Fuoco “amico”

Il 27 luglio il Gazzettino annunciava, con un articolo a quattro colonne, che “Il Consiglio comunale, in seduta notturna, con un voto bipartisan” aveva sdoganato il “don Vecchi 5”. Traduco: il Consiglio comunale di Venezia aveva deciso di concedere alla Fondazione ventisettemila metri quadrati di terreno in località Arzeroni in uso di superficie, ossia il suolo rimaneva di proprietà del Comune, ma concedeva alla Fondazione Carpinetum di costruire, a proprie spese e di gestire per 90 anni il “don Vecchi 5” che vi sarebbe sorto.

Un paio di settimane dopo mi è arrivato un messo comunale con il documento della comunicazione ufficiale. Da questo documento ho appreso che Bonzio, di Rifondazione Comunista, aveva votato contro, i due consiglieri della Lega si erano astenuti e un paio di socialisti, tra cui il capo dei miei chierichetti di un tempo, erano usciti in occasione della votazione.

Io sono del parere che si debba costantemente interloquire con i nostri amministratori. Ho scritto a quello di Rifondazione Comunista: “Non mi sarei mai aspettato che proprio Lei, che ha fatto la ragion d’essere della sua politica la difesa dei poveri, avrebbe votato contro”. La stessa cosa ho fatto con gli altri, non essendo però valide per questa gente, le regole della buona creanza, nessuno mi ha risposto. Ora spero che per le nuove votazioni girino al largo da noi!

Delusione monetaria

Una signora, con un po’ di rammarico e tristezza, mi ha portato la bella somma di cinquecentomila lire, somma che un tempo aveva nascosto per paura dei ladri e che in questi giorni aveva riscoperto per caso.

Aveva telefonato alla banca d’Italia per scambiarle in euro, ma le hanno risposto che sono scaduti i termini per questa operazione. Non se l’è sentita di buttarli nel cestino dei rifiuti e perciò li ha portati a me sperando che, “date le conoscenze”, trovassi il modo di recuperarli.

Ho immediatamente telefonato al mio “consulente” bancario il quale, con mia somma gioia, mi ha detto che quei soldi erano recuperabili facendo una certa pratica.

La doccia fredda però arrivò immediatamente quando gli dissi che mettevo a disposizione i duecentocinquantamila euro, che avrei ottenuto dalla Banca d’Italia, per costruire la strada per il “don Vecchi 5”. Al che il consulente, che è direttore di banca, mi rispose che al mezzo milione di lire corrispondono 250 euro, cifra ben diversa dalle mie aspettative.

Rimasi assai deluso, ma poi ho pensato subito di consolarmi: “Piuttosto di niente ben vengano i 250 euro!”.

Sennonché seconda delusione: le vecchie lire non sono assolutamente più recuperabili.

Cinque e un quarto

Le giornate lavorative per un anziano naturalmente si accorciano. Una ventina di anni fa la mia giornata lavorativa si divideva in tre parti: la mattinata, il pomeriggio e il dopo cena. Ora la terza parte è completamente saltata; dopo cena il cervello si intorpidisce e finisce per sonnecchiare comunque, anche se mi legassi alla scrivania come l’Alfieri. Non so perciò che vantaggio ne avrà l’Italia prolungando l’età pensionabile come si sta tentando.

Comunque non mi sono rassegnato a perdere un tempo che si fa sempre più prezioso e quindi ho trovato un escamotage iniziando un po’ più presto la mia giornata. Ora la mia sveglia suona alle 5,15. Il recupero mi è facile perché le mie notti diventano ogni giorno più lunghe. Prima saldo i miei debiti col Signore col dedicarmi alle pratiche di pietà, poi, prima della parca colazione, dedico un po’ di tempo alla lettura. Con questo piccolo stratagemma mi pare di riuscire a combinare qualcosa di più, o perlomeno a far quadrare i conti con ciò che credo che dovrei ancora fare.

Partenza solitaria

L’agenzia di pompe funebri aveva fissato il funerale per un certo giorno e per una certa ora. Ho telefonato a casa della defunta per conoscere dalla sorella colei che l’indomani avrei salutato e soprattutto per cui avrei pregato il Signore. La congiunta che avevo contattato era stata un po’ freddina, quasi meravigliata che il prete volesse conoscere chi avrebbe presentato al buon Dio.

Dopo poche ore infatti l’agenzia mi ricontattò per avvertirmi che i parenti avevano cambiato idea rinunciando al commiato cristiano. Ci rimasi molto male anche se di questa creatura avevo conosciuto poco più che il nome. L’indomani quattro operatori cimiteriali avrebbero calato nella fossa una bara, probabilmente senza una croce, senza un saluto, senza chi raccogliesse e donasse ai fratelli ciò che di buono certamente ella aveva fatto. Un velo di tristezza avvolse il mio animo.

