Una scelta di sobrietà

Qualche settimana fa volevo scegliere per la copertina de “L’incontro” uno stormo di uccelli, perché questa immagine potesse rafforzare il messaggio che intendevo passare ai miei concittadini in questo momento in cui morde alquanto la crisi finanziaria.

Nella didascalia, avevo deciso di riportare la famosa frase di Gesù: “Guardate i fiori del campo e gli uccelli dell’aria…” per concludere “Cercate il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù”. Non sono stato troppo fortunato perché, pur avendo cercato lungamente nel mio archivio fotografie di uccelli, non ho trovato che un colombo e, per di più, paffutello. Spero comunque che il messaggio rasserenante lanciato dalla copertina de “L’incontro” possa offrire una “prospettiva di salvezza”.

La stessa cosa m’è capitata sei anni fa quando sono andato in pensione. Allora pensai di dare un piccolo segnale per la vita sobria della Chiesa e soprattutto dei sacerdoti, scegliendo di andare ad occupare un piccolo alloggio al “don Vecchi”, come gli anziani meno agiati della città.

Non sono in grado di poter dire se questa scelta-messaggio, abbia potuto incidere sulla coscienza dei miei concittadini ed in particolare dei miei confratelli, comunque per me è stata una scelta felice perché vivo serenamente e in pace con la mia coscienza. La scelta di condividere lo stesso alloggio dei meno fortunati della città, è risultata una scelta per me assai positiva perché mi ha permesso di spendere “il superfluo” per il mio prossimo e questo mi ha reso felice a livello personale e, nello stesso tempo, ho potuto rendere felici altri miei simili.

Ora mi hanno donato un'”automobile” a due posti di cilindrata 49 cc., l’auto più modesta in assoluto, e d’ora in poi sarà la mia automobilina che rafforzerà la scelta coerente alla mia missione e che potrà rendere un po’ più credibile il mio messaggio, come testimonianza di sobrietà di vita.

Credo che questa scelta sia giusta e coerente e nello stesso tempo l’immagine che rafforza questa scelta spero diventi un segno che non puntando in alto, ma in basso ci siano tanti vantaggi. Sono certo che quando i miei concittadini vedranno sfilare per le vie di Mestre la mia rossa 49 cc., saranno più edificati che se adoperassi una Mercedes o una BMV. Anche i segni hanno un loro messaggio!

I sogni che vorrei portare al nuovo Patriarca

Mi pare che i giornali abbiano detto che il nuovo Patriarca comincerà il suo servizio nella Chiesa veneziana a fine marzo. E’ veramente tardi, ma credo che di certo non sia per colpa sua, ma a causa di un apparato ecclesiastico che ha bisogno di essere oleato, o meglio ancora semplificato e aggiornato.

Spero che, essendo il nuovo vescovo relativamente giovane, imbastisca velocemente il “nuovo governo”. A pensarci mi vien da compiangerlo fin da subito, perché dovrà mostrarsi un capo veramente valido, dovendo accontentarsi della collaborazione di una compagine ben modesta.

Da parte mia, nel mio “sognerellare”, mi capita di sorprendermi a far congetture sull’azione pastorale su cui le varie componenti della diocesi premeranno perché egli vi dia nuovo avallo ed impulso. Di certo quelli che si interessano della cultura premeranno perché si prenda a cuore il Marcianum, il fiore all’occhiello che il cardinal Scola ha lasciato in eredità alla Chiesa veneziana; quelli della pastorale della famiglia faranno altrettanto, e così pure premerà per avere un sostegno chi si occupa della catechesi, della liturgia e della nuova evangelizzazione o della pastorale del lavoro.

Tutti presenteranno ciò che è stato realizzato e i progetti in corso. Tutto questo è giusto e opportuno, però anch’io, pur vecchio e lontano dal “palazzo” e dalle “stanze dei bottoni”, ho dei progetti e delle proposte che voglio fargli conoscere, magari attraverso il nostro periodico.

Per esempio il sogno della “cittadella solidale”, una struttura che esprima la carità della Chiesa veneziana e che dia risposte globali al vasto mondo degli emarginati.

E come non parlargli del “Samaritano” per dare alloggio a tutti coloro che vengono da lontano ad assistere gli ammalati degenti negli ospedali di Mestre, i fratelli che alla preoccupazione per i loro parenti ammalati, debbono farsi carico anche dei costi alberghieri proibitivi?! Come non dirgli del sogno di aiutare i padri di famiglia divorziati per i quali, al dramma dello sfascio della propria famiglia s’aggiunge anche quello della dimora e del rapporto con i figli!

Come non renderlo partecipe della splendida prospettiva di diffondere anche nelle varie zone pastorali della diocesi soluzioni analoghe a quella mestrina dei Centri don vecchi?

A mio modesto parere nella Chiesa di Venezia deve emergere e diventare più consistente la dimensione caritativa che attualmente è sottosviluppata in rapporto al culto e alla catechesi.

Spiace caricare sulle spalle del nuovo vescovo tutti questi fardelli, però sento il dovere di aiutarlo perché i carichi siano bilanciati e la solidarietà non continui a rimanere la cenerentola dell’impegno pastorale della diocesi.

