San Marco e i Veneti

Da una ventina di anni pare che il Veneto stia recuperando la consapevolezza di essere un popolo con una storia illustre, con una cultura quanto mai significativa, con un patrimonio artistico inestimabile e con delle tradizioni che vanno riscoperte perché belle e intonate alla sensibilità della nostra gente.

Onestamente credo che gli interventi della Lega, che pur per molti aspetti si è dimostrata rozza, spesso egoista e sprezzante di altre regioni, tutto sommato, e forse nonostante tutto, sono riusciti a ridestare la consapevolezza della nostra identità ed hanno liberato questa coscienza da discorsi formali, sclerotici e pieni di una retorica inconcludente.

In questi ultimi anni poi, i cosiddetti “venetisti” han ribadito ed approfondito queste tensioni e anche se con qualche manifestazione velleitaria, farsesca e teatrale, hanno rattizzato questi sentimenti che rimanevano languenti sotto la cenere di mille problemi di sopravvivenza.

La trovata del referendum on-line, con quel risultato plebiscitario, per molti motivi sorprendente, mi pare abbia denunciato il bisogno del recupero del meglio della civiltà dei Veneti, che ha come punto di riferimento naturale Venezia, l’incantevole perla della laguna e della “Serenissima Repubblica”, come modello di buon governo, di efficienza amministrativa e soprattutto di capacità di produrre ricchezza.

Non mi voglio però addentrare in questo discorso su cui sono poco aggiornato e di cui non condivido appieno le tesi dei movimenti locali di ordine separatista e, peggio ancora, di marcato egoismo nei confronti di regioni meno evolute culturalmente e meno abituate all’impegno, alla legalità e all’autonomia amministrativa. Io sono, a scanso di ogni equivoco, favorevole a forme di autonomia, ma caratterizzate da una forte valenza solidale. Non mi dispiacerebbe se ogni città, e perfino ogni piccolo borgo, curasse il suo volto specifico, amasse e potenziasse la propria cultura e le proprie tradizioni, senza tuttavia mettere in discussione la solidarietà nei riguardi di altri gruppi sociali.

Per me è tempo che ognuno innalzi sui pennoni delle piazze del suo paese la bandiera che ama, coltivi le proprie tradizioni, metta in luce la propria cultura, però rispetti gli altri e collabori con loro per il benessere e la dignità di tutti.

In occasione della festa di San Marco ho avvertito quest’anno più che mai l’urgenza e il bisogno di fare il punto su queste problematiche per non arrischiare di ubriacarmi di sogni impossibili o di non prendere coscienza di questa istanza all’autonomia che dalla richiesta di pochi storicamente nostalgici della gloria del passato, sta salendo alla coscienza di molti fra la nostra gente.

30.04.2014

“Madonna dI rosa”

Questi giorni di primavera favoriscono alquanto una iniziativa che da anni una piccola ma generosa ed intelligente équipe di amici del Centro don Vecchi ha posto in atto e sta perfezionando nel tempo. La denominazione dell’iniziativa riassume assai bene le finalità che essa persegue: “minigite- pellegrinaggio”.

La proposta, concentrata in un tempo molto limitato, persegue almeno tre obiettivi diversi tra loro, ma che si coniugano assai bene per raggiungere una forma di umanesimo integrale, anche se a livelli abbastanza elementari.

Essa offre:

  1. un’occasione di aggregazione sociale e di fraterno rapporto;
  2. la possibilità di scoprire le realtà di ordine naturale, sociale ed artistico del nostro territorio;
  3. un approfondimento di carattere spirituale di un qualche aspetto specifico della nostra lettura cristiana della vita.

Questi obiettivi, che a livello teorico possono sembrare eccessivamente pretenziosi, abbiamo tentato di tradurli in un’esperienza esistenziale quanto mai semplice e gradevole. Cercato un borgo con una chiesa relativamente significativa e preso contatto con i relativi responsabili, si chiede loro la fruibilità della chiesa e di un salone attiguo. Si prosegue, per tempo, con un annuncio dell’uscita. Partenza in autobus nel primissimo pomeriggio, celebrazione liturgica particolarmente curata e tesa a mettere in luce una verità cristiana che illumini un aspetto reale della nostra vita, celebrazione con presentazione dell’argomento trattato, canti appropriati, quanto mai incisivi sull’argomento prescelto, ed approfondimento mediante una serie di preghiere dei fedeli. Normalmente il rettore della chiesa ne illustra la storia e accenna a come essa si innesti nel territorio e nella sua sensibilità religiosa.

Al momento specificamente spirituale segue una bella e abbondante merenda, con panini imbottiti, vino e bevande a volontà, merenda che quasi sempre si conclude con canti popolari spontanei, quindi una passeggiata turistica nella piazza principale del borgo o di una delle tantissime cittadine del nostro Veneto.

Il fatto poi che l’uscita costi solamente 10 euro, tutto compreso, facilita alquanto le adesioni sempre numerosissime.

L’ultima uscita dell’altro ieri ha avuto come meta San Vito al Tagliamento con il relativo santuario della “Madonna di Rosa”, con 115 partecipanti.

L’eucaristia è risultata quanto mai intensa di spiritualità e aveva come tema: “Prendere coscienza della nostra ricchezza umana”. La merenda è stata piacevolissima e soddisfacente, il giro nella piazza di una bellezza particolare per i suoi palazzi medioevali ben conservati, per la roggia di acque limpide che l’attraversa e per essersi potuti abbandonare sulle sedie fuori dal bar come turisti di lusso. L’entusiasmo ha raggiunto le stelle e la richiesta a gran voce è stata di ripetere presto l’iniziativa in un’altra località.

