“Moda” che non sfonda

Ormai da più di un anno ho ritenuto doveroso aderire ad una legittima richiesta di don Gianni, l’attuale parroco di Carpenedo il quale, rimasto solo in parrocchia, mi ha chiesto di celebrare una santa messa alla domenica nella mia vecchia chiesa nella quale ho celebrato per 35 anni di seguito.

Sia per la mia disponibilità di tempo, sia per una mia richiesta specifica, celebro alle ore 8 del mattino. A quell’ora ci sono pochi fedeli e per di più sono buone persone che si accontentano anche di un povero vecchio prete quale sono io.

Qualche domenica fa, uscendo di chiesa, incontrai una mia coinquilina del “don Vecchi” che, tutta elegante, stava salendo i gradini per entrare in chiesa per la messa successiva alla mia. Sapendo che normalmente va a messa a San Pietro Orseolo, la chiesa parrocchiale a due passi dal “don Vecchi”, mi venne spontaneo chiederle come mai era da quelle parti. Lei, con un sorriso amichevole e felice, mi disse: «La mia nipotina questa mattina fa le letture».

La messa dopo quella che celebro io è rimasta, come un tempo, la “messa del fanciullo”, ed è frequentata da una marea di bambini che animano la celebrazione a modo loro con canti ritmati, mani che si alzano al cielo, letture e preghiere dei fedeli a turno. La liturgia della messa dei bambini ha tutta una sua coreografia che, solo a pensarci, mi fa venire “la pelle d’oca” e mi fa struggere di nostalgia. Ricordo certe messe guidate da don Adriano e da don Gino, così belle, così vive e così affollate che dovevamo costringere gli adulti in fondo alla chiesa tanto era gremita di bambini: lupetti, scout, chierichetti, ecc. Non dimenticherò mai queste feste di fede!

Poi arrivò qualche cappellano “moderno” con il messaggio di non so quale teologo che di pastorale di certo non ne sapeva nulla, ad insegnarci che era sbagliato riservare una messa per i bambini perché loro dovevano partecipare con i genitori, ma soprattutto che il messaggio cristiano era destinato agli adulti (come Gesù non avesse mai detto: «Lasciate che i bambini vengano a me»), oppure a premere perché la prima comunione si facesse alle medie, come se San Pio X non avesse aperto le balaustre ai bambini. Resistetti, però un qualche impoverimento lo dovetti registrare.

Ora non so come vadano le cose nella mia vecchia chiesa e nelle altre parrocchie della città, però rimango ultraconvinto che il modo migliore ed infallibile per arrivare agli adulti è “possedere” i bambini.

A parte poi il fatto che gli adulti o i vecchi che da bambini han fatto esperienze religiose così entusiasmanti non le potranno mai dimenticare e sarà sempre facile riaprire rapporti di fede partendo da esse.

08.05.2014

Marchio D.O.C.

Non c’è ormai quasi regione d’Italia, ma pure borgo, che non rivendichi la prerogativa dell’autenticità di qualche suo prodotto. Da quel poco che so, c’è una commissione o un’istituzione a livello europeo, o forse mondiale, che ha il compito di dichiarare “D.O.C.” un certo tipo di prodotto.

Pur avendo l’impressione che queste sentenze subiscano pressioni o, una volta pubblicate, raggiri ed imitazioni, comunque disporre di un marchio di originalità dà dei vantaggi se non altro di prestigio.

Introduco così l’argomento che mi interessa perché sarei curioso di sapere chi può dichiarare che una persona è PD originale, autentico, D.O.C. Se niente niente seguo con un po’ di attenzione la storia e l’evoluzione dei partiti politici nati con la “liberazione”, dovrei dedurre che l’antenato del PD dovrebbe essere il PCI.

Che vi siano state delle variazioni genetiche dovute alla necessità di acclimatarsi alle nuove situazioni sociali è certo, però non penso che siano state tali da cambiare i connotati di fondo di quella formazione politica.

Questa conclusione mi giunge dal fatto che ho l’impressione che tutti coloro che si rifanno al pensiero nativo del ceppo originale, non riconoscano come uno di loro Matteo Renzi, l’attuale Presidente del Consiglio che pure è segretario nazionale dello stesso partito.

Qualche settimana fa ho assistito all’intervista televisiva di un gestore del bar del paese natio di Renzi, comunista fiorentino a tutto tondo, il quale disse di Renzi: «Quello andava in patronato a giocare a calcio, non in sede di partito!», dimostrando così che non lo riteneva uno dei suoi. Credo che la pensino allo stesso modo D’Alema, Bersani, Cuperlo e la vecchia e nuova guardia che, tutto sommato, si rifà al “manifesto” di Carlo Marx, anche se infiorettato da qualche venatura rosacea. Quella gente pare che senta Renzi come un corpo estraneo a motivo del suo dichiararsi cattolico, del suo dialogare un po’ con tutti per “salvare” l’Italia dal baratro, per il suo non essere a libro paga della CGIL. Al massimo Renzi è pensato almeno come un PD spurio, riuscito male.

Ho la sensazione che tutti costoro si farebbero prestare volentieri la denominazione che il cardinale Siri inventò per i DC di sinistra: “Comunistelli da sagrestia”. Renzi credo che abbia avvertito tutto questo e pur d’aver partita vinta ha detto che “è disposto anche a rispolverare il termine `compagno’ pur che lo considerino abbastanza di sinistra”.

Non credo però che basti; bisognerebbe che facesse suo anche l’atteggiamento anticlericale, rispolverasse la bandiera rossa, registrasse l’asse di trasmissione con la CGIL, ripescasse dalla soffitta la falce e il martello, salutasse col pugno chiuso e tenesse almeno, come segnalibro, una foto di Giuseppe Stalin. Forse così gli sarebbe riconosciuto il marchio di sinistra.

