Il prete delle tariffe

Tutti quelli che mi conoscono sanno che di primo mattino io mi alzo ogni giorno alle cinque e un quarto e dopo aver letto il breviario e riassettata la mia stanza da letto, prima di partire per la mia “giornata lavorativa”, dedico 10, 15 minuti alla lettura del Gazzettino, il nostro quotidiano. Una scorsa veloce all’articolo di fondo, una rapida occhiata ai titoli, un’attenzione un po’ più particolare se vi sono notizie di carattere religioso, specie della Chiesa di Venezia e poi passo il giornale a suor Michela che ha più tempo di me per leggerlo.

Lunedì 2 giugno, giornata della Repubblica, sono stato attratto dal titolo di un articolo a cinque colonne che riguardava “il mio mondo”, articolo di cui riporto integralmente la prima parte:

PISTOIA L’anziano parroco affigge in chiesa un cartello con i prezzi dei sacramenti ed è bufera
Il tariffario del prete fa infuriare il paese I fedeli per protesta scrivono al Santo Padre. Il sacerdote replica: «Sono semplici indicazioni»
Un tariffario ed è bufera. Ad esporlo è un sacerdote, ma la comunità pare proprio non gradire l’innovazione. La vicenda si consuma in un piccolo paese del pistoiese. Il parroco espone in chiesa un foglio con indicate le “tariffe” per i sacramenti, da 190 euro per il matrimonio a 90 per battesimo o funerali, e una parte di fedeli scrive una lettera al Papa, lamentandosi anche del fatto che lo stesso prete ha deciso di mandare i bambini in altre parrocchie per comunione e cresima, causa la penuria di catechisti. La vicenda, riportata da un quotidiano locale, ha per teatro Villa di Baggio, piccolo borgo sulle colline pistoiesi.

Dico subito a chiare lettere che condivido fino in fondo la “ribellione dei fedeli” che hanno scritto al Papa. Forse avrebbero fatto meglio a parlarne direttamente col loro prete e, magari in seconda battuta, se non si fosse ricreduto, a contattare il suo superiore diretto. Purtroppo rimane vera la massima latina “Tot capita tot sententia”, tante teste tanti pareri! Comunque su quanto riguarda i soldi richiesti per prestazioni di ordine religioso ho scritto anche recentemente. Credo che quando un parroco è zelante ed ama e lavora per il suo popolo, esso non gli fa mancare mai il necessario, anzi!

Questa volta voglio fare invece un’osservazione per quanto riguarda la stampa e, nel nostro caso, il Gazzettino, periodico col quale un tempo ebbi da dire a proposito dell’importanza delle notizie che pubblica. Moltissimi anni fa con i miei scout stavamo organizzando il “Caldonatale”. Recuperavamo legna e carbone per portarli ai poveri. Non vi dico che impresa! Un centinaio di ragazzini che percorrevano le vie di Mestre con tricicli presi a noleggio. Andai in via Torino alla redazione del Gazzettino perché reclamizzassero “l’impresa benefica”. Pubblicarono un talloncino poco più grande di un bollo, mentre il giorno dopo, a Scorzè, nacque un vitello con due teste e vi dedicarono cinque colonne, tante quante “il prete delle tariffe”.

Andai a protestare. Il direttore con sussiego mi disse che il giornale è un’azienda e che il vitello con due teste avrebbe fatto vendere, mentre l’impresa benefica degli scout, pur ammirevole, non faceva vendere più copie del solito e perciò non gli avrebbero potuto dedicare che poche righe.

La cosa non mi andò giù, come non mi va giù quella del prete delle tariffe. E’ giusto che i giornalisti denuncino tutte le magagne di noi preti, magagne che sono di certo molte e purtroppo più gravi di quelle di questo “don Abbondio”, però sarebbe altrettanto doveroso che il quotidiano desse lo stesso spazio anche a tutto quello che di positivo fanno pure i preti.

Penso, pur essendo assai critico con la mia categoria, che i giornali avrebbero pure tanto materiale da comunicare.

14.06.2014

Il comitato d’affari

Le vicende del Mose a Venezia, dell’Expo a Milano e della Carige a Genova, hanno portato alla ribalta e all’attenzione del Paese il malaffare che era esploso clamorosamente vent’anni fa con Tangentopoli, evento che ha sparigliato la compagine politica facilitando la fine della democrazia cristiana, dei partiti socialisti, repubblicani e liberali.

Il ciclone di intrallazzi venuti a galla in quest’ultimo tempo non è ancora chiaro che ripercussione possa comportare sui partiti attuali: Forza Italia, democratici e grillini, partiti che sono già molto malfermi sulle loro gambe. La suppurazione dei nuovi bubboni sociali lascia intravedere almeno le cause prossime che gli analisti del settore ci stanno via via informando sui complicati intrecci sui quali si regge l’attuale malaffare.

Questi discorsi che da qualche tempo tengono banco in maniera eccessiva presso l’opinione pubblica, mi hanno fatto tornare a mente una ormai lontana esperienza che – ora mi par di capire – aveva un qualche legame con queste tresche. Una quindicina di anni fa mi telefonò un giovane imprenditore, di cui ricordo anche il nome perché uguale a quello di un papa della Chiesa dei primissimi secoli; mi invitò ad una cena alla quale avrebbe partecipato un gruppo di manager che, a parer suo, contavano. Lui pensava fosse opportuno vi partecipasse pure un rappresentante della Chiesa.

Rimasi quanto mai sorpreso perché non ne capivo il motivo, ma insisté talmente tanto che fui costretto ad accettare, nonostante io sia assai schivo per queste cose. La cena si tenne in una casa colonica di Tessera radicalmente restaurata, tanto che mi apparve un rustico assai di pregio. In quell’occasione l’anfitrione mi presentò una ventina di personaggi che, almeno apparentemente, contavano nel nostro Veneto. Uno di questi, forse il principale, era il governatore Galan, un omone per nulla raffinato ed un po’ spaccone che si comportava con un fare da sovrano.

