Cristo è il punto fermo della nostra vita che può salvare da paura e disperazione

La Chiesa ripresenta, giustamente, ogni anno certi episodi della vita di Cristo. Quando si avvicina questo appuntamento mi preoccupo un po’ più del solito pensando d’aver detto tutto su “quel certo argomento” e temo tanto di ripetermi e soprattutto di annoiare i fedeli con discorsi scontati. In realtà poi mi si presenta ogni anno qualche aspetto, qualcosa che mi pare del tutto nuovo, vero e ricco di fascino.

Così è avvenuto anche quest’anno in occasione della seconda domenica di Quaresima, nella quale la liturgia offre ai fedeli il “mistero”, ossia l’episodio della trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor. L’evento, tratto quest’anno dal Vangelo di Marco, è conosciutissimo. Gesù accompagna i suoi discepoli in un luogo di montagna ricco di silenzio, di maestà, di suggestione e di intimità e appare ai loro occhi in tutta la ricchezza e lo splendore della sua persona. Io confesso che non sento il bisogno di scomodare il miracolo o il portento, credo che invece questi uomini, abituati ad ascoltare Gesù e a vederlo nella monotonia pur sempre diversa del quotidiano, in quell’ambiente particolare scoprano tutta la ricchezza umana e spirituale del loro Maestro, ne rimangano affascinati ed incantati.

Gesù sapeva che essi avrebbero avuto assoluto bisogno di aver presente nella memoria questa immagine stupenda e trionfale, quando l’avrebbero visto umiliato, condotto come uno schiavo al patibolo e morire tra tremendi dolori in solitudine, abbandonato da tutti.

Ho detto alla mia gente che tutti abbiano questo assoluto bisogno di avere, dentro di noi, un punto fermo illuminante e sfolgorante, che regga di fronte alla malattia, all’insuccesso e alla prospettiva della morte.

Proprio in quello stesso giorno una giovane professionista, sola con una figlia ed un marito inaffidabile, mi raccontò la sua angoscia di fronte all’asportazione di un tumore. Quella donna, come me e come tutti, aveva bisogno di aggrapparsi ad un appiglio che reggesse, mentre attorno a sé vedeva soltanto fragilità, disinteresse ed indifferenza.

Durante l’omelia ricordai un episodio del celebre alpinista Cesare Maestri, che raccontò come, sorpreso da una bufera, sul far della sera, in parete, non ebbe altra scelta che piantare un chiodo sulla roccia a cui appese la sua amaca in attesa del mattino. La sua vita era legata a quel chiodo, sotto di lui uno strapiombo di quattrocento metri. Guai se quel chiodo non avesse retto!

La “bufera” della malattia, della morte, dell’insuccesso, prima o poi colpisce ognuno, solamente una fiducia ed un abbandono assoluto in Cristo, Figlio di Dio, conosciuto, amato con intensità in momenti particolarmente forti della nostra vita, può salvarci dal “baratro” della paura e della disperazione.

Non finirò mai di ringraziare il Signore che mi permette di parlare a tanti fedeli tramite L’Incontro!

In questi giorni il vecchio ed unico rilegatore della città mi ha telefonato per dirmi che i volumi de “L’incontro” erano pronti. Sono corso in via Monte san Michele, ove ha sede la “Rilegatoria Vittoria” a prendere l’annata 2011 de “L’incontro” e di altri periodici.

Ho trovato il mio vecchio amico dei primi anni del seminario in mezzo ad un mare di volumi in attesa di essere rilegati; mi sembrò Mastro Geppetto: sereno, sorridente, cordiale. Gli artigiani sono gente meravigliosa, peccato che stiano scomparendo.

Abbiamo fatto quattro chiacchiere; era già al corrente delle poche righe con le quali avevo narrato la “scoperta” della sua rilegatoria, unica a Mestre, e del suo simpatico ed attivo gestore.

Ho capito che “L’incontro” per dritto o per rovescio entra un po’ dappertutto.

Mi venne da pensare a san Filippo Neri che diede come penitenza ad una sua parrochiana eccessivamente chiacchierona, di percorrere le vie di Roma spennando una gallina, e poi di tornare a riprendere le piume portate ovunque dal vento.

Ho provato un po’ di paura al pensiero di tante mie riflessioni che si spargono fatalmente per ogni dove, anche dove meno mi possa immaginare. M’è venuto spontaneo rivolgermi al mio angelo custode perché mi aiuti a seminare buon seme e non zizzania.

Tornato a casa, ho cominciato a sfogliare con curiosità e nostalgia le 624 facciate piene di pensieri e di notizie, poi ho riposto il volume accanto agli altri. Con un pizzico di orgoglio e di vanità ho osservato la mia “Treccani”, ringraziando Dio che mi permette ogni settimana di parlare a decine di migliaia di concittadini.

