Un dibattito TV che ho seguito con interesse

Venerdì 23 marzo ho seguito alla televisione un dibattito che si è svolto nella cripta della Basilica di San Marco. Conduceva la conversazione una giornalista di Telechiara un po’ impacciata e poco padrona dell’argomento trattato, e vi partecipavano esponenti della curia veneziana, del mondo giovanile, di quello operaio ed industriale. C’erano pure il vescovo di Rovigo, il dottor Castagnaro, che recentemente ha condotto una seria inchiesta sull’orientamento della religiosità nel Nordest e l’immancabile filosofo prof. Cacciari.

La discussione ruotava attorno a questi temi: l’incontro di Aquileia, da cui pare che i cattolici del Veneto si attendano quasi una nuova redenzione, le attese nei riguardi del nuovo Patriarca e la lettura dei risultati della recente inchiesta.

La scelta della sede dell’incontro è stata quanto mai felice, per la bellezza sovrana dell’ambiente, ma soprattutto perché dava la sensazione di andare all’origine della fede degli abitanti delle terre venete.

Gli interventi sono stati quasi tutti di buona levatura, ricchi di tensioni ideali, un po’ eccessivi nell’aspettativa che il nuovo Vescovo possa risolvere problemi della Chiesa veneziana ormai atavici. Il comune denominatore che mi è parso di cogliere è stato il desiderio e la volontà, da parte della Chiesa, di accostarsi alla cultura e alla sensibilità dell’uomo contemporaneo, pochissimo partecipe del messaggio cristiano. I fedeli infatti trovano notevole difficoltà a trasmettere, a causa dell’ormai avvenuto divorzio tra gli schemi mentali e il linguaggio del nostro tempo, i valori perseguiti e gli obiettivi propri del mondo religioso e quello laico.

A me questa ammissione e questa ansia è parsa già buona cosa, ma contemporaneamente mi è venuta la preoccupazione che gli auspici rimangano quei buoni propositi che la tradizione popolare dice che lastricano il pavimento dell’inferno.

L’intervento di Cacciari è arrivato bel bello a rafforzare il mio timore. L’ex sindaco filosofo, pur dichiarandosi, una volta ancora, non credente, ha ribadito con forza che vanno bene i propositi, le scelte e gli auspici, ma questa è ormai l’ora di rimboccarsi le maniche e di sporcarsi le mani per soccorrere “l’uomo mezzo morto” incontrato sulla strada di Gerico.

A mio modesto parere, io che non sono né filosofo, né teologo, né sociologo, l’ora di agire è già suonata da un pezzo; noi cristiani stiamo perdendo l’ultimo treno, se dopo tanti discorsi e tanti auspici non mettiamo i piedi per terra e non cominciamo ad aiutare concretamente e in modo serio l’uomo che giace per strada mezzo morto.

Vicini di casa

I vicini di casa delle strutture che si rifanno alla Chiesa non sono “croce e delizia” ma, spesso, soltanto una croce.

E’ ben vero che tutti siamo più propensi a difendere i nostri diritti che a praticare i nostri doveri, ma appunto i vicinanti delle strutture legate più o meno al mondo ecclesiastico sono ipersensibili ai loro diritti, mentre trascurano bellamente i diritti altrui, perché convinti più o meno coscientemente, che i preti devono praticare la carità e perciò subire, per amor di Dio e del prossimo, ogni affronto e quasi mai si lasciano coinvolgere nelle imprese solidali che solamente essi sentono il dovere di portare avanti.

Da un punto di vista teorico e formale questi cristiani vicini sono anche disposti a lodare certe opere umanitarie, ma guai al cielo se niente niente queste opere ledono quelle che loro ritengono essere i loro legittimi diritti. La solidarietà, per tanta gente, è competenza solamente del prete e della Chiesa, della quale pare che loro siano parte, ma in questo caso i vicinanti battezzati, cresimati e sposati in chiesa, non sono essi più Chiesa ma altro, quando hanno qualcosa da rivendicare o che pensano di subire.

Una volta tanto mi permetto di fare alcuni esempi, nella speranza che possano destare la coscienza di certi cristiani da registro dei battesimi e non altro.

Quando ero in parrocchia:

  • Guai se i ragazzi giocavano al pallone, gridavano o mettevano le biciclette davanti alle case dei vicini. Sembrava che i ragazzi fossero figli del prete e non i loro figli.
  • Guai se il coro alla sera usciva dalle prove conversando ad alta voce.
  • Le campane sembravano togliere il meritato riposo ai residenti.

Giunto alla pensione:

  • Guerra contro il “don Vecchi uno e due”. Pareva che i vecchi turbassero il viale don Sturzo.
  • Rifiuto dei magazzini, perché portano la poveraglia in quartiere.
  • Parrocchia e comitato contro il “don Vecchi”, che avrebbe profanato il verde attualmente destinato ai bisogni fisici dei cani.
  • Opposizione quando si era pensato di restaurare la vecchia cascina, con invito alla stampa e dimostrazione popolare.
  • Proteste quando si taglia l’erba perché il rumore disturba la quiete pubblica.
  • Il “don Vecchi” è causa dell’invasione dei topi (pensare che è l’unico ad avere un contratto di deratizzazione!).
  • Ora gli alberi intasano i tombini ed i cassonetti ammorbano l’aria dei palazzi vicini.
  • A Campalto denuncia perfino perché si deprezzano gli edifici del vicinato, quando il “don Vecchi” è l’unico edificio di pregio della zona.

