Adriana Zarri

Qualche mese fa è morta Adriana Zarri. Non credo che il gran mondo la conosca, un po’ di più è conosciuta dai cattolici del dissenso, perché questa studiosa della Sacra Scrittura e questa cristiana militante scriveva su “Il manifesto” e condivideva molte delle tesi culturali della sinistra ed era molto critica nei riguardi delle prese di posizione delle gerarchie della Chiesa.

In occasione della morte, anche i periodici di ispirazione cristiana hanno liquidato velocemente la notizia con titoli un po’ guardinghi e con la preoccupazione della riserva: “Adriana Zarri, credente fuori delle righe”.

Io ho letto la notizia con qualche interesse perché più di mezzo secolo fa avevo letto un suo libro sui sacerdoti dal titolo “Servi inutili”, un titolo che si rifaceva ad una affermazione di Gesù, la quale sottolineava la grande verità che solo Iddio è il protagonista della storia, l’uomo semmai ne è un povero strumento. Il volume viaggiava su questa tesi, ribadendo il concetto che il prete è una creatura preziosa e sublime nella misura in cui si fa strumento docile e maneggevole nelle mani di Dio.

Dalla lettura mi è rimasto il ricordo di un testo edificante ed utile, a livello ascetico, per i sacerdoti. Ma dalla posizione ideale di Adriana Zarri a quella con cui ha chiuso la sua giornata umana pochi mesi fa “ne è passata di acqua sotto i ponti”. La Zarri fu una militante cristiana atipica, dura come l’acciaio. Sostenne tesi anche in aperto contrasto con le posizioni della Chiesa cattolica, pur rimanendo integerrima nella sua fede. Scrittrice brillante, ricca di logica, di cultura, ma insieme di poesia e di sentimento, cercò il difficile dialogo con la cultura laica del nostro tempo e, assecondando tesi che il cattolicesimo ufficiale non condivide, riuscì a parlare del suo Dio, tanto amato e ricercato, anche in ambienti assolutamente impermeabili a questo discorso, eppure capaci di donare al mondo attuale, magari incoscientemente, aspetti autentici del volto di Dio.

Una carissima alunna delle magistrali di circa quarant’anni fa ha regalato al suo vecchio ma non dimenticato insegnante, l’ultimo libro della Zarri “Un eremo non è un guscio di lumaca”, in cui essa racconta la sua esperienza di eremita “sui generis”. Sono all’inizio del volume, ma già mi rendo conto che anche “l’altra sponda” possiede raggi di quell’unico sole che illumina un po’ tutti.

Solidarietà (non sempre disinteressata)

Qualche giorno fa si sono presentate ai magazzini “San Martino” tre suorette piuttosto anziane per chiederci due tipi di indumenti. Gestendo queste suore le docce per i poveri a Venezia, ci dissero che avrebbero avuto bisogno di biancheria intima, magliette e mutande, perché la gente che chiedeva la doccia aveva addosso indumenti sporchi ed inutilizzabili.

So da sempre che i poveri da strada fatalmente adoperano la soluzione “usa e getta”. Come potrebbero fare altrimenti, quando non hanno un luogo dove vivere, dormire e provvedere alle proprie pulizie? Pur praticando l’associazione che gestisce i magazzini “San Martino”, la dottrina che niente deve essere dato per niente e che il piccolo obolo richiesto viene devoluto totalmente per far sorgere altre strutture di servizio e al fine di creare una mentalità solidale – anche i poveri devono aiutare i più poveri – di fronte alla richiesta di aiuto a favore di chi non ha proprio nulla, non battemmo ciglio e consegnammo quanto richiesto a titolo assolutamente gratuito.

La seconda richiesta invece mi ha messo in crisi. Le suore chiedevano vestiti per i profughi del nord Africa che il governo sta seminando un po’ in tutte le regioni e un certo numero dei quali è giunto anche a Venezia. Ho letto recentemente e con sorpresa che per lo Stato italiano l’accettazione e il mantenimento di un profugo di questo genere viene a costare complessivamente 250 euro al giorno. Da ciò deduco che gli enti civili e religiosi che accettano di ospitare questi profughi non fanno un’opera buona, ma un affare! Un qualcosa come avviene per le comunità dei tossicodipendenti!

Ho visto in televisione il complesso di San Patrignano ed ho compreso che quella è una vera holding, non un istituto di beneficenza! Per i ragazzi ospitati lo Stato paga una retta e nello stesso tempo la comunità “redime” il tossico facendolo lavorare gratis. Alla richiesta delle candide, e certamente anime belle, delle suore risposi che l’ente che ha accettato i profughi, quale esso sia, deve destinare qualcosa anche per chi provvede alle loro vesti, perché la solidarietà è una cosa splendida, quando la si fa in proprio, non quando la si fa fare a gli altri, perché è giusto essere “buoni, ma non tre volte buoni!”.