Fino ad un paio di anni fa pensavo che il processo storico del comunismo reale si fosse concluso con lo smantellamento del muro di Berlino. Invece no! Va a finire che neanche questa volta le sirene del PD finiranno per incantarmi e quindi sarò costretto a rifugiarmi tra le braccia di uno dei suoi alleati, anche se fragili e poco consistenti.

07.05.2014

La “pietà minore”

Noi vecchi preti siamo di certo condizionati dal nostro passato, per quanto ci possiamo sforzare di aprirci al nuovo, di avere fiducia nello spirito di Dio che apre alla Chiesa i nuovi percorsi per proporre il messaggio evangelico nei tempi nuovi. Per noi è pressoché impossibile voltare pagina ed abbandonare totalmente le devozioni che nella nostra giovinezza hanno alimentato la nostra fede.

A me si pone di frequente il problema su quello che è bene togliere e quello che invece è opportuno tenere, pur non facendone un feticcio o un problema di fede.

Anche quest’anno, all’inizio del mese di maggio, mi sono posto questo problema e, pur sapendo che il mio invito non avrebbe modificato granché le scelte dei fedeli, li ho sollecitati a partecipare al “fioretto” in parrocchia, a dire il rosario in famiglia o comunque a ravvivare la devozione alla Vergine Santa. D’altronde come avrei potuto dimenticare le mie esperienze di bambino in rapporto al mese di maggio?

Ricordo con comprensibile nostalgia quel mese che favoriva pratiche di pietà a livello di rione e soprattutto famigliare. Come posso dimenticare quei rosari in famiglia dopo cena, che certamente non brillavano per compostezza e pietà, comunque rappresentavano un’esperienza di preghiera!

A casa mia dicevamo il rosario nella cucina piuttosto angusta. Papà, mamma e noi sette figlioli, ognuno rincantucciato in ginocchio con i gomiti sulla sedia. Mi pare fosse la mamma a guidare la preghiera mariana che allora recitavamo in latino. Penso che neanche nostro Signore avrà potuto decifrare quel “latino” molto e molto approssimativo. Mi ricordo ancora quando, più grandicello, seminarista delle medie, organizzavo il rosario per tutte le famiglie della mia strada. Il punto di riferimento per la lode a Maria era un capitello dedicato a sant’Antonio; per noi rappresentava pur un segno di religione e non faceva molta differenza se dentro alla piccola edicola ci fosse la statua del “Santo” o della Madonna!

Cominciavamo un’ora prima a battere su una stanga di ferro che per noi rappresentava il campanile. La gente veniva, certe anziane si portavano la sedia, ma la maggioranza s’accomodava in qualche modo. Talvolta partiva qualche scapaccione da parte dei grandi per quietare i più irrequieti e ogni sera la preghiera si concludeva col canto “E’ l’ora che pia ….”, cantata con tutti i falsetti possibili. Quattro chiacchiere fra i grandi e poi tutti a letto!

Penso che le regole liturgiche venissero sacrificate, però tutto sommato ci ricordavano che lassù, in quel cielo stellato, c’era “Lei” ad ascoltarci.

Io non sono ancora riuscito a risolvere il problema se queste devozioni popolari alimentino o soffochino la fede, però propendo a pensare che ben difficilmente possiamo conservare la sostanza se non usiamo un “cartoccio”, pur malconcio, per contenerle. Spero che i giovani preti mi offrano una soluzione più aggiornata.

06.05.2014

“L’Incontro” datato

A me pare di essere assolutamente cosciente dei miei limiti. Spero quindi che i miei amici mi permettano una confidenza e possano credermi. Per tutta la vita ho sempre sofferto perché mi è parso che mi si chiedesse qualcosa che superava le mie capacità. Anche ora nei miei sogni notturni spesso mi scopro angosciato perché mi pare di trovarmi in situazioni superiori alle mie forze.

Faccio questa premessa per confidare che la stesura di questo diario mi pesa sempre di più e, pur ricevendo fortunatamente molti consensi e molte approvazioni – che penso siano frutto più della bontà della gente che dei miei meriti – mi sono fissato, come termine della direzione del periodico, la fine di dicembre 2014. A tale data consegnerò la testata alla Fondazione Carpinetum qualora credesse opportuno darle un seguito.

Il mio odierno intervento mi viene dal fatto che gli amici più cari, talvolta sorridendo, mi interrogano sulla data della stesura di questa cronaca giornaliera che, normalmente, io scrivo un paio di mesi prima della sua uscita. Per uscire da questo equivoco voglio far presente che ogni giorno del mio “diario” riporta la data del giorno in cui fu redatto e perciò ogni lettore può incorniciare le mie considerazioni su quella data per capire meglio la mia lettura dei fatti e le mie reazioni agli eventi.

Devo poi aggiungere che le mie riflessioni sono più legate al contenuto che alla data e perciò dovranno essere valutate soprattutto in rapporto alla sostanza del discorso. Sono giunto a queste determinazioni un po’ perché butto giù le mie riflessioni quando ho tempo ed un po’ perché se mi trovassi a ridosso dell’uscita del periodico mi sentirei quasi paralizzato dall’urgenza e finirei per offrire un prodotto ancora più povero.

Col passare dei mesi forse per giustificarmi delle riflessioni che si rifanno ad eventi già datati, ho finito per vedere in questa scelta un potenziale vantaggio, cioè la capacità del discorso di andare oltre la contingenza dell’atmosfera dell’evento.

