Un amore segreto

Per undici anni ebbi come mio collaboratore don Marco, un giovane prete che ogni tanto lasciava per alcuni giorni la parrocchia per andare a “a ricaricarsi” – come diceva lui – presso un qualche convento. A suo parere aveva bisogno ogni tanto di questi stacchi dalla routine quotidiana per confrontarsi, nella quiete di un convento, con la spiritualità della vita monastica.

La cosa non mi sorprendeva più di tanto perché anche il mio vecchio parroco di San Lorenzo, monsignor Vecchi, diceva di aver bisogno di questi periodi “sabbatici”, per ritemprare il suo spirito. Pure mio fratello don Roberto, che è sempre stato un grande ammiratore della regola di san Benedetto, specie nel passato, si rifugiava talvolta nell’abbazia di Praglia per confrontarsi con l’abate che lui riteneva saggio e santo. Ora credo che abbia smesso queste frequentazioni monastiche e quando è proprio stanco di “vita parrocchiale” si rifugia nel suo piccolo ma attrezzato laboratorio di falegnameria per costruire presepi per Natale o va a imperlinare le pareti degli edifici parrocchiali.

Io, che sono ben cosciente di esser poco incline alla mistica, non ho mai avvertito queste esigenze e quando sono proprio stanco o deluso – perché ad un prete può capitare anche questo – stringo i denti e vado avanti. Spesso mi sono identificato – non so se a torto o a ragione – al cavallo del famoso romanzo “La fattoria degli animali”, romanzo che descrive la vita di un Kolchoz sovietico, una specie di fattoria in cui il cavallo rappresenta lo spirito stachanovista. In ogni frangente veniva chiamato il cavallo a supplire alla stanchezza degli altri fintantoché un brutto giorno, sfiancato per la fatica, crollò tra le stanghe sotto il peso del suo carico. Forse sono presuntuoso o forse sono stupido, comunque penso che le cose vadano così.

Però, a pensarci bene, anch’io talvolta ho qualche rara evasione “di ordine mistico”. Infatti non so chi abbia dato il mio indirizzo alle carmelitane scalze che hanno un convento a Cannaregio a Venezia. Comunque, due o tre volte all’anno, specie a Natale e Pasqua, loro mi mandano dei biglietti di augurio dai contenuti altamente spirituali, assicurandomi la loro preghiera. Io ricambio gli auguri e allego sempre qualche piccolo contributo per sopperire alle loro necessità perché sono certo che possono contare solamente su magre risorse.

Non sono mai stato nel loro convento, non ho mai visto i loro volti, non so i loro nomi e sono pure certo, per quanto mi conosco, che non andrò mai a visitarle, ma mi consola, rasserena e conforta il sapere che una piccola comunità di donne che si sono consacrate a Dio mi vogliono bene e pregano per me. Il fatto poi che il mio interesse nei loro riguardi sia soltanto un sogno, mi rende il rapporto più bello, più caro e più ricco di consolazione.

30.05.2014

Un impegno da mantenere

Vedendo come vanno le cose in Italia, dove non passa giorno che i mass media non ci informino di ruberie, di furti, imbrogli di ogni genere, di una rissosità esasperata dalla campagna elettorale di coloro che dovrebbero essere le guide sagge, i maestri della nostra gente, mi torna sempre più difficile amare questa società.

Le delusioni, i comportamenti scorretti, le incongruenze purtroppo non li riscontro solamente ai vertici del nostro Paese e del nostro mondo. Spesso mi turba e mi irrita l’incoerenza, la sfacciata rincorsa al proprio tornaconto anche di certe persone che mi sono vicine e che, almeno a livello formale, dicono di condividere valori ed ideali.

Spesso di fronte a certe forti constatazioni sono tentato di avvilirmi, di rinchiudermi in me stesso e di arrendermi, lasciando che il mondo vada come vuole, tanto sembrano inutili gli sforzi per creare una nuova società. Accettare ed amare l’uomo è cosa ben difficile. Qualche volta sono costretto ad aggrapparmi quasi disperatamente a certe scelte fatte lucidamente all’inizio del mio impegno sacerdotale.

Il 27 giugno ricorre il sessantesimo anniversario della mia prima messa. Tornando quindi in questi giorni con la memoria a questo evento ormai tanto lontano, ma basilare per la mia scelta sacerdotale, mi sono sorpreso ad aggrapparmi ad un fatto, forse molto marginale, ma per me estremamente importante a livello emotivo.

Ricordo il discorso fatto dal parroco del mio paese in occasione della mia prima messa. Quel parroco aveva fama di essere un bravo oratore e forse credo che ne fosse convinto anche lui e adoperasse con frequenza questo strumento pastorale. Durante la predica, citò un presunto discorso di don Bosco il quale avrebbe affermato che il Signore aveva promesso che avrebbe esaudito le richieste fatte da un sacerdote in occasione della prima messa; mi invitò quindi a richiedere il dono dell’eloquenza, perché per un prete questa è una dote importante, anzi necessaria.

Ricordo che dentro di me allora pensai: “Signore, se le cose stanno così, non ti chiedo ciò che mi suggerisce il parroco, ma ti domando invece di accettare e di amare le persone che incontrerò sulla mia strada.

Onestamente posso dire che ho tentato di farlo, anche se devo confessare che spesso non ci sono riuscito.

In questi giorni ho sentito il bisogno di ripetere accoratamente questa preghiera, perché avverto l’estrema necessità di essere aiutato. Spero che il Signore non abbia cambiato idea.

29.05.2014

Il don Vecchi 5

Dietro i discorsi ufficiali e le pagine che incorniciano certi eventi importanti e significativi per la nostra città, c’è una storia che non sempre è fluita dolce e tranquilla. Di solito il prodotto finito è la risultante di situazioni, tensioni ed opinioni che si amalgamano e si compongono con una certa difficoltà. Penso che ciò sia normale per ogni evento di una qualche importanza.