Cristo ci insegna a partire dal bisogno della gente: si dovrebbe fare sempre!

“I miei sentieri non sono i vostri sentieri”, la Bibbia fa dire a nostro Signore.

Spessissimo, se non sempre, la cultura corrente non s’accorda col pensiero del Signore, anzi spesso è antitetica. Il guaio però è che i giudizi dell’opinione pubblica appaiono sempre vincenti perché più suadenti. I fiori del male son belli, smaglianti, piacciono!

Ricordo don Franco De Pieri, il prete mestrino che si occupa dei drogati. Un giorno, parlando ai genitori, affermava con convinzione: «Ricordatevi che la droga non è qualcosa di nauseabondo o ributtante come l’olio di ricino, la droga piace. Per questo motivo è difficile, per noi poveri uomini, accettare tranquillamente e con entusiasmo le soluzioni che Cristo propone ed è ancora più difficile per noi poveri preti convincere che Gesù ha ragione, anche se propone soluzioni che impegnano.

Pensavo a queste cose, qualche giorno fa, dopo aver letto al mio piccolo gregge che si raduna ogni giorno nella chiesa del cimitero, l’episodio della moltiplicazione dei pani, episodio che, tutto sommato, concretizza questa contrapposizione. Ad intorbidare le cose poi s’aggiungeva che a sostenere la tesi, secondo Dio perdenti, erano uomini di Chiesa e non di poco conto, perché erano gli stessi apostoli di Cristo.

Dicono a Cristo: «Manda a casa questa moltitudine di gente perché ha fame». Gesù ribatte: «Provvedete voi!» Immediatamente fa capolino la mentalità ragionieristica: «Ci vorrebbero fondi che non abbiamo; si, c’è qui un ragazzino che ci mette a disposizione la merenda che la sua mamma gli ha preparato, ma questo è qualcosa di insignificante.»

Gesù ordina: «Fateli sedere; si rivolge a Dio e poi fa distribuire il pane e il pesce che non solo bastano, ma sopravanzano.

Ecco lo scontro delle tesi: la ragioneria umana e il sindacato discutono su come distribuire equamente una ricchezza che non c’è, ossia partono da quello che hanno, mentre Cristo parte dal bisogno della gente e insegna che in ogni modo è doveroso provvedere. Partendo da questa premessa accetta anche l’insignificante apporto del ragazzo, si rivolge a Dio, dà il necessario e recupera il rimasto.

Credo che il testo della moltiplicazione dei pani dovrebbe essere adottato alla Bocconi e in tutte le facoltà di economia e commercio come testo ufficiale.

L’impegno deve tener conto soprattutto del bisogno e non del conteggio ufficiale della cassa. Umilmente credo che, se partendo per l’avventura dei Centri “don Vecchi” avessi contato i soldi che avevo in tasca e non avessi invece preso coscienza delle necessità dei nostri anziani, non avrei messo neppure la prima pietra. La logica di Dio è sempre quella vincente, anche se rifiutata dai più grandi economisti del nostro mondo.

Un’esperienza positiva al pronto soccorso de L’Angelo

Le mie esperienze sul mondo della sanità sono fin troppo frequenti. Non ne ho terminata una che già la successiva è alla porta.

Non ritorno sulle esperienze pregresse, perché sono fin troppe. Sento però di dover mettere qualche riga di nero su bianco sull’ultima, su quella, purtroppo, ancora in corso. Lo faccio soprattutto per fare una giusta e doverosa riparazione.

Più volte, nel mio vagabondaggio sulle pagine di questo diario, ho accennato alla delusione che da un paio di anni sto provando in merito al nuovo ospedale. “L’Angelo” è certamente la più bella struttura architettonica della nostra città. Il nuovo ospedale di Mestre è magicamente bello, nella sua collocazione fra le collinette trapunte dai giovani cipressi e i laghetti, piccole perle d’acqua. E’ bello per la sua struttura ardita, ma nello stesso tempo rasserenante, perché coniugata in maniera magistrale col cielo, col verde delle piante. Offre un’atmosfera calma ed intima.

Nonostante questo, però, s’è attirato e sta ancora attirandosi critiche a valanga. Non sto qui, per carità patria, ad enumerarle. Ce n’è una però, una dominante assoluta, incontrovertibile: l’affollamento e le attese al pronto soccorso. Io ne sono testimone perché, due volte la settimana, ci vado per portare “la buona stampa”.