Alla ricerca di un terreno per i nostri anziani

Nota della Redazione: questo articolo risale a fine gennaio. Fra quel tempo e oggi abbiamo visto il netto rifiuto di un quartiere di Mestre e il reperimento di un’area anche migliore.

L’assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, in un incontro avuto al “don Vecchi”, ha lanciato la proposta di un “don Vecchi avanzato” per gli anziani in perdita di autonomia. La Regione darebbe un valido supporto al progetto con la concessione di un mutuo a tasso zero rimborsabile in 25 anni e con la promessa di un modesto contributo per fornire la cura della persona e dell’ambiente destinati ad anziani pur fragili, ma che possono vivere ancora una vita normale. Questi anziani non sarebbero così costretti alla “condanna” del ricovero in casa di riposo, dovendo anche pagare, come i condannati a morte in Cina, la pallottola con la quale sono soppressi (dove però, al posto del costo modesto di una pallottola pagherebbero quello ben più salato della retta mensile).

A sentire l’assessore della Regione, il procedimento doveva essere facile e veloce, probabilmente neppure lui conosceva bene il percorso di guerra a cui bisognava sottostare. La burocrazia italiana, alla quale si aggiunse quella europea, perché il “fondo di rotazione” che consente suddetto mutuo proviene da una fonte della Cee, ha preteso il suo costo in pratiche burocratiche. Comunque siamo giunti ad un esito positivo.

Ora però l’inghippo è rappresentato dall’infinita inerzia ed indecisione dell’amministrazione del nostro Comune, perché la superficie che la Fondazione dispone a Campalto è subordinata al passaggio della via Orlanda bis.

L’amministrazione ci ha proposto quindi una superficie alternativa, ma ha paura della scontata reazione dei soliti comitati o dei soliti protestatari che chiedono tanto, ma non sono disposti a dar nulla.

Io sono sempre irritato quando gli amministratori non sanno assumersi le proprie responsabilità e si lasciano condizionare dagli arroganti, dagli stupidi, dagli egoisti, dall’opinione pubblica. Comunque, essendo convinto che sarebbe un autentico sacrilegio e un peccato che grida vendetta a Dio se il Comune soltanto per pavidità non approfittasse di questa opportunità tanto favorevole, qualora non intervenisse in maniera tempestiva nel mettere a disposizione una superficie, “sparerò” a zero non solo sul mucchio, ma con un”fucile di precisione” sui responsabili ben identificabili, che hanno un nome e un cognome e che, per scelta spontanea, si sono offerti a perseguire il bene della città.

Aiutiamo i mariti divorziati anche a Mestre!

Qualche settimana fa ho letto su “L’avvenire”, il quotidiano di ispirazione cristiana, una notizia su un’iniziativa pastorale di un ordine religioso attivata a Milano.

Dei frati hanno restaurato un loro edificio non più utilizzato, ricavandone una dozzina di monolocali per mariti divorziati. Il discorso sul grave disagio in cui spesso vengono a trovarsi certi mariti la cui famiglia si è sfasciata, l’avevo sentito trattare anche da monsignor Pistolato, responsabile della Caritas del Patriarcato di Venezia.

Pare, da quanto si riferiva, che normalmente il giudice, nelle cause di divorzio, assegni quasi sempre la casa alla moglie, da un lato perché essa è considerata l’elemento più fragile, e dall’altro perché quasi sempre le sono affidati i figli. Il marito quindi, indipendentemente dalle sue responsabilità nei riguardi del fallimento del matrimonio, viene a trovarsi senza casa, per di più deve passare un assegno per il mantenimento dei figli e, talora, della moglie. Con gli stipendi attuali quest’uomo viene a trovarsi quasi sempre in una condizione di vera povertà.

A questo grave disagio si aggiunge poi che se non può dimostrare di avere un luogo idoneo dove accogliere i minori per il tempo che il giudice gli assegna per poter vedere i suoi figli, corre il rischio di essere privato perfino di questo momento di conforto per realizzare la sua paternità.

A Milano, con il concorso della Provincia e degli enti locali, i religiosi di cui parlavo hanno posto in atto la risposta, pur limitata a 12 minialloggi, assegnandoli ad una pigione pressoché simbolica di 200 euro al mese; per il resto dei costi contribuiscono gli enti succitati, in modo che questi signori possano vivere, almeno per due anni, in un luogo confortevole a costi ridotti e inoltre possano accogliere i figli in una sala e in un parco sempre messi a disposizione dai frati.

Colpito da questa bella iniziativa, l’ho offerta, attraverso un editoriale de “L’incontro” alle parrocchie del mestrino, essendo la Fondazione Carpinetum impegnata su altri fronti. S’è fatta avanti una parrocchia che ha i locali, ma anche un mutuo gravoso da pagare che le risulta insostenibile. Pare che con mezzo milione di euro e la collaborazione di questa parrocchia si potrebbe porre in atto questa iniziativa pastorale veramente innovativa, offrendo quasi una decina di alloggi ad altrettanti mariti in difficoltà.

