I “comitati del no”

Quando ero bambino la mia gente nutriva un estremo disprezzo per “gli uomini che si fanno comandare dalle donne”. Certamente questo era ancora un antico retaggio della cultura maschilista imperante, soprattutto in campagna, fino a mezzo secolo fa. Ora non so come vadano le cose, ma credo che la mentalità sia cambiata anche nei paesi di campagna.

A dire il vero, quando mi capita di vedere qualche bisbetica di donna che tratta il marito come un cagnolino e gli comanda a dritta e a manca, la cosa non mi esalta, anzi provo disistima per quel poveruomo che non reagisce ai capricci, al fare smorfioso, arrogante e poco rispettoso di queste presunte superdonne che schiavizzano chi vuol loro bene e sfruttano questo amore per imporre le loro bizze.

Un qualcosa di simile lo provo anche per i reggitori delle comunità più vaste della famiglia: Comune, Regioni e lo stesso Stato.

Mentre butto giù queste mie note è appena terminata “la guerra” del “no Molin”, una furia invece quella del “no Tav” in Val di Susa. Comprendo i valligiani, attaccati ai loro prati e ai loro boschi, ma non comprendo punto i giovani incappucciati che, come soldati di ventura, si spostano, si arruolano per combattere, da mercenari della violenza, la guerra di turno.

Meno che meno poi comprendo la polizia che non ne fa qualche retata di tre o quattrocento al colpo e li mette nelle patrie galere, quanto mai adatte a far sbollire i roventi spiriti.

Non comprendo lo Stato che non interviene in maniera massiccia ed efficace.

In questi giorni i giornali hanno plaudito all'”eroico” carabiniere che, imperterrito, ha ascoltato le sciocchezze, i vaniloqui di un giovane contestatore; io l’avrei ammirato molto di più se avesse usato decisamente il manganello che aveva in dotazione.

Oggi non si fa che ripetere il valore sacrosanto delle regole, delle leggi che il popolo sovrano ha promulgato per il bene della collettività, mentre poi si permette che della gente dissennata, che dei perditempo cronici e violenti, sbarrino le strade, impedendo il lavoro delle gente per bene e creando danni quanto mai consistenti.

Oggi “i comitati del no” nascono come funghi e sentenziano su tutto, facendo perdere tempo e denaro.

Noi del “don Vecchi” siamo stati fortunati, perché il locale comitato “non antenna”, bontà sua, “ci permette” di fare il nuovo Centro, ma lontano dal quartiere, e mi tocca poi vedere che l’amministrazione comunale si adegua a tanta prepotenza e a tanta insensatezza nei riguardi del bene comune!

Quel commiato contestato

In questi giorni mi è capitato un inconveniente che mi ha messo a disagio e mi ha provocato alquanta amarezza, anche perché la stampa locale, che s’è occupata della cosa, ha pubblicato la notizia in modo assolutamente distorto.

Mi era stato richiesto di celebrare un funerale da parte di un’impresa funebre che è nota per il suo pressapochismo e la sua faciloneria interessata. Acconsentii anche perché questo, oggi, è il mio ministero specifico. Sennonché nella tarda vigilia di quella celebrazione, mi accorsi di un titolo a cinque colonne sulla stampa cittadina, che ne aveva montata la vicenda. C’era pure tanto di foto della chiesa di un mio collega il quale, dopo aver fissato il funerale, si era accorto che il richiedente intendeva spargere le ceneri in laguna, come gli attuali provvedimenti del Comune ora permettono e aveva rifiutato di celebrarlo perché, secondo lui, l’autorità religiosa non permetteva simile prassi.

Da un lato mi spiaceva, pur inconsapevole, di fare ciò che un collega, per motivi comprensibili, aveva rifiutato, e dall’altro mi misi nei panni di quel povero marito che aveva già avvertito parenti e amici, e poi aveva dovuto disdire l’appuntamento per il commiato della sua povera moglie che aveva percorso una lunga via Crucis. Rifiutando, avrei mandato a monte, per la seconda volta, la cerimonia a poche ore dalla data fissata.

Ci pensai un istante e optai per l’uomo piuttosto che per le rubriche, per i giudizi malevoli che avrei avuto dai colleghi e per l’opinione pubblica.

Ripeto che il mio non è stato un atto di menefreghismo delle regole, pur essendo io poco amante di esse, ma che in questo caso assolutamente ignoravo, né fu una scelta di dissociarmi dai colleghi, ma soltanto di comprensione per quel poveruomo ignaro delle sottigliezze liturgiche e delle discrepanze tra le norme comunali e quelle ecclesiastiche.