Potrei continuare la litania. Dopo secoli di prediche sulla carità, par che certi fedeli siano convinti che questo comandamento valga solamente per la Chiesa fatta da altri, mentre essi, in pratica, si comportano come se non fossero parte della Chiesa e non avessero l’obbligo di essere solidali col prossimo più fragile.

Questo comportamento talvolta mi provoca rabbia e senso di rivalsa e, talaltra, amarezza. Mi auguro che il Signore mi aiuti a porgere l’altra guancia, ma rimane il fatto che le percosse rimangono: cattiveria ed egoismo!

Sto scoprendo don Pierluigi Piazza

In occasione del mio recente compleanno gli amici, che sono fin troppo cari con me, che pur coltivo poco le amicizie e che spesso sono scorbutico, tra l’altro mi hanno regalato parecchi volumi che han pensato potessero interessarmi.

Io sono veramente grato perché ogni segno di attenzione mi fa bene e perché talvolta soffro di solitudine ideale. Sono più grato ancora a chi mi regala dei libri perché per me le riflessioni altrui sono un nutrimento dello spirito e spesso, in positivo o in negativo, un pungolo per una ricerca sempre più approfondita. Purtroppo sono terribilmente in ritardo con la lettura. Gli impegni ordinari mi rubano tanto tempo, per cui me ne resta poco per leggere.

La gente, giustamente, pensa, quando sceglie un libro per un mio regalo, a qualcosa che riguarda la Chiesa, il sacerdozio, la fede, ed ha ragione perché questi argomenti sono legati al mio servizio all’interno della Chiesa. La gamma, però, di questa letteratura, è vastissima, perché va dalla teologia classica alle più avanzate testimonianze.

Tra i libri che mi sono stati regalati quest’anno, a fiuto ne ho scoperto uno che ha stuzzicato la mia attenzione e la mia curiosità. Si tratta di una specie di autobiografia sui generis, di un prete friulano, un prete certamente anticonformista, libero e radicale, ma profondamente amante di Dio, di Gesù, della Chiesa. Quest’amore appassionato lo rende intransigente, perentorio nel volere, e forse nel pretendere, una conversione profonda della Chiesa al messaggio di Gesù.

Don Pierluigi Piazza – questo il suo nome – è certamente un prete scomodo, uno di quei preti che rompono le uova nel paniere ai colleghi benpensanti, amanti del quieto vivere, ossequiosi della tradizione e, sotto sotto, desiderosi di qualche titolo ecclesiastico, osservanti dei canoni e perciò sono degli autentici rompicapo per i loro vescovi che devono tenere assieme un gregge tanto variegato e sono costretti spesso a dare un colpo alla botte ed uno al cerchio.

Spesso questo tipo di preti rompono, sbattono la porta ed appendono al chiodo la tonaca, quando la hanno, ma quando veramente hanno buon senso ed amore a Dio e ai fedeli, fanno la fine di don Milani e, come profeti scomodi, vengono mandati al confino; poi però, dopo morti, sono riesumati come la ricchezza più autentica della comunità cristiana (vedi ancora don Milani e don Mazzolari).

Non ho ancora letto tutto il volume ma mi pare che, pur inviandolo in un piccolo paese tra le montagne del Friuli, il vescovo di Udine sia stato saggio e tollerante permettendo a questa voce certamente scomoda ai più, di continuare la sua testimonianza – almeno per me – profetica.

C’è bisogno di ideali, non di compromessi!

Io ho avuto un rapporto normale con monsignor Pizziol, prima vicario generale, poi vescovo ausiliare ed infine amministratore apostolico, mansione che egli ha ricoperto durante i lunghi sette mesi della sede vacante dopo il trasferimento del cardinale Scola a Milano. Ho sempre ritenuto questo monsignore una persona intelligente, di buon cuore, un prete che ha fatto il suo dovere secondo i canoni di Santa Romana Chiesa, ossequiente alle norme e alla tradizione.

Con un po’ di sorpresa l’ho visto eletto alla sede della grande diocesi di Vicenza, un tempo serbatoio di voti per la Democrazia Cristiana e di vocazioni alla vita religiosa.

Penso che sarà un buon vescovo, che procederà sulla via della tradizione, che però non sarà né profeta né un vescovo della Chiesa nuova che potrà guardare al domani con coraggio e spirito autenticamente innovativo, se non rinuncerà ad alcuni suoi atteggiamenti verso i suoi preti.

Io, nei suoi riguardi, ripeto, nutro stima, affetto e pure riconoscenza per avermi elargito, pur dopo mille insistenze, un contributo di centomila euro per il “don Vecchi” di Marghera, ma per il bene che gli voglio, spero che nella sua attività pastorale cresca e cambi almeno su due fronti.

E vengo al pratico. Quando mi mancavano poche settimane alla pensione, non avendo mai messo da parte nulla per me, avendo impegnato ogni provento per la parrocchia, da uomo di poca fede gli chiesi in che cosa sarebbe consistita la mia pensione e se essa mi avrebbe permesso di vivere la vecchiaia, pur poveramente. Con mia sorpresa e delusione, si meravigliò alquanto che non avessi messo da parte il denaro per la mia vecchiaia come fan tutti.