Voglio rilanciare il progetto, ora più definito, dalle pagine di questo nostro periodico. Spero che tra le 28 parrocchie del mestrino ce ne sia almeno una che da sola, o consorziata con altre, voglia realizzare quest’opera di carità.

Anziani e parrocchie, un rapporto non sempre facile

Il mio osservatorio, i miei monitoraggi e le mie inchieste sulla fede sono elementari sia dal punto di vista scientifico che da quello numerico. Non pretendo perciò che i miei dati siano significativi per l’opinione pubblica, essi però hanno certamente una profonda ripercussione sulla mia coscienza e sulla mia sensibilità di sacerdote.

Ho ribadito tante volte che, data la mia età e dato il mio ministero sacerdotale specifico, ora mi occupo quasi esclusivamente degli anziani e del fine vita.

Sono arrivato alla triste conclusione che non è come credevo, che gli anziani fossero ancora il grande e provvidenziale serbatoio che custodisce la fede e i grandi valori cristiani. Constato che c’è una grossa fetta di anziani che non potendo più praticare la chiesa e non avendo più alcun rapporto con la propria comunità cristiana geografica, finisce per entrare in una specie di letargo religioso che paralizza ogni espressione di fede.

Nel colloquio che tento sempre di premettere alla funzione di commiato, col quale cerco di informarmi sui lati positivi della vita del defunto, sulla testimonianza specifica di ogni creatura che può diventare dono ed eredità per chi rimane, non manco mai di fare una domanda sulla fede e sulla pratica cristiana del defunto. A questa domanda mi sento tanto spesso ripetere che lui o lei molto probabilmente era un credente, quasi mai un praticante, o per impossibilità o per scelta.

Quando poi mi spingo più in là per chiedere se il parroco lo conosceva, lo visitava o gli portava la consolazione cristiana, quasi mai mi si dice che il parroco era a conoscenza della infermità e, meno ancora, che visitasse il vecchio o l’infermo. Pare pure che i nuovi ministri della pastorale, quali i diaconi, gli accoliti, associazioni o movimenti di spirituali o di ricerche religiose, si interessino ben poco e raggiungano ancor meno questa falda di battezzati che quasi mai conclude la vita terrena – come si diceva un tempo – “muniti dei conforti religiosi”.

La presenza nel territorio della pastorale parrocchiale mi pare pressoché nulla. Non voglio, ancora una volta, ripresentare i miei tentativi a questo riguardo, ma mi pare che sia quanto mai urgente e necessario approntare delle iniziative pastorali che non s’accontentino dei praticanti, ma che puntino ad avere relazioni anche con chi non può o non ci pensa a frequentare la chiesa.

Il nostro Patriarca Francesco Moraglia

Nota della Redazione: come gli altri, anche questo articolo risale a diverse settimane fa, prima dell’arrivo di mons. Moraglia a Venezia

Dopo una lunga attesa è stato nominato il nuovo Patriarca. L’attesa ha spazientito e sorpreso più di un fedele della diocesi, me compreso, perché vorremmo la nostra Chiesa non solamente bella, coerente, evangelica, ma nel contempo anche al passo con i tempi, efficiente, viva e tempestiva. Comunque potrebbe esserci anche un aspetto positivo in questa riflessione per la scelta durata sette mesi; cioè speriamo che sia stata una ponderazione più scrupolosa del solito, date le particolari esigenze del Patriarcato, e che si sia finalmente trovato il vescovo giusto. Io voglio leggere l’evento da questo punto di vista, che mi sembra il più positivo.

Appena giunta la notizia, suor Teresa, dato che io sono inesperto del nuovo mondo di internet, m’ha portato tutta la documentazione sul nuovo Patriarca, una specie di curriculum un po’ sovrabbondante, come oggi si usa per chiedere un posto di lavoro.

Ho dato uno sguardo e m’è subito parso che il nuovo Patriarca venga da un mondo accademico, come il precedente cardinal Scola, che sia un grande esperto delle cose di Dio e sappia quasi tutto su quanto riguarda il Signore. Subito ho pensato che il cardinal Scola abbia chiesto al Papa un Patriarca che sapesse cullare e crescere la sua giovane creatura, il Marcianum, la quasi nuova università ecclesiastica di Venezia da lui fondata.

Non mi dispiace di certo che il nuovo Patriarca ne sappia di teologia, però i miei interessi sono assai diversi: piuttosto che i grandi misteri del Cielo, mi interessa l’uomo normale, quello della strada, e soprattutto l’uomo povero e fragile piuttosto che l’intellettuale.

Per fortuna sempre suor Teresa mi ha fornito un supplemento di documentazione che mi ha aperto il cuore alla speranza. In una delle foto ho visto il nuovo Patriarca con gli stivali infangati mentre dirigeva i suoi seminaristi che, per qualche tempo e per suo volere, hanno lasciato le aule della scuola per soccorrere gli abitanti delle Cinque Terre colpiti dall’alluvione.