Qualche giorno fa ci sono andato una volta ancora non da visitatore ma da paziente. Una caduta da vecchiaia mi ha costretto a rivolgermi al pronto soccorso dell'”Angelo”. Ho atteso un quarto d’ora, sono stato visitato da un giovane medico, preparato, cortese, che ha fatto la sua diagnosi, ha chiesto un consulto di un collega neurochirurgo per implicazioni alla spina dorsale, altro professionista preciso e puntuale, m’hanno fatto una schermografia. Tutto l’apparato formato da medici, infermieri, tecnici e portantini mi è parso scorrevole, efficace e puntuale. Finita la trafila è arrivata l’ambulanza con i volontari della croce verde, persone simpaticissime e semplicemente meravigliose, che con cura ed attenzione a non frantumare la mia fragilità, m’hanno deposto sul mio letto.

Posso affermare che nulla, proprio nulla si sarebbe potuto far meglio e più velocemente. Certamente c’era, assieme a me, un’altra quarantina di “infortunati” che attendevano tutto quello che era stato fatto a me. Mi rimane il dubbio che tanta premura sia stata dovuta al fatto di essere un raccomandato di ferro per gli appoggi su cui posso contare e sulla mia “fama”. Questo però è solo un mio dubbio!

Il Vangelo non cambia, le parole con cui esprimerlo sì

Può darsi che in qualche altra occasione abbia raccontato una mia esperienza di tempi ormai molto lontani. A noi vecchi capita spesso di dimenticare e di ripeterci. Questo non da oggi, se già a Roma circolava la massima che “gli anziani hanno diritto di dimenticarsi”. Confesso che io mi avvalgo molto di frequente di questo diritto.

Ebbene, ero agli inizi del mio sacerdozio e preparare il sermone della domenica era veramente un’impresa. Cominciavo dal lunedì a pensarci, per arrivare fino al sabato per avere qualche idea un po’ organica e seria da offrire ai partecipanti all’Eucaristia della festa. Mi riconosco almeno un merito fra tanti difetti: è di aver fatto sempre le cose seriamente e di non essermi presentato in chiesa senza aver chiarito, dentro di me, la riflessione in merito al brano del Vangelo che la chiesa intendeva offrire all’attenzione dei fedeli. Ogni domenica però la predica era ben sudata.

A quel tempo era mio parroco mons. Aldo Da Villa, un cumulo di prete, anticipatore della sagoma di don Camillo, uomo intelligente, navigato e con una lunga esperienza. Quando prendeva la parola, veramente incantava l’assemblea; sembrava che prendesse per il bavero la gente e la mettesse con le spalle al muro. Era veramente un bravissimo oratore.

Mi capitò di dirgli un giorno: «Monsignore, lei sa quanto ho faticato io questa domenica per la mia predichetta; ho tirato fuori con tanta fatica quanto avevo di meglio nell’animo mio, ma il prossimo anno che cosa potrò mai dire di nuovo, se già quest’anno ho dato fondo a tutte le mie “riserve”?» Ricordo la risposta sicura e rassicurante: «La Parola di Dio è sempre viva e nuova, il prossimo anno avrai, per la stessa pagina del Vangelo, argomenti più abbondanti ed interessanti di quelli di quest’anno».

In verità è sempre stato così. A mezzo secolo di distanza le stesse pagine di Vangelo mi sembrano più interessanti ed attuali, tanto che mi aprono dei varchi verso la verità veramente nuovi e splendidi. Mai come ora trovo il Vangelo così innovativo e all’avanguardia su tutte le problematiche della vita. M’è rimasto però – e non è poco – il dramma di non riuscire a tradurre come vorrei quello che il mio spirito scorge di straordinario nella parola di Dio. Non mi sono ancora rassegnato, ma credo che lo dovrò fare.

Di acciacchi, dottori di ieri e progresso odierno

Nel mio piccolo paese di campagna, ove sono nato, il gota della comunità era alquanto minuscolo: il parroco, la “comare”, l’oste, il farmacista e il medico. In caso di malattia però si ricorreva al farmacista per avere una diagnosi sui nostri malanni, perché tutti dicevano che il farmacista ne sapeva come il medico, ma mentre il medico si faceva pagare la visita, il farmacista richiedeva solamente il costo delle medicine e per l’economia povera del tempo non era cosa da poco.

In questi giorni il mio pensiero è tornato di frequente al mio vecchio medico di paese, perché era una specie di Leonardo da Vinci: faceva da internista, chirurgo, dentista, ortopedico, pneumologo ed altro ancora. Le rare volte che la mamma mi ha portato da lui, batteva sulla schiena e mi faceva dire trentatré.