Per spiegarmi meglio vorrei fare un esempio: se un giorno sento il bisogno di fare in anticipo un discorso che prima o poi va fatto, cioè come e in che modo i discepoli di Gesù sono arrivati a scoprire il Risorto, penso che questo discorso possa valere sia vicino a Pasqua che molti mesi dopo.

Ho conosciuto un vecchio prete veneziano, mio insegnante di storia, persona molto intelligente e anticonformista per antonomasia, il quale comperava ogni giorno il Gazzettino e lo metteva sulla sua scrivania per leggerlo uno o due mesi dopo. Diceva a noi: «Solo così ci si rende conto della differenza che passa tra ciò che è effimero e ciò che invece ha valore». Quell’insegnante che usava questo metodo, comunque si dimostrava persona quanto mai saggia.

Mi auguro che questo metodo che io sono costretto a scegliere mi porti allo stesso risultato.

05.05.2014

Il Risorto

Io ho una forte propensione a cercare e a scoprire la presenza e il volto di Dio all’interno del meraviglioso progetto del nostro mondo che l’Altissimo ha predisposto fin dall’eternità, piuttosto che nella rivelazione dei mistici o nei miracoli che avvengono qua e là. Mi è molto più facile inebriarmi della manifestazione dell’Autore della vita nel volto di un uccello, nella bellezza anche del più umile dei fiori, negli occhi incantati di un bambino o nel volto soave di una donna che nel racconto del più mirabolante dei miracoli compiuti da sant’Antonio o da santa Rita.

Qualcuno può legittimamente chiedersi come mai tutto questo, quando ogni anno decine di milioni di persone vanno a cercare di veder di ottenere miracoli presso la Basilica del Santo o al Santuario di Padre Pio, a Pompei, a Lourdes o, da vent’anni, a Medjugorje. Io di certo non pretendo che gli altri la pensino come me, però credo che quello che Dio ha creato sia tutto così meraviglioso che non sento assolutamente il bisogno di ulteriori rivelazioni o miracoli: essi sono già nel Creato!

Mi ha convinto e ho fatto mia l’affermazione del famosissimo entomologo Faber: «Io non ho bisogno di credere in Dio, perché lo vedo già in ciò che lui ha creato» Qualcuno potrà aggiungere: “E come la mettiamo con tutti i miracoli che si raccontano nella storia della Chiesa?” Io sono propenso a pensare che ogni momento della storia ha una sua peculiarità nell’interpretare le “meraviglie di Dio”. Penso che lo stesso Signore ha delegato la scienza a manifestare l’amore che Egli ha nei riguardi delle sue creature avvalendosi delle leggi che Lui ha fatto fin dall’eternità e che sono veramente prodigiose.

Per anni sono stato fortemente perplesso sulla Resurrezione di Gesù perché “i conti” davvero non tornano: la Maddalena, che amava certamente Gesù, che lo scambia per un ortolano, i discepoli di Emmaus, che pur l’avevano conosciuto e sentito parlare, che non lo riconoscono di primo acchito, le donne che pensano che l’abbiano portato via, Tommaso che dubita e non crede ai suoi amici, gli stessi apostoli che rimangono perplessi e perfino spaventati della sua presenza, ed altro ancora.

Nel lontano passato avevo sempre pensato al Risorto nei termini con i quali i pittori gli avevano dato volto e sembianze, cioè una persona sfolgorante di luce e d’incanto. Ora sono più propenso a ritenere che pure gli apostoli abbiano riconosciuto la sua presenza nell’avverarsi di ciò che lui aveva detto, nell’interpretare positivamente la vita e le persone, nel riconoscere negli uomini migliori il suo tratto e negli eventi positivi della storia quelle tessere diverse per forma e colore che però, coniugate ad una ad una, offrono il volto vivo e meraviglioso del Figlio di Dio ancora oggi presente nel nostro mondo ad annunciare la salvezza.

La mia ricerca procede talvolta con difficoltà e dubbi, mi pare però che non tolga nulla al portento di Dio, anzi lo coniughi in maniera più armoniosa e credibile alla sensibilità degli uomini del nostro secolo.

11.05.2014

Siamo seri con Dio!

Domenica scorsa la Chiesa ha celebrato la festa del “buon pastore” offrendo alla nostra riflessione la pagina dell’evangelista san Giovanni che tratta questo argomento.

Io per ben sessant’anni da prete ho fatto la predica su questo argomento e per quasi una ventina ho ascoltato quella fatta dagli altri. Non si può immaginare quanta sia la difficoltà di dire qualcosa di nuovo, ma soprattutto qualcosa che faccia presa sulla coscienza e determini gli ascoltatori a fidarsi di Cristo che si propone come guida sicura per le nostre vite.

Di primo acchito, quasi per istinto, riandai ai ricordi della mia infanzia, quando in questa occasione si festeggiava il parroco quale pastore della comunità cristiana. Immediatamente però ho capito che questa lettura della pagina evangelica è assolutamente riduttiva e soprattutto romantica. Volesse il Cielo che i parroci e i preti fossero immagine fedele e credibile di Cristo, unico ed insuperabile “pastore delle nostre anime”, che conduce gli uomini verso la “terra promessa” e li aiuta a vivere secondo i suoi insegnamenti!

Mi parve subito di dover dare per scontato che le soluzioni previste da Cristo sul senso della vita sono le più adeguate alle attese degli uomini di tutti i tempi, perché anche i non credenti mi pare diano per scontato che Cristo è un leader indiscusso, credibile ed insuperabile. Mi è parso invece che fosse opportuno condurre la riflessione su come “il gregge” e le singole “pecore” ascoltano, prestano fiducia e si lasciano condurre da questo pastore che ha affermato di conoscerci personalmente, di amarci fino a morire per la nostra salvezza e di condurci con sicurezza alla casa del Padre.