Tra non molti anni i miei colleghi preti più giovani dovranno però abituarsi a questi funerali senza fede e senza speranza. La nostra terra sta incominciando a conoscere la desertificazione.

Ho deciso però che l’indomani avrei deposto su quella bara solitaria e più triste del solito le parole della misericordia del Signore e avrei chiesto con maggiore insistenza al mio Dio di non rifiutarle l’abbraccio riservato al prodigo, perché forse ella non ha avuto il tempo e il modo per pentirsi o, peggio ancora, non ha incontrato chi le abbia parlato con fede autentica e viva dell’amore del Padre.

Un progetto per un nuovo servizio

Una volta in occasione della Cresima o della Prima Comunione, le nostre mamme uccidevano un gallo e facevano una pastasciutta col suo sugo, oppure una gallina per fare il riso in brodo con le bollicine di grasso. Talvolta si spingevano a fare pure un dolce – qualche uova, un po’ di burro e di zucchero – si allungava la tavola per qualche parente.. ed era fatta! Per i matrimoni le cose non erano tanto diverse, forse c’era sempre pollame arrosto e bollito di manzo, ma non ci si poteva spingere troppo oltre.

Ora per i compleanni, gli onomastici, promozioni, battesimi, Prime Comunioni e Cresime a nessuno passa per la testa di festeggiare in famiglia, ma si pensa subito al ristorante o, al minimo, all’agriturismo. Le case sono piccole e le mamme, almeno per queste occasioni, si dice sia doveroso non impegnarle.

Il risultato di questo cambiamento di costume è che si va da un minimo di 25 euro a persona a cento euro e più.

Noi al “don Vecchi” abbiamo al “Seniorrestaurant” una cucina attrezzatissima, un salone da gran galà ed ora avremo un catering che gestisce la preparazione dei pasti con un cuoco provetto. Ci siamo detti: “Perché non possiamo offrire alla povera gente o anche a quella intelligente e parsimoniosa di poter festeggiare questi eventi lieti e mangiare assieme in un ambiente signorile, con un menù sobrio ma diverso dal solito, al costo di 10 o al massimo di 15 euro a testa?

Ora stiamo lavorando. Se riusciremo a mettere assieme catering, volontari e Fondazione, per l’autunno lanceremo questo nuovo servizio a favore del prossimo.

Il laico Gesù

Sto riflettendo con sempre più interesse sul fatto che Gesù non entrò mai a far parte della gerarchia ecclesiastica. Non faceva parte del Sinedrio, né era un levita, tanto meno un fariseo o uno zelota; anzi, ebbe parecchi scontri con gli ecclesiastici del suo tempo, ossia con coloro che gestivano la Chiesa di allora, tanto che essi se la legarono al dito e quando capitò loro l’occasione opportuna lo mandarono a morte.

Mentre appare chiaramente e tante volte dal Vangelo che Gesù fu un uomo profondamente religioso: pregava prima dei pasti, invocava il Padre Celeste nei momenti più importanti, faceva spessissimo la carità, passava nottate in preghiera e aveva un rapporto costante ed intenso con Dio.

Gesù non era assolutamente né areligioso, né non praticante, però è sempre rimasto fedele alla sua coscienza e si è accostato alla sinagoga, e in essa ha preso la parola, quasi esclusivamente per difendere l’uomo e sbugiardare chi faceva un uso improprio della religione in genere e dei riti in particolare.

L’Assunta dei radicali

Per la Madonna Assunta i giornali non hanno scritto che Pannella, la Bonino e la Bernardini siano andati a messa, però ci hanno informato abbondantemente che essi si sono recati nelle carceri per verificare le condizioni disumane dei carcerati e per denunciare ancora una volta all’opinione pubblica, alla magistratura e al parlamento la situazione assolutamente intollerabile ed incivile in cui sono costretti a vivere non solamente coloro che debbono scontare una pena, ma anche coloro che da mesi e mesi sono in attesa di giudizio.

Mi sono guardato bene la pagina del Vangelo in cui Gesù ci ha anticipato i criteri con cui saremo giudicati. Ho scoperto con sorpresa che mentre è titolo per “entrare nel gaudio di nostro Signore” il visitare i carcerati, non compare affatto che l’andare a messa a Ferragosto sia titolo per la salvezza.

Una volta ancora mi par di capire che Gesù è venuto ad offrirci un invito ad aiutare il prossimo, compreso il peggior prossimo, ma non fa cenno al precetto festivo. Per questo importante.

Le bandiere del “Germoglio”

Passando per via Ca’ Rossa ho notato che sul pennone sventolavano finalmente tre bandiere nuovissime: il tricolore, la bandiera d’Europa e il gonfalone di San Marco: da un paio di anni sull’alto pennone che si innalza accanto al vecchio asilo stile liberty, costruito all’inizio del secolo scorso da mons. Piero Zannini, parroco di Carpenedo, c’erano tre straccetti logori e sbiaditi che facevano miseria.