Quando alla domenica rivolgo la parola alla bellissima assemblea di fedeli che ogni settimana gremisce la mia chiesa, intima e calda come una baita di montagna, tremo per la responsabilità di offrire il bene prezioso del messaggio di Gesù, e prego il buon Dio che la cornice con cui la offro sia la più bella possibile, però ogni lunedì, quando vedo la pila di oltre un metro e mezzo di fogli de “L’incontro” appena stampati, temo che dovrò pregare ancora di più perché essi possano offrire un messaggio e rendere viva ed attuale la proposta cristiana.

Non finirò mai di ringraziare il Signore che mi permette, a 83 anni di età, di parlare settimanalmente a tanti fedeli quanti ne può contenere almeno un grande stadio olimpico.

Un messaggio che ha fatto centro!

Ogni settimana impiego qualche tempo a scegliere la foto per la copertina de “L’incontro”. M’è stato detto che l’appetibilità di un periodico dipende molto anche dalla copertina. Io che non posso permettermi il colore e che sempre debbo “rubare” le immagini dalla stampa che mi arriva, credo di avere qualche difficoltà in più degli altri in questa scelta. Normalmente punto sui primi piani e tento di scegliere immagini accattivanti, poi, con la didascalia, rendo più efficace ed incisivo il messaggio che tento di passare ai lettori.

Sono convinto che la copertina non solamente renda appetibile il periodico, ma spero anche che essa riesca a passare il messaggio sempre positivo che le affido.

Da qualche settimana la tiratura de “L’incontro” è aumentata di 150 copie per ogni numero. Può darsi che il tempo più mite induca la gente ad uscire di casa e quasi ad imbattersi nel nostro periodico. Qualcuno lo prenderà per vedere che cosa pensano questo vecchio prete, sempre libero e tagliente, e la sua squadretta fedele della redazione. Credo però che qualche copertina indovinata abbia fatto lievitare la richiesta e quindi la tiratura.

Qualche settimana fa ho pubblicato una bella foto di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo e nuovo presidente della Fondazione. La foto sprizzava coraggio, intraprendenza, decisione e passione. Ho tanto sperato che questa foto giovanile facesse passare l’idea che La Chiesa ha ancora tante risorse, può disporre ancora di giovani preti coraggiosi, che guardano al domani con fiducia e accettano la sfida delle forze del nichilismo, della rassegnazione e della sfiducia, sicuri della validità del messaggio di cui sono latori.

Se considero la rapidità con cui il periodico si è diffuso, debbo concludere che ho fatto centro. Infatti alla mattina della domenica non c’era più una copia che si potesse recuperare, neanche a pagarla a peso d’oro!

Sono felice che la gente accolga favorevolmente i messaggi di speranza e di fiducia, ne ha bisogno veramente. E la comunità cristiana ne ha una riserva ricca, basta che non li vesta di vecchiume e di scontato, ma li presenti in tutta la loro freschezza, cosa che io mi riprometto di fare.

L’influenza è arrivata anche qui

Lo scorso anno c’è stata un’enorme campagna pubblicitaria a riguardo dell’influenza. I magazzini delle farmacie si sono intasati di milioni di dosi di vaccino antinfluenzale, dosi costate quanto mai, ma che rimasero inutilizzate perché, praticamente, passò la stagione pericolosa senza che succedesse alcunché.

Come capita sempre, quando gli allarmi reiterati si dimostrano superflui ed inutili, la gente finisce per non crederci più e per prendersela comoda. La vecchia storia de “il lupo, il lupo!” si dimostra ancora una volta vera. Così, o per l’eccessivo allarmismo dello scorso anno, o per la sfiducia in questi farmaci, al “don Vecchi” quest’anno molti anziani, me compreso, hanno rinunciato a farsi il vaccino, sperando di passarla liscia come lo scorso anno.

Invece no! A metà febbraio arrivò l’influenza ed arrivò quella veramente tosta, con febbre prolungata, stanchezza, tosse e mal di gola. Al “don Vecchi” l’influenza cominciò come il temporale del film “Bambi” di Walt Disney, una goccia qui, una goccia là, finché essa si trasformò in un diluvio che mise a letto la metà della popolazione del borgo degli anziani.

Suor Teresa mi portava ogni mattina il bollettino: la Norma del 77 ha la febbre a 38, la Pina del 102 s’è messa a letto con un febbrone da cavallo, e via di questo passo, finché un brutto mattino fui io a dirle: «Ho mal di gola e la febbre».

Venne la dottoressa e mi confermò l’epidemia: tantissima gente era a letto con tosse, febbre insistente e mal di gola. Per associazione di idee mi venne in mente la peste di Milano descritta dal Manzoni, poi quella di Camus, col relativo cordone sanitario attorno alla città, e il dialogo serrato tra il sacerdote portatore di speranza e il medico lucido e razionale che affermava che a Orano la peste avrebbe potuto essere anche debellata, provvisoriamente, ma nei meandri della città, ove si rifugiano i germi del male, prima o poi essi si sarebbero fatti vivi, cosicché l’uomo era condannato fatalmente alla morte. Il discorso pacato di questo pensatore del nord Africa, ma di cultura occidentale, m’ha fatto sempre pensare e mi ha anche portato un certo pessimismo.