Ribadii con forza e con convinzione che ormai per abitudine siamo quanto mai facili a fare solenni promesse, ad emettere perentori atti di fede, ma che, a pensarci bene, nelle scelte concrete della vita siamo più inclini a fidarci delle nostre esperienze, di ciò che ci è più conveniente. Soprattutto ho affermato che dobbiamo essere più seri nei rapporti con Dio, e che è ora di finirla di fare bei discorsi, grandi promesse per poi comportarci senza tener troppo conto di ciò che ci dice.

Per tentare di incidere in maniera più convincente portai due esempi: quello di un prete americano, Leo Trese, che confessa in un suo libro che quando recitava il Padrenostro alle parole “sia fatta la Tua volontà” faceva fatica a continuare perché temeva che la volontà di Dio potesse essere diversa da quanto lui desiderava e non se la sentiva di prendere in giro anche Dio con una promessa che aveva grande paura di non mantenere.

Riferii pure il suggerimento del grande educatore che fu il fondatore degli scout che diceva ai suoi ragazzi: «Quando dovete decidere qualcosa, chiedetevi come la penserebbe Gesù, che cosa farebbe lui al vostro posto e poi comportatevi come pensate che lui si comporterebbe».

Mi è parso, dal silenzio con cui l’assemblea ha seguito il discorso, che almeno si sia posta il problema di non parlare a vanvera con Dio.

09.05.2014

I proprietari del “don Vecchi 5”

Non sempre i discorsi di carattere legale e giuridico rispettano e dichiarano la realtà. Ritengo però che da un punto di vista morale sia più importante “il reale” che ciò che afferma la legge, anche se per la società i titoli validi sono quelli legali.

Vengo ad un discorso concreto che riguarda il “don Vecchi 5”. Mercoledì prossimo (14 maggio 2014, NdR) sarà festosamente inaugurata la nuova struttura a favore degli anziani poveri in perdita di autonomia. Qualcuno ha chiesto di chi sia la proprietà del nuovo grande manufatto. La risposta, per la mia parte, è molto semplice, mentre da un’altra parte rimane più confusa per la differenza tra titoli di proprietà di tipo giuridico e quelli reali.

Sento il dovere di fare questa precisazione perché è tempo che i cittadini prendano coscienza dei loro diritti nei riguardi delle strutture di carattere pubblico e di quelle “appartenenti al “privato sociale”, ossia quelle realtà che operano in maniera disinteressata a favore della società.

Una parte del “don Vecchi” appartiene alla Regione, che ha fatto un prestito di duemilioniottocentomila euro, soldi che la Fondazione dovrà restituire fino all’ultimo centesimo mediante rate annuali.

L’altra parte della proprietà, cioè l’altro milioneduecentomila euro è di proprietà “reale” dei cittadini che hanno sottoscritto una o più azioni di cinquanta euro ciascuna di che la Fondazione ne ha decretato la cessione per poter realizzare la nuova struttura…

Mercoledì, giorno dell’inaugurazione, la Fondazione consegnerà pure “certificati di deposito” di 100 azioni l’una a concittadini che hanno contribuito in maniera decisiva alla realizzazione del “don Vecchi 5”. Per qualcuno questo discorso potrà forse apparire come un espediente per raggranellare il denaro occorrente, in realtà sotto questa operazione c’è pure la filosofia che tende a far prendere coscienza alla città che le strutture di ordine sociale non sono fruibili a sola discrezione di chi ha il titolo legale di possesso, ma sono autentica proprietà dei cittadini sottoscrittori che con i loro contributi, piccoli o grandi, hanno reso possibile la realizzazione dell’opera. Ci sono dei cittadini che posseggono un’azione ed altri che ne posseggono perfino ottomila, avendo sborsato ben quattrocentomila euro.

L’operazione della cessione delle azioni non è quindi un espediente di ordine finanziario, ma di ordine culturale e sociale per far crescere la consapevolezza del diritto e dovere di essere partecipi a tutto quello che riguarda la comunità.

10.05.2014

Il discorso che vorrei fare

Mercoledì prossimo (il 14 maggio 2014, NdR) verrà inaugurato il “don Vecchi 5” in quel degli Arzeroni, alle spalle dell’Ospedale dell’Angelo.

La nuova struttura è un’opera veramente notevole: quattro milioni di euro, dieci mesi di lavoro pressante, 65 alloggi per anziani in perdita di autonomia. Un passo avanti in relazione agli altri Centri “don Vecchi” nei quali, almeno ufficialmente, vivono anziani autosufficienti, ma che in realtà terminano i loro giorni nell’alloggio dove han trascorso, a loro dire, i giorni più sereni della loro vita, in un ambiente signorile, con infinite agevolazioni a tutti i livelli e soprattutto non dovendo pesare, da un punto di vista economico, sui loro figli. E’ sempre stato un punto d’onore, prima della parrocchia e poi della Fondazione, che anche gli anziani con la pensione sociale potessero vivere con gli stessi confort dei colleghi con pensioni più consistenti.

Questa è la prima volta che non devo presentare alla città e ai suoi reggitori la nuova impresa di carattere solidale: sarà don Gianni, il mio giovane successore, che avrà questo compito che per me è sempre stato faticoso. Non so se mi chiederà di dire una parola, andrà bene in ogni caso, ma se mi fosse richiesta, direi queste cose al sindaco, alla Regione e ai concittadini.