Ultimamente ho avuto modo di accorgermi che negli ultimi quarant’anni le opere, pur belle ed interessanti, che si sono realizzate nella comunità in cui sono rimasto per tanto tempo portano in qualche modo un marchio di fabbrica: il mio. Sono sempre stato convinto di aver ascoltato tutti, di non aver deciso nulla da solo, di aver cercato di interpretare il pensiero della maggioranza. Ora però, che non sono più il protagonista e che vivo in maniera un po’ marginale le ultime imprese, mi rendo conto che forse non fu sempre così e che, convinto quanto mai delle soluzioni che proponevo, probabilmente avevo finito per imporle.

Avevo deciso in maniera lucida e determinata di offrire soltanto la mia collaborazione lasciando alla nuova leadership le decisioni, però ora, vedendo la difficoltà con cui cerco di accettare soluzioni un po’ diverse da quelle che io avrei ritenuto opportune, mi rendo conto che probabilmente fu sempre così e che, nonostante abbia rinnovato propositi su propositi, sono ancora tentato di premere oltre il lecito perché si adottino soluzioni che a mio parere sono le più valide.

Mentre razionalmente comprendo lo spazio necessariamente ristretto del mio ruolo, emotivamente non sempre sono stato capace di rimanere nell’ambito dell’opportuno. Fortunatamente i componenti del Consiglio di Amministrazione della Fondazione sono persone estremamente care e intelligenti che finora non mi hanno fatto pesare certi miei sconfinamenti.

Il “don Vecchi 5” è un’opera che pian piano sta venendo fuori dal grosso blocco di cemento che contiene “in fieri” l’opera d’arte, ma che ha bisogno ancora di tante e tante scalpellate perché emerga in tutta la sua importanza. La nuova struttura per anziani in perdita di autonomia non si rifà ad una “bottega”, non può essere confrontata con qualcosa di simile, ma essendo un’opera prima in assoluto ha bisogno dell’apporto di tutti per emergere in tutta la sua novità.

I Centri don Vecchi hanno aperto una strada nuova rifacendosi ad una dottrina mai sperimentata prima, ossia mantenere l’anziano nel suo habitat naturale, non privandolo della sua autonomia nativa, ma aiutandolo solamente a sopperire ai suoi deficit dovuti all’età con un supporto discreto e rispettoso. Il “don Vecchi 5” porta all’estremo limite questa filosofia e questa esperienza.

Sono già quanto mai gratificato se riesco a non imporre mie soluzioni, ma a dare suggerimenti che mi vengono da una certa esperienza. Spero che i nuovi protagonisti della Fondazione mi perdonino certe incursioni non lecite ed accettino proposte date con responsabilità ed amore.

28.05.2014

Nozze d’oro

Sabato scorso ho celebrato le nozze d’oro di Franco e della “Cochi”. Quando sono arrivato nella chiesetta delle monache di clausura, dove doveva avvenire il rito, essa era già piena ed animata da conversazioni un po’ animate e per nulla sussurrate.

Un tempo il silenzio era sacro nelle chiese e doppiamente sacro nelle clausure, dove era lecito aspettarsi soltanto il lento salmodiare della monache dietro le grate. Ricordo che ai tempi della mia avventura di Radiocarpini ebbi l’idea di trasmettere le “lodi” e il “vespero” delle monache. Allora la comunità oltre via San Donà era piccola ma non solamente simbolica come ora. Penso che Mestre e le località raggiunte dalle onde della mia emittente scoprirono le suore e il loro modo di salmodiare attraverso la nostra radio. Qualcuno mi riferì che quello strano modo di pregare dava una sensazione di riposo per lo spirito, mentre altri lo ritenevano una nenia soporifera. Smisi abbastanza presto perché mi accorsi di offrire un “prodotto” abbastanza spurio e soprattutto troppo lontano dalla sensibilità degli uomini di oggi.

Sabato scorso il parlottare era notevole, ma non mi parve nulla di dissacratorio. I tempi, gli stili di vita e perfino il rapporto col sacro, sono notevolmente cambiati, e di molto!

Attesi qualche momento perché, come sempre, i giovani avevano dimenticato la chitarra. I canti con i quali hanno accompagnato la messa mi erano ben noti. Ho avuto l’impressione che il repertorio della parrocchia di Carpenedo non si sia aggiornato di molto, anche se sono passati quasi dieci anni dalla mia uscita.

L’Alda e Franco, ben agghindati, con mia sorpresa non mi apparvero per nulla i soliti due vecchietti alle soglie del Paradiso. Forse l’aver vissuto con loro l’ultimo mezzo secolo non mi ha dato la sensazione del fluire del tempo con le tracce relative. Mi sono sentito perfino più giovane anch’io, nonostante le mie 85 primavere sulle spalle.

I ricordi mi risucchiarono quasi subito. Rividi Franco non ancora adolescente, in pantaloncini corti, caposquadriglia a San Lorenzo. Erano tempi tristissimi per lo scoutismo allora a Mestre, ma poi assieme lo facemmo “esplodere” tanto che è diventato un magnifico albero grandioso e fiorito di gioventù.

Poi diedi uno sguardo alla Cochi: è rimasta la bella “ragazza” di un tempo, ritrosa, chiusa a riccio, ma con le idee chiare e il cuore caldo. Riandai subito col pensiero a “nonna Pina” e la sua nidiata di figli fatta soprattutto di ragazze belle nel volto e nel cuore.

Queste immagini che fluivano numerose ed intense nel cuore finirono per farmi commuovere come al solito e mi spinsero a dire pensieri forse un po’ troppo romantici per quell’uditorio nel quale i giovani erano assai ben rappresentati. Comunque fui felice che la mia “vecchia guardia” ci fosse ancora e capace di una testimonianza forte e decisa su tutti i fronti.