Ho fatto la mia scelta in umiltà e nella sola intenzione di cercare il bene dell’uomo e della comunità cristiana, disposto a pagare il prezzo di questa “disobbedienza” formale.

Di certo l’episodio mi ha costretto a riflettere e prendere interiormente posizione sulle rubriche liturgiche circa il “luogo sacro”. Non so se chi ha vergato quella presunta norma, che ora pare sia superata, abbia mai visto il fango, le pozzanghere, i rimasugli delle rimozioni precedenti del terreno del nostro cimitero in cui si seppelliscono i nostri morti, per poterlo definire “luogo più sacro” dell’acqua del mare infinito o dei monti solitari.

Il “centralismo” liturgico mi pare sia una piaga come ogni forma di decisionismo dall’alto. Mi pare che sia tempo, soprattutto per queste cose estremamente marginali alla religione e alla fede, di permettere che la gente faccia le sue scelte con semplicità e libertà.

L’uomo di oggi non è più un “bambino” e, meno che meno, un cagnolino da tenere al guinzaglio. Per quel che mi riguarda mi impegnerò a battermi perché ci sia più rispetto per i fedeli e i preti relativi.

E’ duro toccar con mano la disperazione dei disoccupati!

Credo che nella mia lunga vita di prete abbia potuto contare a migliaia le persone che mi hanno chiesto una raccomandazione per trovare un posto di lavoro. Da quanto ricordo trovare un posto di lavoro non è mai stato facile. Un tempo poi tutti erano convinti che la raccomandazione di un prete fosse più che sufficiente per essere assunti. Non fu mai così, comunque ho sempre cercato di accontentare questa povera gente che ricorreva a me fiduciosa, tentando di essere il più convincente possibile, personalizzando al massimo le mie presentazioni e le mie richieste.

Talvolta però suggerivo: “Per cercar lavoro ritieniti assunto otto ore al giorno per bussare alle porte più disparate, vedrai che in otto giorni al massimo troverai chi ti assume”, convinto che mentre è facile cestinare una domanda o metterla sul mucchio, è molto più difficile, anzi quasi impossibile, cestinare una persona!

Ora non ho neppure più coraggio di fare queste proposte, perché sono certo che è praticamente impossibile che un datore di lavoro s’accolli uno stipendio, per quanto modesto, se non ha necessità di questo lavoratore. Confesso però che finché questi discorsi sono teorici, essi fanno male, ma riesci a voltar pagina, ma una volta che ti trovi di fronte a delle persone in carne ed ossa che affermano: “Mi hanno detto che lei può far qualcosa per me”, allora ti senti proprio sgomento e perduto.

Qualche giorno fa dei signori mi chiesero di potermi incontrare. Scoprii che erano due sposi relativamente giovani con una bimbetta di tre, quattro anni. Mi raccontarono la loro triste storia: l’una perse il posto mentre era in maternità, l’altro per la riduzione del personale della piccola azienda presso cui lavorava. Lui era di Roma, lei di Gorizia. Scorsi la disperazione nei loro occhi. La disperazione dal vivo è cosa veramente terribile!

Mentre parlavamo la bimbetta, fortunatamente inconsapevole, giocherellava nei grandi spazi della hall.

Promisi che avrei parlato con due aziende che lavorano per il Centro. L’ho fatto, ma senza risultati. Non sapendo più cosa dire, offrii l’assistenza alimentare, pur sapendo benissimo quanto sia parziale e quasi insufficiente per il bilancio famigliare. Loro però erano già ricorsi al nostro Banco alimentare.

S’allontanarono con dignità e rispetto, ma quel dramma mi fa soffrire più dell’influenza che quest’anno mi ha colpito duramente e dalla quale non riesco ad uscire. Nelle mie preghiere aggiungerò un’Ave Maria per loro, perché sono più che mai convinto che solo Dio li può aiutare.

La Sagra di Carpenedo

All’inizio di giugno, da vent’anni a questa parte, nella mia vecchia parrocchia si dà vita ad una sagra paesana. Ai miei tempi, per tale occasione, stampavamo un opuscolo che serviva da supporto alla pubblicità e che ripagava gli sponsor per il loro contributo, e nel contempo ci permetteva di dare una pennellata di cultura a questa festa popolare.

In occasione del ventennale, gli attuali organizzatori hanno pensato bene di utilizzare il suaccennato opuscolo per fare un po’ la storia di quest’evento che s’è andato consolidando nel tempo. Mi chiesero quindi un contributo. Ben volentieri ho aderito all’iniziativa per mettere in luce un lato nascosto della sagra che certamente nessuno conosce.