Fin da subito mi trovai estremamente a disagio. Quello non era affatto il mio mondo! Parlavano di affari, di imprese, di progetti e m’è sembrato che tutti fossero estremamente cointeressati. Per fortuna si sedette accanto a me il vecchio padre di chi mi aveva invitato e che aveva fatto la fortuna con l’impresa che ora il figlio gestiva. Era un uomo alla buona che mi aiutò a passare la serata.

Galan si degnò di chiedermi di che mi occupavo. Gli parlai della mensa dei poveri. Lui mi disse che era appassionato di pesca d’alto mare e mi promise che alla prima uscita mi avrebbe donato dei grossi pesci di altura. La cosa finì lì. Galan si dimenticò della promessa e chi mi aveva invitato molto probabilmente capì che io sarei stato di poco vantaggio per i suoi progetti e perciò dopo due o tre altre telefonate di cortesia, lasciò perdere. Io però, pur non avendo registrato nulla di disonesto, ho capito che molti mali della società nascono da queste consorterie e che è assolutamente bene che la Chiesa si mantenga mille miglia lontana da loro.

13.06.2014

“L’avventura di un povero cristiano”

Potrà sembrare strano per i miei colleghi o per la gente che mi conosce, ma uno dei libri che è maggiormente rimasto impresso nella mia coscienza è stato il volume “L’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone, quell’autore che si è definito “cristiano senza chiesa e socialista senza partito”. Il volume narra la vicenda di Celestino quinto, quello che Dante bollò di ignavia perché rinunciò al papato dando modo all’elezione di Bonifacio ottavo che al sommo poeta non andava proprio giù. Il frate eremita portato al soglio di Pietro è stato uno dei pochi papi che a quel tempo volle accertarsi di quel che c’era dentro all’imponente impalcatura della Chiesa della tradizione e della teologia cristiana.

Mi capita spesso di sentire colleghi e cristiani impegnati che, con fare enfatico si beano di certi misteri cristiani, quasi succhiandosi le labbra per i termini e le modalità con le quali ce li ha trasmessi la tradizione, però ho la sensazione che si accontentino del bellissimo involucro, ma che non si siano mai accertati di che cosa realmente contengono.

Vengo al motivo di questa premessa. Domenica scorsa si è celebrata la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa. Solamente a nominare questo termine la gente di Chiesa pare si inebri per la magnificenza e la sublimità del mistero. Io però, “povero cristiano” non ho mai sentito un prete ed un cristiano che mi spiegasse in che cosa è consistito questo grande portento.

Riassumo in due parole come gli “Atti degli apostoli”, cronaca della prima comunità cristiana, descrivono questo evento: gli apostoli, paurosi ed incerti, erano rinchiusi nel cenacolo, quando un vento impetuoso scosse le pareti e apparve un globo di fuoco che si suddivise in tante fiammelle che si posarono sul capo di ognuno. Da questo evento presero coraggio, spalancarono le porte e cominciarono ad annunciare il messaggio cristiano, ossia che Dio ci ama, che la vita ha un traguardo e una risposta, che Dio è benevolo e Padre che ci aspetta in fondo alla “strada”. E la gente, pur di etnie diverse, comprese questo messaggio e vi aderirì.

La mia domanda, che fatica a trovare risposta, è questa: “Cosa è successo perché gli apostoli siano cambiati così radicalmente?” La mia lettura è questa, o meglio questa è quella che mi convince di più: Dio ha parlato prima attraverso i profeti, poi tramite il figlio Gesù, ora attraverso gli uomini, tutti gli uomini, perché nel loro cuore e nella loro testa c’è la “fiammella di Dio”.

Ora Dio lo posso incontrare nel dialogo e nella testimonianza degli altri, e tanto più accetto la luce che proviene da ogni uomo, tanto più posso conoscere il volto di Dio e recepire il suo messaggio.

Secondo me questa splendida verità e scoperta ha acceso il coraggio e ha fatto si che essi siano usciti, la gente li abbia capiti e abbia accettato la buona notizia, l’Evangelo.

Io rimango un “povero cristiano”, ma soltanto così riesco a spiegarmi l’importanza della Pentecoste.

12.06.2014

Col clero veneziano

Ritorno alla mia visita al seminario perché è stato un evento per me pressoché “storico”. Dopo averci passato dodici anni della mia fanciullezza e prima giovinezza, ci sono ritornato poche altre volte. Ora poi credo che siano passati più di dieci anni dall’ultima visita. Di natura e per scelta io “mi tuffo” in quello di cui mi occupo e normalmente vi dedico tutte le mie risorse, motivo per cui mi resta ben poco tempo per altro.

Gli ultimi incontri con i preti li ho avuti in vicariato, ossia con i preti della zona di Carpenedo. Incontrarmi con tutto il clero veneziano è stato un evento abbastanza notevole. Scelsi un posto in fondo alla sala per poter osservare meglio i presenti e per poter uscire inosservato essendomi accorto che l’incontro non durava solamente per il tempo di una messa, come credevo, ma impegnava l’intera mattinata, cosa che non potevo permettermi anche perché ho fatto i salti mortali per farmi sostituire per la messa d’orario al cimitero.

Ho notato che i colleghi si conoscevano molto bene, tanto da scambiare battutine amichevoli e cordiali. Ho riconosciuto qualcuno del nuovo management, monsignor Dino Pistollato, mio vecchio cappellano, ora prelato assai influente, con la sua barba ben curata e forse l’unico – se si eccettua il Patriarca – che era in tonaca. Ho riconosciuto monsignor Barlese, mio successore a Carpenedo, monsignor Orlando, già parroco in via Piave, e qualche altro notabile. Poi ho osservato “la nuova guardia”, fatta di giovani preti disinvolti, con lo zainetto in spalla, però composta da volti puliti e sereni.