Ora che anche nel mondo religioso sono quasi di moda i baci e gli abbracci, li avrei abbracciati tutti perché ebbi la sensazione che la comunità cristiana è ancora viva e fiorente, ma supplii dando un bacio alla vecchia priora, testimone non solo dell’ultimo secolo ma pure dell’ultimo millennio.

27.05.2014

Aquileia

Ad Aquileia c’ero già stato almeno altre due volte, ma in tempi lontanissimi cosicché, quando il gruppo che al “don Vecchi” organizza la cultura, la ricreazione e il turismo mi ha informato che l’ultima gita-pellegrinaggio della stagione primaverile avrebbe avuto come meta Aquileia, ne fui particolarmente felice.

Il ricordo di quella antichissima basilica, dei resti del porto di quell’insediamento delle popolazioni venete, era abbastanza sfumato, anche se l’avevano un po’ ravvivato le immagini che la televisione ci ha offerto in occasione del grande sinodo per il ritorno alla freschezza ed autenticità della sorgente del cristianesimo dei veneti e per il rilancio di una nuova evangelizzazione della nostra gente.

Martedì 12 maggio partimmo con due autobus capaci di 110 posti gremiti fino all’ultimo seggiolino. Il viaggio, pur piuttosto lunghetto per le nostre uscite, non ci ha stancato più di tanto ed è trascorso velocemente in lieta conversazione. All’arrivo nel grande piazzale verde, ben curato, s’impose alla nostra attenzione la grande e maestosa basilica che ci apparve come qualcosa di sovrumana bellezza. Ebbi la stessa fortissima sensazione quando molti anni fa mi apparve, quasi improvvisamente, ergersi sul prato di un verde scuro la splendida basilica bianca e il battistero di Pisa.

Allora, di fronte alla sovrana armonia e bellezza di quel grande complesso architettonico, ebbi un’emozione che mi lasciò quasi senza respiro. Allora lo sentii come la preghiera profonda di un popolo ricco di fede. Ad Aquileia le pietre e le linee pacate ed armoniche del grande complesso sacro mi apparvero più calde, più in sintonia con i sentimenti pacati con cui le genti venete cantavano le lodi al nostro Dio. Il verde, pure ad Aquileia, forma una cornice quanto mai appropriata alla grande e maestosa basilica.

Una volta entrati in chiesa i nostri occhi furono pressoché incapaci di abbracciare tanta bellezza soave ed accogliente. Celebrai su un altare laterale e nell’omelia tentai con tutte le mie risorse di sottolineare l’importanza del credere, del comunicare con Dio, fonte di vita, di armonia e di amore. “Aquileia, dissi, rappresenta la sorgente ove esce pura e luminosa la fede dei Veneti” rifacendomi alla bella immagine di Silone che ha scritto che per scoprire, per cogliere l’importanza e il dono dell’acqua non si può aprire soltanto il rubinetto ma bisogna andare alla sorgente. Aquileia e la sua basilica rappresentano ancora una sorgente viva.

Però si smorzò un po’ il mio entusiasmo e la mia speranza venendo a sapere da una addetta al culto che il parroco di Aquileia cura quattro parrocchie e perdipiù insegna religione a scuola.

Poi il mio pensiero è andato all’ultimo grande sinodo di Aquileia, per riscoprire e rilanciare il messaggio cristiano.

Ho concluso che la Chiesa ha bisogno di qualcosa di più serio e sostanzioso dei “pannicelli caldi” del sinodo, quale una riforma radicale che apra il sacerdozio alle donne, agli uomini sposati e che coinvolga realmente tutti i fedeli.

Credo però che anche questo sia ancora poco.

26.05.2014

Nulla è scontato ma tutto è prodigio

Non mi sento del tutto appagato dalla pagina di diario che ho steso ieri, pagina in cui ho affermato con molta convinzione che la vita è meravigliosa. Questa affermazione, così come è definita, mi ritorna dalla visione di un bellissimo film del regista americano Frank Capra, il quale vuol dimostrare che se ognuno potesse fare tutto quello per cui è portato, potrebbe essere veramente felice e vivere una vita splendida.

Comunque la terra, il cielo, il mare e le creature ci offrono un ambiente bellissimo e, pur dopo le manomissioni e le storpiature che l’uomo stoltamente ha fatto nei secoli, quello che rimane è sufficientemente bello da poterci offrire una vita bella ed interessante.

Il guaio è che spesso ci accorgiamo troppo tardi delle splendide opportunità che avremmo potuto cogliere e non abbiamo invece colto perché non abbiamo approfittato del tempo e delle occasioni che ci erano offerte.

Ricordo una frase che un artista ha stabilito fosse scritta sulla sua tomba: “Fui felice, ma non lo seppi”. Quando l’ho letta mi stupii, mentre ora mi pare di capire che aveva veramente ragione. Ho l’impressione che siamo su questa terra come turisti con la testa per aria che non si accorgono di tutto il bello che ci circonda e di tutte le opportunità che ci sono offerte.

Spesso mi vien da pensare che i santi, i poeti e gli innamorati, che tutti credono persone che non hanno i piedi per terra, siano i soli che sanno vivere, mentre la stragrande maggioranza delle persone che si credono concrete, di buon senso e razionali, finiscono per essere gli uomini che meno ci capiscono della vita e che meno sanno godere delle opportunità che essa offre. Uno dei tanti guai che ci colpiscono è di certo la superficialità, il dare tutto per scontato, il non accorgersi di tutto quel meraviglioso mondo che ci circonda.

Quando sono stato costretto a letto in una corsia dell’ospedale per lungo tempo, sognavo, come fosse cosa da Paradiso, di fare quattro passi in maniera autonoma, radermi la barba da solo, spalancare la finestra per vedere i tetti delle case e i rari uccelli che volavano in cielo, mentre prima non mi ero mai accorto della sovrana bellezza di tutto questo durante i tanti anni in cui avevo potuto scorrazzare in assoluta libertà.
Il mondo e la vita sono quasi tutti da scoprire!