La sagra non è nata per caso, sono stato io, parroco di allora, a volerla fortemente per creare intesa e comunità. Papa Roncalli affermava che per intenderci e fraternizzare il mezzo migliore è farlo “mettendo le gambe sotto la tavola”, ossia mangiando assieme ci si intende tanto più facilmente.

Il secondo motivo fu quello di risolvere un cruccio che mi addolorava fin dal mio arrivo a Carpenedo. Il paese di allora era come Brescello, il paese di Peppone e don Camillo. In via Ligabue c’era la sede dei comunisti, al cui davanzale sventolava la bandiera rossa con la falce e il martello. La sezione di Carpenedo era senza dubbio la più agguerrita e la più numerosa di tutta la città ed era guidata dal signor Bellina, segretario intelligente ed operoso. In parrocchia invece c’erano quelli del Biancofiore, pur senza bandiera al davanzale.

In verità, sia da una parte che dall’altra, c’erano cristiani uguali, che battezzavano, mandavano i figli a catechismo, sposavano e portavano i loro morti in chiesa.

Forse quelli di via Ligabue alla domenica preferivano il Bar Centrale, mentre quelli della “Balena Bianca” venivano più spesso a messa. Misi a punto il progetto: incontriamoci tutti a mezza strada, su un terreno neutrale qual’è una tavola imbandita con salcicce e costicine.

Così fu e fu subito un successo, sia per i gestori che per i fruitori. Era uno spettacolo vedere la gente dei vari “colmelli” della vecchia parrocchia, quella prima delle divisioni, incontrarsi, chiacchierare, ballare, cenare sotto gli enormi capannoni. Non ho mai visto tanti “parrocchiani” sotto l’ombra del campanile!

L’avevo intuito anche prima, ma allora ebbi la conferma che per far comunità non ci si deve rifare ad astruserie di ordine psicologico, sociale o religioso. Di comunità fittizie che si reggono sui trampoli di ideologie ve ne sono anche troppe, ma non servono a nulla, e meno che meno alle persone che vi aderiscono.

La diversità che arricchisce le comunità

I legami con la mia vecchia parrocchia, dopo sei anni da che l’ho lasciata, si sono rallentati, però ci sono ancora. Io ho fatto di tutto per starmene lontano, avendo avuto la sensazione che la visione pastorale tra me e il mio successore, fosse decisamente diversa. Venivamo da due culture tanto lontane. Io, come matrice di fondo, provengo dalla dottrina dei “cristiani per il socialismo”, cioè un cristianesimo fortemente incarnato nella società, mentre lui usciva in maniera diretta dal movimento neocatecumenale, quindi da una visione religiosa intimista, poco o per nulla comunicante con le problematiche sociali.

Comunque credo di dover affermare, convinto, che la diversità arricchisce. Sono stato felice che la parrocchia abbia fatto per sei anni un’esperienza religiosa diversa da quella che io ho tentato di passare con tanta convinzione.

Mi sento più sereno perché talvolta mi pesava sulla coscienza d’aver offerto, alla gente che ho amato tanto, soprattutto un cristianesimo di stile orizzontale, ossia una fede che diventa soprattutto ed anzitutto solidarietà, presentando il Cristo dei poveri, degli ammalati, degli umili, un Cristo che si oppone ai prepotenti, che vive profondamente le vicende della sua gente. Don Danilo invece m’è parso che puntasse, in maniera privilegiata, alla lode a Dio, ad una comunità cristiana raccolta in se stessa, preoccupata anzitutto di tener viva la fiamma della fede tra i suoi membri, alimentandola con la preghiera e la lode e tenendola lontana dalle problematiche sociali che ai neocatecumenali interessano tanto poco.

Spero che queste culture diverse dello stile pastorale abbiano offerto un cristianesimo più completo e più ricco nelle sue sfaccettature.

Ora don Gianni offrirà pure lui un contributo specifico, una proposta cristiana che, pur rifacendosi alla grande tradizione della Chiesa, arricchisca ulteriormente la comunità, mettendo in luce sfaccettature pur diverse, ma che tendono a dare un’immagine sempre più profonda e vera del Cristo che prende volto nella parrocchia.

Ai giovani bisogna dire onestamente come stanno le cose

Di solito prendono la parola e si fanno ascoltare soprattutto quelli che sanno parlare. Il guaio è che, quasi sempre, quelli che sanno parlare e non sanno fare che quello e nient’altro. E tutti sanno che con le chiacchiere non si produce ricchezza e, meno che meno, benessere alcuno.