Poi mi è venuto in mente il gruppo marmoreo sovrastante l’altare della basilica della Madonna della Salute, chiesa in cui si è consolidata la mia fede e la mia vocazione, dove si vede la bella Venezia supplice, inginocchiata ai piedi della Vergine e Lei che manda gli angeli a cacciare la brutta megera della peste.

Anch’io ho affidato la mia cara comunità alla protezione della Madonna della Salute, trovando ancora una volta speranza e serenità per il domani.

Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto!

Ormai s’è voltato pagina. Per evitare diatribe con il parroco e con uno dei tanti comitati a lui collegati, che di legale non han proprio nulla se non il gusto e l’arroganza di opporsi a qualche iniziativa concreta e di rappresentare, senza mandato alcuno, “la cittadinanza”, il consiglio della Fondazione ha accettato la proposta del Comune per un terreno ai margini della città, chiamato – non so perché – degli “Arzeroni”.

Credo che la decisione sia stata saggia, non solo per evitare ulteriori polemiche, ma anche perché l’area del parco che sarebbe stata concessa era veramente angusta. Si tenterà, agli Arzeroni, di dar vita ad una struttura più capiente, per poter ospitare più anziani e dar respiro ad progetto più articolato e spazioso.

Ho letto le proposte, veramente generose, che il presidente della Fondazione, don Gianni, ha fatto al comitato “rappresentato” da un “triumvirato”, ma non c’è stato nulla da fare, il “popolo” ha detto di no, basta, non si discute, ma si deve accettare la volontà (in questo caso non si può proprio dire “popolare”) ma della borghesia, come sempre poco interessata alla sorte degli ultimi, di quelli che non hanno voce, né diritto di chiedere di essere aiutati.

Ho letto sul “Gazzettino”, le conclusioni, più che concilianti, del presidente della Fondazione, don Gianni Antoniazzi, il giovane parroco di Carpenedo che, nonostante tutto, assicura che il “don Vecchi” sarà a disposizione anche degli anziani di San Pietro Orseolo, qualora ne avessero bisogno.

Questa è la decisione del consiglio di amministrazione e del suo presidente, sulla quale non ho nulla da eccepire, della quale sono veramente ammirato e che favorirò con tutta la mia volontà. A livello personale però, e per coerenza alle scelte di tutta la mia vita, sento il dovere di affermare con forza che per me questi comportamenti non solamente non sono solidali, ma certamente incomprensibili per la parrocchia e per chi si ritiene cristiano. Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto.

Credo che la gente di Viale don Sturzo, a motivo dell’intervento di qualcuno, abbia perso una buona occasione per dimostrarsi civile ancor prima che cristiana.

Nell’articolo del Gazzettino si dice che quelli del comitato hanno affermato che stanno “sopportando” i due Centri, mentre in realtà il Centro don Vecchi è l’unica realtà positiva che c’è in Viale don Sturzo. Mezza Italia s’è interessata a questa esperienza di eccellenza che dà lustro e che tutti ci invidiano.

Tutto questo sento il dovere di affermare per dire “pane al pane” e perché ognuno si prenda le sue responsabilità.

Il nuovo Pastore e questo nostro ovile tutto buchi

L’esser vissuto per più di mezzo secolo a Mestre e l’essermi sempre interessato intensamente ed in prima persona dei problemi di ordine pastorale, mi consentono di rendermi perfettamente conto della situazione religiosa delle singole parrocchie e dell’intera città.

Io non so come vanno le cose in altre diocesi ed in altre città, ma capisco perfettamente che la situazione in cui verte la Chiesa mestrina è veramente grave, anche se apparentemente tutto è tranquillo.

Tante cose mi sono fonte di preoccupazione.

Quando penso all’estrema carenza della presenza della Chiesa sul territorio! Spesso la gente nasce, vive e muore senza che la comunità cristiana neppure se ne accorga!

Quando penso al crollo dei matrimoni religiosi, all’aumento dei bambini non battezzati e ai morti che arrivano alla tomba senza passare per la chiesa, e tutto questo senza che apparentemente il clero sia turbato!

Quando penso ai mezzi di informazione delle parrocchie, inconsistenti e per nulla incisivi.

Quando penso ai gruppi giovanili, spesso striminziti e talvolta inesistenti.

Quando mi rifaccio alla tanto propagandata nuova evangelizzazione, della quale non vedo cenno alcuno. Quando mi accorgo che la Chiesa mestrina è formata da un arcipelago di parrocchie che hanno solamente qualche legame formale, ma poco organico e sostanziale! Aumenta la mia angoscia.

Quando penso alle organizzazioni di categoria ormai totalmente scomparse e al mondo del lavoro definitivamente abbandonato a se stesso, allora mi balza davanti agli occhi la figura del nuovo Pastore con questo suo gregge che ha un ovile tutto buchi; allora avverto più che mai un sentimento di affetto, di compatimento e di solidarietà nei suoi riguardi.

