavo il cestino col mangiare, i manovali e i muratori che costruivano le case, cantavano mentre posavano le pietre, facevano la malta o preparavano le capriate. I salariati che zappavano i campi del granoturco, delle barbabietole o raccoglievano i fagioli, cantavano, tanto che era un gusto sentire questi cori che non avevano bisogno del maestro o dell’accompagnamento di strumenti; la gente cantava anche alla sera quando si riuniva dopo cena.

Io ricordo le canzoni che seguirono i vari anni. A parte i canti di montagna, avrei un indice infinito di canti che la gente intonava di gran gusto. Ne cito alcuni, come mi vengono, alla rinfusa, tenendo conto degli anni in cui sono fioriti: O campagnola bella, La casetta in Canadà, Chitarra romana, Arrivederci Roma, Vecchio scarpone, Come pioveva, Il merlo ha perso il becco, Era una notte che pioveva, Faccetta nera, Il cappello che noi portiamo, Il tango delle capinere, Torna a Surriento, Mamma, Ventiquattromila baci, Voga e va, Rosamunda, Vola colomba, Vecchio frac, Nella vecchia fattoria, Non ti scordar di me, Romagna mia e via di seguito.

Mi pare che questo fiume canoro si sia fermato a “Volare” di Modugno. Poi silenzio! Per strada e quando la gente si ritrova assieme, nessuno canta più. Solamente i miei vecchi, quando han bevuto un po’, intonano “Viva Venezia”, ma anche loro lo fanno al chiuso.

Gli uccelli continuano imperterriti a cantare in cielo, nonostante il passare degli anni, ma gli uomini del nostro tempo hanno relegato i canti a Sanremo o dentro le cuffiette che si mettono nelle orecchie.

Ho paura che anche il canto sia stato avvelenato dai soldi e sia sintomo di una società ammalata di solitudine e di tristezza.

Non è male, quindi, che ascoltiamo sant’Agostino che sta a ripeterci: «Canta e cammina!».

L’altra sponda

Da sempre, lo voglia o no, mi lascio coinvolgere dalle esperienze che vado facendo. Non riesco a stare alla finestra a guardare stupito, curioso, sornione o disinteressato; sento la necessità di scendere nella mischia, desidero vederci chiaro, sono costretto a cercare argomenti per prendere posizione.

Il cardinale Martini ha scritto che dentro il cuore di ogni uomo c’è il credente, ma c’è pure l’ateo che obbietta, che mostra l’altra faccia della medaglia, ed ha pure aggiunto che non è opportuno cacciare il miscredente, perché è quello che ti purifica, ti costringe a mettere a punto il problema, che ti obbliga a motivare, da un punto di vista esistenziale e razionale, le tue scelte sulle varie problematiche della vita.

A proposito di tutto questo ritorno ancora una volta sul messaggio pasquale della Resurrezione di Cristo, pegno della nostra sopravvivenza e della vita eterna. Il laico, il miscredente che è in me, lo voglia o no, sta là ad insistere: “La tua presunta fede sulla vita eterna è immotivata, la risposta cristiana è solamente consolatrice, nessuno è mai tornato dall’aldilà per attestarne l’esistenza, al massimo l’uomo sopravvive nella specie, ma non a livello personale”.

La rivelazione mi aiuta a supporre l’esistenza dell’altra sponda, però non mi offre una prova apodittica determinante. L’elemento che convince me ad accettare la scelta cristiana dell’esistenza dell’altra vita è che ci sarà finalmente una risposta esaustiva a tutte le mie attese, che possiederò finalmente una felicità, un amore ed una verità totale. Tutto questo me lo garantisce un istinto profondo e primordiale connaturato alla mia stessa esistenza, la quale non ha bisogno di dimostrazioni razionali per confermarmi il mio esistere, coscienza che mi assicura che c’è l’altra sponda, che la vita non sbocca nella morte, che il mio tendere, il mio cercare, la mia fatica, non sono una beffa ed una illusione che la morte spazza via in un sol colpo ed in maniera inesorabile.