  1. Quest’opera non è costata nulla alla società civile né alla Chiesa. La Regione ci ha anticipato duemilioniottocentomila euro, ma le saranno restituiti fino all’ultimo centesimo. Neppure alla diocesi è costato un solo centesimo perché il milione e duecentomila euro che mancano ai quattro milioni lo ha regalato la popolazione.
    L’opera è stata realizzata in dieci mesi mentre per la “rotonda” del nostro cimitero sono occorsi 14 anni!
    Il costo è stato di quattro milioni, mentre per l’ente pubblico sarebbe costato almeno sei. In conclusione l’ente pubblico dovrebbe sempre avvalersi del “privato sociale” perché più agile, più economo, più veloce.
    Durante questi mesi era una festa vedere trenta, quaranta operai lavorare sereni ed altrettanto le ditte che hanno appaltato il lavoro, perché i soldi sono arrivati sempre puntuali; neppure con un giorno di ritardo.
  2. Questa struttura appare già ora elegante e signorile, ma fra due tre mesi lo sarà molto e molto di più. Arrederemo con quadri, mobili di pregio, tappeti, piante; per i poveri la signorilità non è mai troppa.

Aggiungerei con infinita decisione: «Questo luogo è destinato ai poveri, se mi accorgessi che si deviasse da questo scopo, verrei anche dopo morto a “tirare i piedi” a chi facesse altrimenti. La Chiesa ha il dovere di impegnarsi sempre e comunque per i fratelli più poveri e più in disagio».

Infine aggiungerei ancora, con convinzione e con forza, che è tempo ed ora che l’ente pubblico snellisca la sua burocrazia; se il Comune ci mettesse al massimo un mese per rilasciare la concessione edilizia, fra un mese sarebbero nuovamente messe in moto le gru per costruire la “grande casa per i cittadini in disagio”.

Non so se mi sarà data l’opportunità di fare questo discorso, comunque lo porto nel cuore e farò di tutto perché pungoli l’ente pubblico ancora lento, farraginoso e spesso inconcludente.

08.05.2014

Fiducia nel Padre

Oggi, per motivi assolutamente accidentali e per favorire i famigliari in lutto, nella mattinata ho celebrato due funerali. Mi è costato un po’, non per la fatica fisica – anche se alla mia età si fa sentire anche per molto meno – ma per la tensione interiore: non solamente per non banalizzare l’evento della morte rendendolo puramente rito e cerimonia ancora fortemente richiesta dalla tradizione della nostra gente, ma per approfittare di questa occasione per fare un annuncio incisivo della proposta cristiana sulla vita e sulla morte.

Sono rare oggi le occasioni in cui si può mettere gli uomini con le spalle al muro per far loro capire che bisogna scegliere e che non si può continuare a vivere il cristianesimo come un ingombro pressoché inutile che si deve tirar fuori per convenienza in determinate occasioni perché tutti fanno ancora così.

Fino ad una ventina di anni fa non avrei potuto fare i due funerali che ho celebrato questa mattina per le norme vigenti a quel tempo perché allora “i cari estinti” erano considerati “pubblici peccatori”, uno perché si è suicidato, l’altro perché era immischiato in una serie di “convivenze” che, nonostante le spiegazioni, non sono riuscito a capire, tanto erano ingarbugliate e complesse.

Ho dovuto “volare alto” per non irritare qualcuno. I famigliari di ambedue i casi mi hanno dichiarato ormai quello che sento ripetere tanto di frequente: ambedue non erano praticanti ma comunque, pur a modo loro, erano credenti. Penso proprio che le cose stiano così, infatti ormai tutte le statistiche affermano che anche nel nostro Veneto, dove le cose a tal proposito vanno meglio che in tutto il resto del Paese, i praticanti non superano il 20 per cento.

In queste occasioni vado sempre ad attingere speranza e fiducia nella parabola del Padre del “figliol prodigo” e sempre ne trovo motivi più che sufficienti per presentare al buon Dio ogni tipo di persona, credente o non credente. Guai a noi se Gesù non ci avesse raccontato quella parabola che ci mostra il cuore di Dio ben differente dal “Dio carabiniere” che ho conosciuto al catechismo in fanciullezza o al “Dio magistrato” quanto mai rigoroso ed attaccato alla legge, conosciuto nei miei studi di morale.

Confesso che non ho trovato troppa difficoltà nell’affidare al buon Dio con fiducia e serenità questi due fratelli che molto tempo fa avevano detto al Padre: «Dammi la parte che mi spetta perché voglio vivere la mia vita come mi pare meglio» e l’uno e l’altro avevano fatto di testa loro riducendosi in situazioni angosciose.

Continuai dicendo: «Perché il Padre dovrebbe comportarsi diversamente da quanto aveva fatto dire a suo Figlio duemila anni fa?» M’è parso che famigliari ed amici siano usciti di chiesa un po’ rasserenati e soprattutto riconciliati col Signore. Spero che duri!

07.05.2014

Sorpresa iniziale

Non so se l’ho battezzato, comunque uno dei miei “ragazzi” che conosco dall’infanzia s’è incontrato un po’ tardi con una ragazza che invece conosco da tre, quattro anni soltanto, ma che stimo e a cui voglio veramente bene. Questi “incontri” oggi spesso vanno a finire in una convivenza; nel caso mio invece, con mia enorme soddisfazione, l’incontro è sfociato in un annuncio di matrimonio davanti all’altare.

Uno dei problemi che io ritenevo del tutto marginali sta però nel fatto che lei è ortodossa, mentre il mio ragazzo cattolico.

Per salvare le due diverse tradizioni pensavo che gli esperti di liturgia delle due Chiese sorelle avessero studiato una qualche formula che accontentasse ambedue i riti e che il matrimonio celebrato sia in una o nell’altra chiesa fosse ritenuto comunque un matrimonio valido a tutti gli effetti. Al massimo supponevo che, per omaggio alla tradizione, il prete e il pope avessero invocato la benedizione del Signore con due preghiere nate in contesti diversi ma che ambedue chiedessero al Signore il dono dei figli e il dono di un amore fedele e duraturo.