Tutto sommato ho avuto una buona impressione del clero della mia diocesi, mi è parso formato da buona gente. La sala era quasi piena, quindi penso saremo stati più di un centinaio di preti di varie età. La sensazione che ho avuto è di un clero certamente non composto da “arditi”, da “guastatori”, da gente di rottura. Non mi è parso di conoscere gente da “prima linea” che si è fatta notare per ardimento particolare e per essere scesi nelle barricate del nostro tempo.

S’è seduto accanto a me don Antonio Biancotto, che molti anni fa fu mio aiutante alla San Vincenzo di Mestre. E’ rimasto quello di un tempo: una voce calda e fraterna ed un volto buono, due occhi un po’ trasognati. Eppure in questi ultimi anni è stato il prete delle cui gesta s’è parlato di più a Venezia. Assistente dei carcerati a Santa Maria Maggiore, è stato il prete che ha diretto le varie “missioni di strada”, ossia ha guidato giovani provenienti da altre città, ma anche qualcuno dei nostri, che a più riprese hanno tentato di parlare di Gesù ai veneziani e ai foresti che incontravano nelle calli e nei campielli di Venezia.

Ho avuto l’impressione che questo che era il più pacifico ed indifeso dei preti giovani che ho conosciuto, sia diventato anche il più ardito. Ho ascoltato le testimonianze di tre colleghi di età diverse, mi sono ritrovato un po’ di più in quelle di Torta, parroco a Dese e frequentatore dei magazzini del “don Vecchi”. Gli altri mi sono sembrati sublimi, celestiali. Io di certo dovrò fare tanta strada per arrivare a quella spiritualità, ma me ne manca il tempo e poi temo di non averne neppure la voglia, perché preferisco rimanere con la povera gente di questa terra.

11.06.2014

Il seminario

Giovedì scorso sono andato in seminario perché si celebravano i giubilei di sacerdozio. Ci sono andato con fatica perché sono vecchio e perché non amo troppo i discorsi spesso inconcludenti, ma ho voluto far contento il nuovo Patriarca che nell’unico incontro che ho avuto con lui ha riassunto le lacune che mi riscontrava come sacerdote della Chiesa di Venezia in questi due difetti predominanti: «Sei vecchio; non vieni mai agli incontri sacerdotali».

Sono andato quindi per dargli questa consolazione e anche perché quest’anno celebro il 27 giugno le mie “nozze di diamante” di sacerdozio e quindi speravo di offrire almeno una piccola testimonianza di fedeltà alla Chiesa per i preti più giovani.

La prima fase dell’incontro ha avuto luogo nel refettorio costruito dai padri Somaschi, un salone grande, austero, con un pulpitino di marmo ove un tempo si leggeva la vita dei santi durante il pranzo, con in fondo una grandissima tela raffigurante l’ultima cena.

Ora questa sala è stata adibita ad auditorium; restaurata di recente è molto signorile. Ai miei tempi aveva i tavoli da pranzo accostati alla parete ove veniva servito il pranzo dai “seminaristi camerieri di turno”. Quante rape! Quanti fagioli! Quante alette di pollo! Un anno abbiamo perfino celebrato in maniera goliardica il “centenario del fagiolo”, tanto erano frequenti i fagioli in tavola!

Poi gli occhi si sono posati ove ai miei tempi c’era il pulpitino di legno posto di fronte a quello di marmo dei vecchi frati. A turno, dopo cinque ore di scuola, leggevamo la vita del santo del giorno. Non dimenticherò mai quella di un certo santo che era talmente santo che perfino nella prima infanzia, per mortificarsi nei giorni di digiuno, rinunciava a poppare il seno di sua madre! Eravamo più creduloni a quel tempo, ma non tali da non farci una risatina di compatimento il giorno in cui toccava la vita di questo santo: Dopo la vita del santo si leggeva un volume di contenuto più ameno. A me è capitato un anno di leggere quel bellissimo ed avvincente romanzo di Franz Werfel “I quaranta giorni di Mussadag”, volume nel quale si raccontava il tragico assalto, per motivi religiosi, dei turchi ad un villaggio armeno durante la feroce persecuzione degli ottomani agli armeni di religione cristiana. Nonostante la trama fosse davvero avvincente, la stanchezza per la scuola e la difficoltà dei nomi armeni mi resero un vero calvario quella lettura e motivo di infinite risatine da parte di quell’uditorio più attento al piatto che alla trama del racconto.

Giovedì il mio impatto emotivo è stato notevole, perché il ricordo, pur annebbiato dal tempo, era di un edificio fatiscente che tutto sommato manteneva il volto dell’antico convento, mentre ora sembra un “albergo cinque stelle”, in cui la vetustà è messa in cornice.

Il cardinale Scola, a quanto ho sentito dire, ha lasciato dei debiti, ma pure una bella e ricca eredità.

10.06.2014

“La nave de aqua”

Spesso mi capita una bella foto per la copertina de “L’Incontro”. Approfitto della foto, la “faccio parlare” mediante una didascalia, la più incisiva possibile, su un argomento che mi sta a cuore o per lanciare un messaggio che ritengo opportuno. Le tematiche su cui aiutare i concittadini a prender posizione sono talmente tante che ogni bella immagine che mi capiti tra le mani mi offre sempre l’opportunità di sottolineare un tema, esporre una critica o lanciare una proposta.

Normalmente metto in raccoglitore le immagini interessanti e poi le uso tentando di diversificare in ogni numero del periodico i temi che intendo trattare. Le foto sono sempre “rubate” da altri periodici, preferisco prenderle da quelli di ispirazione religiosa sperando che, data la “parentela di pensiero”, non mi sporgano denuncia.