Non m’è parso incoraggiamento alla generosità e alla fiducia nella Provvidenza, anche perché il cardinale Cè mi aveva detto: «Non preoccuparti, continua ad operare per la tua comunità perché la diocesi si farà carico di ogni eventuale difficoltà».

Il secondo punto grigio è stata una lettera con la quale ha cercato di sanare il contenzioso fra due preti: uno che voleva promuovere una struttura per anziani in perdita di autonomia ed un altro che, una volta ancora, vi si è opposto per motivi per me solamente banali. Ebbene, in questa lettera, il vescovo ha tentato di pacificare il primo e il secondo, dando loro lo stesso peso, sebbene il primo con l’intera vita ha pensato ed operato per la povera gente, mentre il secondo si è adoperato per costruirsi la villetta per il tempo della pensione.

Va bene adoperarsi per la pace, però credo che non si possa per questo motivo dire che il bianco è grigio e dello stesso colore grigio è anche il nero. A mio modesto parere il vescovo deve indicare con onestà ciò che merita consenso e ciò che non lo merita. La gente e i preti han bisogno di ideali netti ed avanzati, non di compromessi per un benismo di comodo.

Attenzione a non negare il significato ed il perché dell’esistenza dell’uomo sulla terra!

Qualche settimana fa ho celebrato un funerale. Purtroppo, per via del comportamento furbastro e poco corretto del titolare di una delle agenzie di pompe funebri della città, io ero totalmente inconsapevole di ciò che era successo prima. Questo funerale infatti, all’ultimo momento, era stato disdetto da un mio collega perché era venuto a sapere dell’intenzione dei parenti della defunta di spargere le ceneri della congiunta in laguna.

Io sono venuto a sapere per caso di questo rifiuto soltanto a poche ore dal momento del funerale per cui avevo concordato l’orario. Non mi è parso quindi giusto mettere in difficoltà quel povero marito che, per la seconda volta, avrebbe dovuto rimandare le esequie, dopo che per mesi aveva assistito alla via crucis di sua moglie prima della morte.

Confesso che anche se avessi conosciuto l’intenzione di questa, per me insolita sepoltura, molto probabilmente avrei comunque celebrato il rito religioso del commiato. Primo, perché purtroppo non conoscevo la legislazione ecclesiastica in merito alla dispersione delle ceneri. Secondo – e questo è un po’ più grave – perché non mi pare che certi uffici della curia vaticana debbano fare da padreterni anche su argomenti marginali e tanto opinabili.

Le cose sono andate così, ma proprio l’indomani sono usciti sulla stampa gli orientamenti della Chiesa al riguardo: proposte e consigli che mi sono parsi rispettosi della libertà dei fedeli, saggi e, quindi, opportuni. La conservazione delle ceneri in un luogo adatto può facilitare la memoria, il suffragio, ed aiutare a recuperare la testimonianza dei nostri cari defunti. Quindi plaudo a questi consigli che non sono affatto precettivi e non mettono a disagio anche chi la pensa diversamente.

Proprio questa mattina un altro impresario di pompe funebri mi ha indicato il luogo, interno al nostro cimitero, che la Veritas ha approntato per la dispersione delle ceneri di chi non vuol metterle in un loculo. Questo “cimitero nel cimitero” è costituito da alcuni metri quadrati di ghiaia di fiume all’interno del piccolo e brutto giardino vicino al piazzale d’ingresso. Nulla di più banale, anonimo ed insignificante, senza un fiore, una scritta, né un segno qualunque. Sembra che dica con Sartre, il pensatore ateo del nostro tempo: “La vita è un nervo nudo che si contorce per il piacere o per il dolore, e nulla più”. Questa la negazione assoluta del significato e del perché dell’esistenza dell’uomo sulla terra.

Io seguirò ed appoggerò in ogni modo i consigli dei nostri vescovi perché, togliendo alla vita speranza e futuro, essa rappresenterebbe una beffa assurda.

Mi pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici sia più che un diritto!

Mi sono fatto una cattiva fama presso gli uffici del Comune e forse presso qualche assessore. Pare che mi ritengano una persona che pretende, che forse voglia essere privilegiato e che non abbia pazienza di aspettare che le pratiche facciano il loro corso.

Più di una volta l’architetto Zanetti, che da alcuni anni è il professionista a cui ci siamo affidati per progettare il “don Vecchi” di Marghera e di Campalto, di fronte alla mia insofferenza per le lungaggini del Comune, mi confidò che in città godo della stima e della protezione di molte persone, ma ve ne sono altre che non mi sopportano e che non approvano il mio modo di rapportarmi con l’amministrazione comunale.

Qualche giorno fa (relativamente a quando è stato scritto questo intervento, NdR) ho spedito al Comune e all’Anas una lettera, con tanto di protocollo, sulla questione della messa in sicurezza dell’uscita ed entrata da via Orlanda al Centro don Vecchi di Campalto. Per la settantina di anziani ottantenni il salire e lo scendere dall’autobus che da Campalto li porta al “don Vecchi” e viceversa, rappresenta una vera roulette russa, tale è il pericolo di via Orlanda dove c’è un traffico estremamente intenso e veloce proprio lungo il rettilineo antistante il Centro.