M’era, in verità, venuta in mente l’idea di scrivergli che mi sarei messo volentieri a sua disposizione, ma poi ho compreso che ad 83 anni avrei potuto offrirgli ben poco. Preferisco fargli sapere la mia stima e il mio affetto, garantirgli la mia preghiera e dirgli che farò del mio meglio per portare avanti con passione e zelo il piccolo settore di cui ancora mi occupo e che pregherò ogni giorno perché egli riesca a dare nuovo vigore all’antica e povera Chiesa di Venezia.

Don Vecchi 5: il nostro impegno e la burocrazia

Ho l’impressione che il dottor Remo Sernagiotto, assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, sia un neofita in politica e, peggio ancora, nel settore amministrativo di un ente pubblico, perché mi pare che sia partito in quarta per dare una soluzione al gravissimo problema degli anziani, ma ora stia sbattendo il naso sugli sbarramenti burocratici dell’amministrazione regionale.

Mi par di aver capito che gli enti pubblici, per tutelarsi dagli imbrogli e per garantire trasparenza, finiscano invece per far allungare i tempi e far lievitare i costi, arrivando sempre in ritardo e scontentando un po’ tutte le persone di buon senso.

Sernagiotto ha certamente capito che le cose non possono più continuare come sono state impostate finora per quanto riguarda gli anziani: non ci sono case di riposo, i posti che ci sono hanno un costo insopportabile perfino per la Regione ed infine la qualità della vita offerta è assai scadente.

Quando ha visto il “don Vecchi”, e soprattutto quando gli abbiamo presentato i costi, gli è parso di aver finalmente “scoperto l’America” e ci ha detto: «Cominciate, io vi offro il finanziamento per la costruzione e vi garantisco una modesta diaria per la pulizia alle persone e agli alloggi». Noi, temerari come sempre, abbiamo accettato la sfida.

I guai però sono sbocciati immediatamente: c’è voluta una legge, s’è dovuto bandire un concorso, con regole e cavilli infiniti e nel frattempo è già quasi passato un anno. Ora ci vorrà un bando europeo per la gara di appalto e dovremo fare un percorso di guerra per ottenere a bocconi il denaro stanziato.

Ogni tanto sulla stampa esce qualche dichiarazione di Sernagiotto sugli obiettivi, sulla dottrina e quant’altro; ogni volta pare che il progetto si ingarbugli. Da parte nostra le idee sono più chiare: l’alloggio offerto diventa la casa dell’anziano che ne diviene il titolare. L’anziano paga i costi condominiali, le utenze e provvede per il suo sostentamento e il costo di tutto dovrà essere sopportabile anche per chi ha la pensione minima.

In più, agli anziani in perdita di autonomia, sarà garantita, a titolo gratuito, la pulizia dell’alloggio e della persona, e tutto questo a spese della Regione, cosa questa di non poco conto, perché così anche gli anziani poveri potranno vivere in un alloggio più che decente, potranno fruire di spazi comuni e, soprattutto, sapranno che dietro a loro c’è un minimo di organizzazione su cui poter contare nei casi di emergenza.

Spero quindi che Sernagiotto e i suoi funzionari non ingarbuglino le cose più del necessario.

Sprechi carnevaleschi

Non so proprio quando uscirà su “L’incontro” (e sul blog, NdR) questa pagina del diario. Tante volte ho ripetuto che il mio diario fissa sulla carta incontri, pensieri, reazioni o sogni che mi vengono in un giorno determinato, che come tutti i giorni, porta una data specifica, ma che la sua uscita sul periodico può variare anche di mesi.

Mentre sto buttando giù questo appunto il carnevale impazza, a Venezia intasa calli, campielli e vaporetti e la città spreca centinaia di migliaia di euro, forse milioni, mettendo in luce l’inconsistenza, la fatuità e l’effimero della nostra società.

In un momento in cui il Governo è costretto a tagliare dappertutto, la nostra amministrazione comunale, i nostri enti sociali, culturali, ecc. ecc. seminano a piene mani migliaia e, ripeto, forse milioni di euro nelle calli veneziane. Pinocchio fu certamente meno scialone quando si lasciò convincere di piantare qualche solderello “nel campo dei miracoli”.

Io non leggo certamente le cronache che interessano “Il Gazzettino” sui “voli dell’angelo” dal campanile di San Marco da parte di ragazze vestite da aquila o da oca, della “pantegana” dal ponte di Rialto o dell’asino dalla Torre di Mestre. Il telegiornale però ci offre con voluttà carrellate sulle maschere che vengono dal mondo intero, vestite con costumi dalle fogge più diverse, ma sempre e comunque costosi a non finire, così che allo sperpero di denaro pubblico si aggiunge quello dei privati. Pare che sia sempre stato così.

Comunque non è consolante che col passare dei secoli la nostra società non sia rinsavita e che i reggitori della cosa pubblica continuino ad imbonire le folle, a frastornarle con queste manifestazioni che distraggono il popolo dall’essere parco, dall’adoperare per le cose importanti il poco denaro di cui dispone.