A questo medico, che aveva un’aria un po’ magica, anche perché era l’unico meridionale del paese, non servivano ecografie, scintigrafie, Tac – Pet ed esami vari, ma faceva la diagnosi all’istante e prescriveva le medicine relative. Nonostante questo empirismo veloce, in paese si viveva e moriva pressappoco come oggi da noi con tanti ospedali di eccellenza.

Ho pensato a questo mondo ormai remoto in relazione ad una recente brutta caduta che mi causa notevole dolore. Avendo una sorella che fu caposala all’Umberto I, ed una suora che ha lavorato per trent’anni nello stesso ospedale, in questi giorni esse hanno consultato una serie di medici specialisti di loro conoscenza, medici che a loro volta hanno richiesto esami di ogni genere, mentre io mi sono tenuto i miei dolori!

Sarei tentato di concludere che tutto l’apparato medico della nostra sanità non ha risolto i problemi di fondo e questo è anche vero perché da sempre si nasce e si muore, comunque. Poi, a pensarci meglio, mi pare invece di dover concludere che le burrasche piegano un po’ le piante giovani, che poi si raddrizzano subito, ma i vecchi alberi si schiantano con tanta facilità.

Tra i guai della vecchiaia c’è anche questo, nonostante il progresso!

“…come se gli insulti e le lotte potessero produrre felicità e ricchezza.””

Ora sono fin troppo sedentario; i miei viaggi si riducono al tratto di srada da via dei trecento campi – che conta appena sei numeri civici – fino alla piazzetta dei cipressi, dove c’è l’ingresso del camposanto e i chioschi di fiori di Franco Varretto e al relativo ritorno al “don Vecchi”.

Un tempo però, per motivi d’ordine pastorale, facevo con il gruppo parrocchiale degli anziani almeno una gita al mese. Conservo dei ricordi molto belli di queste uscite che mi hanno fatto conoscere i luoghi più belli e i santuari più ricchi di pietà del nostro Veneto. Quanti ricordi cari, quante emozioni!

In questi mesi, quando perfino Napolitano parla della Patria e in particolare in queste ultime settimane in cui la televisione ci ha fatto vedere la grande sfilata degli alpini a Torino, con le marcette patriottiche e lo sventolare del tricolore (tanto che Torino sembrava una delle città della Svizzera, perennemente imbandierate) quasi per associazione di idee, mi sono ritornate alla memoria due forti emozioni che ho provato in questo girovagare curioso nella nostra bella terra.

Un giorno sono andato sul Grappa a visitare il grande monumento che, a sud, custodisce un’infinità di loculi con i resti dei combattenti italiani della grande guerra e, a nord, altrettanti austro-ungarici. Ed un altro giorno a Redipuglia, ove ho celebrato messa con i miei vecchi in quell’enorme mausoleo di marmo immerso nell’immensa collina verde sui cui prati spuntano sassi bianchi ed arbusti rosso sangue.

Sia sul Grappa che a Redipuglia ho pensato a quanto sarebbe stato più bello e più giusto che quei giovani combattenti di due popoli, diversi ma vicini, invece di uccidersi reciprocamente, senza un motivo, avessero giocato assieme “una partita al tesoro” Non ci sarebbero state tante lacrime e tante rovine.

Questi ricordi mi fanno sognare che se al Parlamento quel migliaio di persone ben pagate, invece di insultarsi a vicenda, di mettersi i bastoni tra le ruote impedendosi reciprocamente di cercare il bene del Paese, giocassero nello stadio romano delle “amichevoli a calcio”, quanto sarebbe più bello, edificante e giovevole per il Paese!

Temo però che i miei rimarranno sogni e che i partiti continueranno a dare cattiva immagine di sé e scandalo alla gente, che i sindacati e gli industriali continueranno a litigare come se gli insulti e le lotte potessero produrre felicità e ricchezza.

Vorrei parole per esprimere la mia meraviglia e gratitudine al Signore!

Ho piena coscienza di essere un poeta mancato, incapace di tradurre in parole e pensieri l’incanto del Creato e della vita.

Verso febbraio, marzo, mi sono sorpreso più volte a pregare il Signore che mi facesse dono di vivere ancora, almeno una volta, la nuova primavera che stentava a liberarsi dal gelo per sbocciare in tutta la sua bellezza.

Gli acciacchi che continuano a manifestarsi, gli equilibri sempre più instabili delle componenti del mio organismo mi facevano sentire tutta la precarietà dei miei ottant’anni compiuti da un pezzo. Desideravo ardentemente potermi inebriare una volta ancora dei colori tenui della bella stagione, del fiorire di tutte le piante, del tepore dolce del sole e dell’incanto della natura che si risveglia dal lungo sonno invernale e si veste di tutta la sua bellezza.