Ho chiesto personalmente all’assessore Ugo Bergamo, responsabile della viabilità e all’ingegner Entimino Mucilli, capo del compartimento dell’Anas una pista ciclopedonabile che congiunga il Centro a Campalto. Ambedue si sono dichiarati attenti e disponibili ma impossibilitati a finanziare la pista perché privi di fondi.

S’è concordata allora una soluzione tampone per una parziale messa in sicurezza dell’ingresso ed uscita, in attesa che questi enti possano disporre delle somme necessarie. Il costo della soluzione tampone se la sobbarca per la maggior parte la Fondazione dei Centri don Vecchi, pur non spettando ad essa questo compito.

Sono passati ben cinque mesi dall’inaugurazione del Centro, senza che si sia arrivati ad alcunché per la mancanza dei permessi. Io mi sono recato in queste due amministrazioni: locali lussuosi e confortevoli, fattorini eleganti e numerose segretarie, un apparato veramente consistente, ma per quel che mi riguarda: nessun risultato.

So che il Comune ha quattromilaseicento dipendenti ed è la più numerosa azienda della zona e l’Anas non so quanti, comunque ha un’organizzazione efficiente per raccogliere denaro. Un dipendente Anas, non appena è apparsa sulla facciata del nostro edificio di Campalto la scritta “Centro don Vecchi”, ci ha minacciato una multa; abbiamo pagato la tassa, ma è arrivato cinque mesi dopo il permesso di scoprire la scritta.

Mi renderò forse ulteriormente antipatico, ma qualche giorno fa ho ribadito, con lettera raccomandata, che se succedesse il sia pur minimo incidente, partirebbe immediata una mia denuncia alla magistratura. A me pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici, che i cittadini pagano, non sia un diritto, ma un dovere!

Riflessioni di compleanno

Il quindici di marzo, giorno tragico per Cesare, è un giorno preoccupante anche per me, perché quel giorno ho compiuto 83 anni. Non mi par vero, ma è così!

Ho ricevuto un sacco di auguri, di fiori, di abbracci, di regali e di complimenti: perché porto bene i miei anni, perché non sembra che li abbia e perché, a detta dei più, sono ancora necessario. Tutte care bugie! Ho gradito quanto mai ogni segno di affetto, anche il più piccolo. Mi ha fatto bene sentire tanta simpatia, tutto questo mi ha incoraggiato a far del mio meglio, comunque ho preso ulteriore coscienza della mia età avanzata, del fatto che ho un sacco di acciacchi e soprattutto che rimango in piedi solamente perché i medici mi sorreggono con tanti “tutori” che oggi chiamano medicine.

La mia vita è ora un po’ fittizia, artificiale e, in parte, bionica. In questi giorni che hanno ruotato attorno al mio compleanno, più volte mi è venuta in mente la trama di un bel film che ho visto qualche anno fa. La vicenda della pellicola riguarda la vita e le imprese guerresche del Cid, il famoso condottiero della Spagna al tempo dell’invasione dei “mori” nei riguardi della cristianità.

A quei tempi l’Islam tentava di espandersi negli stati cristiani per mezzo delle armi, mentre ora sta invadendo l’Europa imponendo la cultura e la religione della mezza luna in maniera pacifica, ma con più efficacia e maggiori risultati.

Il leggendario guerriero che guidava in maniera irruente le cariche della cavalleria delle schiere cristiane, fu colpito a morte da una freccia nemica. La sua morte, però, fu tenuta nascosta ai combattenti della croce per non scoraggiarli, essendo il Cid il comandante leggendario che era solito guidarli alla vittoria.

Di fronte ad una battaglia che doveva essere risolutiva, i luogotenenti delle schiere cristiane issarono sul cavallo il cadavere dell’intrepido condottiero e con un marchingegno lo caricarono in groppa al destriero tenendolo ben dritto sulla sella e poi frustarono il cavallo per condurre i cavalieri alla carica definitiva al grido: “Per la croce, con il Cid!”

Ho l’impressione che ora, in certe scaramucce nostrane per realizzare il “don Vecchi 5”, io sia ridotto a un poco più del Cid di Spagna, ossia sia rimasto un simbolo, ma solamente un simbolo che ricorda tante battaglie per la solidarietà e fortunatamente anche con qualche piccola vittoria.

Se, nonostante tutto, mi portano avanti come una bandiera, anche se in maniera artificiosa, per ottenere qualche risultato positivo, sono contento anche di questo, se posso essere utile alla causa.

Chi vuole cambiare veramente questo paese?

Spero che la descrizione che i giornali fanno della nostra società non corrisponda al vero, ma che per motivi di interesse economico forniscano di essa le notizie peggiori così da darne una visione distorta e pessimistica.

Di certo, quando al mattino do una sfogliata al quotidiano della nostra città, rimango sgomento, inebetito, frastornato e non riesco a trovare appigli per accettare i comportamenti e le scelte non solo delle classi dirigenti, ma anche dei comuni mortali.

Stamattina ho letto titoli veramente desolanti e sconvolgenti. Mi soffermo però su uno dei più “confortanti” che ci riguarda più da vicino e che apparentemente è presentato come qualcosa di positivo che vuole bonificare la politica locale.