Qualche tempo fa mi sono ritagliato una bella “tela”, quasi certamente del Canaletto, che ritrae la punta della dogana con alle spalle la basilica della Madonna della Salute. Di primo acchito, vedendo le barche ormeggiate con i marinai che armeggiano con prodotti da caricare o da scaricare, mi venne d’istinto sottolineare che quanto sono stati industriosi ed impegnati i nostri avi, altrettanto la città oggi sta andando alla deriva a motivo non solo dello spopolamento, ma pure del malgoverno.

Pensavo al Palais Lumier, al Fontego dei tedeschi, allo stadio, al quadrante di Tessera, al Casinò, al Carcere, alle grandi navi, all’isola di Poveglia ed altro ancora. Ebbi però un momento di resispenza pensando a quella parola pesante come una pietra, “malgoverno”, come concausa dei tanti mali. Mi è sembrata impietosa, anche se tante e tante altre volte avevo denunciato il degrado, l’inefficienza, la burocrazia. Sennonché mercoledì scorso, prima di mandare in macchina il periodico, di primo mattino è “scoppiata la bomba” della nuova tangentopoli che ha come epicentro il Mose, ma che è venti volte più consistente delle prime.

Il mio titolo “Povera Venezia! Non solamente non mi è più parso esagerato ed impietoso, ma inadeguato ed insufficiente ad esprimere la miseria morale della classe politica ed imprenditoriale della nostra città.

L’indomani, ossia giovedì scorso, dopo molti anni, facendo un enorme sforzo, soprattutto per accontentare i miei “capi”, sono andato alla Salute per la celebrazione dei giubilei sacerdotali, perché io ho raggiunto le “nozze di diamante” col mio sacerdozio: sono passati infatti sessant’anni dalla mia ordinazione sacerdotale. Al costo di quasi venti euro per i biglietti di autobus e vaporetto, ho potuto provare la sensazione di trovarmi in un megaipermercato del turismo.

Io non sono ancora andato a vedere il megaipermercato “la Nave de vero” di Marghera, ma questa mattina ho visto “la Nave de aqua” di Venezia. Anche questa seconda nave sa soltanto di artificio e di denaro, quasi nulla di comunità umana e di nuova civiltà!

09.06.2014

La vicenda del Casinò

Nota della redazione: come tutti gli articoli del blog, anche questo risale a diverse settimane fa, prima che esplodesse lo scandalo che ha coinvolto l’ormai ex Sindaco Orsoni.

Qualcuno si sorprenderà venendo a sapere che un vecchio prete come me è interessato alla vicenda che sta turbando i sonni di Orsoni, il sindaco di Venezia e mette in subbuglio ed in contrasto l’intero Consiglio Comunale, cioè quello della vendita del Casinò. Sia ben chiaro che non ho alcun interesse nei riguardi di questa “triste” azienda, però ritengo che ogni problema che interessa la comunità in cui vivo interpelli pure la mia coscienza.

Don Milani aveva fatto mettere ben in vista nelle stanze della sua canonica, che aveva adibito ad aule di scuola per i suoi ragazzi, un cartello con scritto “I care!” (mi interessa!); Gaber, il cantante anomalo le cui canzoni diventavano sempre messaggio o critica, affermava, col suo canto sempre graffiante: “Vivere è partecipare!”.

Mi pare che da più di un anno vada avanti sulla stampa veneziana la manfrina del Casinò: venderlo o non venderlo, come venderlo, a quanto venderlo, a chi venderlo. Non ho ben chiari i termini della questione, anche perché normalmente leggo il titolo e l’occhiello perché queste le considero “notizie di cronaca nera”, quindi disdegno di seguirle. Mi pare però di aver sommariamente capito che il Comune di Venezia, per tappare i buchi del suo bilancio disastroso, non solamente è costretto a vendere i “gioielli di famiglia”, ossia gli antichi palazzi che possiede, ma ora anche il Casinò che in passato versava nelle casse comunali fior di milioni.

Io ho sempre considerato il Casinò come una casa di malaffare; ricordo le truffe ricorrenti da parte dei croupier, le infinite beghe dei dipendenti superpagati, per le mance, gli scioperi proclamati dai sindacati, le eterne baruffe per la nomina dei dirigenti e, recentemente, non solo la diminuzione degli incassi, ma pure per i buchi nella gestione. Comunque, a parte tutto questo, che non depone di certo a favore del Casinò e del Comune, io ho sempre considerato il gioco d’azzardo e soprattutto chi lo promuove, come qualcosa di assolutamente immorale.

In passato, quando il Casinò rendeva (eccome!) provavo vergogna che la nostra città vivesse sulle spalle del vizio. Ricordo quando appena prete ai Gesuati, di primo mattino ho incontrato un imprenditore di mezza età, sfatto dalla stanchezza e dall’angoscia. Durante la notte s’era giocato persino la casa dove abitava e non aveva più il coraggio di tornare dai suoi. Dovetti dargli i soldi del biglietto del treno.

Il gioco d’azzardo è una truffa ignominiosa, sempre! Ma quando è gestito da un ente pubblico, come nel nostro caso, è un’infamia sociale, e prima il Comune se ne disfa, meglio è!

08.06.2014

Non sempre “i poveri sono santi”

La mia campagna in favore degli anziani in difficoltà sta per finire a motivo dell’età incalzante. Consapevole di ciò, già un paio di anni fa ho chiesto e ottenuto dal Patriarca che affidasse ad un sacerdote più giovane la presidenza del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ho pensato che questo fosse l’unico modo perché l’impegno della Chiesa veneziana nei riguardi di questo nuovo tipo di povertà – ossia l’estremo disagio degli anziani in difficoltà – potesse avere un seguito.