Mi sono dilungato a descrivere questo evento per proporlo alle parrocchie come soluzione che con poca fatica e meno soldi dà una risposta alle attese globali della persona.

Confesso che a mio parere il risultato di un ritiro spirituale, spesso sopportato e con poche presenze, è di molto inferiore ad una di queste gite-pellegrinaggio che arricchiscono tutta la persona e passano senza fatica, anzi con molto gradimento, valori quanto mai importanti.

29.04.2014

Una brutta notizia

Un paio di giorni fa ho letto sul Gazzettino una notizia che mi aspettavo prima o poi, ma che comunque mi è giunta amara: monsignor Fausto Bonini, parroco del duomo di Mestre, lascia la parrocchia per limiti di età.

Il solito Alvise Sperandio normalmente informa con qualche giorno di anticipo notizie sul mondo ecclesiastico che probabilmente qualcuno della curia gli passa puntualmente. Il giornalista del Gazzettino non solo dà questa notizia, ma informa pure sui probabili aspiranti a condurre la più grande e più significativa comunità cristiana della nostra città.

Quando monsignor Bonini giunse a San Lorenzo, almeno a livello formale aveva qualche compito, se non di direzione o coordinamento, almeno di rappresentanza della Chiesa mestrina verso i responsabili della città civile. Non so se don Fausto ogni volta che è intervenuto in questo settore l’abbia fatto in forza del mandato ricevuto o per iniziativa personale, comunque tutti abbiamo avuto modo di avvertire che ogni volta che il parroco del duomo ha preso posizione su qualche argomento di interesse comunitario, la reazione della città e quella dei suoi rappresentanti s’è fatta immediatamente sentire accusando sempre “il colpo”. Questo suo modo di intervenire ha creato dunque in passato un grave problema, benché sia convinto che una città abbia bisogno di avere anche a livello religioso chi la esprima, ed è indubbio che le due città, Mestre e Venezia sono qualcosa di decisamente diverso con problematiche diverse.

Quello che invece mi preoccupa particolarmente è che dal prossimo giugno verrà a mancare il punto di riferimento più avanzato della pastorale nella nostra città post industriale. Don Fausto ha indubbiamente posto in atto un progetto pastorale di tutto rilievo che a tutti i livelli rappresenta a Mestre il punto più avanzato della testimonianza di una comunità cristiana in città.

Il sonnecchiare delle parrocchie mestrine ebbe, nella comunità del duomo, non solamente un modello avanzato di pastorale, ma anche un pungolo che poteva almeno turbare la coscienza di chi ha meno fantasia e spirito di ricerca per aprire varchi sulla nostra società in rapidissima evoluzione.

Alvise Sperandio, assai esperto e molto tempestivo nel raccogliere gli umori e i presunti orientamenti della curia, ha pure fornito una triade di nomi di possibili aspiranti o di probabili successori di don Bonini. Se le cose stanno come le prospetta il giornalista del Gazzettino, a mio parere c’è almeno un nome di uno di questi tre che ha le qualità per portare avanti il progetto pastorale di don Fausto. Dato che nella Chiesa non è entrata ancora la prassi, come era nella Chiesa antica, di consultare il popolo di Dio per queste scelte, non mi resta che pregare perché Mestre abbia almeno un parroco autorevole ad esprimere la Chiesa della nostra città e per fare da mosca cocchiera.

24.04.2014

Il mondo corre veloce

Talvolta mi chiedo perché mi angustio e mi arrovello per immaginare quale tipo di pastorale sia valida ed efficace per il tempo e la società dei nostri giorni. Avendo 85 anni dovrei mettermi l’animo in pace e godermi il vespero della vita lasciando che i giovani preti studino e scoprano il modo di offrire e di far accettare il più facilmente possibile la proposta cristiana. Purtroppo non ci riesco a stare alla finestra e a non lasciarmi trascinare dentro la mischia e, perlomeno a livello di coscienza, avverto l’urgenza e l’assoluta necessità di provare a proporre di adeguare la nostra pastorale ai tempi nuovi.

Credo che sia ormai un dato certo che l’evoluzione della mentalità degli uomini del nostro tempo è assolutamente accelerata. Le mutazioni che un tempo avvenivano in un secolo ora avvengono in pochissimi anni. Quando mi occupavo di Radiocarpini i miei collaboratori più giovani mi sollecitavano continuamente perché comprassi strumenti tecnicamente più aggiornati e quando dicevo loro che i computer avevano solamente tre anni e quindi erano praticamente nuovi, loro mi facevano osservare che quegli strumenti erano arcaici, roba da museo! Adesso capisco che non avevano tutti i torti.

Una ventina di anni fa mi capitò di leggere un volume che riferiva i dati di una visita pastorale fatta dal Patriarca Luigi Flangini alle parrocchie di Venezia alla fine del `700. Fui stupito dai dati e dalle notizie. Ad esempio il Patriarca ammoniva i preti di fare l’omelia alla domenica, perché tantissimi non erano soliti farla. Appresi ancora che San Luca, che oggi è una delle parrocchie più piccole della città, aveva a quel tempo 12 preti, ma altre parrocchie ne avevano anche di più. Oppure i parroci riferivano che in parrocchia c’erano perfino 5 o 6 parrocchiani che non facevano la comunione a Pasqua.