Il Gazzettino informava che in Regione s’è stabilito che assessori, consiglieri e funzionari, quando vanno in missione per i motivi più diversi, avranno solamente 50 euro come rimborso per il pranzo o la cena che, per motivi di servizio, devono fare al ristorante.

Non so quanto potessero addebitare all’amministrazione prima di questa “radicale riforma”, comunque mi fermo su questo argomento per una riflessione. Al “don Vecchi” chi lo desidera, può pranzare al “senior restaurant” al costo di 5 euro (cinque). Il pranzo comporta un primo più che abbondante, un secondo con contorno (purè per chi lo vuole, insalata, carote e pomodoro), il pane naturalmente, un frutto oppure lo yogurt o il dolce. Questo pranzo non solamente risponde alle esigenze di una nutrizione necessaria, ma moltissimi anziani si portano dietro dei contenitori per avere di che cenare alla sera.

Devo aggiungere che però non sono moltissimi i residenti che possono permettersi questo lusso del ristorante, perché quella settantina di inquilini che hanno una pensione di cinquecento euro al mese, di certo non possono permettersi di spenderne 150 solamente per il pranzo.

Qualche giorno fa poi ho letto che l’ex amministratore dell’ex partito della Margherita, metteva in conto 180 euro solamente per una pastasciutta! Questa è la nostra società!

Quando mi chiedono se sono di destra o di sinistra, non rispondo, o meglio rispondo: «Sono per chi vuol cambiare realmente, ma finora non ho assolutamente trovato chi lo voglia!». Finché un partito dà per scontato che un dipendente da un ente pubblico debba mangiare una quantità di cibo dieci volte più di un cittadino normale, non appoggerò di certo quel partito.

Un uomo che ha raggiunto Dio per sentieri più faticosi

Qualche giorno fa, accompagnato da uno zio che mi conosce bene e che molto probabilmente le ha consigliato che fossi io a celebrare il commiato di suo padre, venne al “don Vecchi” una signora per darmi informazioni sulla vita e sulla personalità del suo caro genitore morto il giorno prima.

La cosa mi fece molto piacere perché abbastanza di frequente sono io a telefonare perché mi si dia almeno un abbozzo della persona che lascia questa terra. Da questa persona mi si chiese di dare l’ultimo saluto e di presentarla al buon Dio, accompagnandola con la misericordia che Gesù le offre col sacrificio della croce. Oggi spesso si corre il rischio che il commiato si riduca ad una cerimonia o ad un rito religioso che però non diventa un evento che coinvolge, che apre il cuore alla speranza e che prospetti la nuova vita.

Chiesi dunque qualche notizia generica per inquadrare il fratello che ci ha preceduto in Cielo, poi, fatte alcune domande di carattere generale, finii per fare la domanda più importante: «Era credente suo padre?» Vidi subito che la mia interlocutrice cominciò a sentirsi in imbarazzo, quasi temendo di farmi un dispiacere o di dire un qualcosa di non rispettoso per suo padre. Con fatica rispose: «Forse no». Al che tentai di precisare la distinzione fra praticante e credente, cosa poco chiara per molte persone, ma poi capii che il suo “no” riguardava proprio la fede.

Lei sentì subito il bisogno di soggiungere che era buono, che aveva sani principi morali, che amava l’arte, la vita, la terra, che s’interessava un po’ di tutto e leggeva avidamente quanto lo potesse arricchire ulteriormente.

Mentre continuava su questo tasto, quasi a tentare di convincermi che era bene celebrare il commiato in chiesa alla luce della fede, mi si affacciava sempre più nitidamente la tesi del Cronin nel romanzo “Le chiavi del Regno”, ove si dice che c’è una strada diretta, facile e tranquilla, che porta al Regno, ma può avere le chiavi per aprire la sua porta anche chi imbocca una complanare, una strada sterrata o perfino un sentiero faticoso.

E pensai che molto probabilmente quel mio fratello aveva conosciuto ed amato Dio per quello che è possibile ad un pover’uomo e l’aveva amato attraverso l’arte, la bellezza; aveva insomma battuto questo sentiero faticoso per arrivare alla strada del Padre.

Il bel romanzo dell’autore inglese non offre di certo la certezza della Bibbia, ma a me offriva una chiave di lettura che mi metteva il cuore in pace e mi aiutava ad affidare quest’uomo alla misericordia di Dio, sicuro che il Signore aveva continuato ad amarlo così com’era, anche se alla domenica non era andato a messa e alla sera non aveva recitato il “credo”.

Il cardinale Marco Cè

Anche quest’anno mi sono giunti per tempo gli auguri del cardinale Cè, in occasione del mio ottantatreesimo anno di età. Pubblico il testo, da lui scritto a mano, per testimoniare la finezza e la nobiltà d’animo del nostro vecchio Patriarca:

06.03.2012:
Caro don Armando, si avvicina il tuo compleanno; auguri! Alla nostra età gli anni corrono.
Vedo con piacere che sei sempre sulla breccia, ringraziamo il Signore.
Con affetto,

Marco Cè

Sono certo che il Cardinale non manda solo a me gli auguri, ma li invia a tutti i sacerdoti del patriarcato, e non lo fa solo ora che praticamente la sede è vacante, con la partenza del cardinale Scola e il fatto che il nuovo Vescovo, Francesco Muraglia, non ha ancora preso possesso della diocesi, ma ha sempre mandato gli auguri a tutti i suoi preti fin da quando è sbarcato a Venezia tanti anni fa.