Recentemente ho assistito alla televisione ad una di quelle tante manifestazioni di giovani che hanno quasi sempre, come spina dorsale, quella dei centri sociali, che gridavano a gran voce, contro la società: “Ci avete rubato il futuro!”.

Lo slogan, come tutti gli slogan, era una battuta ad effetto, non dico di no, ma, almeno per me, appariva assurdo. Pareva che per quei giovani scalmanati la “società” fosse quasi una ricca signora ingioiellata e piena di soldi che non so con quali artifici fosse stata così avida ed astuta da rubare ai giovani un bene così prezioso qual è il domani.

A mio modesto parere, fino a prova contraria, la società siamo noi: vecchi, giovani e adulti. Quindi il problema del futuro delle nuove generazioni dobbiamo risolverlo noi, ma anche, e soprattutto, i diretti interessati: i giovani.

Mi vien rabbia che non ci sia mai qualcuno di chi comanda, Napolitano in testa, che dica: “Cari ragazzi, datevi da fare, studiate, imparate, preparatevi e poi cercate! E’ finito il tempo della `pappa fatta’ e del posto sicuro fuori dalla porta di casa!”

Sbagliano di certo i giovani perdendo tempo con le chiassate inutili, sporcando i muri e rompendo le vetrine di chi il lavoro se l’è creato. Sbagliano ancor di più gli adulti e i governanti che perdono tempo ad ascoltare queste pretese assurde ed impossibili. E’ tempo che siano onesti con i giovani, dicendo loro: “E’ vero che la vita presenta delle difficoltà, ma voi avete dentro le risorse per superarle”.

Qualche anno fa è venuto al “don Vecchi” a salutare sua madre, che è pure mia sorella, uno dei miei tanti nipoti, un ragazzo quarantenne nato in campagna da un padre muratore, nipote che si è impegnato ed è arrivato ad essere un giovane comandante dell’Alitalia, uno di quei ragazzi non raccomandati, sacrificato dagli errori della politica. Ebbe una disoccupazione d’oro, ma a tempo determinato. I posti da pilota, oggi, non si trovano fuori dalla porta di casa. Una volta ancora si è rimboccato le maniche ed oggi è di nuovo comandante nella compagnia del Qatar degli emirati arabi.

Preoccuparsi dei giovani e donar loro un futuro non si risolve ascoltando i facinorosi, ma dicendo loro con onestà che il domani bisogna costruirselo da soli e non aspettarselo dallo Stato.

E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!

Permettere che gli anziani vivano da persone fino alla conclusione naturale della vita, è di certo un’utopia a livello razionale, ma non certamente una chimera.

Adopero il termine “utopia” nel suo vero significato, ossia una méta alta e nobile a cui tendere anche se irraggiungibile in maniera definitiva, ma che costituisce la spinta ad avanzare costantemente e progressivamente, e non nell’accessione popolare in cui si pensa all’utopia come ad una realtà impossibile.

Noi del “don Vecchi” perseguiamo l’utopia che gli anziani possano vivere e dare il meglio di sé fino all’ultima goccia della loro esistenza e crediamo che ciò sia possibile facilitando l’ultimo percorso di queste persone della terza e quarta età.

A supportarmi in questa avventura sono gli anziani miei coinquilini del “don Vecchi” e pure un certo numero di anziani che, pur non abitando al Centro, ne condividono la vita e gli obiettivi.

Qualche giorno fa mi si è avvicinato il signor Nino Brunello, 95 anni a giorni, che due volte la settimana suona il violino nell’orchestra del “don Vecchi”. Mi dice: «Don Armando, domenica le suonerei un pezzo di Vivaldi, è contento?». Sempre lui ha cominciato a donarmi i dipinti della “sua” Venezia e poi, usando delle belle e grandi cornici, forniteci da amici, ha dipinto per noi altri bei paesaggi veneziani che si rifanno al Guardi e che “sanno di primavera” per le pareti del Centro di Campalto. Altri dipinti sono in magazzino in attesa del “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia.

Al “don Vecchi” gli anziani novantenni non sono mosche bianche: il coro del Centro ha un’età media di 85 anni, eppure la domenica della neve ho dovuto proibir loro di venire nella chiesa del cimitero per animare la messa, altrimenti avrebbero sfidato in maniera impavida il ghiaccio e la bora.

Noi del Centro perseguiamo la massima che afferma: “E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!”. Mi pare che tutto ciò non sia una fata morgana, ma una meta allettante. Il sogno “che la morte ci incontri ancora vivi” è possibile a chi ha il coraggio di impegnarsi e non si fa mettere in casa di riposo.