Il Signore mi ha accontentato e quest’anno ho vissuto la primavera con una curiosità, un’ebbrezza del tutto particolari, quasi mi sono inebriato di tanta soavità. I miei occhi curiosi hanno cercato di assaporare l’armonia e il colore di ogni fiore, hanno prima atteso e poi seguito il vestirsi degli alberi dal verde tenue e delicato e poi hanno gustato l’offerta che ognuno di essi fa del proprio fiore, uno diverso dall’altro.

In questi giorni sto ammirando l’esplosione di quel bianco panna tipico delle acacie, alberi possenti vestiti di queste lunghe e flessuose tuniche bianche, come vesti trapunte di mille e mille perle. La natura mi pare veramente una sinfonia di inaudita dolcezza, che si sviluppa con colori e fogge, con variazioni infinite di bellezza, dal fiorellino giallo o turchese del prato al fiorire di alberi possenti di grande respiro.

Come invidio il poverello d’Assisi che con la sua cetra ineffabile canta il sole radioso, l’acqua umile e preziosa e casta, le stelle colorite e belle, il foco “giocondo, robustoso e forte”. Io non riesco a tradurre in parole l’incanto di questa primavera che mi pare più bella del solito, che sento come un abbraccio caldo e profumato del buon Dio e che mi fa arrossire per non aver, nel mio lungo passato, apprezzato quanto sarebbe stato giusto e non aver ringraziato ed amato il Signore per quanto m’ha fatto vedere e sentire.

A quanto pare non sono un operaio molto specializzato!

Un prete dovrebbe essere per natura e per definizione uno specialista della preghiera.

Nel mondo dell’industria e della tecnica ci sono i manovali che fanno i lavori più grossolani, che non richiedono una preparazione specifica, scuola o diplomi di sorta. Spesso mi capita di vedere alla televisione, in occasione di scioperi o di discorsi sull’andamento dell’economia, le catene di montaggio in cui ogni operatore ha delle mansioni ben definite e svolge interventi quanto mai ripetitivi lungo tutto il suo tempo di lavoro. Per essere un bravo operaio costui non ha che da ripetere con precisione e diligenza le operazioni che gli hanno insegnato che poi, durante tutto il suo turno, sono sempre le stesse. Però in questo nostro mondo, sempre più invaso dalla tecnica e dall’informatica, mondo in cui anche negli ambienti più normali, persino in casa, vi sono strumenti complicati sui quali solo i tecnici è bene che ci mettano le mani, occorre una specializzazione specifica.

Un qualcosa del genere dovrebbe avvenire anche nel campo religioso. Per i semplici fedeli potrebbe bastare il catechismo dell’infanzia, la preghiera mattutina e la sera e qualche aggiornamento generico, ma nulla più. Però, per le problematiche più complesse, la Chiesa prepara i suoi “tecnici”. Gli operai del Regno di Dio fanno lunghi studi di teologia per diventare maestri e specialisti nei singoli settori della morale, della teologia, della biblica o dell’ascetica. Io però temo di non avere le competenze specifiche richieste alla categoria.

Sto leggendo un volume su Papa Wojtyla: “Perché è santo”, scritto dal postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II, quindi da chi ha indagato più profondamente sulla vita interiore di questo uomo di Dio.

I capitoli dedicati al misticismo di questo nuovo beato non solo mi stupiscono per la capacità di concentrazione, per il lungo tempo dedicato alla preghiera, al dialogo incessante con Dio, al suo rifarsi continuamente e in tutto alla volontà del Signore, ma quasi mi turbano per quanto mi sento piccolo, lontano ed incapace di tale misticismo.

Esco quasi sgomento da questa lettura perché mi ridico: “ma che specialista sono della comunione con Dio, del dialogo col Signore, della contemplazione del mistero della Santissima Trinità?” Sono arrivato alla conclusione di essere nel campo della religione quello che è l’omeopatia nel campo della medicina. Sono un uomo che adopera la sua umanità per cantare la gloria di Dio: l’onestà, la libertà, la poesia, il sentimento, l’amore per gli uomini, il dialogo con le creature, il lavoro, lo stupore nei riguardi del Creato! Spero proprio che anche questo empirismo religioso compensi le mie carenze e m’aiuti a risolvere alla buona quello che invece i professori della fede fanno adoperando la loro preparazione teologica!

Gli infaticabili lavoratori del don Vecchi

Questa mattina mi sono recato nella mia “cattedrale tra i cipressi” a deporre in segreteria “i ferri del mestiere” ed ho trovato due giovani pensionati che, a titolo di volontariato, pulivano le “vetrate” della chiesa.