Il fatto poi che io non sia mai stato un prete solito a frequentare né la curia né le riunioni, che non abbia mai avuto un atteggiamento remissivo ed ossequioso, ma che anzi abbia sempre manifestato il mio pensiero e talvolta anche in maniera critica e tagliente, dà la misura della finezza d’animo, della signorilità e dell’umanità di questo vecchio prete che la diocesi di Crema ci ha donato e che s’è talmente legato a noi da rimanere a Venezia anche quando ha finito la sua missione pastorale e quindi poteva tornare alla sua terra. Io ho capito forse troppo tardi la levatura morale e la ricchezza di spirito di questo vescovo umile, remissivo, discreto e quanto mai generoso.

Ogni volta che mi giungono questi attestati di affetto, avverto quasi rimorso per non aver capito per tempo che dono il Signore ha fatto alla Chiesa di Venezia e quindi anche a me in particolare. L’ultima volta che l’ho sentito per telefono fu in occasione dell’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, quando mi disse: «Don Armando, verrei molto volentieri ma le gambe non mi reggono più».

So però che, nonostante questa sua infermità, continua a predicare in occasione dei ritiri e degli esercizi spirituali al Cavallino, dando una sublime testimonianza di zelo apostolico.

In genere io non sono troppo delicato con gli alti prelati, ma devo convenire che ci sono anche oggi dei santi vescovi e che certamente il cardinale Cè è uno di questi, e ciò è una gran grazia del Signore per la nostra gente ma soprattutto per noi preti.

Il nuovo volume del “Diario di un vecchio prete”

I miei collaboratori mi hanno informato che sono pronte le bozze che raccolgono il “Diario di un vecchio prete” dello scorso anno, 2011 e mi hanno chiesto quindi una prefazione. Come il solito non ho voluto scomodare alcuno per una cosa di così poco conto ed ho buttato giù la nota che accludo per dire l’animo con cui consegno per una volta ulteriore le mie riflessioni alla città.

Nota dell’autore
In questo vespero inoltrato della mia lunga vita spesso il mio pensiero e la mia coscienza vanno alle scelte di due grandi personaggi del nostro tempo: il presidente Reagan e il papa Wojtyla.

Il primo, avvertendo l’annebbiarsi della mente e il venir meno delle sue forze, prese coraggiosamente commiato dal suo popolo manifestando pubblicamente la scelta lucida di entrare nel silenzio del profondo mistero che ormai incombeva sulla sua vita.

Il secondo, pur “morto” fisicamente, scelse di rimanere al suo posto per dare testimonianza di fedeltà alla sua Chiesa fino alla fine estrema del suo mandato.

Ho ammirato profondamente entrambe queste due belle figure e le scelte relative, forse per questo vivo in maniera un po’ drammatica il mio tramonto.

Finora ho scelto di fare come il presidente americano. Quando ho avvertito il venir meno delle mie risorse fisiche e spirituali ed ho temuto di non riuscire a guidare con lucidità la mia comunità verso il domani, ho scelto, pur con tanta sofferenza, di lasciare la parrocchia. Lo stesso ho fatto più recentemente con la Fondazione dei Centri don Vecchi, passando la mano ad un giovane prete.

Ora però che il periodico, “L’incontro”, ha sfondato, sta imponendosi all’attenzione della città e sta raccogliendo felici e vasti consensi, mi trovo nel dramma, se continuare a seguire la scelta di Reagan o continuare fino all’esaurimento di ogni risorsa come papa Vojtyla.

Per adesso, con fatica, ho scelto d’attendere ancora un po’, pur “provandomi la pressione” più frequentemente.

Da questa scelta provvisoria nasce questo volume, che perfino nel titolo, “In attesa del giorno nuovo”, vuol dire la consapevolezza della mia fragilità fisica e spirituale e la coscienza della precarietà con cui affronto questi giorni del tramonto, anche se ricco di fiducia e di speranza.

Mi auguro che queste scelta, un po’ difficile, possa rappresentare almeno un punto di confronto per i miei coetanei ed un monito per i giovani a vivere con onestà e nello stesso tempo con generosità e spirito di sacrificio.

Questo volume non rappresenta ancora il mio commiato definitivo dalla città e dalla Chiesa che ho amato appassionatamente, ma di certo vuol dire ai miei concittadini che, pur desiderando che “la morte mi incontri vivo”, sono consapevole d’essere ormai entrato nei “tempi supplementari”.

Quanta gioia dà quest’Incontro!

“L’incontro”, il nostro amato periodico, continua a tirare. In quest’ultimo tempo abbiamo aumentato 150 copie la settimana, pur arrivando alla domenica con “il tutto esaurito”. Il periodico, almeno a livello di piccola rivista di ispirazione religiosa, è senza dubbio il più letto in tutta la città. Penso, senza vanagloria e presunzione, che se anche si facesse la somma di tutti i bollettini parrocchiali della città, “L’incontro” li supererebbe in numero di copie, per non parlare poi dei contenuti.