Ho visto un film su Cristoforo Colombo. Il navigante genovese aveva percepito nel profondo che ci doveva essere un’altra sponda, quella che lui aveva chiamato Indie. Contro tutto e contro tutti riesce ad armare le sue tre caravelle, ad ingaggiare una ciurma che lo segue poco convinta e a prendere il mare verso una sponda che nessuno aveva mai visto ed alla quale nessuno era mai arrivato. La razionalità libresca era di certo contro di lui. Ricordo un momento terribile quando, dopo settimane e settimane di navigazione, Colombo ha davanti solamente cielo e mare infido. La ciurma ha paura, è tentata di ammainarsi, lui pure ha dubbi atroci mentre guarda l’orizzonte sconosciuto e misterioso, ma decide di proseguire e di giocarsi tutto, nell’intuizione che supera la logica banale di tutti gli altri.

Io pure, vecchio, stanco, dubbioso, avverto di dover ascoltare il credente che è nel profondo del mio essere e punto sul positivo, sulla resurrezione, sulla sopravvivenza e sulla vita eterna. La pensino pure come credono gli altri, ma io gioco la mia vita e credo all’angelo che duemila anni fa disse alle donne: «Egli è risorto e non è più qui, lo incontrerete più avanti!».

Il pericolo!

Queste note le ho buttate giù il giorno di “Pasquetta”, giornata di pausa e di ripensamento sul “mistero” pasquale. Quest’anno due esperienze mi hanno messo in allarme circa la mentalità con cui l’annuncio della Resurrezione viene recepito da tanta gente credente e non credente del nostro tempo. Da queste ho avuto la sensazione che c’è attualmente una mentalità che svuota letteralmente il grande messaggio e lo rende poco più che banale.

Prima esperienza: mentre mi recavo in macchina in chiesa per celebrare la messa di Pasqua, ho sentito il solito Pannella, logorroico all’ennesima potenza, che terminava uno dei suoi soliti sproloqui augurando agli ascoltatori di Radio Radicale: «Buona Pasqua!» Mi sono domandato subito: “Che cosa significa la Pasqua cristiana per Pannella?”.

Seconda esperienza, più drammatica e seria della prima: una madre molto anziana ha perduto una figlia e da mesi piange disperata sulla morte della sua creatura. Sorridere e stupirsi sull’augurio di Pannella è facile, non comprendere il dolore di una madre è impossibile anche per un non credente.

Con parole affettuose ho tentato di consolare questa donna dimostrandole affetto e comprensione, però mi è sembrato che le parole di conforto sortissero l’effetto opposto da quello desiderato, perciò feci appello alla sua fede dicendole che lei, essendo molto anziana, avrebbe reincontrato sua figlia quanto prima.

Niente! Allora mi sono posto la questione di fondo: “che cosa rappresenta la Pasqua per la gente di oggi, sia per chi non crede, come Pannella, sia purtroppo, anche per chi crede, come la mia coinquilina”.

Gli auguri e le feste di Pasqua sono comunque una cosa gradevole, magari che ogni giorno fosse la festa di Pasqua! La Pasqua cristiana è però tutt’altra cosa: essa è il messaggio che la vita è un cammino verso la Terra Promessa, la casa del Padre, che la vita ha una meta raggiungibile che giustifica la fatica, la sofferenza e soprattutto la ricerca di una felicità completa.

Da sempre vado ripetendo che la nostra vita è, tutto sommato, un bel dono, è un’esperienza e un’avventura che vale la pena di essere vissuta. Quante cose belle non incontro nel mio vivere! E quanto ancora più felice potrei essere se fossi più saggio e se ascoltassi di più gli insegnanti del Vangelo!

Però debbo pur dire che quello che ho trovato e quello che trovo tutt’oggi quaggiù non mi basta. Ho bisogno di assoluto, di pienezza, di sicurezza. Sono d’accordo con sant’Agostino quando dice: «E’ insoddisfatto, Signore, il mio cuore, finché non riposerà in Te». Questa è la Pasqua cristiana, mentre quella di Pannella e della mia coetanea è solamente una patacca dorata ma senza valore.

Tracce del Risorto

Durante il pomeriggio del giorno di Pasqua mi sono concesso il lusso di un po’ di televisione. Il cimitero ha chiuso, come ogni anno, alle 12, motivo per cui nel pomeriggio non avevo la preoccupazione di chiudere la mia “cattedrale”, né avevo altre urgenze.