Dai primi approcci sembra invece che le cose stiano diversamente. Il pope, almeno se la fidanzata ha capito bene, avrebbe detto che se si fossero sposati in una chiesa cattolica avrebbero dovuto ripetere il rito anche in quella ortodossa perché gli ortodossi non riconoscono valido il matrimonio dei cattolici.

Io chiesi pure all’esperto della mia curia come stessero le cose, perché mi pareva assurda la soluzione prospettata, perché le finalità del matrimonio – amore reciproco e fedele, fecondità e scelta di essere un segno visibile di Dio amore (sostanza del matrimonio religioso) – credo che non possano essere diverse. L’esperto della curia mi ha detto che mi avrebbe concesso senza difficoltà il permesso di celebrare il matrimonio nonostante la sposa non sia cattolica. Neanche questa soluzione mi è piaciuta, come non ho condiviso quella del pope, perché la mia curia mi pare parta da una posizione altrettanto autoritaria e supponente.

Da tanti anni sento parlare di ecumenismo, incontri, discussioni ed altro per arrivare all’unità, però se siamo ancora a questo livello penso che neppure l’eternità sarà sufficiente alle Chiese cristiane per rispondere positivamente all’invito di Gesù di convenire in “un unico ovile sotto un solo pastore”.

E’ mia intenzione incontrare il pope di Mestre che, da quanto mi è dato sapere è un buon cristiano, ma se le norme delle due Chiese pretendessero la celebrazione diversa dell’unico sacramento – perché il rito nunziale non può che essere questo – tanto volentieri parteciperò dall’ultimo banco della chiesa ortodossa, pur con tanta tristezza per tanta chiusura reciproca.

Per me è assolutamente assodato che oggi né semplici cristiani e neppure preti sanno più perché le varie confessioni religiose cristiane siano divise, oppure sappiamo tutti bene che le cause della divisione hanno poco o nulla a che fare con la fede in Gesù Figlio di Dio.

Mi pare sia tempo che se i vertici sono ancora condizionati dal passato, almeno noi “base”, troviamo con semplicità il terreno del dialogo e della comunione.

06.05.2014

I miei prèsidi

Un tempo gli obiettivi della famiglia, della società e della Chiesa, nei riguardi dell’educazione dei ragazzi, erano pressoché gli stessi. Almeno a livello ufficiale si puntava a dare agli alunni una formazione che avesse come fondamento i valori proposti dal messaggio cristiano.

Penso però che, a partire dal sessantotto, il tempo della contestazione più radicale, alla società esistente allora, questa impostazione venne meno rovinosamente e, eccettuato qualche caso di docenti di una certa età e di una personalità ben consolidata, nel migliore dei casi gli insegnanti, quando erano bravi e preparati, si ridussero a passare nozioni, non sentendosi più autorizzati, o non essendo più convinti di avere il diritto di fare una proposta educativa impostata su valori della tradizione del nostro Paese. E credo che la scuola debba ancora rifarsi da quella batosta.

In altri Paesi perlomeno l’educazione si rifà alla carta di fondo che è la Costituzione. Da noi però, nonostante si dica che la nostra è una bella Costituzione, essa rimane una nobile sconosciuta.

La mia vicenda di insegnamento si svolse un po’ prima, un po’ durante e un po’ dopo la contestazione, ma fortunatamente ho incontrato dei presidi con idee chiare e che sapevano tenere con coraggio e saggezza il timone della loro scuola.

Ho cominciato intorno al ’56 ad insegnare al “Volta”, istituto tecnico. Era preside allora un signore che tutti dicevano “fascista”, ma che in realtà era soltanto una persona che credeva ai valori della vita e pretendeva che sia gli alunni che i docenti facessero il loro dovere. Per me fu un uomo serio che guidava con decisione e saggezza la sua scuola.

Un paio di anni dopo fui trasferito alle commerciali per insegnare alle classi superiori. Vi era un preside che gli alunni chiamavano “il gobbo” che si faceva valere con assoluta autorità e che tutti, sia alunni che insegnanti, temevano quanto mai. In realtà con me è stato tanto caro ed ho capito che amava seriamente gli alunni e li difendeva da certi giovani docenti che facevano i tirannelli.

L’esperienza successiva la feci al “Pacinotti”, l’istituto tecnico per periti. Era allora preside l’ing. Zuccante, vero educatore e formatore della gioventù. Ricordo ancora come mi accolse: «Reverendo, la mia scuola più che di un docente di religione ha bisogno di un assistente per crescere in maniera sana i miei ragazzi». Fu quella un’esperienza bellissima della quale ricordo i frutti anche dopo quarant’anni.

L’ultima e più lunga esperienza la feci alle magistrali ed è stata meno entusiasmante perché il preside era più un burocrate che un educatore; procedeva infatti a base di regolamenti.

L’incontro con questi uomini della scuola mi fu molto utile, perché mi fece capire che un educatore deve vivere e passare valori autentici, rifacendosi alla sua coscienza d’uomo piuttosto che ai manuali o ai regolamenti.

Forte di questa esperienza, ho sempre tentato di imitare i migliori tenendo ben forte il timone delle mie navi, non lasciandomi influenzare dalle mode del momento.

05.05.2014

Pane con l’uvetta

Una volta mio fratello, don Roberto, parroco di Chirignago, che per certi aspetti è una “macchietta” come mio padre, ha usato un’espressione un po’ banale per dire che mentre io sono stato fortunato nella mia vita di prete, lui lo è stato meno di me. Per rendere più evidente questa immagine della mia fortuna, ha affermato che io sto sotto una doccia che ha tutti i buchetti aperti, mentre nella sua molti sono otturati e perciò il benessere scende meno abbondante. Come dire che io sono stato fortunato e lo sono ancora perché dai buchetti tutti aperti della mia doccia sono scesi dollari ed euro in sovrabbondanza, mentre dalle sue parti le cose non sono andate allo stesso modo.