Tante volte, soprattutto quando mi pesa l’impegno di dirigere il periodico, di seguire la stampa e la sua distribuzione, appoggiandosi tutto l’apparato redazionale, di stampa e di diffusione su supporti di carattere artigianale, e portato avanti solamente da volontari, sarei tentato, tenendo conto dell’età e degli acciacchi, di chiudere. Poi, di fronte a questa crescente richiesta e alle tantissime manifestazioni di gradimento, mi parrebbe quasi di tradire queste attese dei miei concittadini, spegnendo una voce che ormai raggiunge, ogni settimana, migliaia e migliaia di persone che pare leggano tanto volentieri e con profitto questo messaggio semplice ed onesto.

Quando, quasi sette anni fa, lasciata la parrocchia, mi sono ritrovato solo soletto nel mio quartierino del Centro, ho avvertito quanto mai acuta la mancanza del dialogo con la gente, dialogo che per quasi mezzo secolo ho avuto intenso e leale con i mestrini. Allora pensai di sostituire il rapporto diretto e personale “inventandomi” il giornale e soprattutto “il diario”, che partendo dai valori del Vangelo, poteva darmi la possibilità di offrire una catechesi spicciola, un messaggio, almeno una preevangelizzazione.

M’è andata dritta! E la cosa funziona ormai da sette anni, settimana dopo settimana. Ho continuato, nonostante le innumerevoli critiche, le invidiuzze ecclesiastiche, i dissensi che spesso mi hanno amareggiato e ferito.

Comunque, avere a più di ottant’anni, un’assemblea più numerosa della gente che alla domenica affolla un grande campo di calcio, che mi ascolta volentieri e partecipa alla mia ricerca appassionata di verità e di solidarietà, mediante il settimanale, mi ripaga più che abbondantemente e mi spinge a dire ai miei colleghi: «Coraggio, anche oggi è possibile portare avanti la inebriante avventura del Vangelo».

Il buon Dio scrive dritto anche sulle righe storte dall’uomo!

I proverbi contengono tutti almeno una parte di verità; essi infatti rappresentano il buon senso della gente.

Ho letto molti anni fa un proverbio del popolo spagnolo: “Il Signore scrive dritto anche quando le righe sono storte”. Sono ritornato, per associazione di idee, a questa sentenza popolare in occasione dell’opposizione del parroco di viale don Sturzo e di un gruppo di cittadini dello stesso quartiere, gruppo non so proprio quanto numeroso, ma certamente determinato, che si è opposto alla disponibilità dell’amministrazione comunale di concederci un pezzetto del parco antistante al Centro don Vecchi, per costruire una struttura pilota a favore degli anziani in perdita di autonomia.

Non sono riuscito a comprendere la validità dei motivi di questa opposizione, se non rifacendomi a certe mode attuali d’ordine sociale che perseguono certi miti e finiscono per crearsi degli idoli poveri e meschinelli. La zona del viale don Sturzo, anche per il fatto che si sviluppa ai confini della città, quindi in margine alla campagna, di verde ne ha in abbondanza.

Comunque, per non creare beghe e liti che turbano la pace pubblica e danno scandalo alle menti semplici e ingenue, don Gianni, il nuovo giovane presidente della Fondazione dei Centri don Vecchi, non ha insistito presso l’amministrazione comunale e dopo aver fatto proposte intelligenti e generose al parroco e al cosiddetto “comitato”, ha rinunciato, senza minacciare rivalse, anzi dicendosi disponibile a favorire anche gli anziani della zona, come la Fondazione Carpinetum ha già fatto finora.

All’atteggiamento morbido e comprensivo della Fondazione, l’assessore Micelli ha fatto una proposta alternativa, che io giudico quanto mai intelligente e vantaggiosa.

L'”assessore tecnico”, non condizionato da prospettive elettorali, ci ha offerto un vasto terreno, già attrezzato con parcheggio e con tutti i servizi di urbanizzazione primaria e secondaria, alla periferia di Mestre denominata “Arzeroni”.

In quell’area, ora marginale alla città, ma che molto probabilmente in un prossimo futuro sarà migliorata dal fatto che la città non può estendersi se non in quella direzione, potremo impostare un progetto di più largo respiro che può prevedere anche altre strutture di servizio e socialmente non solo utili ma necessarie.

Il Manzoni, saggio e cristiano, se dovesse scrivere la storia di questa vicenda, farebbe dire al suo protagonista, Renzo Tramaglino: «La c’è la Provvidenza!» Io non posso che dargli ragione constatando che il buon Dio “ha scritto dritto anche sulle righe storte”, però a chi ha storto le righe rimane la responsabilità di averlo fatto.

Una diversa lettura della preghiera umana a Dio

Io sono fortunato anche da questo lato, perché gli amici, leggendo le riflessioni vagabonde ed irrequiete del mio diario, mi regalano, abbastanza frequentemente, dei volumi che alimentano la mia appassionata ed insaziabile sete di “verità”.

Gli amici sanno di certo dei miei rapporti altalenanti tra stima e rifiuto della teologia del nostro tempo: lo espressi chiaramente quando parlai di Adriana Zarri, l’eremita appassionata di Dio e della libertà, morta lo scorso anno.