Alla domenica pomeriggio si concentrano contemporaneamente tre programmi che, per motivi diversi, mi interessano quanto mai: “L’arena”, condotta dal bravo Giletti, “Mezz’ora” della Annunziata, passionale ma acuta, e “Alle falde del Kilimangiaro”, un programma con cui la bella Licia Colò, donna accattivante e piena di fascino, presenta in un piatto d’oro le più splendide bellezze di quel nostro mondo che gli uomini non sono ancora riusciti a distruggere.

Optai, pur con qualche perplessità, per Giletti, ma arrivai un po’ tardi perché il pisolino pomeridiano si prolungò più del solito, appunto perché ero disteso e non avevo urgenze. Giletti intervistò per prima Dori Ghezzi, ed in quella occasione appresi che era la vedova del cantastorie Fabrizio De André, il cantautore che assieme a Branduardi ascolto molto volentieri perché le loro canzoni sono talora piene di sentimento, talaltra sornione, dolcemente ironiche, ma sempre cariche di una calda umanità. Della Ghezzi ho ammirato l’intelligenza, l’amore fedele per il suo Fabrizio e la dedizione assoluta con cui lo ha accompagnato fino alla fine. M’è parsa una donna vera, ricca di umanità e di talento.

Poi Giletti ha intervistato il cantante Gigi D’Alessio, un giovane del sud che per seguire la sua “vocazione” spese ogni suo avere, cosciente d’avere un talento e qualcosa di valido da offrire al nostro pubblico. Mi piacque quanto mai la delicatezza, la convinzione e la tenerezza con le quali ha parlato della sua giovane sposa e della sua bambina. Credo di non aver mai sentito, in nessun corso di preparazione al matrimonio, o di spiritualità matrimoniale, parlare in maniera così convinta, pulita e convincente del matrimonio e della sacralità dell’amore sponsale. Oltre a questa seria testimonianza D’Alessio dimostrava la sua solidarietà regalando un pianoforte ad un collega fallito: un gesto fatto con modestia, ma pure con assoluta convinzione, senza vanto, senza rispetto umano.

La terza intervista Giletti l’ha fatta ad un attore che, a quanto mi dice suor Teresa, è quanto mai noto e professionalmente valido. Il giornalista ha chiesto – così di passaggio, quasi fosse un elemento marginale e non pertinente – di dire qualcosa sulla sua fede. E questo signore, di cui s’avvertiva il talento e la bravura, ha risposto con candore e spontaneità: «Per me la fede è un punto di forza, un supporto di fondo nella mia vita e nella mia professione». Dire queste cose in sacrestia è facile e scontato, ma affermarlo in un ambiente laico, scettico e pieno di compromessi di ogni genere, è veramente edificante.

La mia Pasqua di quest’anno è stata bella anche perché ho incontrato questi testimoni credibili del Risorto i quali, pur senza volerlo, mi hanno fatto intravedere il Suo volto.

Il volto del risorto

C’è un detto popolare che definisce fin troppo bene certi atteggiamenti dei creduloni in genere ed in particolare dei fedeli che ascoltano i sermoni domenicali. Esso afferma: “Certi `cristiani’ non si scomporrebbero per nulla anche se il prete dicesse loro che il diavolo è morto di freddo”, e si rifà al fatto che la dimora specifica del diavolo è l’inferno, luogo che una certa tradizione religiosa pensa come una fornace ardente.

Quest’anno, in occasione della Pasqua, mi è tornato in mente questo detto e mi ha tormentato come un moscone fastidioso il discorso sulla realtà del Risorto. La Pasqua infatti è un mistero cristiano che ruota tutto attorno al mistero della Resurrezione. Alle donne che di buon mattino, quando era ancora buio, andarono sospinte dalla nostalgia e soprattutto dall’amore, verso la tomba di Gesù, portando aromi per profumarlo e fiori per esprimergli amore, l’angelo disse: «Colui che voi cercate è risorto, non è più qui, dite ai discepoli che lo potranno incontrare in Galilea».