Ricordo che appena finita la guerra ho visto uno dei tanti film che si rifacevano alle vicende belliche. La trama era imperniata sulla vicenda di un sottomarino colpito da una bomba di profondità, lo scafo si era adagiato sul fondo del mare e non si era capaci di farlo riemergere mentre le scorte di aria andavano esaurendosi. Il film metteva in luce l’angoscia dei marinai. Perfino il pubblico che assisteva pareva totalmente coinvolto dal dramma, tanto che sembrava che tutti noi facessimo fatica a respirare dentro al locale.

Finito il film, uscito all’aperto, respirai con ebbrezza; mai prima avevo apprezzato quel qualcosa di impalpabile e di scontato che è l’aria, realtà che tutti dicono che sia l’unica cosa che non costa niente, mentre in realtà è qualcosa di tanto prezioso.

24.05.2014

Godere il presente per sognare il futuro

Gesù fa un discorso sulla morte e l’aldilà; afferma testualmente “Non abbiate timore, fidatevi del Padre mio e anche di me; vado a prepararvi un posto e quando l’avrò preparato verrò a voi perché siate dove io sono”, Domenica scorsa, per dare un supporto forte e comprensibile a questo discorso, ho ritenuto necessario parlare positivamente del presente.

I non credenti, e soprattutto i laici, attaccano spesso noi cristiani perché ci ritengono storicamente rinunciatari, persone che non apprezzano sufficientemente la vita attuale per rifugiarsi in quella futura che noi riteniamo migliore.

Io purtroppo non do tutti i torti a chi ci accusa di questa “fuga in avanti” e non ci ritiene sufficientemente impegnati a costruire una società più giusta e migliore nella quale ogni uomo possa avere la sua parte di felicità.

Soprattutto i cattolici italiani, a motivo della caduta – per me provvidenziale – dello Stato pontificio, furono impediti dalla gerarchia ecclesiastica di essere eletti ed elettori al parlamento. Questo ha influito negativamente sulla loro coscienza, motivo per cui l’impegno politico è stato visto con una certa diffidenza e perciò per decenni e decenni essi rimasero ai margini dei luoghi in cui si dava volto e respiro alla vita della nostra società.

Prima ancora, ed in maniera più incisiva, il movimento giansenista aveva ancora più negativamente inciso nella coscienza dei cristiani dando una lettura fosca e cupa al presente per rifugiarsi nella vita futura.

Credo che sia innegabile il fatto che i sacerdoti abbiano parlato per secoli con più entusiasmo della bellezza e della felicità del Paradiso ed invece abbiano messo in guardia i fedeli dai “piaceri della vita presente”.

Per poter parlare quindi con fiducia e serenità della vita futura promessa da Cristo, ho ritenuto doveroso ribadire, convinto, che la nostra vita è uno splendido dono di Dio ed una bella avventura da vivere con pienezza e fiducia in tutto quello che possiamo cogliere di interessante e di bello quaggiù, ricordandoci poi dell’affermazione di Cristo “sono venuto perché abbiate la gioia e la vostra gioia sia grande”, ad avallare questa tesi.

Quindi m’è parso opportuno soffermarmi sulla bellezza del Creato, bellezza sublime che noi diamo per scontata, anzi che non ci accorgiamo neppure di poterne godere. Ho quindi insistito nell’aiutare i fedeli ad accorgersi di tutte le cose belle che la natura e soprattutto le persone ci possono offrire e delle quali noi dobbiamo prendere coscienza per coglierle a cuore aperto.

Non soltanto possiamo godere, anzi, se solamente lo facciamo con fiducia siamo aiutati anche ad attenderci da un Dio così generoso e provvido un mondo futuro ancora migliore ove passeremo non soltanto il numero limitato di anni che possiamo vivere quaggiù, ma tutta l’eternità.

25.05.2014

L’origine remota

Ho già raccontato che al liceo ebbi per un paio d’anni un insegnante di storia assai originale nel modo di ragionare, ma che comunque era un uomo assai saggio ed intelligente. Si trattava del professor Angelo Altan, personaggio di cui ho raccontato che comperava il Gazzettino, lo metteva nel suo scrittoio e lo leggeva dopo settimane dicendoci che così aveva modo di valutare l’intelligenza dei giornalisti e la consistenza dell’evento di cui scrivevano. Questo professore, quando faceva lezione su un particolare evento storico, cominciava sempre con l’inquadrarlo citando le ragioni remote e prossime che avevano prodotto quell’evento. Il suo discorso era di certo intelligente e colto, ma noi studenti talvolta, celiando, dicevamo che avrebbe sempre dovuto partire da Adamo ed Eva e dal relativo peccato originale, e lui, stando al gioco, affermava: Perché no! Ogni evento dipende sempre dall’origine da cui è sorto!Ÿ.

Mercoledì scorso, 14 maggio, durante l’inaugurazione del “don Vecchi 5” è intervenuto anche il consigliere regionale Gennaro Marotta, il quale si arrogò un certo merito nei riguardi della nuova struttura per anziani in perdita di autonomia. Ne raccontò la genesi che io avevo totalmente dimenticato.

Le cose andarono così: il dottor Bacialli, direttore dell’emittente “Rete Veneta”, mi invitò a partecipare ad un dibattito sulla residenzialità degli zingari, forse sapendo che io avevo affermato più volte che quella del sindaco Cacciari di costruire a Favaro le casette per gli zingari mettendoli tutti assieme era stata una grossa “castroneria”: ghettizzandoli era come favorire certe loro abitudini malsane.

Lo studio televisivo è alla periferia di Treviso. All’andata mi accompagnò Bacialli stesso e per il ritorno chiese al consigliere Marotta di portarmi a casa, perché da solo mi sarei di certo perso nel labirinto delle strade della Marca Trevigiana.