Ho dedicato più di un intervento de “L’incontro” al pensiero e alle scelte di questa donna intelligente, innamorata di Dio, ma nel contempo, “cane sciolto”, libera e critica nei riguardi di tutto l’apparato ecclesiastico, spesso artificioso e soffocante.

Lo scorso anno ho letto con interesse l’ultimo suo volume, che porta un titolo stuzzicante ed non emblematico: “L’eremo non è un guscio di lumaca”. Recentemente, invece, ho pure letto un lungo articolo su “Vita pastorale”, dedicato a questa donna ricca di spiritualità, ma guardata con sospetto, e talora con rifiuto, dai “cristiani benpensanti”.

Pensavo di aver chiuso con questa intellettuale dello spirito, ma un amico di data recente m’ha regalato un volumetto veramente interessante, uscito recentemente, dal titolo: “Tutto è grazia”. Il volume riporta l’ultima intervista di questa feconda scrittrice a Domenico Budali. Questo testo ha certamente il merito di essere discorsivo e quindi più scorrevole dell’ultimo volume, estremamente concettuale e puntiglioso nella ricerca del divino nella vita.

Appena ho intrapreso la lettura, ho cominciato subito a sottolineare dei passaggi che aprivano alla mia anima spiragli di luce, che mi offrivano visioni spirituali quanto mai interessanti.

Desidero far dono ai miei amici di un passaggio, ma credo che sentirò il desiderio di tornarvi ancora.

A proposito della preghiera la Zarri afferma: “Essa non serve a Dio, ma a noi. Così la festa non è fatta per Iddio, è fatta per noi; i comandamenti non sono fatti per Iddio, sono fatti per noi. Pregare quindi non è qualcosa per `far felice il Signore’, ma è un tentativo di conversione personale, il tentativo di cambiar mente e modo di pensare, d’essere più lucidi e sereni”. Ed ancora insiste su questo argomento: “Quando chiediamo qualcosa al Signore, ci è sempre dato, anche se non c’è dato quello che a noi sembra cosa giusta”.

La preghiera, vista da questa angolazione, è quindi tutt’altra cosa che presentare in modo superficiale una lista di richieste di dubbia utilità.

Questa lettura del pregare non è cosa proprio di poco conto.

Resurrezione della natura!

Negli Stati Uniti, Paese all’avanguardia come democrazia, progresso civile e vita sociale, vige ancora, purtroppo, la pena di morte. I radicali, con una notevole campagna di sensibilizzazione, sono riusciti a far firmare a più di un centinaio di Stati sovrani, una convenzione per l’abolizione della pena di morte. Gli americani, purtroppo, sono uno tra i pochi grandi Paesi che non vi hanno aderito. Questa è una grossa macchia nera nella vita civica di questo popolo.

Ricordo, una decina di anni fa, che un certo Cesman, che aveva commesso un grave delitto, fu condannato a morte e i mass-media descrissero in maniera minuziosa le ultime ore di questo condannato. Ricordo di aver partecipato, col fiato sospeso, agli ultimi tentativi, risultati inutili, per salvarlo. Il boia di Stato lo ammazzò con una iniezione letale.

La descrizione fu tanto puntuale da coinvolgermi fino in fondo in questo dramma; mi sembrava di partecipare all’attesa spasmodica con cui il condannato aveva vissuto ogni minuto, ogni sensazione ed ogni possibilità di percepire il respiro della vita.

Ebbene, lo scorso anno, percependo fino in fondo il passare degli anni, la vecchiaia e il tempo del prossimo “passaggio”, ho vissuto con tanta avidità la primavera, pensando che forse sarebbe stata una delle ultime volte che avrei potuto godere della bellezza soave ed inebriante di questa stagione dolcissime ed incantata.

Ho guardato con passione il prato che ha cominciato pian piano a rinverdire, le prime gemme sugli alberi, le miti e care margherite del prato, i fiorellini di un celeste delicato e gentile, mi sono incantato di fronte al volteggiare agile e flessuoso della danza degli uccelli nel cielo azzurro, ho assaporato il tepore del sole luminoso, ho scrutato la vita che cominciava a germogliare nei prati del “don Vecchi”, la mimosa gialla in fiore, le pensé che han cominciato ad offrire le corolle dai colori intensi e ricchi come la tavolozza di un pittore, i duemila tulipani che sono usciti coraggiosi dalla terra e di giorno in giorno s’affrettano a dipingere le aiuole dei loro fiori che sbocciano su uno stelo sottile.
Com’è bella primavera!

Dal primo mattino fino al tramonto dei giorni che si allungano sempre più, non faccio che inebriarmi di questa resurrezione della natura. E’ da tanto che ho voglia di primavera! E’ da tanto che sogno ad occhi aperti nella speranza che sia primavera per tutti gli uomini e le donne, per i vecchi e per i bambini, per la società, per la Chiesa e il mondo intero. La mia bramosia di bellezza, di vita nuova, di tepore e di colore si fa certamente intensa perché cosciente di vivere, nel migliore dei casi, le ultime primavere della mia esistenza.

Mi viene da ripetere con sant’Agostino: “Tardi, Signore, ho scoperto il Tuo sorriso e la Tua benevolenza nella dolcezza della natura”.