Credo che ognuno abbia diritto di avere le sue preferenze e di scegliere le foto che gradisce di più da mettere sul suo tavolo di lavoro. Dove impagino “L’incontro” ci sarà il patriarca Moraglia in tonaca, ma pure con gli stivaloni infangati.

Credo che tutti vorremo bene al Vescovo che il Papa ci ha assegnato e che tutti ci metteremo a sua disposizione in ciò che ci interessa di più e che sappiamo far meglio. Per quanto mi riguarda mi darò da fare il meglio possibile perché il nuovo vescovo di Venezia appaia sempre con gli stivaloni e sia il Patriarca dei poveri.

Frutta e verdura per i nostri vecchi

Non c’è quasi nulla che sia impossibile. Sono convinto che la rete di confine del possibile sia determinata dalla fede in Dio e dall’amore al prossimo.

Ormai tutti sanno che il criterio con cui accogliamo i nuovi residenti al Centro don Vecchi sono la precarietà delle loro finanze e dell’autonomie esistenziale. Prendiamo i più poveri e i più malandati sotto ogni punto di vista.

Ricordo che quando cominciai ad imbarcarmi nell’impresa dei Centri don Vecchi, chiesi consiglio ad un mio amico commercialista. Questo signore mi rispose senza esitazione: «Don Armando, punti esattamente sulla categoria che ha la pensione medio-alta». Per fortuna, e per grazia di Dio, feci esattamente l’opposto.

Però confesso che non è facile pagare la pigione, i costi condominiali, le utenze, le medicine con una pensione di 580 euro, e talvolta anche meno. Nei Centri don Vecchi una cinquantina di residenti sono in queste condizioni ed altri cento non superano i sette-ottocento euro mensili. Perciò ci siamo dati da fare per trovare fonti alternative e soluzioni che agevolano questi poveri vecchi.

L’ultima trovata è stata quella del chiosco di frutta e verdura. Forte dell’esperienza della Bottega solidale, ci siamo lanciati in questa impresa. La “capa” è una mia coetanea ottantatreenne che ripete a tutti che il Centro don Vecchi non è una casa di riposo ma “un centro benessere”. Il frate elemosiniere è Luigi, un meridionale capace di vendere “aria di Napoli in scatola”. Questo signore si è creato una piccola “compagnia di Gesù” e con alcuni suoi adepti parte verso le quattro e va a questuare frutta e verdura a Padova e Santa Maria di Sala; altri rimangono a casa a preparare “il mercatino”. Altri ancora offrono a 5 euro al mese la tessera che dà diritto a ritirare questa frutta e verdura di prima qualità tre volte la settimana.

Io non so se sia sant’Antonio o san Gennaro, ma fatto sta che, a giorni alterni, arrivano uno o due furgoni carichi di frutta e verdura. I vecchi clienti del “don Vecchi” la ritirano per loro, per i figli, per i nipoti e i pronipoti, perché se i vecchi dovessero mangiare tutta la frutta e verdura che ritirano, scoppierebbero come la rana di Esopo che voleva diventare grande come la mucca.

Il banco alimentare del “don Vecchi” ci mette il furgone e il gasolio, io aggiungo soltanto brontolamenti, minacce, lusinghe e mediazioni per la pace.

Questo servizio fornisce alimenti ai due Centri di Carpenedo, quello di Marghera, quello di Campalto, e contemporaneamente rifornisce il banco alimentare del Centro che assiste duemila poveri alla settimana.

Vedendo tanto ben di Dio provo solamente tanta tristezza al pensare che molte parrocchie se ne stanno infreddolite all’ombra del campanile ad aspettare “il sol dell’avvenir”.

Spero che Monti possa fare le “pulizie di fondo”!

E’ arcinoto che Berlusconi e Bersani, pur avendo ambedue il nome che comincia con la B, sono come il demonio e l’acqua santa. Se se ne sono dette di tutti i colori, non sono mai stati d’accordo su nulla e pareva che fosse impossibile potessero lavorare assieme per il bene del Paese.

Non so chi ringraziare se non la Divina Provvidenza e il presidente Napolitano che bel bello, improvvisamente, ha tirato fuori, come per incanto, il coniglio dal cilindro, dando vita con Monti ad un governo di coalizione sostenuto appunto dal “demonio e l’acqua santa”.

La grande coalizione alla tedesca, che pareva assolutamente impossibile realizzare in Italia, è sorta quasi per miracolo, promovendo uno dei governi più efficienti e produttivi che abbiano governato l’Italia dalla liberazione a tutt’oggi.

Il governo Monti pare riesca a fare quanto, per i veti incrociati, non s’è riuscito a fare nell’ultimo mezzo secolo di Italia repubblicana. E’ ancora presto per gridare al “miracolo”, perché i vecchi istinti non sono ancora morti e non sono stati distrutti gli arsenali della polemica e della prevenzione. Io spero però che il miracolo duri almeno fino al 2013, perché col ritmo di lavoro con cui naviga, il governo Monti potrebbe affrontare la riforma elettorale, quella della giustizia, delle intercettazioni telefoniche, del lavoro e del sovraffollamento delle carceri.