Nei tre quarti d’ora di strada fu giocoforza parlare e io gli parlai degli anziani, argomento che mi stava a cuore. Marotta mi promise di darmi una mano per come poteva. Infatti qualche settimana dopo accompagnò il dottor Remo Sernagiotto, assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, al “don Vecchi”. L’assessore rimase “folgorato” dalla struttura, dalla dottrina da cui nasceva e dall’economicità della gestione. Sposò immediatamente il progetto di affrontare una esperienza pilota per risolvere il problema degli anziani che si trovano in quella zona grigia che sta fra l’autosufficienza e la non autosufficienza. Attualmente le strutture che provvedono alla non autosufficienza, sono strutture costosissime per la società e per di più di stampo, tutto sommato, ottocentesco, che privano il soggetto di ogni rimasuglio di autonomia.

Da quell’incontro nacque la sfida della Fondazione di sperimentare un progetto assolutamente innovativo che rispetti la persona e le permetta di rimanere tale anche nel disagio della vecchiaia. Da quell’incontro nacque la proposta del mutuo a tasso zero in 25 anni e l’offerta di una modestissima diaria per offrire un minimo di assistenza agli anziani che sarebbero stati accolti.

Il mio piccolo sacrificio di dedicare una serata a quel dibattito ha prodotto una struttura del costo di quattro milioni di euro che per almeno cent’anni metterà a disposizione degli anziani poveri di Mestre 65 alloggi. Ne è valsa la pena!

22.05.2014

Mattia

Qualche giorno fa ho celebrato la messa dell’apostolo San Mattia perché ricorreva il giorno della sua festa. La prima lettura era tolta dagli Atti degli Apostoli.

Tutti, o perlomeno molti, sono a conoscenza che il Vangelo di san Luca è quello che si sofferma maggiormente sull’infanzia di Gesù, ma è pure il Vangelo che da un punto storiografico è il più ben strutturato e documentato e questo perché san Luca, essendo medico di professione, forse aveva una preparazione culturale superiore a quella degli altri apostoli. Ebbene Luca, negli Atti degli Apostoli documenta la storia della comunità cristiana delle origini e tra l’altro descrive come è avvenuta l’elezione ad apostolo di Mattia.

Avendo Giuda tradito, gli apostoli furono del parere che quello che poi sarebbe stato chiamato il “collegio apostolico” avrebbe dovuto essere composto da 12 apostoli. Gesù infatti aveva scelto dodici membri e perciò decisero che uno dei discepoli dovesse prendere il posto del traditore.

Scelsero due discepoli di fede provata, invocarono lo Spirito Santo ad assisterli e poi tirarono a sorte per vedere quello che dei due candidati, Basalba e Mattia, il Signore avesse scelto. La sorte cadde su Mattia ed egli fu nominato apostolo.

Non so perché, però questa operazione per scegliere il successore di Giuda mi è parsa un po’ strana e vicina alla cabala piuttosto che alla saggezza. Ho pensato che fosse strano che il buon Dio si avvalesse dei dadi per scegliere un apostolo.

Questa riflessione mi portò a pensare che soprattutto nel Medioevo si affidava al cosiddetto “giudizio di Dio” la decisione per appurare una certa verità. Ad esempio se un indiziato per qualche colpa riusciva a fare un percorso sui carboni ardenti voleva dire che Dio l’aveva aiutato perché era innocente, se invece cadeva nel fuoco ciò era indice che il Signore affermava la sua colpa.

Conclusi con un po’ di supponenza intellettuale che questo modo di ragionare apparteneva ad un fideismo insensato e ad una cultura ancora primitiva. Ma poi, ripensando ancora più a fondo, mi rifeci al proverbio popolare “non si muove foglia che Dio non voglia” che mi pare, tutto sommato, sensato e soprattutto ricco di fede, semplice ma autentica. Se la realtà del cosmo è regolata dal sapiente disegno di Dio, ogni evento, ogni esperienza umana risponde ad una logica che spesso non mi è dato di capire, ma che certamente si rifà al disegno di Dio.

Tante volte nel passato ho tentato di interpretare in maniera positiva fatti che apparentemente sembravano del tutto casuali, ma che invece dovevano far parte di un disegno provvidenziale con cui il Signore mi indicava una strada, mi mandava un messaggio per il mio bene. Ora di frequente, in simili occasioni, tento di dare un’interpretazione positiva ad eventi lieti o tristi e pur non pretendendo che la lettura che ne do valga per tutti; a livello personale trovo questo discorso quanto mai vantaggioso.

Se Mattia è diventato apostolo per il modo con cui è caduto un dado, perché non dovrebbe essere così anche per me?

21.05.2014

Povero Cristo!

Tanti anni fa ho ascoltato un’appassionata conversazione di monsignor Pavone, che a quel tempo era l’assistente nazionale della San Vincenzo. Il tema della conferenza era pressappoco questo: “Il cristiano e il povero”.

Questo prete laureato in psicologia, o forse in psichiatria, si occupava, per scelta coerente, non solamente dei poveri ma, a suo dire, dei “poveri più poveri”, ossia dei tossicodipendenti che erano stati accolti in una comunità di recupero, che però, non essendo riusciti a fare “il cammino” proposto per la loro redenzione, erano scappati naufragando letteralmente nella droga, distruggendo non solo la loro dignità di uomini, ma pure le loro cellule cerebrali, motivo per cui avevano reso impossibile il loro recupero umano. Quindi si erano ridotti ad autentici “rifiuti umani” abbandonati sul ciglio della strada come i rifiuti di Palermo e di Napoli.

Ebbene questo prete, che per occuparsi di questi “rifiuti d’uomo” doveva avere non solo un grande cuore, ma anche una grande fede, ci ha offerto una lettura nuova ed autenticamente evangelica nella ricerca di conoscere e servire Gesù di Nazaret. Disse all’auditorio attento ma perplesso: Se vuoi incontrare, amare e seguire Gesù, non andarlo a cercare nelle opere d’arte che raffigurano il Cristo, nei libri di devozione, e nemmeno nelle nostre chiese, ma cercalo nascosto, ma autenticamente vivo, nella carne degli ultimi, dei perduti, dei rifiuti d’uomo. Là certamente e realmente potrai conoscere e seguire il MaestroŸ.