Ci sarebbe un discorso pure da fare anche su questo “angelo”, ma oggi mi voglio invece soffermare sull’immagine e la realtà di Gesù dopo i tre giorni passati nella tomba, per chiedermi quale sarà stato il volto, la persona del Risorto. In passato io ho sempre pensato a Gesù Risorto – ma credo che lo pensino anche tantissimi cristiani – come alla visione di una persona bella, luminosa, quasi come un sogno meraviglioso. Il vangelo dice che Gesù è apparso alle donne, ai discepoli di Emmaus, agli apostoli nel cenacolo, in riva al mare mentre Pietro e i colleghi stavano pescando, e perfino ad un gruppo di cinquecento persone, sempre con un aspetto umano. Faccio fatica a pensare a questo “fantasma benefico” apparso solamente duemila anni fa e, tutto sommato, a relativamente poche persone, mentre noi, che abbiamo gli stessi dubbi e le stesse esigenze dei nostri predecessori, rimaniamo “a bocca asciutta”.

Sono arrivato quindi pian piano alla conclusione che il Cristo Risorto, ossia Gesù dopo la morte, lo si può incontrare nelle persone che vivono seriamente il messaggio di Gesù, che pronunciano le sue parole, coltivano gli stessi sentimenti, si comportano come lui è vissuto e realizzano, in una parola, quello che ha affermato san Paolo: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me!”. Chi realizza tutto ciò dà volto al Risorto.

Questo modo di poter riconoscere ed incontrare il Risorto, dà modo anche a me e a qualsiasi persona di ogni tempo di poter incontrare ogni giorno e in ogni dove il nostro “dolce Cristo in terra”. Di questo dono ricevuto per la Pasqua 2013 sono molto grato al Signore.

Il guru

Qualche giorno fa mi è giunto dal parroco di Dese un opuscolo in carta patinata, corredato da belle foto, con un commento al “Padrenostro” scritto da alcuni sacerdoti e laici della nostra Chiesa e con uno scritto di don Tonino Bello e di don Primo Mazzolari, i due più bei profeti del nostro tempo. Don Emilio Torta è un prete intelligente e caro, che da un po’ di anni promuove questa bella e simpatica iniziativa pastorale in occasione della quaresima.

A me piacciono i preti impegnati per la loro parrocchia, ma più ancora quelli che tentano di fare un discorso nuovo che superi l’ombra del proprio campanile.

Parlando con don Gianni, mio simpatico e giovane successore sia in parrocchia che alla presidenza della Fondazione, gli chiesi se conosceva l’iniziativa di don Torta e, meglio ancora, l’associazione che promuoveva l’opuscolo. Non avevo mai sentito dire che in diocesi esistesse un’associazione cattolica o parareligiosa con questa testata: “Gaia, associazione onlus”, tre frecce di colore diverso che si rincorrono lungo la circonferenza di uno spazio bianco, con dentro un alberello stilizzato con alcune foglie su tre rami.

Don Gianni tirò fuori di tasca il cellulare, cominciò con la punta dell’indice a picchiettare veloce i tasti e in quattro e quattr’otto venne fuori che “Gaia” significa “terra” ed è il simbolo della dottrina del guru del Movimento 5 stelle, quel Casaleggio con una gran capigliatura che gli copre la vista e attraverso la quale, come le donne, è costretto ad aprirsi costantemente un pertugio per vederci.

Avevo già sentito che questo Casaleggio, superesperto di computer e del mondo digitale, era l’eminenza grigia e la mente pensante di Beppe Grillo, il pifferaio che ha incantato gli italiani e li sta conducendo verso l’ignoto.

Il telefonino riassumeva in poche parole la dottrina di questo moderno teosofo che profetizza che il mondo digitale renderà inutili e farà scomparire le religioni, i partiti politici e i governi e ci sarà un modo assolutamente nuovo di vivere a questo mondo. “Gaia”, che significa terra, è per lui una specie di nuova divinità onnicomprensiva, che abbraccia e farà vivere più felicemente gli uomini del futuro.

Telefonai a don Torta per chiedere chiarimenti sulla sua iniziativa, sembrandomi strano che, da persona intelligente qual’è, si fosse lasciato coinvolgere da una teoria così fumosa e pochissimo razionale. Egli mi rassicurò dicendomi che la sua “Gaia” era invece un’associazione di mutuo soccorso presente nella sua precedente comunità quando era parroco nel litorale.