Pare poi che Monti abbia riportato l’Italia a prender parte al gioco della scacchiera europeo, mentre fino a qualche giorno fa i governanti degli altri Paesi ci guardavano dall’alto in basso con un atteggiamento di scherno e di compatimento.

Quando, tempo addietro, ho manifestato il sogno che galantuomini scendessero in campo, e da gente non interessata promuovessero le riforme che vanno bene al Paese e non ad una fazione, sembrava che inseguissi una chimera o una fata morgana, mentre in realtà tutti scopriamo con stupore che l’Italia possiede ancora uomini e donne su cui contare.

Ora la mia preghiera quotidiana è perché Monti possa almeno fare le “pulizie di fondo” e sistemare l’ossatura della nostra società e perché gli italiani si ricordino che si possono ancora trovare qua e là dei Cincinnati disposti a perseguire il bene comune e poi tornarsene ai loro “campi”.

I miei angeli custodi

Io sono molto affezionato al mio angelo custode al quale ho sempre creduto, ma la mia fede è aumentata vedendo quel bellissimo film americano di Frank Capra in cui l’angelo diventa il protagonista di una storia di redenzione e di salvezza. La mia fede è ulteriormente aumentata quando ho sentito il racconto del nostro vecchio Patriarca, il cardinale Roncalli. Vale la pena che lo racconti anche ai miei amici, nella speranza che aumenti la fede e la fiducia nell’angelo a cui siamo affidati dal buon Dio.

Il futuro Papa ci raccontò che quando lo mandarono a Parigi, appena finita la guerra, spettava al nunzio apostolico presentare gli auguri al capo dello Stato, che a quel tempo era il generale De Gaulle, che in fatto di grandeur eccelleva alquanto.

Roncalli, come decano del corpo diplomatico, doveva fare il discorso di circostanza e lui, ch’era più saggio e furbo di quanto apparisse, sapeva che il generale voleva chiedere al Papa di togliere dalla loro diocesi una sessantina di vescovi che, a parer suo, s’erano compromessi col capo di stato Petain, filonazista.

Il Patriarca, cosciente della posta in gioco di quell’incontro, allora ci confidò che aveva pregato il suo angelo custode di accordarsi con quello del generale, perché così sarebbe stata più facile l’intesa tra i due relativi assistiti.

Non appena finita la confidenza, gli domandammo, curiosi, come era andata? E lui, quasi sorpreso, ci rispose che non poteva non andar bene dopo quella mediazione richiesta.

Da quel giorno ho cominciato anch’io ad usare questo stratagemma; non mi è sempre andata dritta, in verità, forse perché il mio angelo è di una categoria inferiore a quello del futuro Papa, comunque abbastanza di frequente l’operazione funziona.

Il Signore, buono com’è, durante la mia vita, mi ha sempre messo accanto qualche angelo di rinforzo, seppur di minore importanza, ma sempre specializzato. Ad esempio, quando consegno alla signora Laura Novello i manoscritti del diario, sono pressoché disperato, perché scarabocchiati, corretti male, con la sintassi e la grammatica che fanno acqua da tutte le parti. Quando poi mi ritrovo L’Incontro stampato, mi pare un miracolo perché i suoi rattoppi e i suoi interventi di chirurgia estetica mi hanno spesso posto la domanda “se sono stato proprio io a scrivere così bene”.

Non vi parlo degli altri angeli a part time o di rincalzo, che mi custodiscono ed assistono in tutti gli aspetti della mia vita. Il Signore me ne ha messo almeno uno in ogni mia impresa. Per questo io voglio tanto bene ai miei angeli custodi e li prego di frequente. Senza il loro aiuto sarei veramente perduto.

Il vestito del prete

E’ ben vero che “l’abito non fa il monaco”, però è altrettanto vero che l’abito aiuta a identificare la funzione di una persona nella società; se poi questa persona possiede anche tutti o tanti requisiti che quella divisa comporta, essa aiuta a presentare in modo più preciso quella funzione.

Questa riflessione, sulla funzione e sulla validità della divisa del sacerdote, m’è venuta osservando recentemente un prete vestito all’antica maniera: la lunga tonaca nera, la cotta inamidata con tanto di merletto, il tricorno in capo ed un ampio mantello.

Questa foggia di vestire m’ha sorpreso e incuriosito perché è piuttosto difficile incontrare un sacerdote vestito alla maniera preconciliare. Ora i preti vestono in tutte le maniere fuorché quelle indicate dalla disciplina della Chiesa, che col Consilio Vaticano Secondo ha suggerito un abito sobrio, pantaloni e giacca, e il collare bianco. Molti hanno aggiunto una crocetta d’argento sul bavero.

Adesso è facilissimo incontrare preti con i jeans, in cravatta, con colbacchi di pelo, giacconi, borselli e vestiti di tutte le fogge e di tutti i colori.

Il nostro è il tempo delle note “grida” manzoniane, spesso riproposte dalla stampa della categoria, osservate da pochi e non fatte osservare da chi avrebbe il dovere di farlo.