So che “quaresima” dice quasi nulla alla nostra gente, che il messaggio di verifica, di ripensamento, di sobrietà e generosità non andrà neanche fuori dalle porte delle chiese, nonostante ciò niente riesce a distogliermi dal sognare una società con costumi più austeri, capace di essere serena e di badare a ciò che la vita può offrire a buon prezzo.

Da parte mia faccio fatica a capire ove posso tagliare, però sono convinto che, dopo una seria verifica, qualcosa di meglio potrò fare, memore di una “sentenza” di un mio collega delle magistrali che in tempi lontani mi disse di aver scoperto una grande verità, che cioè si può sempre fare un passo in avanti o un passo indietro!

La cura di Monti

Già ho confidato agli amici che la mia vecchia mamma curava quasi tutti i malanni della sua numerosa nidiata di figlioli, con l’olio di ricino. Non credo che questa medicina elementare esista ancora, penso che vi siano dei farmaci altrettanto efficaci e meno pestiferi.

La mamma ce lo propinava con una zolletta di zucchero, con il limone, ma nonostante ciò aveva sempre un gusto nauseabondo. La mamma pareva che avesse un convincimento radicato, che cioè quanto più una medicina era “cattiva”, ossia disgustosa, tanto più faceva bene. La mamma non andava tanto per il sottile e con sette figli non poteva perdere troppo tempo per convincerci e perciò tirava diritto, nonostante le nostre reazioni.

Ho l’impressione che Mario Monti si sia assunto l’ingrato ma salutare compito di far prendere l’olio di ricino agli italiani. Monti però non adopera l’olio di ricino a scopo punitivo o repressivo come fece Mussolini, ma l’adopera a scopo medicinale e curativo.

Monti poi, come mia madre, non ha molto tempo e molte possibilità di convincere a prendere questi rimedi non troppo appetitosi e perciò deve tirar diritto ed anche in fretta, dovendo rimediare in un paio di anni al massimo alle rovine che i politici hanno fatto in più di sessant’anni.

In questi giorni ho sentito l’ultimo intervento, che mi ha fatto tantissimo piacere: primo, perché io non ne sono personalmente coinvolto e, secondo, perché l’ho sognato da tantissimi anni. Pare che Monti e la sua squadra siano decisi a smobilitare varie decine di migliaia di militari e soprattutto di mandare in pensione e promuovere col contagocce generali, colonnelli, capitani e tenenti.

Non ho mai fatto mistero che io sognerei che si facesse come nel Granducato di Lussemburgo: vendere come ferro vecchio carri armati e tutto l’armamentario, sciogliere l’esercito e sostituirlo con un consistente corpo di polizia. Tanto è stato dimostrato a che cosa son serviti gli otto milioni di baionette di triste memoria!

Anche Obama – che è tutto dire – sta smobilitando, figurarsi noi! Credo che per l’Italia basterebbe l’equivalente delle “Guardie svizzere” per un po’ di coreografia o di folklore, ma nulla più.

In quest’ultimo periodo poi, con le bufere di neve, mi sono più che mai convinto dell’assoluta inutilità dell’esercito, a motivo della mentalità dei suoi comandanti, della sua organizzazione e delle cattive abitudini che fa prendere ai suoi membri.

L’esercito ha mandato qua e là venti, trenta, cento soldati, pretendendo poi che i Comuni dessero loro una seconda paga, quando ne avrebbero potuto mandare cinquanta, centomila senza che i sacri confini della Patria fossero in pericolo!

Per carità, io non ho nulla con i soldati, ma penso che sarebbero più utili se facessero i metalmeccanici, i fornai o i pasticceri. Pare strano che non si sia ancora capito che con le armi non si fanno che danni. Allora: “Forza Monti!”.

E’ difficile parlare del “peccato” all’uomo di oggi

Mi costa sotto ogni aspetto commentare il Vangelo ogni domenica alla folla di fedeli che gremisce la mia “chiesa di cartone”, pur volendo un mondo di bene ai miei fedeli e pur essendo certo che pure loro mi vogliono veramente bene. Mi costa perché non sono sciolto nel parlare, perché la mia gente meriterebbe di più di un vecchio prete, ma soprattutto perché ho l’angoscia di non riuscire a presentare, come sarebbe giusto, quelle splendide “perle” che sono le verità del Vangelo di Gesù.

Mi preparo, mi arrovello la coscienza, tento di dare il meglio di me, ma pur tuttavia sento che il Vangelo meriterebbe molto di meglio. Spesso offro al Signore la mia delusione e la mia sofferenza, sperando che Egli la trasformi in aiuto alla gente alla quale vorrei tanto offrire proposte di vita positive e serene.

Spesso, mentre rifletto per conto mio, faccio delle “scoperte” esaltanti, che mi paiono di una bellezza sovrana, e che ho la sensazione che potrebbero offrire prospettive rasserenanti e profondamente vere, così da illuminare il volto, spesso confuso, del nostro vivere. Poi, al tentativo di tradurre in parole o in messaggi le intuizioni, le “scoperte” o il messaggio, ho la sensazione di non riuscire a trasmettere alle coscienze la bellezza e l’importanza di queste verità.