Quell’opposizione incomprensibile

Nota della Redazione: come gli altri, anche questo articolo è stato scritto da don Armando un paio di mesi fa.

Con la richiesta che fosse un prete più giovane e più intelligente a presiedere la Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, pensavo di essermi finalmente ritirato a vita privata. La mia vita è sempre stata un “continuo combattimento”, come afferma una certa sentenza che non ricordo di chi sia. Ho sempre combattuto, mi sono sempre esposto in prima persona, incurante delle ferite, della solitudine e delle critiche, soprattutto quelle dei colleghi.

Sono rimasto un soldato semplice, ma questo non mi ha mai impedito di schierarmi con gli ultimi. Questa situazione è forse stata la mia salvezza. Mi ritrovo vecchio ed acciaccato, ma sono contento delle “battaglie” alle quali ho partecipato con fervore e passione sociale.

Sentendomi stanco e sempre più fragile, ho scelto liberamente, come Garibaldi, che la mia Caprera fosse il “don Vecchi”. Per facilitare la successione, ho promesso ai miei capi che avrei continuato ad offrire il mio contributo dietro le righe, in umiltà e al servizio di chi ha la responsabilità della Fondazione, rifacendomi alla massima che papa Roncalli citava spesso: “Miles pro duce et dux pro victoria”, il soldato agli ordini del suo comandante e il capo impegnato a raggiungere la vittoria.

Ora però arrischio di essere ancora coinvolto nell’agone sociale e sono tentato di scappare da Caprera come Garibaldi o dall’Isola d’Elba come Napoleone, anche se sono ben cosciente che i paragoni non reggono punto!

Questa mattina mi sono trovato il titolo di un servizio de “Il Gazzettino” che informa della bega tra preti in relazione alla costruzione del nuovo Centro “don Vecchi”. Don Gianni Antoniazzi, in qualità di presidente della Fondazione, che preme per ottenere dal Comune un’area per costruire una struttura, finanziata dalla Regione, per gli anziani in perdita di autonomia ed un parroco del quartiere, (parroco scaduto da quattro anni per limiti di età) che si oppone.

Questo vecchio parroco non è nuovo a queste opposizioni. Non riesco a capire il perché, anzi mi pare un autentico sacrilegio che un sacerdote si opponga a che qualcuno che si impegna a fare, un’opera di carità cristiana a favore dei poveri. Spero che sia l’età a provocare questo atteggiamento per me incomprensibile verso un confratello più giovane, zelante e pieno di entusiasmo. Anche se “Il Gazzettino” fa il mio nome, io non c’entro, sono soldato semplice e per di più in pensione. Confesso però che sento il bisogno e il dovere di “tirar fuori di nuovo la spada” e di andare sulle barricate se fosse necessario per difendere la causa dei poveri.

Sinistra? Centro? Destra? Io scelgo chi saprà creare una società più equa!

Ancora una volta mi si è posto un problema che non ho ancora risolto completamente, o meglio mi si pone il dubbio se la soluzione a cui sono arrivato sia giusta.

Una arzilla signora, anziana ma ancora reattiva, entrata da poco al Centro don Vecchi, quasi per presentarsi e mettendo le mani avanti, mi disse con decisione: «Io sono di sinistra». Queste affermazioni a me non fanno né caldo né freddo, perché il mio solo ed unico interesse è quello della solidarietà e dell’impegno verso chi è in difficoltà.

Tanto per continuare la conversazione e per non lasciare il dubbio che quella affermazione costituisse una frattura o perlomeno una barriera nel nostro rapporto, tentai di argomentare che attualmente i partiti di destra o di sinistra sono quasi totalmente decantati da ideologie che un tempo erano quasi dei dogmi religiosi assoluti e sopra la razionalità e che ora invece chi pratica la politica si muove in rapporto a scelte concrete sulle varie problematiche sociali. Poi continuai a dire che una certa diversità è quanto mai positiva perché la dialettica affina, approfondisce e motiva le scelte sociali di ognuno.

Al che ella ribatté decisa: «Comunque io rimango di sinistra!» Ero tentato di ribadire “buon pro ti faccia, anche se hai trovato alloggio presso un prete e non presso la sede del P.D. o presso una di quelle tante frange che sono come il delta del vecchio partito comunista, ormai allo sfascio e alla deriva”.

Lasciai perdere perché la polemica normalmente non costruisce nulla. Comunque mi sono domandato una volta ancora: “Io sono di destra, di centro o di sinistra?” Non riesco a dare una risposta con i termini correnti usati per queste cose. Però da tempo, dentro di me, ho scelto di essere con chi riesce a dare benessere alla nazione, con chi cerca di portare concordia nel Paese, con chi è preoccupato e riesce ad aiutare i cittadini più fragili e più deboli.