In questi giorni mi è capitato di leggere sulla rivista “Impegno”, edita dalla Fondazione Mazzolari, la relazione della visita pastorale che il vescovo di Cremona fece nel 1941 a Bozzolo, paese in cui era parroco il famoso don Primo Mazzolari, relazione in cui è scritto che in quella comunità di 4208 anime c’erano solamente due abitanti non cattolici, che tutti i bambini erano battezzati, che i matrimoni concordatari erano 1052, mentre i matrimoni civili soltanto 4. Che non c’era stato neppure un funerale civile, che dei 62 morti soltanto 7 erano deceduti senza sacramenti perché morti improvvisamente, che a Pasqua si comunicavano 600 uomini e 1600 donne. Che oltre che nelle messe festive si predicava per la novena dell’Immacolata, la novena di Natale, quella di san Pietro, quella dei morti, mese di maggio…

Se si confrontano questi dati di settant’anni fa con la situazione attuale, ci si rende immediatamente conto di come sia cambiata la vita religiosa nelle nostre parrocchie. Credo ad esempio che oggi le confessioni per giovani e adulti si possano contare a decine anche in parrocchie di cinque-seimila abitanti, ed anche per i bambini ora si tengano quelle due tre volte all’anno quando sono organizzate.

In questi ultimi anni si è fatto un gran parlare di nuova evangelizzazione e qui nel Veneto s’è parlato ancor di più nel Sinodo di Aquileia, però non mi pare che si sia andati molto più in là del parlare.

Per quanto mi riguarda, pur non avendo soluzioni da suggerire, mi pare di dover comunque denunciare la mancanza di un grosso sforzo per trovare soluzioni aggiornate e concrete per passare il messaggio cristiano agli uomini del nostro tempo.

20.04.2014

Attenti ai ladri!

Se un prete non tenta di vivere intensamente almeno la settimana santa, che prete è? Questa settimana, pur in un clima di aridità spirituale, ho tentato di recuperare il significato e il valore prezioso della Pasqua seguendo le orme di Papa Francesco, vero maestro di vita e di fede.

Chi mi conosce un po’ sa che non riuscivo in passato neppure a nascondere il mio disagio e la mia noia per certi pistolotti interminabili, scontati e poco mordenti di certi nostri grandi prelati. Il Papa attuale invece è sempre nuovo, sempre sorprendente e soprattutto sempre capace di donare frasi che sembrano perle preziose.

Spesso mi domando: “Ma dove li va a trovare Papa Francesco dei pensieri così sublimi e così convincenti?”. A me di questo Papa piace soprattutto il modo di parlare, perché rende ancora più incisivo e convincente il suo pensiero col tono della voce, con la pausa, con lo sguardo.

Quando legge una sua qualche omelia mi entusiasmano certi suoi passaggi e la concretezza delle sue argomentazioni, però quando l’ascolto – e noi oggi abbiamo non solo la fortuna di ascoltare le sue parole, ma di vedere anche il suo volto e la sua mimica – è veramente insuperabile. Mai una frase, un pensiero, sono scontati, da repertorio, ma sempre pare che escano dal suo cuore come da una sorgente viva e fresca, senza mediazioni di sorta. Le parole del Papa talvolta le sento come delle dolcissime carezze paterne, e tal’altra sembrano chiodi che penetrano a fondo anche se incontrano la roccia più dura.

Poco tempo fa m’è parso che abbia manifestato una preoccupazione angosciata quando disse: «Non lasciatevi rubare la speranza!» Mai come in quell’occasione ho preso coscienza di aver ricevuto un dono – di certo non per mio merito – un patrimonio di valori, di ideali, un messaggio così importante ed una proposta così vantaggiosa, però ho capito anche che custodisco tutto ciò in un “vaso di argilla” e perciò corro il terribile pericolo che mi sia rubato da gente, da ladri prezzolati, da mascalzoni pieni di supponenza che non hanno più nulla da perdere e perciò hanno la volontà sadica di profanare, di sporcare e di spegnere le luci che danno senso e perché alla vita.

Come mi tocca e mi mette in guardia il monito e la preoccupazione di Papa Francesco: “Non lasciatevi rubare la speranza!” (se ciò avvenisse diventereste dei miserabili in balia degli eventi).

L’altro ieri poi ho colto un’altra perla preziosa per la quale sarebbe giusto “vender tutto” per acquisire questo tesoro: “Rifiutate il pane sporco!”. Quanti menarrosti, quanti vendivento, quanti imbonitori e furbastri sono disposti ad “offrire pane sporco” per raggiungere fini loschi ed interessati?

Ogni tempo ha i suoi guai, però il buon Dio in ogni tempo, per fortuna, ci manda i maestri giusti; basta ascoltarli e seguirli!

19.04.2014

Il crocifisso e i crocifissi

Quest’anno ho ascoltato con particolare attenzione e condivisione le parole di quel grande francescano che è padre Cantalamessa. Questo fraticello, discepolo del Poverello d’Assisi, è un uomo di grande pietà e intelligenza, ma soprattutto ha il carisma e la capacità di trasmettere la Verità e coinvolgere gli spettatori con pensieri ed idee quanto mai incisive.

Per la Passione ha aiutato i fedeli a scoprire ed essere partecipi del mistero della croce, indicando una per una le categorie degli attuali crocifissi, delle persone e delle parti sociali del nostro mondo che attualmente sono inchiodate a croci dolorose e sanguinanti ed agonizzano spesso tra l’indifferenza di una società tutta ripiegata su se stessa e preoccupata di difendere il proprio benessere e i propri princìpi.

Quanta tristezza ho provato nel sentire soprattutto i magistrati, che notoriamente sono una categoria di persone ben pagate e soprattutto sono uomini delegati ad amministrare la giustizia – una delle missioni più sacre – che si sono lagnati per una decurtazione pressoché insignificante del loro stipendio, che è almeno, molte volte, superiore a quello con cui deve vivere un operaio. E soprattutto quanto mi ha fatto male il motivo pretestuoso della loro lagnanza.