Ricordo pure il vescovo americano Fulton Sheen che in una sua omelia affermò, con una felicissima immagine: Sono sceso in strada ed ho visto Gesù in croce e sono corso per schiodarlo, ma Lui mi disse “Vedi tutti quegli uomini che sono pure in croce? Ebbene io non scenderò dalla mia croce se tu non ti darai da fare per far scendere pure loro”Ÿ.

Il Cristo vero non sta nelle immaginette, nelle opere d’arte e neppure nelle croci d’oro che le donne e i nostri vescovi portano appesi al collo, ma nell’uomo che soffre, che è stato crocifisso dalla ingordigia, dalla prepotenza umana, dalla superficialità, dalla tradizione pietistica o dalla nostra pretesa di incontrarlo ed amarlo in una immagine di comodo, fatta su nostra misura e a nostro gradimento.

Purtroppo abbiamo storpiato e sfigurato Gesù reale perché è troppo impegnativo vederlo, ascoltarlo e seguirlo, mentre è molto più comodo costruirci un surrogato.

“Don Spritz” nel suo volume “L’odore del gregge”, cita un certo autore, I. Descalzo, il quale afferma che “l’amore folle” che ha animato Gesù, deve sopportare tutt’oggi qualcosa di più atroce della morte stessa, cioè la tortura quotidiana di vedersi ridotto alla mediocrità, addolcito, edulcorato, mitigato, alleggerito, rimpicciolito, fatto noioso, compassionevole, insulso, reso facilmente digeribile perché non disturbi troppo, perché si adatti alle nostre misure e ai nostri calcoli.

Il “mio”, il “tuo” Gesù non possiamo ridurlo a questo fantoccio perché non turbi la nostra coscienza e ci permetta di fare i nostri comodi, perché questa contraffazione di Cristo non ci salva di certo!

21.05.2014

Morte inutile?

Ho appena celebrato una messa in suffragio di Matteo Vanzan, il giovane lagunare morto a Nassiriya in Irak in un’azione che consentisse di poter trasportare aiuti ad una base italiana attaccata e circondata da guerriglieri iracheni.

Mi ha fatto piacere che l’Associazione di ex Lagunari del paese di Matteo abbia organizzato ancora una volta la deposizione di una corona di alloro presso la sua tomba e la celebrazione dell’Eucaristia in suffragio nella mia chiesa, perché soltanto alla luce del messaggio di Cristo questi drammi umani si possono comprendere e, pur con fatica, accettare, perché in questa prospettiva di fede tutto ha senso e significato.

Io ho conosciuto solamente dopo la morte questo giovane ed ho finito per volergli bene perché la sua “dimora eterna” attuale è ubicata all’interno del nostro camposanto il quale ospita la più grande comunità di fedeli e quindi lo ritengo mio parrocchiano. Ho approfondito questa “amicizia” attraverso quanto hanno detto di lui i giornali e i vari cappellani militari che si sono avvicendati durante questi ultimi dieci anni.

Come dicevo, questa mattina la sezione dell'”Associazione lagunari in pensione” del paese natio di Matteo ha chiesto a me il compito di ricordarlo al Signore, ai compagni d’arma e ai cittadini. Ho accettato volentieri questa richiesta perché Matteo è uno dei “parrocchiani” che conosco meglio. Ho guidato con fede e fiducia la preghiera dei numerosi presenti: militari in servizio, e militari in pensione, famigliari, compagni d’arma e cittadini, chiedendo al Signore “la vita nuova e migliore” per questo giovane che ha ritenuto di impegnarsi per creare un mondo nuovo attraverso il servizio militare e che ha pagato assai cara la sua scelta di servire l’umanità in questa maniera.

Mi è parso giusto raccogliere e riproporre la testimonianza personale di questo concittadino in armi e dell’evento della sua morte. Da un lato ho quindi affermato che è sempre doveroso sottolineare positivamente la scelta di un giovane che aveva ideali, che sapeva il probabile costo della sua decisione e che poi ha pagato questo prezzo così elevato. Ma dall’altro lato non ho potuto fare a meno di affermare con assoluta convinzione che non bisogna educare i nostri giovani a “morire per la Patria”, ma formarli a vivere a favore di essa. Ognuno deve mettere sul tavolo della vita il meglio di sé per il bene di tutti.

Pur provando un certo imbarazzo per aver davanti dei militari con belle uniformi e addosso un sacco di onorificenze, ho affermato che è ora che le questioni interne ed internazionali risolvibili con la ragione siano affrontate con il dialogo e perfino col compromesso, ma mai più con le armi.

Confesso che attualmente provo una vera nausea quando vedo in giro uniformi e sento parlare di campagne e di spese militari; mi pare che quel mondo appartenga ormai ai secoli di piombo e che la più bella operazione che potrebbe far Renzi sarebbe quella di vendere per ferro vecchio cannoni e carri armati e mandare a lavorare in fabbrica o in campagna le decine di migliaia di uomini che “vivono per la guerra”.

20.05.2014

Il Vangelo di “don Spritz”

Questa mattina ho terminato di leggere “L’odore del gregge”, il volume uscito da poco del giovane prete padovano don Marco Pozza. Di questo prete, che ho incontrato per caso un paio di anni fa sullo schermo della televisione, ho parlato altre volte perché, per un certo verso, è un sacerdote “sui generis” dell’ultima generazione, con una mentalità, un linguaggio e un comportamento per me, educato alla vecchia maniera, del tutto particolare.

Non posso dirvi che sono stato “folgorato” dalla lettura della sua opera, comunque sono stato interessato a conoscere questo prete a motivo dell’età, perché nella nuova generazione sacerdotale vi sono parecchi giovani preti che sono più vicini, come mentalità, al primo millennio che al terzo in cui viviamo altri più vicini al quarto millennio. Comunque “don Spritz”, come l’hanno denominato i giovani, è l’espressione più autentica della mentalità, del comportamento e del linguaggio dei giovani del nostro tempo.