Attualmente il mio impegno è ormai marginale, però mi sta ancora a cuore perfezionare la “dottrina” che fa da supporto a questa esperienza pilota. Le problematiche aperte sono molte, ma man mano che affiorano, prima rifletto e poi suggerisco, a chi sta mettendo a punto questa dottrina, le soluzioni che ritengo più opportune, in modo che chi vuole approfittare della nostra esperienza possa avere un modello quanto mai valido.

Ma fra i tanti problemi affiorati in questi vent’anni di sperimentazione c’è anche questo: coinvolgere attivamente gli anziani che hanno ottenuto un alloggio al “don Vecchi” nella gestione del Centro, non solamente per tener bassi i costi di gestione, ma anche per costruire una comunità solidale di mutuo aiuto. La proposta viene fatta in maniera quanto mai esplicita al momento dell’accettazione della domanda e purtroppo non viene mai evasa se non da un gruppetto sparuto di beneficiari. Una volta ancora rimane vera la battutaccia meridionale “grazia ottenuta, gabbato lo santo!”.

Tanti residenti si impegnano per figli e nipoti, che praticamente li hanno cacciati di casa, altri si danno alla bella vita oziando e pensando ai fatti loro. Si, ci sono “i soliti”, ma sono pochi e, poverini, sono sempre quelli!

Mio padre, di fronte a questa constatazione che sono stato costretto a fare già da parroco in altri tempi, mi disse: «Armando, non preoccuparti, su un centinaio di persone ce ne saranno tre o quattro che hanno la “mania” di lavorare, punta su quelle».

Mi ero illuso che il “don Vecchi”, a livello religioso, fosse una specie di convento, ma presto è scoppiata questa bella bolla di sapone. M’ero pure illuso che i Centri diventassero delle grandi famiglie in cui ognuno collaborasse per il bene comune: “Illusione, dolce chimera sei tu!”. I miei maestri però, don Mazzolari e Madre Teresa di Calcutta, mi insegnano che devo impegnarmi comunque, anche se gli altri non lo fanno, anche se chi ne beneficia ne approfitta in maniera potente.

07.06.2014

Grillo, comico o ciarlatano?

Grillo è stato sonoramente battuto! Confesso che ho tirato un sospiro di sollievo. Dico subito che ammiro e condivido molte delle istanze sociali portate avanti dal Movimento Cinque Stelle. Apprezzo quanto mai l’intelligenza, la coerenza e il coraggio di moltissimi giovani deputati e senatori di questo movimento eletti al Parlamento. Sono invece meno entusiasta della sudditanza con la quale la maggior parte di loro accetta o subisce di loro i leader. Comprendo che ci debba essere una certa disciplina di partito, che si deva accettare la legge della maggioranza fin tanto che non lede la propria coscienza. Ma sono estremamente preoccupato nei riguardi dei due principali responsabili: Casaleggio e Grillo.

Vengo al primo. A parte il modo di vestire, a partire dai capelli e dal cappello perennemente in testa, soprattutto quello che mi preoccupa è il modo con cui si pone al servizio del Paese, l’analisi che fa della società di oggi e dei nostri tempi e della relativa proposta che non è solo politica ma esistenziale. Casaleggio si presenta come un nuovo redentore che libera e rende felice i cittadini del nostro Paese.

Ho sempre avuto paura degli uomini che “sanno tutto” e che dicono di poter far tutto, di questi “teosofi” che sono assolutamente certi di possedere la ricetta per salvare il mondo. Il percorso e la proposta dei dittatori così rovinosi del secolo scorso – Hitler, Stalin, Mussolini, Franco e di quelli di seconda categoria, sono esattamente identici a quelli di Casaleggio. Ho paura che anche questo porti agli stessi tragici risultati.

Veniamo ora a Grillo, il comico, che ora ho la sensazione che sia pure ciarlatano e imbroglione. Dopo tutto quello che ha gridato sulle piazze d’Italia, pensavo che in seguito alla grossa batosta subita si sarebbe ritirato a vita privata. Purtroppo invece no! Ora se la piglia con i vecchi!

Io e la gente dei miei tempi siamo stati educati alle buone maniere, alla correttezza nel gesto, nella parola e nel comportamento. Grillo, che non mi pare sia nato nel terzo millennio, sembra non abbia imparato proprio nulla perché nella sua campagna elettorale si è dimostrato sbracato, arrogante, supponente, volgare, irrispettoso e minaccioso nelle parole e nel pensiero.

Non riesco proprio ad immaginare come un figuro del genere possa rappresentare, sotto ogni punto di vista, un modello per il nostro Paese. Spero che per qualche tempo sia messo fuori gioco e che nel frattempo Renzi dimostri di meritare fiducia.

06.06.2014

Un Papa che si fa perfino leggere

Potrebbe sembrare perfino – come si dice – portare “vasi a Samo e nottole ad Atene”, affermare che non solo il nostro Papa si fa ascoltare volentieri, ma perfino le sue prediche si fanno leggere con piacere. Lungi da me affermare che i suoi predecessori non fossero intelligenti, colti e non dicessero delle cose buone, ma penso che una certa tradizione quasi imponesse loro un certo linguaggio ed un modo particolarmente complesso e sofisticato nel porgere le semplici verità evangeliche e le complicate elucubrazioni della teologia.

Non penso sia irriverente affermare che i discorsi dei pontefici erano lunghi, barbosi e difficili. Io ero sempre sorpreso, ma non ammirato, nel sentire qualche pio sacerdote affermare che leggeva quei discorsi; appena appena i teologi di professione citavano con frequenza questi discorsi.