Tornando al crocifisso di oggi mi sono ricordato di un pensiero del vescovo di Nuova York, mons. Fulton Sin: “Il venerdì santo sono sceso in strada ed ho visto il Cristo in croce, mi sono commosso e ho tentato di staccarlo, ma Egli si è rifiutato dicendomi: «Non scenderò finché non staccherete dalle loro croci il numero infinito di uomini che oggi patiscono su questo patibilo!»”.

Quest’anno io mi sono girato attorno per vedere se anche vicino a me c’è qualcuno che posso far scendere dalla croce. Si è presentata immediatamente ai miei occhi una anziana mamma che alcuni giorni fa ho visitato là, nella stanza linda e luminosa dell’Ospedale all’Angelo, ricoverata per un tumore al pancreas. Vive sola con un figliolo in difficoltà per una grave menomazione agli occhi. Fino all’altro ieri vivevano in un fragile equilibrio uno per l’altra, ora sono tutt’e due in croce, lei per il figlio che vive del respiro di sua madre e lui che al mondo l’unica cosa che possiede è sua madre.

Mai come in questi giorni ho sentito, sofferto e condiviso questa crocifissione che fa sanguinare i loro cuori, ma anche il mio.

Quante volte in questi giorni le mie labbra hanno ripetuto d’istinto: “Padre, se è possibile, passi questo calice!”, però mi sono sempre fermato lì; pensando a queste creature a cui voglio veramente bene, non ho avuto il coraggio di terminare la frase di Gesù!.

18.04.2014

Pasqua di “passione”

E’ vero che di Papi ce n’è uno solo e perciò è comprensibile che non tutti i suoi sacerdoti abbiano le sue stesse risorse. Faccio spesso tanta fatica e mi sento talvolta spompato, poco motivato e soprattutto privo di quella grinta e di quell’entusiasmo che immagino un prete, seppur vecchio, dovrebbe avere, o meglio, gli sarebbero necessari per compiere la sua missione.

Nei momenti liberi di questa settimana santa ho colto talvolta l’opportunità di seguire i santi riti del triduo pasquale celebrato dal Santo Pontefice. Ho visto la sua stanchezza, specie per la lavanda dei piedi, l’ho visto veramente affaticato e malconcio, però sempre ho notato convinzione, profonda pietà, parole lucide e convincenti, ho sentito un pastore zelante e motivato. Mentre io, vivendo tra i vecchi, celebrando liturgie meno ricche di cornici, di atmosfere intense create dalle folle e dagli edifici ricchi di storia e di arte, mi sono sentito povero, con pensieri logori e consunti, ma soprattutto privo di quelle sante emozioni che ho provato non solo da bambino nella mia vecchia chiesa, ma pure da giovane prete, ai Gesuati prima, e a San Lorenzo poi, così anche da parroco maturo a Carpenedo.

Quest’anno ho rimpianto quanto mai i lumi, i canti, i bambini col loro entusiasmo e la loro fede fresca e sorridente, i gruppi giovanili e tutte quelle atmosfere spirituali che cambiavano tono e respiro ogni giorno della settimana santa. Mi sono chiesto più volte, con una certa angoscia, specie quando ho registrato alla televisione o nei giornali un clima sempre più laico e secolarizzato della nostra società, se “si sta spegnendo pian piano la mia fede”?

Ogni stagione della vita ti fa affrontare l’incognito, sensazioni e stati d’animo prima mai sperimentati; perciò mi son chiesto: “E’ questo il clima spirituale della quarta età in cui mi sono già inoltrato, oppure sto subendo una crisi a livello spirituale?

Mentre mi sono trovato in questo stato d’animo mi è venuta in mente la confidenza lontana nel tempo di un’anziana parrocchiana, intelligente e cristiana convinta: «Sapesse, don Armando, quanto è dura quando gli ideali non brillano più!»

Quest’anno ho vissuto appieno, della Pasqua, soprattutto “la passione”, mentre mi pareva di aver bisogno soprattutto della Resurrezione. Spero che almeno la mia “passione” salvi me e chi mi sta accanto.

17.04.2014

Il racconto di Buzzati

Sperequazioni ce ne sono state in ogni tempo. Quando pensi agli splendidi palazzi di Venezia, alle chiese meravigliose, alle ville venete, verrebbe da concludere che quei tempi sono stati tempi di una ricchezza particolare, mentre poi vieni a sapere che chi li ha costruiti, i maestri d’arte, erano pagati miseramente: si e no potevano mangiare e mangiare da poveri, mentre patrizi e mercanti si potevano permettere lusso e servitù a volontà.

Oggi purtroppo niente è cambiato sotto il sole. Forse oggi, a differenza del passato, i mass media informano con dovizia di particolari sul lusso, sulle rendite d’oro e sugli sperperi di ogni genere, dai generi alimentari ai viaggi, ai ristoranti di lusso, dalle automobili agli abiti dai costi iperbolici. Ed oggi, come per il passato, è sempre la povera gente a dover pagare lo sperpero dei ricchi.

Fino a qualche anno fa avevo sognato e sperato che le sospirate riforme avrebbero riordinato un po’ questo mondo. Qualcosa in verità è stato fatto, ma ancora poco, troppo poco. Ora temo che dovrò aspettare la giustizia del “Giudizio finale”.