Sono rimasto invece grandemente preoccupato dalla “Gaia” di Casaleggio, una dottrina che suggerisce una ideologia e dei comportamenti molto simili a quelli adottati da Hitler per narcotizzare i tedeschi, scalare il potere, per arrivare alle nefandezze compiute dal nazismo. D’ora in poi aprirò ben più gli occhi sulla “Gaia” che, come nuova Circe, sta già determinando scelte e comportamenti non solo incomprensibili, ma stravaganti ed irrazionali della nuova ed improvvisata classe politica appena apparsa all’orizzonte del nostro Paese.

Il cespuglio di orchidee

Io abito in uno dei 315 alloggi dei Centri don Vecchi. Il mio alloggio è pressappoco grande come gli altri ed è situato in via delle rose, che rappresenta il “corso” principale del borgo degli anziani di Carpenedo. Ho, lo confesso, un privilegio, ossia uno studiolo, perché pensavo un tempo che mi potesse servire per qualche colloquio riservato, come avveniva quando ero in parrocchia. Alla prova dei fatti, quando mi serve, adopero uno dei tanti salotti, più o meno grandi, che sono a disposizione di tutti i residenti.

Il mio alloggio è piccolo, 49 metri quadrati, ma funzionale e grazioso: un soggiornetto con angolo cottura, la camera da letto, il bagno e perfino un poggiolo che s’affaccia sul grande prato incolto della Società dei 300 campi. Il mobilio è semplice, ma gradevole e le pareti sono tappezzate di splendide icone russe. Pur avendo abbandonato il grande stabile bianco del settecento che si affianca alla chiesa e che la mia perpetua diceva essere “un municipio” per la grandezza e l’andirivieni continuo di persone, mi sono adattato al mio piccolo guscio di noce e lo trovo quanto mai grazioso e gradevole.

Pago l’affitto come tutti, ben felice della mia dimora e non invidio di certo gli appartamenti più grandi e signorili o le villette che certi miei colleghi si sono costruiti per la loro vecchiaia. Al “don Vecchi” si respira l’aria di un paesino di campagna, raccolto intorno al campanile, ove tutti si conoscono e si salutano con amicizia. La vita scorre tranquilla e, come in ogni paese, l’osteria, che chiamiamo “bar” per essere moderni, è collocata nella “piazza grande” e rappresenta il cuore pulsante della comunità.

La mia casa è di per sé accogliente, ma molto spesso è ingentilita da piante in fiore che i miei “concittadini” mi regalano per i motivi più diversi. Da qualche giorno rallegra il soggiorno un bellissimo ceppo di orchidee bianche con una macchietta rossa al centro delle corolle. Mi piace, mentre scrivo sul grande tavolo, accarezzare con lo sguardo questi fiori silenziosi che se ne stanno appartati in un angolo della stanza, rendendo ancora più dolce il soggiorno. Papa Francesco direbbe che sono una “carezza” che dobbiamo accettare come un dono ed un segno di affetto. Queste orchidee me le ha regalate un gruppettino di giovani assistenti moldave ed ucraine che si prendono cura, notte e giorno, di tutti noi anziani del “don Vecchi”.

Questi fiori, che mi sono giunti da persone arrivate da noi da Paesi “in capo al mondo”, sono ora per me un segno di fraternità che apre il cuore ed una visione calda che non trova ostacolo né per le Alpi né per la lingua, motivo per cui mi sento, pur nel mio piccolo guscio, nel cuore dell’universo.

Ottantaquattro anni

C’è sempre qualcuna delle persone più vicine a me che mi rimprovera amabilmente perché “io dico tutto!”.

Quando ero in parrocchia, ero solito pubblicare su un bollettino parrocchiale, tutte le offerte che ricevevo. In verità, anche da questo lato, io mi ritengo un uomo fortunato, perché mentre alcuni colleghi si piangono addosso dicendo che la gente non è generosa, io ho sempre riscontrato l’opposto, forse anche perché ho puntato a sottolineare la generosità dei miei parrocchiani piuttosto che l’avarizia.

Ricordo un vecchietto di via Guido Negri – una strada di Carpenedo – che era solito fare la somma di quanto dichiaravo d’aver ricevuto durante la settimana e si meravigliava dell’entità. Gli amici mi suggerivano di smettere di pubblicare le offerte. Io però non sono mai riuscito a capire perché, se incontro qualcosa di bello, non lo si debba confidare alle persone con cui vivo. In fondo alle stesse persone segnalo tutte le meschinità che incontro sulla mia strada.