A parte l’immagine singolare usata da mio fratello e la sua sottolineatura, è pur vero che io sono stato fortunato nella mia vita oltre ogni dire. Non solo non mi è mancato nulla ma ne ho avuto in sovrappiù. Ad esempio io non mi sono mai dovuto comperare un’automobile, anzi, pur se usate, ho avuto sempre l’imbarazzo della scelta. Potrei continuare a lungo: ho vestiti per vivere altri vent’anni senza acquistarne altri. Di libri da leggere potrei averne per un altro mezzo secolo. Soldi per finanziare le strutture in cui mi sono impegnato non mi sono mai mancati: a tempo debito sono arrivati e anche in sovrabbondanza.

Tante volte devo addirittura andar cauto nell’apprezzare qualcosa, perché c’è sempre chi si preoccupa di farmela avere prontamente. Qualche giorno fa, in occasione di un’espressione che mi è uscita quasi per caso, s’è innescato un meccanismo veramente sorprendente. Erano arrivati i generi alimentari della Cadoro e tra questi c’era del pane con l’uvetta. Era dal tempo delle medie, quando nell’intervallo tra le lezioni si poteva acquistare il panino con l’uvetta, che non mi era più capitato di vedere questo tipo di pane. La mia sorpresa è stata interpretata dai volontari come una mia passione per il pane con l’uvetta e quindi non passa giorno che non mi facciano avere qualche panino, tanto che un giorno della settimana scorsa ho potuto donarne una settantina, anche se un po’ vecchiotti, ai commensali del Seniorestaurant.

Questo episodio mi ha reso ancor più cosciente di quanto debba benedire e ringraziare il Signore per tutto quello che mi ha dato in abbondanza e soprattutto delle splendide e meravigliose creature che mi ha messo accanto in tutte le stagioni della mia vita.

Il pane con l’uvetta che mi hanno regalato è quello scaduto che i supermercati non possono più vendere e che la gente si guarda bene dal mangiare, mentre io lo prendo volentieri anche un mese dopo. Allora una volta ancora m’è venuto da concludere: “come può stare in piedi la nostra Italietta se abbiamo tecnici e governanti tanto poco saggi da prescrivere di buttare il giorno dopo questo ben di Dio, e dei concittadini così balordi da ascoltare persone così dissennate e sperperone?” Mi riconfermo nel pensare che il buon senso vale molto di più delle leggi stesse e a questo dobbiamo attenerci.

04.05.2014

Marco e Francesco

L’altro ieri ho letto che il consenso a Renzi sfiora il settanta per cento. Sono molto contento perché finalmente Cincinnato ha trovato almeno un discepolo, cosa non facile nel nostro tempo.

Il nostro nuovo Presidente del Consiglio non ha fatto il discorso compassato dell’antico romano: “O mi accettate così, altrimenti torno a fare il contadino e vorrà dire che se Roma riterrà di avere bisogno di uno come me, mi troverà al lavoro nei miei campi”. Il Matteo, fiorentino fino al midollo, ha fatto un ragionamento più scanzonato: “O la va o la spacca!”. La sostanza però è sempre la stessa!.

Sono contento perché, seppur ora si tratta soltanto di qualche mosca bianca, pare che nel nostro Paese finalmente compaia qualcuno che si mette tutto in gioco.

Papa Francesco, da quanto ho letto, supera presso i Veneti il 90 per cento di consensi; mi pare che lui la pensi alla stessa maniera. La sua rivoluzione è una delle più radicali e di più rapida esecuzione. Pure Papa Francesco è uno che punta al sodo, che non si fa imbrigliare dal perbenismo ossequioso e inconcludente e che si sta giocando totalmente sull’obiettivo di una Chiesa povera per i poveri e soprattutto su una Chiesa di stampo evangelico senza mediazione e gradualità di sorta.

L’ultima di questo pontefice che non cessa di sorprendere, è la telefonata a Marco Pannella, il più anticlericale degli anticlericali esistenti non solo in Italia ma nel mondo intero. Il fatto che poi sia stata la Bonino a chiedere questa telefonata – almeno da quanto affermano i giornali – mi fa ancora più tenerezza e soprattutto mi fa capire che quando gli obiettivi sono veri, su di essi finiscono per convergere le persone oneste e sensibili alle istanze dei deboli.

Bella la testimonianza di Pannella! Che si batte da una vita perché le carceri siano più umane, ma soprattutto perché tendano realmente al recupero umano e sociale dei detenuti, mentre i politici piuttosto di affrontare e risolvere i problemi del Paese, sembrano totalmente impegnati a trovar motivi per far prevalere la loro parte e a conservare ulteriormente la propria sedia.

«Le sono accanto, l’aiuterò con la mia parola e la mia preghiera», promette Francesco. «Berrò un caffè in suo onore», ribatte il leader radicale. Una volta ancora si capisce che quando le persone sono oneste e gli obiettivi sono validi, si trova sempre un’intesa, mentre quando non c’è onestà di fondo e motivazioni valide tutto diventa pretesto per litigare e dividersi.

03.05.2014

Le parole e i fatti

Io il cardinal Bertone, già segretario di Stato di Papa Benedetto e messo in pensione da Papa Francesco, non lo conosco affatto e per quanto ne so può essere un santo prelato. O meglio, un paio di anni fa, quando si fece un gran parlare del “corvo” nascosto in Vaticano e qualcuno arrivò a sospettare che avesse qualche collegamento con il grande prelato, lessi una lunga intervista che questo cardinale rilasciò a “Famiglia Cristiana”. A dire la verità rimasi un po’ deluso perché nelle due tre pagine di affermazioni di fedeltà alla Chiesa e al Pontefice, non emergeva una posizione chiara e convincente.