Papa Francesco rappresenta davvero una sorprendente novità, tanto che mi è capitato di leggere che piace tanto perché è “un Papa poco Papa che non cerca Dio troppo in alto e troppo lontano”. Papa Francesco è uscito con decisione dagli stereotipi con i quali l’immaginario collettivo aveva “ingabbiato” la figura, il comportamento e soprattutto la parola del successore di Pietro.

Il Papa piace e si fa ascoltare quando parla: la mimica, le pause, le battute, le argomentazioni, soprattutto quando abbandona il testo scritto, fanno si che la gente ascolti volentieri anche quando ci chiede cose ostiche da vivere. Le folle sconfinate che ad ogni occasione gremiscono piazza San Pietro e via della Conciliazione sono la controprova di questo fascino che Papa Francesco esercita sugli uomini di ogni ceto e di ogni nazione.

Il nostro Papa però riesce a farsi “ascoltare” anche quando scrive. Di solito il discorso scritto è più elaborato, più concettuale e soprattutto è privo di inclinazioni della voce e della mimica del volto, degli occhi e delle mani, motivo per cui è più difficile leggere volentieri un testo scritto, a meno che non sia di contenuti piacevoli o leggeri o sia scritto da persone di enorme elevatezza culturale.

Più di una volta, quasi con stupore, mi sono scoperto a leggere discorsi del Papa su “L’osservatore Romano”, il giornale più barboso in assoluto. La nostra “editrice” pubblica ogni settimana la testata “Il messaggio di Papa Francesco”, curato dal collaboratore Enrico Carnio, contenente in ogni numero il sunto di tre, quattro discorsi del Papa. Meraviglia delle meraviglie ogni settimana vanno esaurite tutte le copie.

In questi giorni poi ho ricevuto il bollettino parrocchiale di San Nicola di Mira che il mio vecchio cappellano, don Gino Cicutto, gentilmente mi invia, e con sorpresa ho constatato che anche lui dedica una pagina intera ad un discorso del Papa. L’autenticità e la semplicità fortunatamente premiano ancora.

05.06.2014

La tariffa

Mi sono sempre domandato quale sia il motivo di un certo anticlericalismo quanto mai diffuso in Italia. Pare che in altri Paesi europei che hanno una storia pressoché simile alla nostra, non sia presente questo sentimento di diffidenza, di rifiuto e di sospetto come lo è tra la nostra gente, perfino in chi è vicino ai preti.

Spesso mi è capitato di sentire il frizzo, la battutina sospettosa che irride alla mentalità del sacerdote. Tra i non pochi motivi di critica penso vi sia anche quello che il sacerdote approfitta del proprio servizio per spillare denaro.

Ora che ho una certa età e che mi sono guadagnato con una vita intera una certa autorevolezza è molto, molto raro che mi sia rivolta una battutina sospettosa, però quando ero seminarista furono infinite le volte che ho sentito criticare i preti per l’attaccamento al denaro. Anche oggi la gente stima ed ama i preti che vivono poveramente. Questa critica però non è un vizio da recriminare ma una virtù che è di stimolo al prete ad esser coerente con la sua scelta.

A volte vi sono anche situazioni – e sono assolutamente convinto che si tratti di eccezioni piuttosto rare – nelle quali qualche prete presta un lato assolutamente scoperto a qualche critica più che legittima.

Qualche giorno fa un dipendente di una delle ormai numerose agenzie di pompe funebri di Mestre, mentre mi accompagnava a benedire una salma che si trovava nell’obitorio dell’Ospedale dell’Angelo, mi raccontava con un certo pizzico di sarcasmo, che un mio collega, del quale faceva nome e cognome e chiesa in cui esercita il suo ministero, si presenta immancabilmente all’addetto delle pompe funebri con una ricevuta di cento euro in mano e non inizia il rito funebre se prima non gli si è saldata la somma richiesta.

Penso che la notizia sia purtroppo vera, perché altre volte ho sentito accennare a questo comportamento. La cosa mi pare quanto mai perlomeno penosa e disdicevole.

Io al riguardo mi trovo in una situazione privilegiata perché la pensione di cui godo, come tutti i miei colleghi, vivendo al “don Vecchi” nel mio quartierino di 49 metri quadri, mi è sufficiente, anzi di soldi ne avanzo ogni mese; perciò quando ricevo un’offerta, la destino ai poveri. Però per aiutare la mia “categoria” a meritare più stima e alla mia gente di avere coscienza di come vengono destinate le loro eventuali offerte in occasione di un funerale, ho fatto stampare una busta e l’ho distribuita a tutte le agenzie della città. Riporto il testo, se mai qualche confratello voglia fare una scelta simile.

“In qualità di titolare della Chiesa del Cimitero di Mestre, dichiaro di essere sempre disposto a celebrare, a titolo gratuito, il commiato religioso dei defunti che hanno famiglie che si trovano in difficoltà economiche.
Informo invece chi desidera fare un’offerta in occasione del funerale del proprio caro scomparso per onorarne la memoria ed in suo suffragio, che ogni offerta sarà interamente devoluta alla Fondazione Carpinetum per mettere a disposizione nei Centri don Vecchi alloggi per anziani poveri della nostra Città. Avverto pure che nell’occasione del trigesimo e dell’anniversario della morte del defunto, ne farò memoria durante la Santa Messa, ed informerò per lettera i famigliari sul giorno e l’ora del suddetto suffragio”.

don Armando Trevisiol

Se poi qualcuno avesse qualche perplessità nel credere a quanto ho scritto, non ha altro che verificare le mie affermazioni presso la Fondazione dei Centri don Vecchi che sono i destinatari di tutte le offerte dei fedeli.

04.06.2014

La vita è bella

Per moltissimi anni nella mia vita da prete avevo chiamato “funerale” il saluto ad una creatura che ci ha lasciato; ora da anni non adopero più questo termine perché lo considero cupo, insignificante e nebbioso, mentre uso la parola “commiato”, perché essa sottintende il saluto ad uno che parte per una meta bella e radiosa.