Mi sono sembrati perfino più belli mentre lucidavano con pignoleria ed entusiasmo quei vetri che a me erano sembrati già puliti ma che, osservati dopo la “cura”, offrivano una splendida luce alle verdi piante di aralia che decorano stupendamente le “vetrate della cattedrale”.

Tornai in chiesa dopo le 14,30 per celebrare la messa feriale delle 15 e i due “lavoratori” stavano completando la pulitura dell’impiantito. I miei cari e generosi amici evidentemente han fatto dello “straordinario”. Non so come potrò pagarli, se già per il lavoro ordinario, nelle ore previste dal contratto della “categoria della gente di chiesa” offro il centuplo e la vita eterna. Questo per me è il guadagno!

Al mattino quando, verso le sette, esco dal “don Vecchi” per “andare a bottega”, incontro da un lato la Giovanna che con quella sua aria soave con la manichetta in mano bagna piante e fiori lungo i centoquaranta metri del lato di levante del parco del Centro, e L’Olinda che col volto sorridente e il cipiglio deciso bagna il lato di ponente.

Prima di uscire dal cancello ho sempre modo di salutare Carlo, che con la carriola e la scopa di canna d’India dà la caccia all’ultima foglia caduta durante la notte e all’ultimo pezzo di carta buttato a terra dal solito maleducato.

Carlo opera con la tensione di un chirurgo, perché dopo il pranzo viene per il rendiconto quotidiano a raccontarmi che cosa ha fatto nella mattinata.

Quando ritorno dalla messa c’è Luigi che scarica il camion di verdura che “ha mendicato” ai mercati generali di Mestre, o Padova, o Treviso, e la Marisa e la sua squadra che intervengono per la cernita prima che arrivi la “spettabile clientela”.

Entrato in casa, è già aperto il bar con il banconiere o la banconiera in divisa che serve il caffè.

Tutta questa cara gente non conosce orario, busta paga, mansionario, rivendicazioni salariali o sciopero di sorta, eppure è felice. Il lavoro per questi lavoratori che al “don Vecchi” si contano a decine e decine, è quasi un bel gioco che rende la vita lieta e veloce il tempo.

Ogni tanto però sono preso dall’angoscia che arrivino i sindacati a fare “la frittata”!

Il benessere nasce solamente dal rigore morale!

Ho nell’animo un rospo di cui, prima o poi, devo liberarmi; già parlandone, mi pare di togliermi un peso e di dare un contributo per bonificare un settore importante della vita del nostro Paese. Anche durante l’ultimo sciopero generale promosso dalla CIGL, alla vista di certe sequenze e alle dichiarazioni di certi scioperanti, questo “rospo” ha ricominciato a muoversi e a darmi noia.

Sia ben chiaro che io soffro veramente al pensiero che una moltitudine di operai debba vivere con mille, milleduecento euro al mese; non so proprio come facciano a sbarcare il lunario e perciò sono con loro senza riserve di sorta. Le disuguaglianze di remunerazione sono veramente abissali e “gridano vendetta al cospetto di Dio”, a cominciare dagli stipendi dei parlamentari, dei dirigenti della Regione, dei dipendenti del Quirinale, dei magistrati e di certi liberi professionisti, commercianti, artigiani e via dicendo. Detto questo, però, non riesco ad accettare certi comportamenti da sfaticati, da fannulloni o anche da dipendenti per niente interessati all’efficienza e alla prosperità dell’azienda in cui lavorano.

Certi slogan di gente che pensa che il benessere debba essere il risultato che viene dall’alto e non dall’impegno di tutti, dal primo dirigente all’ultimo facchino, mi deludono ed irritano più che mai. Diritti e doveri per me devono essere come dei fratelli siamesi. Credo che in questa diseducazione di comodo i sindacati, o certi sindacati, abbiano delle grosse colpe sulla coscienza.

Non riesco a tollerare che i dipendenti, di qualsiasi livello e con qualsiasi mansione, non facciano con entusiasmo, con onestà e con spirito di sacrificio il loro dovere e non si impegnino per l’efficienza e il conseguimento di buoni risultati dell’azienda in cui operano.

Sarà perché io provengo da una piccola azienda artigiana, per cui mio padre, prima, e mio fratello poi, non hanno mai conosciuto orari di chiusura, mansionario, riposi ordinari e straordinari, e spesso anche ferie. E’ una mia profonda convinzione che i “lavoratori”, siano essi operai, manovali, preti o impiegati, debbano operare come se l’azienda in cui lavorano sia di loro proprietà.

Il benessere proprio e quello comune nasce solamente dal rigore morale e dal sudore della fronte, non dagli slogan o dal codice dei diritti del lavoratore.