Se Bersani riuscirà a trovare la formula di governo per riuscire a fare dell’Italia un Paese come, ad esempio, la Svezia, nel quale c’è un buon tenore di vita, uno stato sociale veramente efficiente, un rispetto della persona, dove lo Stato è al servizio del cittadino e non viceversa, sono con Bersani e con chi è ancor più rosso di lui. Se però Monti, con le sue liberalizzazioni, riesce a creare ricchezza, a dividerla equamente, mettendo in moto sinergie tra tutte le realtà sociali del Paese, dal sindacato ai giudici, e riesce a risolvere civilmente il problema delle carceri, il controllo delle corporazioni privilegiate, sono con Monti!

Io scelgo e voglio sostenere chi, con i fatti, sa creare una società più equa, più umana, più solidale e più libera; il resto non mi interessa.

Omelie

Uno dei grossi problemi che riguardano la predicazione è certamente quello di discorsi disincarnati che si avvalgano di parole e pensieri scontati, di luoghi comuni legati ad una pseudo cultura teologica e che perciò passano tranquillamente sopra i capelli della gente senza lasciare traccia alcuna nella sensibilità, nella coscienza e nel pensiero di auditori che rimangono passivi all’annuncio.

Ricordo che fin da bambino circolava un detto nei riguardi delle prediche e della ricettività dei fedeli: “La gente in chiesa non reagirebbe anche se il predicatore affermasse che il diavolo è morto di freddo”. Era il tempo in cui i sacerdoti, e più ancora certi religiosi che si dedicavano alle missioni del popolo, insistevano quanto mai sul fuoco dell’inferno che bruciava i peccatori.

Purtroppo questo costume non è ancora scomparso e la mancanza di preparazione prossima e di ricerca costante, aggiunta ad una certa letteratura omiletica imperante nelle riviste o nelle rubriche destinate ai preti, han fatto si che le prediche siano “piuttosto soporifiche”, come diceva una signora nei riguardi dei sermoni del suo parroco.

Quando mi trovo in difficoltà nell’interpretare e rendere attuale il messaggio di certe pagine del Vangelo, talvolta ricorro anch’io alla lettura di certi sussidi, ma sempre sono astratti, desolanti e lontani mille miglia dalla sensibilità dell’uomo di oggi.

Io ho avuto la fortuna di vivere accanto a dei sacerdoti maestri in questo settore, Monsignor Vecchi, quanto mai valido, anche se un po’ teatrale, ma soprattutto monsignor Da Villa il quale, quando predicava, si spendeva tutto, usando un linguaggio fluido, incisivo, esistenziale, sembrava che prendesse per il bavero la gente, la mettesse con le spalle al muro dimostrando la validità e la verità del messaggio di Gesù.

Questi esempi sono fin troppo incidenti sulla mia coscienza, tanto che spesso mi mettono in crisi, preoccupato di non passare quelle verità del Vangelo delle quali tutti abbiamo bisogno, tanto che confesso apertamente che sono quanto mai critico ed esigente verso me stesso.

Qualche tempo fa, uscendo di chiesa dopo l’omelia in occasione di un funerale, un signore mi confidò: «Io non sono credente, ma la ringrazio davvero di ciò che ha detto. Mi ha fatto bene!». Volesse il Cielo che fosse sempre così!

Cosa non è il don Vecchi

Una ventina di anni fa è sbocciata la moda delle assistenti sociali. Una scuola a Venezia ha cominciato a sfornare, a getto continuo, questa sorte di professioniste che avrebbero dovuto facilitare i rapporti fra dipendenti e classe dirigenti dei vari comparti della società. Questa scuola però è nata con un peccato originale, del quale è affetta, fin dalla sua nascita, pure la facoltà di psicologia e, un po’ meno, ma anche quella di psichiatria.

Ricordo che molti anni fa la responsabile dell’istituto veneziano che prepara le assistenti sociali mi diceva che si iscrivevano a quella scuola soprattutto quelle personalità fragili che avevano problematiche personali di ordine psicologico e, inconsciamente, pensavano di risolvere i propri problemi frequentando quella scuola. Insomma erano le meno adatte per il compito che le attendeva.

Inizialmente le industrie assunsero in maniera massiccia queste figure professionali, ma ben presto le eliminarono accorgendosi che complicavano le cose piuttosto che risolverle, mentre lo Stato e il parastato, che notoriamente hanno amministrazioni ferruginose, poco efficienti e sono sempre in sovraccarico di personale, sono rimasti la riserva di caccia di queste professioniste che, per la maggior parte, sono donne.