Dello sperpero da ricchi ho sentito parlare e ne sono cosciente da sempre e in tutti i campi, non ultimo quello alimentare che mi indigna quanto mai, però non avevo mai preso coscienza che c’è pure un altro tipo di sperpero: quello in cui sono coinvolti anche i poveri. Pure i poveri possono e sono spesso sperperoni! Mi ha aperto gli occhi su questo versante un racconto di Dino Buzzati che ho letto recentemente e che subito ho pubblicato su “L’Incontro”.

La prosa di Buzzati non è solo piacevole, ma pure avvincente; egli colora le immagini del racconto così da renderlo vivo e capace di coinvolgere il lettore rendendolo intensamente partecipe del messaggio esistenziale che contiene.

Riassumo in due righe quanto Buzzati denuncia in maniera veramente magistrale.

Un signore nota che un camion versa ogni giorno degli scatoloni di diversa grandezza in una enorme discarica. Incuriosito, domanda al trasportatore che cosa contengano quegli scatoloni sigillati che ogni giorno smaltisce in quel luogo. L’autista confida che alcuni, i più piccoli, contengono le ore che il buon Dio ha regalato ai singoli cittadini e che loro non hanno adoperato, cosicché, ancora “vergini”, vengono buttati al macero perché ormai “scaduti” e quindi inutilizzabili. Gli scatoloni più grandi contengono i giorni perduti; gli altri, di dimensioni superiori, i mesi e i più grandi in assoluto, contengono gli anni perduti: una ricchezza tanto preziosa e di prezzo inestimabile, buttata in discarica perché ormai inservibile.

Anche i più poveri posseggono una ricchezza inapprezzabile e purtroppo si liberano in maniera tanto dissennata del bene più prezioso che posseggono.

Finito il racconto, mi è venuta una voglia matta di andare in quella discarica per vedere se ci sono scatoloni a me intestati, comunque sono assolutamente certo che là troverei una montagna di tempo perduto con cui i mestrini potrebbero essere dei Paperon dei Paperoni!

16.04.2014

La “Nave de vero”

“Tanto tuonò che piovve”. I tuoni furono tanti, e tanto rumorosi, e i lampi nel cielo dell’informazione più ancora. Però non è arrivata una pioggerellina di marzo o un piovasco di primavera, ma un autentico diluvio.

Per l’inaugurazione dell'”ipermercato metropolitano”, “La nave de vero”, sono giunti 2400 invitati e migliaia e migliaia di non invitati. Ho letto la sequenza di cifre sul Gazzettino: cinquantacinquemila metri quadri di superficie, 120 negozi, 15 ristoranti, 2400 posti auto, 600 dipendenti.

Non trascrivo di certo questi dati per fare ulteriore pubblicità al nuovo ipermercato che di certo non ne ha bisogno perché i padroni hanno comperato pagine su pagine di stampa locale, ma perché è un avvenimento che dovrebbe interessare la curia, il clero e perfino i semplici fedeli. L’apertura del nuovo ipermercato è come un fungo spuntato improvvisamente dopo la pioggia: un intero paese abitato da migliaia e migliaia di creature che, come tutti, hanno bisogno di speranza e di fede.

Ho la sensazione però che nessun ufficio di curia si sia posto il problema di “come possiamo offrire l’annuncio cristiano per questa nuova realtà”. Né penso pure che nessun fedele, per quanto devoto, abbia sollecitato la curia a predisporre un progetto per offrire il messaggio di Gesù. So di certo che il patriarca Agostini, quando la nostra città era in sviluppo, si era informato su quali fossero le aree ove sarebbero stati fatti sorgere i nuovi insediamenti abitativi e predispose un piano per acquisire i terreni per costruire le nuove chiese che avrebbero dovuto servire le comunità crescenti.

So ancora che un imprenditore cristiano che opera nel settore degli ipermercati, in una occasione come quella de “La nave de vento”, vi ha costruito una chiesa aperta al pubblico ed ha invitato un sacerdote a celebrare i divini misteri.

Leggendo i resoconti della stampa ho appreso che queste nuove strutture sono diventate le nuove “piazze reali” delle nostre città, mentre le vecchie piazze sulle quali si affacciano le porte delle nostre chiese sono sempre più deserte. Ho appreso inoltre che i progettisti del nuovo ipermercato metropolitano hanno predisposto spazi per concerti, spettacoli ed altre manifestazioni. Credo che se qualcuno avesse chiesto per tempo, i costruttori avrebbero pensato anche ad un luogo per lo spirito e forse anche adesso si potrebbe pensare a qualcosa del genere sull’esistente.

Quando poi so che un nostro prete, neanche troppo vecchio, usa un motoscafo, attraversando mezza laguna, per andare a celebrare la messa festiva a Torcello, parrocchia che conta 16 fedeli, mi viene da mettermi le mani sui capelli!

Talvolta, quando sento parlare di pastorale, ho l’impressione che si parli di una cosa che si rifà pressappoco all’età del ferro o del bronzo, perché i tempi sono corsi fin troppo veloci. Nel Vangelo, a Pasqua, abbiamo letto che già duemila anni fa Gesù disse che si fa trovare e lo si potrà incontrare “avanti” e non nel passato. Don Mazzolari ha scritto che Cristo non è più reperibile neanche nelle magnifiche cattedrali gotiche perché ora e sempre sarà ove scorre la vita ed ora, per la maggioranza dei mestrini, essa si svolge negli ipermercati.

15.04.2014

“Date voi da mangiare”

La pagina del Vangelo che tratta della moltiplicazione dei pani è nota a tutti. La riassumo telegraficamente perché mi facilita il discorso sull’argomento su cui oggi voglio fare una semplice riflessione.