Faccio un rapido cenno alla sua biografia e alla sua personalità. Don Pozza è nato nel padovano nel 1979, ha quindi 35 anni. Mandato dal suo vescovo a Roma presso l’Università gregoriana a specializzarsi in teologia, una volta laureato è tornato a Padova, dove è stato incaricato di assistere i carcerati dell’istituto penitenziario patavino “I Due Palazzi”.

Da ciò che ho potuto capire questo prete ha una notevole presa sui giovani ed un enorme seguito nel sito internet che egli ha aperto e che cura attualmente. Dalla foto riportata nel suo volume è un bel ragazzo con due occhi vivacissimi e sorridenti.

Nel volume, che è uscito da poco, egli inquadra alcune delle principali parabole del Vangelo dandone una interpretazione quanto mai personale, usando una terminologia che certamente si rifà al linguaggio giovanile, tutta piena di iperbole ed espressioni tipiche del gergo dei nostri giovani. Conclude il volume con una confessione personale nei riguardi di Cristo intitolata “Vi racconto il mio Gesù”.

Ripeto: lo stile è tutto frizzante, spumeggiante, esagerato, tanto che leggendo mi riaffiorava alla memoria la scena delle folle di giovani che si dimenano, applaudono e si esaltano all’ascolto di certi cantanti che a me fanno pena e disgusto perché mi sembrano burattini vestiti da pagliacci che saltellano sul palco emettendo suoni striduli e irritanti.

Di certo “don Spritz” è in sintonia con un mondo che io non voglio rifiutare in maniera pregiudiziale, ma che comunque faccio estrema fatica a comprendere e ad accettare. Sono però felicissimo che il giovane collega conosca il linguaggio di questo “mondo nuovo” e sappia comunicare con esso offrendogli la parola di Gesù.

Confesso che ho fatto fatica a leggere fino in fondo questo testo coloratissimo di immagini che pur si rifanno al testo sacro e spero tanto che invece i nostri “ragazzi da discoteca” ed anche da sballo incontrino finalmente chi parla la loro lingua ed offra sbocchi positivi al loro vivere.

19.05.2014

Le “scomuniche” di Grillo

Per moltissimi anni ho sofferto perché avevo l’impressione che la Chiesa fosse intollerante, non accettasse sufficientemente il dialogo, non sopportasse un certo dissenso e non credesse che ogni persona ed ogni movimento di pensiero ha in sé qualcosa di vero da offrire e di cui far tesoro.

La Sacre Scrittura offre un codice di comportamento: “Se sei convinto che tuo fratello stia sbagliando e quindi stia facendo del male alla comunità, riprendilo a tu per tu; se persiste, parlagli alla presenza di saggi testimoni; se ancora non desiste, portalo di fronte all’assemblea dei fratelli e poi non ascoltare nemmeno la comunità, toglilo fuori come ramo secco e pericoloso”.

Credo che le “scomuniche ecclesiastiche” abbiano come supporto formale queste parole, anche se in pratica ben altri sono stati i motivi di scomuniche facili ed esecrande. Una certa letteratura poi, quale quella della Sacra Inquisizione, delle Crociate, di certe “guerre sante”, mi aveva reso particolarmente sensibile in negativo a questo comportamento. Fui quindi ulteriormente esasperato dagli interventi più che decisi di Pio X nei riguardi del modernismo e, più di recente, da quelli drastici del Sant’Uffizio nei riguardi dei “profeti del nostro tempo”, quali don Mazzolari e di don Milani.

Nel mio piccolo infine, anch’io sono rimasto “toccato” da rilievi e richiami per prese di posizione a mio parere di poco conto.

Attualmente mi pare che la nostra Chiesa sia arrivata ad una tolleranza assolutamente esemplare. Papa Francesco porta avanti ogni giorno di più questa bandiera dell’arcobaleno.

In questo processo d’ordine storico mi pare stridano ancora di più le continue e dure sbraitate ed inappellabili scomuniche del comico Beppe Grillo, scomuniche che mi urtano maggiormente perché pronunciate con sentimenti e parole volgari, truculente ed assolutamente carenti di stile e di buona educazione.

Pensavo che fosse definitivamente terminata l’ora delle scomuniche ed invece me le ritrovo da mane a sera in televisione e su tutti i giornali. Avverto con un po’ di amarezza che amici che stimo e ai quali voglio bene, pur non dicendomelo apertamente, non condividono la mia preoccupazione che l’integralismo e il massimalismo soprattutto dei due leaders Grillo e Casaleggio siano un vero pericolo per la democrazia e che il loro assoluto rifiuto di ogni forma di dialogo, di compromesso e di collaborazione esasperi maggiormente il clima desolante della politica italiana.

Quanto ammiro l’intelligenza, la coerenza, l’onestà morale di tantissimi militanti e soprattutto parlamentari Cinquestelle, tanto mi preoccupa l’intransigenza assoluta, la saccenza e la volgarità dei loro capi.

Comunque, volendo rimanere fedele alla convinzione che la differenza è un valore, scelgo di accettare questa presenza sperando che alla fin fine sia vantaggiosa per il nostro Paese.

11.05.2014

Un tentativo inebriante

La mia riflessione odierna si rifà, ed è una conseguenza, della verità di cui ho parlato ieri e che per me ha rappresentato la “scoperta del tesoro” in un campo ormai poco fertile e semiabbandonato e che mi ha spinto quasi a “vender tutto per comprare il campo che custodisce quel tesoro”.

Due domeniche fa il Vangelo riportava l’episodio dell’apparizione di Gesù agli apostoli impauriti, perplessi, incapaci di dire alla gente che il loro maestro aveva vinto la morte, per cui tutti ora potevano camminare con speranza e coraggio verso l’aurora del nuovo giorno.