Io ritengo che la lunga tonaca nera sia un abito talmente fuori dal sentire comune, che perciò è opportuno abbandonare, però penso che una uniforme (nel senso letterale della parola, ossia uguale per tutti) sia quanto mai opportuna, anzi doverosa.

La divisa dà un senso di ordine, di disciplina, facilita un certo controllo di sé e aiuta a certi comportamenti che sono in linea con la serietà del ministero scelto dal sacerdote, che si distingue dagli altri per essere l’uomo della fede, della Chiesa e del sacro.

Ricordo quando, prima del Concilio, il mio vecchio parroco, mons. Da Villa, chiedeva a me e a don Giancarlo d’accompagnarlo a fare quattro passi in città; pretendeva che avessimo non solo la tonaca, ma anche la “spolverina”, magari al braccio, e il cappello rotondo a larghe falde alla don Camillo. Ogni volta che ero costretto a questo supplizio mi sembrava di assomigliare alla ronda dei carabinieri in alta uniforme in piazza san Marco, tanto che al passaggio di questi tre spilungoni vestiti nell’uniforme tutta nera, la gente si voltava indietro guardandoci, seppur con rispetto, ma anche giustamente con meraviglia.

Giunto il Concilio, andammo con monsignor Vecchi nei grandi magazzini di Coin alle Barche e uscimmo in clergyman elegante, compreso il cappello Borsalino, che però non adoperai mai avendo sempre avuto una selva di capelli quanto mai scomposti e ribelli.

Non rimpiango la tonaca, ma non mi entusiasmo neppure per il modo di vestire attuale di molti preti. Ora spero che il nuovo Patriarca metta un po’ di ordine anche in questo settore, pur marginale, della vita del clero.

Inimicizia e invidia

Durante il tempo che sono stato parroco era nata l’iniziativa pastorale di fare con gli anziani un’uscita quasi ogni mese in una località di un qualche interesse storico, artistico o paesaggistico del nostro Veneto. Con questa iniziativa speravamo di raggiungere più di un risultato: uscita, preghiera e vita assieme, il tutto senza troppa fatica e troppo denaro.

Ricordo che una volta siamo stati al castello di Valmarino che si trova dalle parti di Cornuda e di Valdobbiadene. Partimmo nel primo pomeriggio, celebrammo l’Eucaristia nel luogo prescelto, destinammo un po’ di tempo alla visita della meta prescelta e poi ci concedemmo una merenda assieme.

Il castello era stato costruito dalla nobile famiglia di patrizi veneziani che l’avevano abitato fino ad una ventina di anni fa. L’ultimo erede perse tutto al gioco, castello compreso, e poi risolse il problema con un colpo di rivoltella.

I salesiani comperarono tutta la collina su cui c’era il castello, tentarono di farne una scuola, ma la cosa non andò bene e così decisero di alienarlo anche loro.

Il castello era bello e collocato in un luogo splendido dal punto di vista paesaggistico. Però successe che durante l’interregno tra i vecchi e i nuovi proprietari, i contadini che conducevano le terre attorno e detestavano i padroni, fecero scempio del castello e rubarono quanto più poterono.

Ricordo che il rettore dei salesiani che ci ospitò, ci disse che avevano acquistato il castello e le terre adiacenti, ma con l’acquisto avevano pure acquistato tutto l’odio e il rancore che questi contadini avevano nutrito per i loro vecchi padroni che li avevano angariati per secoli.

Spesso, vedendo le difficoltà che il nuovo presidente dei Centri don Vecchi incontra, m’è venuta in mente l’affermazione dei salesiani a proposito del castello e dei contadini che lavoravano le terre del vecchio proprietario e m’è venuto da chiedermi, con preoccupazione ed amarezza, se non avessi anch’io trasmesso con i Centri don Vecchi anche le inimicizie, le invidie dei miei colleghi, dei miei vicini e della civica amministrazione con i quali ho dovuto sempre combattere per offrire agli anziani meno fortunati della nostra città un luogo confortevole e sereno.

Se fosse così, sarei tanto dispiaciuto, perché ho sempre inteso trasmettere al mio successore solamente delle strutture solidali e non le meschinità e il malanimo di vicini e oppositori. Speravo infatti che la meschinità e il rifiuto dovessi portarli con me e non fossero legati alla mia opera.

L’Europa, l’Italia, il Comune…

Anche quando uscirà questa pagina del mio povero diario spero che le cose delle quali ho pieno il cuore, e che mi preoccupano alquanto, siano felicemente risolte.

Ho osservato il silenzio perché ora non porto più la responsabilità della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ritengo giusto che chi è al timone scelga la rotta e le modalità di condurla e che chi vi collabora non lo intralci, anzi favorisca in ogni modo il suo modo di raggiungere lo scopo. Ho poi grande fiducia e grande rispetto per il giovane “capitano” e perciò spero proprio che ci porti alla meta.

Grazie a Dio siamo riusciti, pur con qualche difficoltà, ad ottenere il finanziamento per il “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia. L’assessore Sernagiotto ha ottenuto un fondo di rotazione di cui a noi sono stati destinati quasi tre milioni di euro, da restituire in 25 anni a tasso zero.