In passato nelle mie omelie puntavo soprattutto a ribadire la verità della vita ultraterrena, la paternità e misericordia di Dio e marginalmente tentavo di aiutare i fedeli a recuperare i valori vissuti, gli aspetti positivi e la testimonianza che il “caro estinto” lasciava in eredità a chi in genere l’aveva conosciuto, ma soprattutto a chi partecipava al suo commiato. Sono aspetti che pure oggi non trascuro, ma soprattutto oggi mi sento portato ad aiutare i fedeli che partecipano al rito religioso a vivere questo evento anche come una lezione di vita, una catechesi sulla paternità di Dio, un invito alla riconoscenza per il magnifico dono della vita ed un’apertura di credito sulla vita futura.

Mi sono accorto che l’occasione del commiato è tanto opportuna per far prendere coscienza ai fedeli che Dio è stato veramente generoso nel donarci l’opportunità di vivere, che il suo dono è veramente splendido e che la vita sarebbe ancora più bella se la vivessimo secondo le indicazioni che Egli, da Padre, ci ha dato.

Spesso continuo a dire che la morte non è una disgrazia, ma che essa pure è dono perché se il Signore ha fatto un mondo così bello e ci ha messo accanto dei compagni di viaggio così cari per il breve lasso di tempo in cui facciamo questa esperienza, quanto più bella sarà la vita futura che Dio ci ha promesso, sapendo che essa dovrà garantirci un’eternità felice.

Ho l’impressione che battendo su questo tasto i presenti accettino più facilmente la prova e si mettano nell’ordine di idee che chi stiamo salutando parte, si, da noi, ma parte per un mondo migliore.

Un altro elemento su cui faccio leva è osservare che possiamo contare, nei momenti difficili, sull’aiuto della persona cara che, essendo ora accanto a Dio, può intercedere per noi. A tal proposito cito talvolta la scena di un film di cui fu protagonista l’attore Paul Newman, che venendo a casa dopo aver vissuto un match da cui dipendeva il suo futuro e quello della sua famiglia, alza gli occhi al cielo e afferma: “Lassù qualcuno mi ama!”.

Pian piano mi sto accorgendo che la pastorale del lutto mi offre delle opportunità per passare le più grandi e risolutive verità su argomenti come la vita, Dio, il domani…

Finora non ho ancora imparato ad utilizzare il discorso sull’inferno, però mi pare che pian piano potrà tornar buono anche questo elemento, senza però agitare spauracchi o scendere ad immagini che mettano in ombra la bontà del Signore.

03.06.2014

Almeno uno!

Non sono assolutamente certo, ma mi pare di ricordare che qualcuno abbia attribuito a Papa Francesco questa frase: “Cerca, nella tua giornata, di far felice almeno una persona”.

Questa formula mi ha particolarmente colpito perché normalmente gli educatori, gli asceti e i predicatori in genere sono più esigenti; chiedono infatti, o suggeriscono, atteggiamenti globali e scelte radicali, ossia l’essere cordiali, benevoli, comprensivi e solidali con tutte le persone che incontriamo sulla nostra strada.

Potrà essere formalmente giusto e auspicabile questo secondo suggerimento, però praticamente poco efficace perché ho l’impressione che chiedendo moltissimo si finisca per non ottenere nulla. Infatti il vecchio proverbio popolare afferma che “l’ottimo è nemico del bene” oppure “chi troppo vuole nulla stringe”. Questo discorso è pure avvallato anche dal passo del Vangelo in cui Gesù critica decisamente i farisei che imponevano “carichi” pesantissimi agli altri, mentre loro si guardavano bene dallo spostare un peso neppure con un dito.

Io sono entrato nel mondo degli scout da grande; infatti, essendo stato destinato ad una parrocchia ove c’era un gruppo scout, ho dovuto giustamente documentarmi sul metodo relativo, leggendo e partecipando a campi scout tesi a far apprendere non solo la teoria, ma pure la pratica della proposta pedagogica ideata da Baden Powell, Il metodo scout mi ha convinto, tanto da essermi impegnato per decine di anni in questo movimento ed essere ancora convinto che l’associazione scout ha presa tutt’oggi sui ragazzi e concorre in maniera efficace a passar loro valori umani, civili e religiosi.

Il metodo scout offre una prima proposta educativa per i bambini (lupetti), una per gli adolescenti (scout) ed una per i giovani (rover), ma si muove su un solo filo conduttore: educare al servizio del prossimo. Nella fase intermedia, quella degli adolescenti, il metodo propone la vita di gruppo: squadriglia; autonomia nelle difficoltà: il campo; la scoperta gioiosa della vita: l’avventura; e l’educazione al servizio mediante la cosiddetta “buona azione quotidiana”. Uno scout è tenuto ogni giorno a fare almeno una B.A. (buona azione).

A questo riguardo gente superficiale ha irriso il metodo presentando lo scout come il ragazzo che ad ogni costo vuol aiutare la vecchietta ad attraversare la strada. In realtà ho constatato che l’abitudine alla buona azione quotidiana crea una notevole disponibilità ad aiutare il prossimo.

Quindi, pur rimanendo vero che “non c’è nulla di nuovo sotto il sole”, il ribadire una verità – “far felice ogni giorno almeno una persona” – fa bene non solo ai ragazzi, ma rappresenta un’offerta di crescita personale anche per gli adulti. Con la pratica della buona azione quotidiana uno si “arricchisce” senza troppa fatica.

02.06.2014

Emozione

Domenica scorsa, dopo la messa delle dieci, celebrata come al solito con un folto gruppo di fedeli, sono andato a votare nella scuola di Santa Maria Goretti, dov’era il mio seggio elettorale. Avendo 85 anni compiuti, sono quasi sessant’anni che vado a votare e perciò ho superato da un pezzo l’emozione che nei primi anni mi veniva dalla responsabilità che mi prendevo verso il Paese.