Iniziai il sermone dicendo quanto mai convinto: «Miei cari, questa mattina, in questo nostro “cenacolo”, parliamo di un episodio della vita della Chiesa d’inizio da cui apprendiamo che Gesù entrò nel sacro luogo, salutò dicendo “pace a voi” ed affermando che era proprio lui il maestro che loro avevano conosciuto e che i capi religiosi avevano condannato a morte perché metteva in pericolo la loro sicurezza e soprattutto le loro posizioni di prestigio, ma non ci ritroviamo qui per ricordare questo episodio per quanto importante, ma lontano, ma perché anche noi oggi, nonostante la nostra pratica cristiana di tanti anni, ci troviamo titubanti, timidi, perplessi e non ancora capaci di “saltare la mura”. Questa mattina aspettiamo il Signore che venga a trovarci, a darci la pace, a credere veramente alla resurrezione, perché di questo anche noi abbiamo bisogno.»

Domenica scorsa invece il Vangelo riportava l’avventura di fede dei discepoli di Emmaus. Ribadii sulla stessa linea, con ancora più vigore, la grande verità che, rifacendoci all’esperienza di questi discepoli, dovevamo anche noi imparare ad incontrare, ascoltare e testimoniare il Risorto. L’incontro col Risorto non è rimasto un privilegio dei discepoli della Chiesa d’inizio, ma pure noi possiamo e abbiamo bisogno assoluto di incontrare Gesù, seppur nascosto nelle vesti, nel comportamento e nel modo di esprimersi degli uomini del nostro tempo. Anche oggi, spalancando gli occhi, avendo attenzione, possiamo fare questo incontro per portare poi la splendida e meravigliosa esperienza alla nostra comunità perché cresca la fede comune.

Per indicare che pure noi possiamo scoprire il Gesù che cammina in incognito sulle nostre strade e sulle nostre piazze, riferii due testimonianze. La prima di mons. Vecchi che quando gli feci osservare che lo vedevo legger poco per aggiornarsi, mi disse un giorno: «Armando, se alla mia età non avessi ancora imparato a leggere “il libro della vita” vorrebbe dire che non ho imparato proprio niente». Tutti dobbiamo saper leggere il “libro della vita” che contiene tutte le più grandi verità e che da mane a sera ci parla del Dio presente nelle nostre vicende.

La seconda testimonianza di due sorelle che mi hanno regalato un tempo un quaderno ove descrivevano come avevano imparato ad interrogare Dio a proposito dei problemi in cui s’imbattevano. Esse aprivano il Vangelo e, a loro dire, trovavano sempre la risposta esauriente. C’è da crederci!

Terminai l’omelia affermando che, almeno idealmente, ogni domenica ognuno dei presenti alla messa doveva portare idealmente sull’altare, a beneficio di tutti, il loro incontro col Risorto. Solo così l’Eucaristia arricchisce di grazia e di speranza l’intera comunità.

10.05.2014

“Il Quinto Evangelo”

Molti anni fa mi è capitato di leggere un volume di Mario Pomilio intitolato “Il quinto evangelio”. In questo volume l’autore afferma che la rivelazione del Nuovo Testamento raccolta dai quattro evangelisti Marco, Luca, Matteo e Giovanni, non termina con l’ultimo evangelista ma l’azione di Dio nella storia umana è continuata e continuerà fino alla fine del mondo. Questa azione continua di Dio è recepita nel “quinto evangelo”, quello che è redatto da ciò che l’uomo riesce a recepire di divino in ciò che accade nel mondo. La rivelazione e la redenzione non si sono concluse, ma sono un fatto permanente perché Dio ama e salva l’uomo in ogni tempo ed in ogni situazione.

Questo discorso per me è stato di capitale importanza perché mi sono sentito dentro l’attenzione e il progetto di Dio per la mia salvezza.

Più recentemente ho letto un altro volume, del giornalista Luigi Accattoli altrettanto illuminante e complementare a quello di Pomilio; si intitola “Fatti di Vangelo” e riporta il frutto della ricerca di questo pensatore. Egli infatti raccoglie fatti, episodi, incontri, discorsi espressi da uomini di alto profilo spirituale che, riferendosi al messaggio di Gesù contenuto nei Vangeli, compiono azioni e scelte in linea con la proposta che il Figlio di Dio è venuto a farci.

Posso ben dire che per me la lettura di questi due volumi non solo è stata illuminante, ma ha cambiato radicalmente la mia lettura del progetto di salvezza contenuta e descritta dai Vangeli. Perciò la mia fede non è stata più ancorata al passato e non mi sono più limitato a riviverla attraverso il “memoriale” che la riprende e la ripropone con i gesti liturgici che recuperano il ricordo di fatti avvenuti secoli fa, ma mi sento totalmente immerso nell’abbraccio di Dio che mi ama, mi parla e mi salva con parole e fatti a me contemporanei.

Il mio Dio non è rimasto il vecchio Dio conosciuto al catechismo e nei miei studi di teologia, ma è diventato un Dio contemporaneo, presente nel mio oggi, che mi parla, mi guida e mi salva oggi. Il mio Dio non è più quello “un po’ vecchiotto” conosciuto attraverso i discorsi e le immagini del passato, ma è un Dio vestito con gli abiti di oggi, che mi parla con la lingua parlata oggi, il Dio con cui posso colloquiare come con uno che è dentro alla mia storia, ai miei drammi e alle mie attese.

Non so se sia riuscito a descrivere questa mia evoluzione interiore. Vorrei dire che oggi non mi sentirei né cristiano né credente, se non avessi scoperto il “Dio dei viventi”. A buona ragione devo confessare che sono enormemente grato a Pomilio e ad Accattoli, “evangelisti” dell’oggi che hanno reso l’avventura cristiana come un’avventura piena di fascino che mi coinvolge fino al “midollo” dell’anima.

09.05.2014