Sarà di certo un percorso di guerra quello di incassare concretamente la somma, perché alla burocrazia italiana dovremo sottostare; in questo nostro caso si è aggiunta quella europea.

Comunque, disponendo di collaboratori ormai abituati a percorrere gli itinerari tortuosi ed assurdi della burocrazia, credo che da questo lato ce la faremo. Mentre le difficoltà insorgono a causa del nostro Comune. La fruibilità di un terreno che la Fondazione possiede a Campalto è condizionata dal fatto che il Comune decida di fare o non fare la via Orlanda bis.

Il nostro Comune, anche in questo settore, si rifà al comportamento dell’asino di Buridano, che non riesce a scegliere. Allora ci ha ventilato, in alternativa, un’altra soluzione, ma anche per questa sta manifestando indecisione.

Intanto il tempo passa ed aumenta il rischio di perdere questa insperata e splendida opportunità. Oggi è in gioco il domani e la serenità di un’altra ottantina di anziani poveri e per di più alquanto acciaccati.

Io sarei stato per lo scontro frontale, per l’assalto mediatico all’arma bianca. Avrei portato alla sbarra dell’opinione pubblica l’indecisione e l’ambiguità di certi personaggi che tengono banco nella giunta comunale di Venezia. Appartengo infatti alla categoria del piccolo David che ha fiducia nella sua fionda e nei ciottoli del torrente, piuttosto nell’armatura pesante della diplomazia.

Spero, una volta tanto, di aver torto e che il guanto di velluto del nuovo Consiglio di amministrazione raggiunga lo scopo senza ferite e “spargimento di sangue”. Sarò quindi ben felice se la Fondazione otterrà, prima della scadenza del tempo, la superficie alternativa a quella che abbiamo indicato alla Regione. Se così non avvenisse, “non ci saranno santi che tengano”: attaccherò con ogni mezzo chi si è offerto di governarci e ora non ha più coraggio di farlo.

Una lunga inaccettabile attesa

Sento il bisogno e il dovere di fare alcune premesse a quanto sto per scrivere.

La prima: butto giù questa riflessione domenica 29 gennaio di primo mattino; quando vedrà la luce l’evento su cui credo giusto dir la mia opinione e dare il mio contributo, questi pensieri non saranno né attuali, né tempestivi, ma la vita è lunga e continua, perciò penso che possano servire per il domani.

Seconda: ieri, sabato 28 gennaio, il Gazzettino, il quotidiano della nostra città, dopo aver parlato molte volte della nomina del nuovo Patriarca e aver fatto supposizioni, analisi, previsioni ed illazioni, dava ormai per certo per oggi la nomina di mons. Moraglia, vescovo di La Spezia. Oggi però non c’è neppure mezza riga sull’argomento.

Terza premessa, forse la più importante: intervengo solo perché amo la Chiesa, la sogno povera, pulita, coerente al Vangelo, semplice, però anche seria, ordinata e più pronta ed efficiente di quanto non siano gli apparati della nostra società e del nostro Stato. Detto questo, sento il bisogno di affermare la mia amarezza e la mia delusione per il comportamento della curia locale e quella vaticana. Sette mesi di attesa sono comunque troppi, qualsiasi siano le ragioni con le quali si tenti di giustificare questa lentezza burocratica.

Per quanto riguarda i personaggi che hanno gestito localmente l’evento, mi sono sembrati, privi di un minimo di intraprendenza. Mi pare che san Paolo, ch’era pure lui un pivello nella gerarchia ecclesiastica del tempo, dica: “Gli resistetti in faccia!”.

Per quanto riguarda la burocrazia vaticana, che per me rimane sconosciuta e misteriosa, erede purtroppo di un passato poco nobile, peggio ancora! Credo che sarebbe stato opportuno che qualcuno scoperchiasse il tetto, come quando i cardinali non riuscivano ad eleggere il Papa.

Io, ripeto, amo la mia Chiesa, e per questo la voglio vedere bella, pulita, semplice ed efficiente. La vorrei vedere come la sognava don Tonino Bello, il vescovo di Barletta, “in grembiule”, come le nostre mamme che non perdono tempo e tengono sempre in ordine la loro casa, i loro figli e perfino il capofamiglia.

Si è detto, nella stampa di casa nostra, che non era opportuno manifestare sogni e desideri nei riguardi del nuovo pastore; io invece l’ho fatto e ne rivendico il sacrosanto diritto, ma accetterò di buon grado quello che verrà e mi metterò a sua disposizione per quel poco che posso.

Troppo spesso in troppi guardano solo ai propri diritti

Nelle mie vicende “imprenditoriali” mi è capitato purtroppo di frequente che qualche vicino ad una o all’altra delle nostre strutture a carattere solidale, ritenesse, giustamente o no, di essere leso in qualche modo nei suoi diritti veri o presunti e perciò reagisse offeso. In verità ritengo di non aver mai preteso di infrangere la legge; pensavo che, dato che l’opera era sempre costruita a favore di persone bisognose, mi spettasse il diritto di essere compreso ed aiutato.