In seguito ogni tanto mi è capitato di leggere pure qualche insinuazione dei soliti laici, però le ritenni sempre pettegolezzi e cattiverie. Sennonché, prima su un giornale di solito serio lessi che il cardinal Bertone si era ritirato in una suite di 800 metri quadri (ancora una volta pensai ad una delle tante malignità). Poi, qualche giorno fa, un lettore che spesso mi manda delle email sugli argomenti più disparati con critiche talvolta benevole e talora amare, me ne ha mandata una in cui dice che un prelato indignato ha affermato a radio 24 che quel cardinale si è accontentato, per trascorrere la sua vita di pensionato, di un immobile di 700 metri quadrati, 600 di appartamento e 100 di terrazza.

Il lettore mi ha domandato che cosa ne penso di questa vicenda. Queste notizie toccano un mio nervo che da una vita rimane scoperto. Spero che ci sia ancora qualcuno che ricordi che chiesi pubblicamente al vescovo Luciani di fare il suo ingresso a Venezia in “600” e al vescovo Olivotti di liberarsi della Mercedes. A quei tempi ricevetti dei richiami ufficiali, ora però che lo stesso pontefice abita in un appartamento poco più grande del mio, che è di 49 metri quadrati, e che in poco tempo ha chiesto ai preti di non usare auto di lusso, credo di non correre più questo pericolo perché sento ben coperte le mie spalle, seppure alla fine della mia vita e dopo tanti anni di solitudine.

La pedofilia dei preti recentemente ha recato infiniti guai alla nostra Chiesa, però la ricchezza, o perlomeno l’agiatezza di un certo clero, è un’altra piaga. All’infuori di Papa Francesco che non solo ha scelto il nome del Poverello di Assisi innamorato di Madonna povertà, ma pure coi fatti l’ha seguito fedelmente, mi pare che vi sia ancora troppa indulgenza da parte del Popolo di Dio nei riguardi di questa piaga.

La storia della Chiesa per fortuna è quanto mai ricca di preti e vescovi dalla vita sobria, però credo che la vergogna di una vita agiata e più che confortevole sia ancora presente, prova ne sia che gli appartamentini del “don Vecchi” destinati ai preti vecchi, per un motivo o per l’altro sarebbero ancora tutti sfitti se non li avessi destinati ad altri anziani.

02.05.2014

“Ti voglio bene!”

Sono ben conscio che qualcuno può reputare fatuo l’argomento che sono sollecitato ad affrontare partendo da una cara e nobile tradizione veneziana.

Per San Marco anche quest’anno si è ripetuto il bel gesto di offrire una rosa alla propria donna, che non necessariamente deve essere la fidanzata, la moglie o l’amica, ma che possono essere, come nel caso mio, le suore che mi aiutano, o le donne dell’est che da anni sono lontane dal marito, dai figli e dalla loro terra e non si sentono ripetere “brava!”, “ti voglio bene” o “ti sono riconoscente”, oppure una creatura che pur ha nel petto un cuore di donna assetato di tenerezza, ma che non può sognare l’amore secondo gli schemi comuni.

Il mattino della festa di San Marco sono andato dal fiorista per acquistare otto rose rosse col gambo lungo per offrirle come segno di affetto e di riconoscenza a donne che vivono con me nel piccolo borgo del “don Vecchi”. Se però avessi potuto seguire l’impulso del mio cuore ne avrei acquistate cento di rose rosse per donarle a quelle creature che per San Marco non hanno nessuno a porre loro in mano una rosa rossa con un sorriso guardandole negli occhi.

Questo gesto gentile non lo reputo affatto romantico, ottocentesco o sentimentalismo dolciastro, ma segno di autentica virilità. A me capita assai di frequente, facendo il prete in cimitero, che in maniera più o meno esplicita mi si chieda di dire a chi sta partendo per il Cielo le parole care e belle che altri avrebbero dovuto dire e che pur avevano una vita per poterle dire. Quante volte non mi son chiesto perché le belle composizioni di fiori, le espressioni variegate dell’amore non si manifestano nei tempi propizi, per non rimpiangere poi di non averle dette o per dirle a tempo scaduto.

Il buon Dio ha riempito il cuore di ogni creatura del sentimento dell’amore che è il fiore più bello, più importante e più gradito, mentre tantissimi uomini lo seppelliscono dentro il proprio cuore e lo coprono con una lapide cupa e pesante, quando invece esso è destinato a rendere bella e sorridente la vita.

A questo proposito conservo nella memoria due testimonianze apparentemente opposte, ma che invece esprimono lo stesso bisogno e lo stesso dovere.

Molti anni fa un omone con due baffi alla Guareschi mi fece questa confidenza, mentre i suoi occhi faticavano a trattenere le lacrime: «Io amo con tutto il mio cuore mia moglie, ma in cinquant’anni di matrimonio non sono riuscito mai una volta a dirglielo». E un’altra volta, più di recente, avendo letto un articolo di una cara collaboratrice, nel quale suggeriva ai lettori di dire di frequente alle persone con le quali si vive, “ti voglio bene”, perché ciò rende più facile e più lieve la vita, incontrandola, tra il serio e il faceto, le dissi la frase che lei suggeriva con tanto calore. Dapprima rimase perplessa, poi ci mettemmo a ridere divertiti ambedue. L’amore è un fiore che deve sbocciare e quando nasce da cuori sereni, fa sempre bene!

01.05.2014