La gente da due giorni interi ascolta Gesù. Gli apostoli si rendono conto, anche per esperienza personale, che bisogna mangiare e perciò chiedono a Gesù di congedare la folla perché possa andare a ristorarsi nei villaggi vicini. Con loro sorpresa il Maestro risponde: «Date voi da mangiare!». Loro si guardano attorno e obiettano che costerebbe troppo per le loro tasche e che tra i presenti, per quanto ne sanno loro, c’è solo un ragazzino che ha in saccoccia la merenda preparatagli da sua madre. Gesù tira dritto e dice: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta» (la folla è davvero immensa: cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini), poi prende il pane del ragazzino, invoca l’aiuto del Padre e dice: «Distribuite!». Il Vangelo conclude che tutti ne mangiarono a sazietà, tanto che Cristo invitò a “raccogliere gli avanzi” perché nulla andasse sprecato.

In quest’ultimo mese di aprile m’è capitato di assistere al “don Vecchi” a qualcosa di molto simile e credo che di “miracolo”, proprio di miracolo si tratti. L’associazione che, pur ogni settimana, distribuisce generi alimentari per tremila persone, è costretta ad aiutare solamente chi ha un reddito inferiore ai 600 euro mensili e, talvolta, non può accettare la richiesta di altri bisognosi perché non ha viveri a sufficienza. La logica umana è, anche oggi, quella degli apostoli: “Mandali via perché provvedano da sé!”.

Per fortuna anche oggi il buon Dio trova qualcuno per fare “il miracolo”! Un signore, dopo un anno di bussare ad una porta, ha ottenuto la risposta sperata. I sette magazzini Cadoro hanno messo a disposizione i loro prodotti legalmente non più commerciabili. In una settimana si sono rese disponibili due stanze, attrezzate con congelatore e frigoriferi industriali, s’è comprato un furgone, si è trovata una ventina di volontari, si è organizzato il ritiro e la consegna e s’è studiato pure un modo per reperire il denaro necessario per far funzionare “lo spaccio” (così chiamo il nuovo miracolo).

Un benefattore s’è accollato l’intero costo iniziale dell’operazione ed attualmente lo “spaccio” si autofinanzia non gravando da nessuno. La soluzione adottata mi pare sia di assoluto gradimento a tutti. Per un euro ogni richiedente si sceglie quattro pezzi di ciò che c’è a disposizione, più il pane che gli serve. Alla data odierna si sono aiutate 3453 persone in difficoltà. Nel contempo, col ricavato, si è riusciti a pagare il pranzo ad una persona in difficoltà e l’affitto ad un’altra.

Le persone che han reso possibile il miracolo, come il ragazzino del Vangelo che ha messo nelle mani di Gesù la sua merenda, sono parecchie e non ne cito i nomi perché i loro nomi dal 18 febbraio “sono già scritti in Cielo”. Però sento il bisogno di dire a tutti che “anche oggi è tempo di miracoli”, basta che qualcuno accetti di diventare un umile strumento nelle mani di Dio.

14.04.2014

Alla luce della fede

Mi rendo sempre più conto che la gente ha certi stereotipi di idee in campo religioso che talvolta hanno poco o nulla a che fare con la religione e la fede. Perciò quando il sacerdote fa qualche osservazione nei riguardi del pensiero cristiano e riesce a farlo con convinzione e con autorità, i fedeli rimangono quasi sorpresi di certi discorsi che in realtà sono stati loro fatti fin dall’infanzia.

Vengo ad un esempio capitatomi in questi ultimi giorni. Il martedì santo ho celebrato il funerale di una cara nonnetta che dopo una vita lunga e buona, è tornata da quel Signore che l’aveva mandata su questa terra circa novanta anni fa.

Normalmente, nelle mie brevi omelie, cerco di incorniciare l’evento del commiato alla luce della fede tentando di creare in chiesa un’atmosfera coerente ad essa. Cominciai dicendo che se la mia piccola chiesa prefabbricata avesse avuto il campanile, avrei suonato a festa per quell’occasione, e continuai con l’affermare che per la cara donna a cui stavamo dando l’ultimo saluto, la Pasqua giungeva quest’anno con qualche giorno di anticipo perché lei non era risorta la domenica ma quella mattina, che per il calendario era un martedì. Di conseguenza dovevamo vivere l’evento del commiato in un clima di speranza e di gaudio perché la nostra cara sorella giungeva al traguardo e si incontrava col Padre per essere introdotta nella sua casa.

Mi spinsi anche ad accennare all’alternativa: se infatti non avessimo letto alla luce della parola di Cristo questo commiato, ciò avrebbe voluto dire che i novant’anni di fatica, di ricerca, di impegno sarebbero stati spazzati via da un sol colpo, da quella realtà che noi chiamiamo morte.

Ebbi subito la sensazione che la piccola comunità che circondava la bara fosse quasi costretta ad entrare in quella logica, per essa prima tanto lontana. Non so quanto durerà questa presa di coscienza positiva, comunque quello era ciò che io potevo fare in quel momento.

Non è così nelle nuove comunità cristiane nei paesi di missione. Mi diceva mia sorella Lucia, che da molti anni segue una piccola comunità cristiana che vive nel centro del Kenia, che in una delle sue tantissime visite a quella missione, le capitò di partecipare al funerale di un cristiano del villaggio. Dopo il rito funebre: pranzo e festa per l’intera comunità. Lucia chiese ad uno degli anziani: «Come mai in un giorno di lutto tanta festa?». Lui rispose, sorpreso da questa domanda: «Perché il nostro fratello è giunto alla meta ed è entrato nel Cielo di Dio».