Le assistenti sociali del Comune stilano valutazioni di ordine psicologico, istruiscono progetti, per finire poi di affibbiare a qualche realtà che ha i piedi per terra, soggetti difficili da gestire.

Qualche settimana fa le assistenti del Comune hanno proposto al “don Vecchi” di accogliere una signora poco più che cinquantenne che da dieci anni vive all’asilo notturno perché ora sentiva il bisogno di avere un alloggio tutto suo.

Ho letto il profilo psicologico, la storia pregressa e il “progetto” stilato da queste assistenti per il suo inserimento. L’abbiamo accettata perché di certo è una povera creatura, sono certo però che queste operatrici sociali, una volta “risolto il caso”, non si faranno più vedere, come non riesco a capire perché in questi lunghi dieci anni non hanno aiutato questa creatura a trovarsi un lavoro col quale vivere.

Il “don Vecchi” è una struttura con delle finalità ben precise e credo che sarebbe veramente male permettere che diventi una specie di “rifugium peccatorum” che finirebbe per non fare niente bene.

Sarà opportuno perciò che queste operatrici sociali si spendano perché l’ente comunale, o anche le comunità cristiane, creino qualcosa di specifico perché ogni cittadino in difficoltà abbia la risposta che risponde ai suoi bisogni specifici, senza scompaginare realtà che sono state pensate per altre categorie di persone.

La vita al don Vecchi

Sto cominciando a conoscere i nuovi residenti del Centro don Vecchi di Campalto. Di primo acchito mi sembrano persone care, anche se ancora un po’ smarrite in un ambiente tanto grande, pieno di luce, con un salone immenso arredato con mobili antichi, tappeti, divani in ogni dove: un salone da zar di Russia.

Abbiamo accolto tutti col criterio che abbiamo scelto fin dall’inizio: i meno abbienti e i più bisognosi di un alloggio protetto. La signora Graziella, incaricata dell’accoglienza, certamente ha fatto loro, come le è stato chiesto, un discorso preciso e netto: “Non intendiamo essere un’agenzia immobiliare che affitta alloggi a costi stracciati, ma siamo della gente che sogna di offrire un alloggio dignitoso, alla portata anche di chi ha meno, e vogliamo costruire una comunità di gente che si aiuta e che tende a vivere una vita autenticamente cristiana”.

All’atto della firma del contratto, ognuno ha dichiarato e sottoscritto di condividere ed accettare le finalità con cui è stata data vita a questa struttura. Adesso però viene il bello: la conversione non è mai stata facile per nessuno, meno che meno anche quella di vivere correttamente e coerentemente al “don Vecchi”.

Io sono profondamente convinto che non bisogna imporre nulla a nessuno, però sono altrettanto convinto di pretendere correttezza, osservanza delle regole del buon vivere, pulizia, rispetto per l’ambiente, comportamento irreprensibile, rispetto per le persone e le cose, collaborazione e dignità. Non sarò mai disposto ad accettare gente che giri nei luoghi comuni in veste da camera, con comportamenti sguaiati o sia alticcia.

Non sarà mai che il “don Vecchi” possa assomigliare, anche lontanamente, ad una casa di riposo e, meno che meno, all’asilo notturno. Il “don Vecchi” dovrà diventare un piccolo borgo di gente civile che si attiene alle norme del buon vivere, che si rispetta, che si vuol bene, che è solidale e si sforza di diventare una buona comunità di figli di Dio.

La felicità è nel quotidiano, non nei moderni canti di sirene!

Ho l’impressione che gli uomini del nostro tempo vivano come se fossero drogati. Non mi riferisco però a chi, talvolta col pretesto di provare un attimo di euforia, assume l’eroina o tutte le altre “porcherie” che distruggono letteralmente la vita, ma penso a tutta quella miriade di persone che rimangono affascinate e si lasciano irretire da quelle bolle di sapone rappresentate dal guadagno, dal successo, dall’erotismo, dall’imporsi sugli altri o da quelle, ancor più meschine idolatrie della macchina, della pelliccia o delle vacanze in paradisi lontani.

Ci sono tantissime persone che si lasciano avviluppare dal canto di queste sirene e che oggi pare siano una quantità enorme; persone che diventano come creature stordite, quasi automi che seguono in maniera stolta ed incosciente i pifferai che fanno i loro interessi e che, a loro volta, seguono i pifferai di un grado più alto.