Qualche domenica fa toccava il commento della guarigione del paralitico calato giù dal tetto da quattro volonterosi. Il disabile, finalmente, si trovava di fronte un’occasione veramente provvidenziale, unica; sennonché si sente dire da Cristo: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!». Posso immaginare la sua delusione, quella dei “barellieri” e quella dei presenti. A quel pover’omo interessava muoversi, camminare, essere autonomo e null’altro!

Il discorso dei peccati è per tutti estremamente marginale, un discorso da chiesa, uno di quei discorsi da iniziati che han poco a che fare con i veri bisogni esistenziali. Credo che anche per la gente del nostro tempo il “peccato” sia quasi un’astrazione mentale, un qualcosa che siamo abituati a sentir ripetere fin dall’infanzia, ma niente di più.

Se poi vado alla definizione del catechismo o alle tante espressioni delle anime pie, “offesa al Signore”, la cosa diventa ancora più inconsistente e vaporosa, quasi una quisquiglia da preti.

Eppure oggi, quando pare si sia recuperato il valore della legge, delle regole, si dovrebbe comprendere che l’infrazione, il disordine, rompono un’armonia, quel fragile e pur indispensabile equilibrio di rapporti, sia personali che sociali, per cui lo sgarrare porta sofferenza, disordine e crea quel malessere che determina disagio e mancanza di serenità.

Ho tentato di recuperare l’incidenza malefica del “peccato” come vera causa dei malanni personali e sociali, estrapolandolo da un limbo evanescente per indicarlo come “nemico” della vita e della felicità umana. Non so proprio se ci sia riuscito, per questo ritento di farlo con la penna.

Celentano a Sanremo

Non è che io rifiuti Sanremo, come qualcosa di futile e di osceno, perché se molti milioni di italiani lo seguono vuol dire che ci deve essere qualcosa di positivo, anche se mi dà la sensazione della richiesta della folla anonima ed incolore che fin dai tempi di Roma s’aspettava dai capi “panem et circenses”, cioè benessere e divertimento.

Non l’ho seguita, come mai l’ho seguita, da quando è nata, questa manifestazione canora; mi urtano il canto sguaiato, le “ochette” di turno che non sanno far altro che spogliarsi sempre un po’ di più, e tutta quella montatura scenica di poco gusto. D’altronde penso che per un più che ottantenne, quale sono io, tutto questo dovrebbe essere scontato, comprensibile e giustificato. Confesso però che quest’anno mi è dispiaciuto di non aver fatto un “fioretto” di anticipata quaresima, così da perdermi il polverone suscitato da Celentano.

Di Sanremo so quello che mi hanno riferito e quello che ho letto sui giornali ed ho visto alla televisione a cose avvenute. Soprattutto mi son fatto un’idea dalla rubrica “Arena”, condotta da quel brillantissimo giornalista che è Massimo Giletti.

Io sono apertamente per Celentano, anche se il suo intervento l’ha fatto in maniera istrionica, esagerata e provocatoria, propria di Celentano. Mi hanno detto pure che le canzoni che ha cantato sono state bellissime e di contenuto religioso. Ma, a parte queste canzoni, che sono lo specifico degli apporti culturali e religiosi che egli può offrire, sono stato edificato dalla sua testimonianza di fede profonda ed esistenziale e dal fatto che ha portato alla ribalta dell’intera nazione un problema ed una realtà che solitamente sono relegati alla Chiesa, per gruppi sparuti di persone e per di più tutte schierate.

Mai ho sentito parlare di Dio in maniera così scoperta, rispettosa e sofferta negli ambienti futili, superficiali e spessissimo laici ed agnostici, quali sono quelli della televisione.

Anche se non condivido al cento per cento quello che ha detto di “Famiglia Cristiana” ed “Avvenire”, penso che quei due periodici avessero bisogno di una scossa per far loro cadere le tante foglie secche.

Contemporaneamente a Sanremo a Roma c’è stato il conclave per la nomina dei nuovi cardinali. Mi sono chiesto quale di questi due avvenimenti, a livello spirituale, abbia inciso di più sulla coscienza degli italiani. Io sono vecchio, amo la Chiesa, il Papa, i vescovi, ma confesso che tra la testimonianza di fede del cantante e il rito ampolloso, coreografico e stantio del conclave, sono decisamente per Celentano.

Quelle signore che cantano la gloria di Dio con la scopa delle pulizie

Qualche giorno fa mi sono recato nella mia vecchia parrocchia nella speranza di vedere “la mia sposa” riordinata e rimessa a nuovo, fresca di restauro. Nessuno sa quanto non abbia amato la mia chiesa che ho curato con infinita attenzione perché tutti la potessero incontrare pulita, adornata con buon gusto, allietata dai fiori, quasi vezzosa colle sue vesti neogotiche.

I miei parrocchiani erano orgogliosi della loro chiesa, tutti erano convinti che fosse la più bella della città ed io li incoraggiavo in questa convinzione, anche se sapevo che le sue vesti erano vecchie di almeno due tre secoli, perché è nata quando non si usava vestire le chiese con le vesti del momento, ma ci si rifaceva ai tempi “d’oro della fede”, come ci si illudeva che fossero i tempi antichi.