Credo che noi preti dobbiamo riprendere a passare le nostre grandi verità con più decisione e soprattutto con più coraggio, non temendo di essere in contrasto con una tradizione che è solo formalmente religiosa, ma che in realtà si è rifatta ad una mentalità agnostica e per nulla credente.

20.04.2014

Costruire consenso

Mi capita abbastanza di frequente, quando avviene in città un qualcosa di un po’ importante che riguarda i poveri o la vita della Chiesa, che i giornali locali o le emittenti televisive mi chiedano un parere facendomi una breve intervista. So che ciò avviene non perché io sia un personaggio qualificato e competente tale da offrire pareri autorevoli su queste questioni, ma solamente perché non mi nego mai, mentre pare che altri abbiano paura di compromettersi.

Accetto le interviste un po’ per carità cristiana (sono molti gli operatori che vivono sull’informazione, avendo un mestiere non facilissimo), perché non dare loro una mano? Ma lo faccio per un secondo motivo, più importante: io ho una determinata visione della vita cittadina e dei pareri piuttosto precisi su qualche tematica che la riguarda; l’intervista mi serve sempre per portare avanti le mie tesi, per creare opinione pubblica e cultura diffusa, perché solamente così si matura una comunità ad accettare e far suoi determinati progetti e certe soluzioni che io ritengo opportune.

In questi giorni il Comune ha fatto togliere alcune panchine da determinate zone della città perché favorivano il bivaccare dei senza dimora creando disagio ai cittadini della zona. Il sindaco Gentilini, “sceriffo” di Treviso aveva fatto lo stesso qualche anno fa per allontanare dalla città gli extracomunitari. Questo primo cittadino della Marca è un personaggio della Lega un po’ sbrigativo ed autoritario, motivo per cui il ripetere il suo intervento aveva fatto nascere quasi un “casus belli” anche da noi.

Io al riguardo non avevo pareri specifici, ma da sempre sono convinto che Chiesa, e in questo caso e soprattutto il Comune, debbano elaborare un progetto condiviso da tutte le agenzie sociali che si occupano del settore dei poveri, progetto articolato con delle proposte civili che tengano conto della situazione sociale del momento e, solamente dopo, si possano adottare degli interventi anche decisi per inquadrare il problema e rendere la città vivibile, senza però trascurare o dimenticare i “rifiuti d’uomo” o, meglio, tutte le tipologie di mendicanti o di persone anomale.

Solo quando in città ci saranno dormitori pubblici sufficienti, docce, toilettes pubbliche, mense, organizzazioni per le varie necessità a favore di queste persone, percorsi per recuperarli alla vita civile, soltanto allora il Comune, la polizia cittadina per fare rispettare le regole potranno intervenire con decisione.

Credo che interventi estemporanei come quello di togliere le panchine, siano “pannicelli caldi” che non risolvono affatto i problemi, anzi possono diventare perfino disumani.

Questo progetto per regolare la vita dei senza dimora non c’è e mi pare che ci sia poca voglia di farlo; io però anche nel corso dell’ultima intervista ho tentato di spezzare una lancia a suo favore. La cosa in questo caso mi è andata male perché mi hanno “tagliato” tanto, così non s’è potuto capire cosa volessi dire. Comunque tenterò alla prossima occasione.

19.04.2014

Il recupero

Questa è una vecchia storia il cui inizio ho già raccontato un paio di anni fa e su cui sono ritornato un paio di volte, ma che sento il bisogno di riprendere per informare su come essa stia continuando.

Degente nel nostro ospedale, una mattina mi capitò di scambiare qualche parola con una giovane signora che stava pulendo la stanza. La nostra gente, soprattutto quella più semplice e genuina, stabilisce subito un rapporto quasi familiare quando incontra un sacerdote, specie quando egli è anziano.

Da questa cara signora venni a sapere che fino a poco tempo addietro c’era un prete che celebrava la messa ogni domenica nel piccolo borgo ai margini della città in cui lei abitava. In questo villaggio il cuore della comunità era costituito dalla chiesa e dalla scuola. Prima però venne chiusa la scuola, per portare i pochi alunni a Favaro, poi fu chiusa pure la chiesa per mancanza di sacerdoti, tanto che gli abitanti provavano un senso di smarrimento e di abbandono. Venuta a sapere che ero andato in pensione, mi disse , con un sorriso accattivante: «Perché non viene lei?». In quel momento ci sarei andato correndo perché anch’io, uscito dalla parrocchia, mi sentivo orfano e allo sbando.

Per qualche tempo, per motivi un po’ futili, la cosa sembrò irrealizzabile, però, col passare dei mesi, le difficoltà si risolsero e si arrivò ad una soluzione minimale che parve l’unica possibile: celebrare l’Eucaristia il primo venerdì del mese. Ciò è poco per una comunità, però ora ho la sensazione che di mese in mese anche questo “poco” sia sempre più atteso, la preghiera si fa sempre più calda e familiare e sembra che il senso dell’abbandono e della solitudine si stia pian piano dissolvendo, anzi rifiorisca un senso di comunità fatta di comunione e di condivisione ideale. Ogni mese, quando nel tardo pomeriggio parto per Ca’ Solaro, ho la sensazione di ritornare ai tempi della mia infanzia, di ritrovare la cara gente del mio paese che pure viveva in stretto contatto con la terra, che ritmava la vita con le stagioni, che si rivolgeva al Signore con semplicità e con fiducia e, pur non parlando troppo di comunità, viveva una vita di famiglia.