Tanta, troppa gente cerca la felicità o anche, più modestamente, la gioia del vivere, in feticci ingannevoli, mentre avrebbe a portata di mano e a prezzi irrilevanti, la risposta alle sue attese.

Qualche giorno fa ho celebrato il commiato cristiano di un concittadino che è ritornato al Signore dopo 95 anni di vita. Stanco di lottare, si stava lasciando andare, logorato dagli anni e da gravi perdite. La nipote, quanto mai affezionata al nonno, lo incitava invece a continuare a lottare per vincere il male e continuare ad essere per lei e per i suoi cari il punto di riferimento della loro vita. Allora il nonno, con un sorriso debole, quanto mai dolce, le sussurrò: «Finché mi volete bene cercherò di resistere per stare con voi!».

Qualche giorno fa scrivevo in una didascalia per la copertina de “L’incontro” che riportava la foto di una famigliola serena – babbo, mamma e due ragazzini: “C’è oggi troppa gente che cerca lontano, in paradisi irreali, la felicità, mentre l’avrebbero a portata di mano nell’affetto sereno verso la propria sposa, i propri bambini e nella loro casa.

Ricordo sempre una vignetta in cui erano disegnati due giovani sposi seduti su una panchina nel parco. Lui confida a lei: «Farò carriera, ci compreremo una villetta, ti regalerò delle belle vacanze, e così saremo felici». E lei gli risponde con un sorriso dolce e caldo: «Ma siamo già felici perché io ho te e tu hai me!».

Bisogna che scopriamo la felicità nel quotidiano, in quello che è a portata di mano. Non ci capiti come a quell’attore che fece scrivere sul marmo della sua tomba: “Fui felice ma non lo seppi!”.

“La fede senza le opere è sterile”

Qualche settimana fa il freddo era veramente pungente. Il vento di bora s’infilava nei vestiti e gelava le ossa. I mass-media poi, terminata la tragedia della Costa Concordia, avevano bisogno di un altro dramma per piazzare il loro prodotto e avevano “terrorizzato” i cittadini dando l’impressione che il gelo polare stesse letteralmente paralizzando l’intero Paese.

Così pensavo che il maltempo avrebbe scoraggiato i miei fedeli dal partecipare all’Eucaristia domenicale, tanto più che la mia chiesa è piuttosto decentrata e i miei fedeli non sono tutti proprio nel fiore degli anni. Mi preparavo quindi a vivere l’incontro col Signore con meno entusiasmo, non potendo avere il calore di una chiesa gremita come al solito.

Invece no! Pian piano i fedeli sono giunti a gruppetti, provando subito una sensazione di benessere fisico incontrando il tepore di un ambiente riscaldato e quanto mai accogliente. Quando tirai la cordicella del campanello di bronzo per l’inizio della messa, la chiesa era piena e la mia comunità particolare, legata da una comunione profonda che nasce da una scelta e non dalla costrizione geografica, era al completo. Anzi, prima del sermone, tanta gente se ne stava al centro e a lato in piedi. Il mio coro, formato da ultraottantenni, puntuale e completo al suo posto e i vari ministranti disponibili ad adempiere le loro funzioni come ogni domenica.

Iniziai confidando la sensazione che mi riscaldava il cuore “Fuori: gelo, solitudine, disorientamento; dentro: tepore, amicizia, fraternità e serenità”. La comunità di fratelli che si riunisce nel nome del Signore fa emergere sempre e subito i valori che danno conforto, sicurezza, pace e speranza.

Pur roco, perché raffreddato, tentai di passare, alla luce del Vangelo di san Marco, quanto la fede e la religione hanno come eterne e sapienti coordinate: la fede e l’amore a Dio e il servizio al prossimo. La solidarietà verso i fratelli in difficoltà non è quindi un optional, ma una componente essenziale e assoluta del cattolicesimo: “La fede senza le opere è sterile”. Un cristiano che non preveda e non attui nella sua vita atti di carità, in relazione alla sua condizione umana, non solamente non è un buon cristiano, ma è un cristiano monco di un arto essenziale.

La disabilità, per la carenza della componente solidale, non è facilmente visibile e verificabile nel singolo, ma è invece un elemento macroscopico che appare immediatamente nel volto di una parrocchia. Talvolta mi rifaccio al racconto del Tolstoi che immagina Gesù che in incognito visita le comunità cristiane della “santa Russia” e, deluso, non riconosce in esse, raccolte per il culto nelle loro chiese, comunità composte da suoi discepoli, perché non conformi al suo insegnamento. Non so proprio cosa accadrebbe se al nostro Maestro venisse in mente, una qualche volta, di fare una visita alle 32 parrocchie di Mestre.