Domenica scorsa però provai un`emozione pari a quella delle mie prime votazioni perché per me la scelta è stata particolarmente impegnativa per due ragioni.

Primo: io sono figlio di mio padre che per motivi di ordine religioso sarebbe stato disposto a dare la vita per la Democrazia Cristiana. Ricordo una nottata passata con lui ad attaccare manifesti e ricordo pure un altro episodio che mio padre raccontava con estremo orgoglio: al tempo in cui comunisti e socialisti si sono presentati assieme alle elezioni sotto il simbolo di Garibaldi mio padre, assieme a “Cicca”, il fabbro del paese, ha passato una notte intera per costruire sopra la “casa del fascio”, che era diventata la “casa del popolo”, un marchingegno per cui, capovolgendo automaticamente la figura di Garibaldi, appariva la faccia truce di Stalin.

Per tutto questo mi ha turbato quanto mai segnare per la prima volta il tricolore del PD che, tutto sommato, proviene, per successione naturale, dal partito di Togliatti, Paglietta, Ingrao e compagnia cantante. Per un momento temetti che mio padre si rigirasse nella tomba venendo a conoscenza che il figlio prete tradiva i suoi ideali.

Seconda ragione: io, a motivo degli interventi di Sernagiotto a favore della Fondazione dei Centri don Vecchi, dovevo riconoscenza a questo assessore di Forza Italia, e votando per il PD, finivo per voltargli le spalle. Comunque l’amor patrio mi costrinse a segnare il partito di Renzi.

Alla televisione ho sentito una donna in politica dire che Renzi è “poco di sinistra” – e questo mi ha fatto piacere – soggiungendo poi che, a parer suo, poteva essere un “figlio naturale” di Berlusconi – e su questo non ero assolutamente d’accordo perché io sono straconvinto che il nostro Matteo nazionale, il piccolo “David” che ha sconfitto il “Golia” tracotante è invece un figlio legittimo di mamma DC, una madre della quale, specie ai tempi della sua giovinezza, gli italiani possono andar fieri e riconoscenti perché ha salvato il nostro Paese dalla miseria e dalla dittatura e gli ha dato dignità e progresso.

Comunque sulla scheda ho fatto un segno leggero perché non raggiungesse “i padri fondatori” del PD e ho detto un’Ave Maria per mio padre perché la Madonna lo rassicuri in cielo che nella sostanza gli sono rimasto fedele.

01.06.2014

La galleria

Chi legge “L’Incontro” di certo è venuto a sapere che da fine anno è chiusa la “Galleria san Valentino” che ho aperto qualche anno fa presso il Centro don Vecchi di Marghera e presso la quale sono già state organizzate più di sessanta mostre.

La dottoressa Cinzia Antonello, che l’aveva diretta per un paio di anni, a causa di difficoltà di ordine professionale, non ha potuto continuare la sua collaborazione. Non avendo più chi organizzava il calendario delle mostre – e per far questo bisogna avere una buona conoscenza nel mondo degli artisti, con mia grande amarezza dovetti, almeno provvisoriamente, chiudere i battenti.

Di certo non mi sono dato per vinto; ho chiesto al dottor Giulio Gasparotti, che in città è il principe dei critici d’arte, di darmi una mano, ho battuto la porta della “concorrenza” chiedendo ai responsabili della Galleria parrocchiale di San Pietro Orseolo, di quella di San Lorenzo e di quella di Carpenedo, ma per un motivo o per l’altro non ho ottenuto il sospirato aiuto. Mi sono rivolto quindi alla diocesi perché nell’annuario che pubblica il suo organigramma vi sono in bella vista degli uffici e delle organizzazioni che affermano di occuparsi dell’arte in genere e di quella sacra in particolare.

Ho scritto, riscritto, telefonato a ripetizione, ho ottenuto al massimo qualche promessa, però nella realtà nulla in assoluto. Tutto questo mi ha fatto persino dubitare – ma il mio non è un dubbio del tutto nuovo – che tutta la bella impalcatura che appare nell’annuario sia piuttosto ad “uso esterno”, ma che almeno in questo settore risulti inconsistente.

Qualcuno si chiederà il perché di questa mia insistenza per una realtà che può apparire del tutto marginale per i bisogni degli anziani… ed ha ragione! Comunque l’arte crea un’atmosfera positiva, le mostre aiutano a coniugare la vita del Centro con la città, rompono un isolamento che a Marghera è veramente incombente e soprattutto le mostre contribuiscono a vivacizzare l’ambiente e a far conoscere al mondo cittadino il “don Vecchi” che moltissimi conoscono solo di nome, ma che in realtà non hanno mai visto e, tutto sommato, lo immaginano come una casa di riposo.

In questi ultimi giorni finalmente il cielo si è schiarito e pare che ci stiamo avviando ad una soluzione positiva. Il vecchio patriarca Roncalli mi ha insegnato che quando ad uno sta a cuore un problema ne deve parlare un po’ a tutti perché, prima o poi, salta fuori la persona giusta che è disposta a darti una mano. Io mi avvalgo sempre di questo insegnamento che trovo assai positivo.

La Provvidenza, in questo caso, mi è stata particolarmente generosa, offrendomi non una ma tre galleristi esperti: la signora Rina Dal Canton, notissima gallerista del Trevigiano e la signora Silvia Borsali pure ottima conoscitrice del mondo dell’arte e da ultimo il signor Raffaele Bianco.

Più di una volta ho affermato che il tempo dei miracoli non è ancora concluso. Questo, di aver trovato aiuto per la conduzione della Galleria San Valentino, penso sia almeno un miracoletto.

31.05.2014