Comunque, anche se vestita con un falso d’autore, la mia chiesa è bella. Purtroppo essa da anni era ingabbiata in un’autentica selva di tubi Innocenti. Ogni volta che vi entravo era per me una sofferenza ed una spina al cuore.

Avendo saputo che finalmente era stata liberata dai puntelli, sono andato a vederla nella speranza di incontrarla come “la sposa bella”.

Sono stato contento a metà, perché erano appena usciti gli operai che avevano smontato le impalcature e c’era la squadretta che era intenta a lavare il pavimento e a vestirla a nuovo. Sono stato sorpreso perché a pulire la chiesa erano le mie vecchie “ragazze” di venti, trenta anni fa; ora esse hanno tutte i capelli grigi ma scopavano e tiravano il moccio con l’entusiasmo di un tempo e la passione di chi invece della scopa suona il violino! Mi venne da esclamare affettuosamente, vedendole così appassionate a far bella la chiesa: «Sempre le solite!»

Sapevo che negli ultimi tempi delle sposine s’erano messe in guanti e vestaglia a far quel lavoro, ma non so per quale ragione sono ben presto scomparse e la “vecchia guardia” ha dovuto riprendere le armi e mettersi a servizio di nostro Signore. Le ho guardate con infinita simpatia, vedendole impegnate con l’entusiasmo di chi fa il primo lavoro per far bella la casa di Dio e della comunità. Le avrei abbracciate una ad una, vedendole nel loro impegno generoso, scevro di mistica e teologia, ma ricche di amore perché la chiesa profumasse di vita e di bellezza.

Quelle donne hanno imparato solamente il catechismo di san Pio X, non frequentano di certo i corsi di biblica o i gruppi di ascolto, ma servono il Signore e cantano la gloria di Dio con la scopa e col moccio, come avessero in mano il violino di Uto Ughi!

Un gran bell’inizio!

Nota della redazione: questo intervento è stato scritto diverse settimane prima dell’ingresso del nuovo patriarca a Venezia

I nostri vecchi dicevano che “il giorno si vede fin dal mattino” ed aggiungevano con il gran buon senso di una volta: “chi ben comincia è a metà dell’opera”. Infine: “Il mattino ha l’oro in bocca”. E chissà quanti saranno i detti sapienziali che riguardano l’importanza di iniziare bene qualsiasi opera che ci si proponga di fare.

Io ho confessato che di tutte le foto che i mass-media ci hanno offerto del nuovo Patriarca, terrò sul mio tavolo di lavoro quella che lo ritrae con gli stivaloni infangati e con la semplice tonaca nera, mentre si dà da fare con i suoi seminaristi per aiutare la gente delle Cinque Terre colpite dall’alluvione e dagli smottamenti della montagna fradicia d’acqua.

E’ vero, come ci è stato ripetuto fin troppo dai “capetti”, che bisogna accettare con fede il Patriarca che il Signore ci manda ed è altrettanto vero che non si può avere un Patriarca corrispondente a tutti i gusti, ma credo che pure sia lecito sperare che il nuovo vescovo ci appaia il più adatto a dare un volto sobrio, adeguato ai tempi e capace di parlare e di farsi ascoltare dalla nostra gente,

Io spero che il Signore mi abbia accontentato e che il nuovo vescovo sia intenzionato a far indossare alla Chiesa veneziana “il grembiule da lavoro” per mettersi a servire i poveri.

In questi giorni poi ho letto come avverrà l’ingresso di mons. Muraglia nella nostra diocesi e sono stato felicemente sorpreso di apprendere che alla vigilia dell’ingresso si recherà a Ca’ Letizia a servire, con i pochi chierici del nostro seminario, alla mensa dei poveri.

Io non ci sarò, ma sarò ugualmente felice che quel seme sparso quarant’anni fa assieme a mons. Vecchi, abbia la prima attenzione e continui ad essere coltivato dal nuovo apostolo del Signore in terra veneta.

In questi giorni ho pensato che il Signore mi ha fatto un secondo dono stabilendo che il conclave per la nomina dei nuovi cardinali sia stato fissato in una data che non ha permesso al nuovo Patriarca di ricevere la berretta cardinalizia. Per carità! Avrei accettato di buon grado anche il Patriarca vestito di “porpora e di bisso”, vesti che mi ricordano fin troppo quelle dell’Epulone, ma sono contento che il Signore mi abbia risparmiato questo sforzo ascetico, perché confesso che non è che mi abbia esaltato quel concistoro, con tutto quel rosso, quelle poltrone rococò tutte dorate e quei riti fuori corso per il conferimento di un titolo onorifico.

Ringrazio ancora il buon Dio che ha permesso che il Patriarca entri quasi alla chetichella, con un anticipo, a Mestre, ove pulsa la vita, prima di entrare in museo. Ora spero soltanto che il comitato della curia “non mi rompa le uova nel paniere!”.