L’incontro con la cara gente di Ca’ Solaro mi aiuta a recuperare i tempi della mia fanciullezza, a guardare con più simpatia e familiarità uomini e donne, e a sentirmi a casa mia condividendo con loro il ritorno della vita e della natura che ci avvolge tutti con un abbraccio ricco di poesia e di bellezza.

18.04.2014

La tentazione

Ritorno ancora una volta su confidenze fatte già in passato, ma il ritornarci mi dà l’opportunità di riflettere su una grave tentazione che purtroppo temo sia condivisa da molti o da moltissimi miei concittadini.

Domenica scorsa non ho mancato di seguire la rubrica “L’Arena”, condotta, a me pare tanto magistralmente, dal dottor Giletti. Questo giornalista è certamente intelligente e preparato, e conduce con maestria e saggezza la discussione che è benissimo definita dal titolo, “L’Arena”, luogo di combattimento con i tori fino all’ultimo sangue.

Come in quasi tutte le trasmissioni di questo genere c’è un pubblico, che si limita a battere più o meno fragorosamente le mani in rapporto alla condivisione dei singoli interventi. C’è poi un certo gruppo di giornalisti quanto mai agguerriti, che fanno parte dello staff della rubrica e che mantengono vivace il dibattito stuzzicando i politici, tutti di un certo peso e in posizioni contrapposte. Talvolta sono invitati degli ospiti come testimoni di situazioni particolari inerenti al dibattito in corso.

Lo scontro è quasi sempre “cruento”: colpi dati con estrema decisione e con altrettanta intelligenza da parte di uomini, donne, giornalisti dei vari quotidiani, esperti e soprattutto giovani politici di tutte le parti, uomini e donne – queste ultime spesso carine ed eleganti ma sempre taglienti e determinate, che sostengono tesi contrapposte senza mai cedere assolutamente nulla al “nemico”.

Domenica scorsa si è parlato un po’ di tutto riguardo la situazione sociale e politica del nostro Paese. Le prese di posizione erano così decise e contrapposte che mi è parso che non ci fosse il neppur minimo denominatore comune e alcun punto, seppur piccolo, di convergenza. Mi è sembrato che il conduttore Giletti tentasse, guardingo e con estrema cautela, di passare l’ipotesi di dare un seppur minimo di credito al tentativo di Renzi. Però, al minimo accenno, arrivavano delle potenti bordate dalle fazioni contrapposte.

Alla fine del dibattito ho avuto la netta e amara sensazione che non ci sia alcuna speranza di salvezza, neppure con l’avvento dei nuovi politici quarantenni, per la nostra povera Italia!

Sono arrivato alla conclusione che ci vorrebbe l’avvento di “qualcuno” che finalmente mettesse tutti in riga, però immediatamente mi cominciarono ad apparire i volti già noti di questo “qualcuno”: Hitler, Stalin, Mussolini, Franco… e via di seguito. Non mi è rimasto che rivolgermi, ancora una volta, al buon Dio per gridargli, quasi disperato: «Salvaci, Signore!».

17.04.2014

La vecchia maestra

Sono convinto che pure per i bambini dei nostri giorni la maestra delle elementari sia una figura importante, rappresenti un’autorità nel campo del sapere perché lei apre ai bambini orizzonti nuovi e più vasti di quelli offerti dalla loro mamma. Talvolta sarei tentato di lasciarmi scappare che le maestre di oggi, che si fanno dare del tu dagli alunni, che vestono alla moda, che (per rispetto alla libertà dei bambini?) hanno l’eccessiva preoccupazione di non condizionarli, non hanno l’importanza, l’autorità delle vecchie maestre di un tempo.

Le maestre dei miei tempi erano autentiche educatrici, passavano non solo nozioni, ma soprattutto valori, perché offrivano verità tutto sommato certe e condivise dalle famiglie e società. Praticamente le maestre di un tempo rappresentavano l’interfaccia del sacerdote che possedeva delle verità certe, dei valori non discutibili.

Io ricordo con autentica venerazione ed enorme riconoscenza le mie insegnanti che mi hanno passato senza perplessità i principi fondamentali del vivere civile. L’aver fatto per molti anni il consulente ecclesiastico dell’A.I.M.C. (Associazione Italiana Maestri Cattolici) mi ha fatto conoscere ed amare questa categoria di persone che rappresentano un punto fermo nel campo dell’educazione alla vita civile e pure religiosa.

Ricordo che uno dei principi basilari di questa categoria di insegnanti era che la religione costituisce il principio fondante e il coronamento della pedagogia. La lettura poi del “Libro Cuore” del De Amicis e di “Mondo piccolo” di Guareschi, ha dato volto ancora più sublime e sacro alla personalità della vecchia maestra.

Alcuni giorni fa ho celebrato il commiato religioso di una vecchia maestra di Carpenedo che a novant’anni di età ha lasciato questo mondo per incontrarsi con quel Padre che aveva fatto conoscere ed amare a generazioni e generazioni di scolari. C’era nel mio animo il desiderio e il bisogno di trovare parole care per incorniciare il volto e la missione di quella vecchia maestra che con autorità indiscussa e assoluta tranquillità aveva insegnato i principi del vivere a ragazzi della mia vecchia ed amata parrocchia.

Mi dispiacque di non avere parole belle e care quanto quelle di De Amicis e di Guareschi per offrire un ritratto bello ed adeguato al ruolo svolto dalla vecchia maestra Annalisa Gusso, ma mi è dispiaciuto ancora di più che la chiesa non fosse gremita da quel popolo di bambini che avevano avuto da lei la prima educazione al vivere sociale e pure religioso.

16.04.2014