Spesso, per amor di pace, credo di aver subito reazioni e pretese del tutto ingiustificate e certamente egoiste. Questo modo di pensare però mi ha fatto capire che la gran parte delle persone è estremamente ed esageratamente preoccupata dei propri diritti e per nulla disposta a prender in considerazione e, soprattutto, a farsi carico delle difficoltà degli altri. Per tutto ciò che riguarda la carità si accetta che se ne occupi il prete, ma guai al Cielo se il suo impegno per il prossimo lede diritti veri o presunti tali.

A questo proposito avrei una variegata e, purtroppo, numerosa casistica riguardante il passato ed anche il presente. Qualche giorno fa, a questo proposito, ho assistito alla televisione ad una scena piuttosto emblematica. Marchionne della Fiat ha mandato un operaio metalmeccanico, suppongo della Fiam, in uno stabilimento Fiat delocalizzato in Polonia. Stesso stabilimento, stesso lavoro, stessi macchinari, stessi orari; ciò che risultava diverso era il fatto che mentre l’operaio della Fiat torinese ha uno stipendio di 1300-1500 euro al mese, il collega polacco ne percepisce solamente 400 al mese.

L’operaio torinese si meravigliò e chiese perché i metalmeccanici della Fiat polacca non protestassero e non scioperassero. Al che i polacchi risposero che negli stabilimenti Fiat delocalizzati in Romania gli operai che hanno le stesse mansioni, lo stesso orario, gli stessi macchinari dei torinesi e dei polacchi percepiscono 200 euro al mese e quindi i polacchi accettano i 400 euro al mese senza protestare. Questo è il mondo, questa è la “giustizia”!

Finché non capiremo che dobbiamo creare una società solidale (ma non tra le nostre varie consorterie e corporazioni di privilegiati d’Italia), non si divideranno i beni della Terra ugualmente fra tutti e non ci convinceremo che non è concepibile l’egoismo dei ricchi, come anche quello dei “poveri”, non ci sarà mai né giustizia né pace. Ormai il mondo è, come oggi si afferma, un “villaggio” globale nel quale non devono esistere queste sperequazioni.

Il portafoglio dei preti

Ho letto qualche settimana fa su un bollettino parrocchiale, un articolo di un giovane parroco il quale fa un resoconto puntuale e perfino pignolo sul come nasce il suo stipendio e sulla sua consistenza che, a suo dire, appena gli permette di vivere in maniera molto modesta.

In verità ritengo che il discorso sia onesto ed ineccepibile, però confesso che m’è parso angusto, di poco respiro spirituale, tanto da sentirmi quasi a disagio di appartenere ad una categoria che si rifà piuttosto alle categorie del sindacato che a quelle della Divina Provvidenza.

A questo proposito la lettura di questo articolo mi ha quasi costretto a riandare alle vicende della mia vita. Ricordo che ai tempi in cui ero a San Lorenzo, insegnavo alla scuola pubblica e a fine mese consegnavo la busta chiusa del mio stipendio di docente alle superiori al mio parroco che lo divideva, dando ad ognuno di noi cappellani centomila lire (oggi sarebbero 50 euro). Una volta nominato “vicario parrocchiale” potevo beneficiare della rendita di una campagnola. Monsignor Vecchi mi suggerì di destinare tale rendita ad un prete anziano dell’Istria che viveva a Mestre. Ne fui felice e altrettanto don Budinich che ne divenne il beneficiario.

In quei tempi si discuteva molto sullo stipendio dei preti. Ricordo che in un’affollata assemblea di preti che dibatteva l’argomento, io presentai una mozione in cui si auspicava che tutti i preti del patriarcato avessero un salario pari alla paga di un operaio di Marghera. In quell’occasione si schierò con me don Alfredo Basso, che a quel tempo era considerato più estremista di quanto non pensassero di me. Fummo sonoramente battuti!

Giunto in parrocchia di Carpendo adottai la soluzione di monsignor Vecchi: la parrocchia provvedeva al nostro mantenimento e metteva a disposizione 50 euro attuali per ciascuno; tutto ciò che giungeva in parrocchia, tolte le spese di gestione, era destinato alle attività parrocchiali ed ai poveri.

Con questo regime abbiamo potuto dar vita a numerose e splendide strutture, vivendo in maniera sobria, ma serena.

Giunto alla pensione, come Pietro, ebbi un po’ di paura, perché col metodo usato, non avevo nulla a disposizione per la mia vita di pensionato e chiesi a monsignor Pizziol, allora responsabile diocesano, la consistenza della pensione. Egli si meravigliò che io non avessi accantonato nulla per la vecchiaia; al che io rimasi un po’ sorpreso e deluso.

Avendo però scelto di vivere al “don Vecchi”, condividendo la soluzione che avevo pensato per gli anziani poveri, la mia pensione mi basta, anzi mi avanza per fare un po’ di bene.

Se posso dare un consiglio ai confratelli più giovani, direi a tutti: «Non accumulate niente e guardate ai gigli del campo e agli uccelli dell’aria». Un prete, o si fida del buon Dio, o altrimenti è meglio che cambi mestiere!