Sarò anche un “anticontestatore”, ma questa è la mia convinzione e se sono riuscito a far qualcosa nella mia vita, lo debbo solamente a questa dottrina e a questa prassi di vita.

Cerco un dialogo sempre più fitto con i “nuovi fratelli di fede”

“L’incontro”, pur stampato in quasi cinquemila copie settimanali, pare non abbia ancora un bacino di utenza così vasto da suscitare reazioni che spingano a mandare “lettere al direttore” di consenso o di dissenso, come avviene per i periodici di tiratura nazionale. Può anche darsi che le argomentazioni e le opinioni del periodico non siano così consistenti da pungolare “amici” e “nemici” a reagire con critiche positive o negative.

Però settimanalmente, o per iscritto o per e-mail arrivano sempre due o tre missive sulle problematiche trattate.

Io ho l’impressione di “giocare in casa” e perciò raramente credo che il periodico abbia lettori su posizioni ideali contrapposte. A me, in verità, piacerebbe tanto avere un dialogo più vivace e numeroso col pubblico perché da sempre sono convinto che il dialogo, ma pure la critica, sono un dono piuttosto che una scocciatura.

Più di una volta ho manifestato l’idea che, specie nel mondo ecclesiale, i superiori in gerarchia sono privati del “dono della critica”, per cui arrischiano di vivere isolati e di fare discorsi che passano sopra i capelli degli uomini del nostro tempo, pericolo che arrischia di correre anche questo povero diavolo di vecchio prete come me.

Qualche settimana fa un concittadino mi ha scritto plaudendo al mio editoriale a favore di Comisso, un concittadino benemerito che ha trasformato “l’asilo notturno” in una comunità di uomini. M’ha fatto veramente piacere che un giovane professionista, il prof. Mirto Andrighetti, mi comunicasse il suo pieno consenso alla mia affermazione che oggi stanno aumentando gli uomini che si dichiarano non credenti ma che in pratica amano, servono e pregano il Signore attraverso il loro impegno sociale a favore di chi soffre ed è in difficoltà.

In verità mi sto appassionando a conoscere, dialogare e stringere rapporti costruttivi con questa “Chiesa” e con questi “uomini di fede” che, pur senza riti e senza formule, “cantano la gloria del Signore”.

Questi “nuovi fratelli di fede” mi sono ogni giorno più cari e sono sempre più edificato delle loro scelte e delle loro opere.

L’insegnamento di Papa Wojtyla

Papa Wojtyla s’è imposto all’attenzione del mondo durante i suoi 23 anni di pontificato. Il fascino della sua figura così virile e forte e della personalità così viva e poliedrica, la sua maniera di esercitare l’attività apostolica così innovativa, hanno avuto un forte impatto sulla sensibilità e sulla coscienza del mondo intero.

Non s’era mai visto un Papa che fosse riuscito ad influenzare la grande politica internazionale, a galvanizzare moltitudini di giovani, a girare il mondo in lungo e in largo parlando di Cristo e del suo messaggio a nazioni con regimi favorevoli ed altri decisamente contrari.

Questo è il “miracolo” di un Papa convinto di avere l’annuncio più valido per l’umanità e più che convinto che pure all’uomo d’oggi sono assolutamente necessari i valori che la Chiesa può offrire.

Ora poi che Papa Giovanni Paolo II è morto, s’impone all’attenzione di credenti e non credenti più che da vivo. Oggi Papa Wojtyla è diventato un mito, un pontefice che fa sognare e che dona coraggio e speranza anche per ciò che sembra impossibile.

In questi giorni sono quasi costretto ad indagare, o volerci vedere più chiaro, sull’umanesimo di questo Papa; sto tentando di armonizzare e quasi di ricucire la vita di un Papa che s’è fatto costruire una piscina in Vaticano, che più di una volta è andato a sciare sull’Adamello, che usciva in incognito spesso per passare qualche ora con gli amici, a cantare attorno al fuoco, mentre cuocevano le braciole, che si dava del tu con l’amico presidente Pertini, socialista ed ateo dichiarato, e nel contempo aveva una vita profondamente mistica.

Sto leggendo il volume scritto da chi ha certificato la santità che l’ha portato agli onori degli altari e che documenta come Wojtyla fosse un asceta che passava ore e notti in contemplazione, disteso sul nudo pavimento.

Queste “contraddizioni”, tali almeno ai miei occhi, hanno prodotto come risultante un’umanità non solo accettata, ma della quale la gente del nostro tempo è incantata e che fa accorrere a Roma milioni di persone per vedere la sua bara ed attingere speranza dal suo ricordo.

La mia prima conclusione è che l’uomo debba saper coniugare il corpo e l’anima, la carne e lo spirito, senza mai trascurare o appiattire l’una o l’altro.