Ho compiuto ottantaquattro anni il 15 marzo. Quest’anno la data cadeva di venerdì; quindi, non per superstizione, ma perché al “don Vecchi” ci saremmo incontrati l’indomani per la messa prefestiva, decisi di festeggiare questa data importante appunto di sabato. I festeggiamenti sono consistiti in una bella messa celebrata assieme, qualche preghiera specifica, molti doni semplici, ma fatti col cuore, un brindisi e la torta offerta con la solita generosità dalla ditta di pompe funebri Busolin, e i pasticcini offerti dal catering “Serenissima ristorazione” che serve i pasti al “don Vecchi”.

In tale occasione tutti si aspettavano una parola ed io ero cosciente di doverla dire (quando si vive in famiglia è giusto mettere tutto assieme). Iniziai dicendo: «Cari amici, vi garantisco, per esperienza diretta, che almeno fino agli ottantaquattro, la vita è bella e si può essere contenti. Vale la pena di vivere con fiducia, di far di tutto per aiutare gli altri, di non risparmiarsi perché l’impegno allunga e rende più bella la vita piuttosto che accorciarla e renderla più faticosa. Di queste cose ero, e sono, pienamente convinto, ed essendo la mia vita sotto gli occhi di tutti, spero di esserne un testimone credibile.

Qualcuno dice che sono “una roccia”, quasi non mi costasse l’impegno. Non è vero, sono invece un pover’uomo soggetto a paure, entusiasmi e scoraggiamenti ma anche, su suggerimento del fondatore degli scout – a lui devo molto – voglio essere io al timone della mia barca e, nonostante tutto, voglio lasciarmi indirizzare dalla “stella polare”!

La tenerezza

Un paio di anni fa è morto uno dei direttori della nota rivista “Famiglia cristiana”, don Zega, un discepolo di don Alberione, che è stato il testimone e il profeta del nostro tempo, che ha insegnato ai cattolici della nostra nazione un uso più serio dei mezzi di comunicazione sociale. In quella occasione scrissi più volte di questo giornalista intelligente, brillante, ma soprattutto ricco di umanità e carico di messaggio cristiano.

Don Zega, come tutti gli uomini seri e coerenti, non ebbe vita facile neppure all’interno della sua comunità. Poi, come avviene quasi sempre, una volta morto, la sua rivista e pure i periodici di ispirazione religiosa, si diedero un bel daffare per erigergli un “monumento funebre” quanto mai specioso. Io però ho colto la solitudine, la sofferenza di questo discepolo di Gesù che ha tentato di essere fedele al Vangelo col cuore, con la testa e con la penna.

In uno dei tanti servizi di “Famiglia cristiana” che rendevano onori postumi a questo giornalista dal volto umano, ricordo di aver appreso che in occasione del suo cinquantesimo di sacerdozio era ritornato nel suo povero paese natio e durante il discorso delle sue “nozze d’oro” con la Chiesa, aveva affermato che noi preti dovremmo essere soprattutto testimoni della “tenerezza” di Dio.

Questa frase, che faceva brillare di luce splendida il cuore di Dio, mi aveva davvero colpito, tanto che vi sono ritornato più volte, leggendo nel Creato, ricco di bellezza sovrana, il tocco della “tenerezza” di Dio che ci raggiunge in ogni tempo e in ogni luogo per accarezzare con dolcezza il nostro cuore.

Cosa mi capita di vedere e di sentire in questi giorni? Il Papa che ripete con insistenza che dobbiamo credere nella tenerezza, non temerla, perché è un mezzo per far sentire il battito del cuore di Dio agli uomini del nostro tempo, così soli e bisognosi di un amore semplice e dolce. Ma soprattutto con stupore ho spalancato gli occhi vedendo Il Papa che dà un bacetto sulla guancia alla presidentessa dell’Argentina che, da quanto so, è una “grimetta” di donna non facile. Quella lady dal cappellino sulle ventitrè in maniera un po’ spavalda e da primadonna, ha detto che pensa di essere la prima donna ad essere baciata da un Papa. Io penso che quel bacetto inaspettato e forse – anzi senza forse – immeritato, non le permetterà mai più di immaginare la Chiesa come una suocera impicciona, ma la farà sentire come una madre buona che tutto sa comprendere e perdonare.