Invitato a parlare del don Vecchi

Il Centro di Studi Storici di Mestre mi ha invitato a parlare al Candiani sui Centri don Vecchi. Quando il presidente di questo prestigioso gruppo culturale, con una telefonata calda e confidenziale, mi ha invitato ad esporre questa esperienza, che grazie a Dio è diventata, certamente non per merito mio esclusivo, un fiore all’occhiello della nostra città, d’istinto gli avrei detto subito di no. Io sono schivo, introverso e sono convinto di non avere le qualità del conferenziere sciolto e brillante che sa presentare l’esperienza – pur estremamente valida, ne sono convinto – in maniera convincente e soprattutto tale da non annoiare, ma anzi di entusiasmare il pubblico.

Il prof. Stevano, però, è stato così irrompente e deciso che non sono riuscito a sottrarmi all’invito che mi offriva l’opportunità di promuovere questa struttura per gli anziani e soprattutto mi offriva “peso” per poter ottenere dall’amministrazione comunale la superficie indispensabile per attuare il progetto, già finanziato dalla Regione, a favore di una struttura destinata agli anziani in perdita di autonomia.
Dissi di si proprio perché non sono riuscito a dir di no!

Il Centro Studi Storici ha fatto veramente le cose per bene. Un titolo incisivo: “Il miracolo della sfida dei Centri don Vecchi”. Un manifesto con la mia immagine, molto bello, tanto che mi sono sorpreso della mia figura armoniosa, quasi quella di un vecchio dalla capigliatura copiosa e candida, ma soprattutto dal volto ricco di bonomia e di calda umanità. Consistente la diffusione dei manifesti e notevole l’informazione sulla stampa.

Il pubblico m’è apparso subito accattivante: molti volti conosciuti ed amici, consistente la rappresentazione del popolo dei vecchi, il resto costituito perlopiù dalle solite persone anziane che normalmente partecipano a queste cose.

Mi sono subito sentito a casa, facilitato da un anfitrione che ha condotto il discorso con maestria, interrompendo quel temuto monologo che mi avrebbe affossato in un mare di noia.

La dottoressa Corsi poi, ora funzionario del Comune e mia antica allieva delle magistrali, la quale è stata praticamente l’ideologa e la “cofondatrice” di questa iniziativa innovatrice nel settore della terza età, ha costruito in maniera brillante una cornice di taglio intellettuale al mio intervento. Cosicché, tutto sommato, penso che la cosa abbia sortito un risultato positivo.

Ora, forte anche di questo avvallo civico, presenterò con più decisione ed autorevolezza la mia richiesta al Comune io mi predisporrò ad uno scontro deciso attraverso i mass-media per ottenere quello che il Comune ci dovrebbe dare in un piatto d’argento.

La vittoria di Pirro

Ormai è da un’eternità che per “vittoria di Pirro” si intende una riuscita fatua, inconsistente, quasi un boomerang che finisce per colpire non l’obbiettivo prefissato, ma colui che l’ha lanciato.

Ormai mi pare sia notizia sicura che il nuovo “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia non si farà in margine al parco di viale don Sturzo. Ha vinto il parroco della parrocchia di San Pietro Orseolo e un comitato del rione che s’era battuto contro l’installazione di un’antenna per telefonini, ma che per l’occasione è stato delegato a portare avanti anche questa “nobile” battaglia contro la cementificazione del verde.

Io in verità non avevo mai creduto alla realizzazione del progetto in quel sito, perché da trent’anni ho avuto modo di conoscere i soggetti protagonisti dell’attuale triste vicenda. Hanno raccolto 150 o 350 firme, ma che cosa rappresentano quando in cinque minuti avremmo potuto raccoglierne altrettante e più ancora tra gli attuali residenti di viale don Sturzo 53, che attualmente abitano al Centro? A meno che, secondo la logica marxista di triste memoria, alla quale qualcuno torna ancor conto di credere, non si dica che questi cittadini non sono “democratici” e perciò i loro pareri non sono comparabili a quelli illuminati e progressisti.

La cosa è andata così ed io che credo alla Provvidenza, spero che tutto sommato la soluzione alternativa sia veramente migliore. Peccato perché questo viale, che è rimasto viale non raggiungendo ancora la soglia di comunità cristiana e che prevedo che prima o poi ritornerà sotto ogni aspetto a ridiventare un “colmello” della vecchia parrocchia di Carpenedo, aveva tutto da guadagnare con la nuova struttura, anche se avrebbe perduto due o tremila metri di verde pubblico di cui nessuno fruisce.

Il “don Vecchi” è l’unica cosa bella e qualificante del viale don Sturzo, è il suo fiore all’occhiello sotto ogni punto di vista, tra un dilagante anonimato che forse ora ha, come punto di riferimento significativo solamente l’Ins, il supermercato popolare.

La vita continua, però confesso che percorrendo questo stradone costruito dall’ingegner Cecchinato proverò tristezza pensando a questa comunità che si rifà ad un doge diventato santo per il suo amore verso i poveri e che oggi è costretto a far da patrono a fedeli che dei poveri e dei vecchi non ne vogliono proprio sapere.