Onore agli sconosciuti uomini per bene che sorreggono questa nostra traballante società

Molti mesi fa argomentando contro la faziosità dei sindacati all’interno di non so più quale fabbrica, dissi che spesso ci sono certe frange che fanno un gran rumore, ma che in realtà rappresentano minoranze da un punto di vista numerico pressoché insignificanti. Per rafforzare questa tesi addussi l’esempio di quella marcia torinese che è passata alla storia come la marcia della maggioranza silenziosa. Non l’avessi mai fatto! Uno di quei lettori che sanno tutto, mi scrisse obiettando che le componenti di “suddetta maggioranza silenziosa” erano formate da impiegati, funzionari, “quadri” e dirigenti che non avevano quasi nulla a che fare con i problemi per i quali gli operai appartenenti alla Fiom erano in agitazione perpetua.

Può darsi che il mio interlocutore, nel caso specifico, avesse ragione, comunque io, una volta ancora, rimango del parere della arcinota abusata sentenza che “fa più rumore un ramo che cade di un’intera foresta che cresce”. A guardar bene, le pagine dei giornali e gli schermi televisivi sono pieni di pochi bellimbusti che alla fin fine sono sempre quelli.

Ora, che il mio “mestiere” è soprattutto quello di far funerali, quando mi informo presso i famigliari sulla vita e le vicende dei concittadini ai quali mi si chiede di dare l’ultimo saluto, quasi sempre mi riferiscono delle virtù, della generosità, della disponibilità della stragrande maggioranza di queste creature.

A pensar bene la nostra società si regge solamente perché una moltitudine di “militi ignoti” si impegnano, lavorano e si sacrificano in silenzio e senza suonare la tromba della pubblicità. Sento il sacrosanto dovere di rendere onore a questa “maggioranza silenziosa” di cittadini probi, onesti e generosi che osservano le leggi, lavorano e si sacrificano per tutti.

Talvolta spero che arrivi qualcuno che riesca a dar voce, ad organizzare questa moltitudine di onesti dei quali quasi nessuno parla, mentre con il loro sudore e il loro buon senso tengono ancora in piedi questa traballante società.

Spesso mi ritrovo a pregare con le parole di don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia: “angeli dalle trombe d’argento, voi che conoscete i nomi, il domicilio e il numero di telefono degli uomini di buona volontà, suonate l’accolta di questi uomini per bene, perché si riuniscano per dare un volto migliore al nostro mondo!”.

Basta guerra, basta massacri, basta distruzioni, basta morte!

Al momento in cui confido i miei pensieri al foglio bianco del mio diario, non so ancora come andrà a finire la diatriba tra Bossi e Berlusconi per i bombardamenti sulla Libia.

Io sono assolutamente con Bossi. Mi fanno tristezza i drammi e i problemi di Napolitano che, in maniera non nuova, ha affermato che “L’Italia non può rimanere indifferente agli aneliti alla libertà e alla democrazia dei Paesi dell’Africa settentrionale”. Mi domando perché allora rimane indifferente al bisogno di libertà dei cinesi, dei cubani e di tantissimi altri popoli oppressi da dittature più o meno violente.

Ogni volta che vedo una casa squarciata dalle bombe, un padre colpito per strada, dei bombardieri che costano un patrimonio sganciare bombe e missili a volontà, provo ira e ribrezzo verso quella gente cinica e spietata che, per motivi certamente poco nobili, manda a morire per niente, sperpera ricchezze infinite per distruggere, ammazzare e colpire.

Credo che tutti siano d’accordo che Gheddafi è un istrione, un personaggio senza scrupoli e un despota come tanti altri, ma i mandanti in “guanti di velluto” di queste “ribellioni” e di queste stragi sono forse da meno? E chi vorrebbe andare al posto di Gheddafi possiamo pensare che sia un “angelo” disceso dal cielo?

Ho l’impressione che la Francia in generale, Sarkozy in particolare e chi s’è accodato a loro, non siano così “candidi” da avere a cuore la libertà di un Paese che, guarda caso, è ricco di petrolio.

In questa triste e squallida vicenda non riesco proprio a capire perché l’Italia abbia accettato il ruolo di “comodo idiota”: per danneggiare le nostre imprese che lavoravano in Libia e favorire l’avidità d’oltralpe?

Comunque, qualsiasi siano le motivazioni e gli obiettivi che hanno spinto l’intervento in Libia, grido con quanta voce ho in corpo: «Basta guerra, basta massacri, basta distruzioni, basta morte!» Preferisco la Libia con un governante istrione ed illiberale, che una Libia ridotta ad un cimitero ad opera di nazioni che hanno ancora la spudoratezza di dirsi civili e cristiane!