A molti potrà sembrare un po’ sentimentale e puerile che un vecchio prete esulti per tre bandiere multicolori che sventolano accanto alla vecchia struttura della sua vecchia parrocchia. Per me però quelle tre bandiere sono come il segno di una rinascita e il ricordo di tanto impegno e di tanti sacrifici per portare all’avanguardia la vecchia struttura.

Quarant’anni fa mi fu consegnato un asilo fatiscente che perdeva brandelli da ogni lato e che aveva bisogno di un restauro radicale sia nei muri che nei contenuti pedagogici. Pian piano l’asilo è diventato “Il Germoglio, centro polifunzionale per l’infanzia”.

Cominciammo con le pareti, l’arredamento interno, i giochi, la divisa. Ricordo che facemmo studiare da uno stilista una divisa unisex: salopette alla Geppetto in tessuto jeans, maglietta rossa fatta fare in Cina e lo stemma di Carpenedo in giallo oro. Continuammo con la casetta dei sette nani, la voliera per le tortore, il trenino, lo zoo con galletti e i pavoni (che mi inimicarono l’intero quartiere con le loro “stridenti” dichiarazioni d’amore). E ancora la casetta di Alì Babà per le feste di compleanno e di onomastico, l’accoglienza fin dalle sette del mattino per facilitare l’andare al lavoro delle mamme, i lettini per dormire il pomeriggio, la sezione per il nido d’infanzia per i bambini da uno a tre anni, la possibilità per le mamme di chiacchierare all’uscita nei cortili mentre i loro piccoli continuavano a giocare, la nuova cucina e la nuova sala da pranzo con il piccolo montacarichi che portava i cibi in tavola, i fiori. E nonno Tullio, assieme a Fernando che mettevano ordine da mattina a sera nel giardino, i nuovi bagni, la ristrutturazione interna per creare una sala giochi per i “grandi” ed un’altra per i piccoli.

Quelle bandiere mi hanno pure ricordato i giorni tristi: l’abbandono delle suore dopo settant’anni, le nuove sorelle frutto della restaurazione più retriva, l’incomprensione dei genitori che si erano messi in mente che fossi stato io a “mandar via le suore”. E finalmente l’arrivo della dottoressa Tavolin che ha preso in mano la situazione con competenza ed ha riportato un clima di totale serenità.

Qualche giorno fa mi hanno riferito che la signora Lina è stata “richiamata alle armi” dal nuovo parroco. Spero tanto che riporti la primavera ed accompagni “Il Germoglio” ad una nuova splendida fioritura. Rimango convinto che le iniziative che nascono dalle comunità cristiane debbano essere sempre innovative ed apripista per chi ha la sfortuna di avere meno ideali che cantano in cuore!

Il Papa di montagna

Qualche settimana fa il primo canale della Rai ha messo in onda una fiction su Papa Luciani. Come sempre accade questo tipo di trasmissioni non raggiunge quasi mai un alto livello artistico; per quanto poi riguarda la storia lascia alquanto a desiderare. Queste trasmissioni normalmente non sono di un grado molto superiore ai fumetti.

Di positivo c’è stata la straordinaria rassomiglianza fra Papa Luciani e l’attore che lo impersonava: sia il volto che la parlata si avvicinavano veramente all’originale. C’era poi qualche bella scena girata nell’Agordino e qualche altra a Venezia. Per tutto il resto si avvertiva quanto mai la finzione scenica sia nella narrazione che nella rappresentazione del personaggio.

Quello che avvertiva uno come me, che ha conosciuto da vicino il vecchio Patriarca, era quanto difficile, quasi impossibile, per il cinema riprodurre la realtà. Mentre per lo scritto si può puntualizzare più efficacemente il clima, la sensibilità, lasciando anche spazio alla memoria o alla fantasia di chi rievoca un personaggio, per la macchina da presa questo è estremamente più difficoltoso e il risultato è sempre goffo e poco fedele. Nella fiction poi, in cui si impegnano meno soldi, questo risulta ulteriormente più difficile.

Quello che invece ho colto e che mi pare un dato assolutamente reale, è lo smarrimento, il bisogno di un uomo semplice, onesto ed umile, che in Vaticano, nonostante l’ambiente religioso, appare indifeso e fuori posto in una realtà purtroppo artificiosa, popolata da gente che, tutto sommato, ha una mentalità politica, dove la fede non gioca un ruolo primario.

La morte di Papa Luciani è stata di certo un dono che l’ha liberato da una croce troppo pesante. Credo però che il suo pur rapido passaggio, abbia destato nel cuore dei credenti il desiderio di un Papa di forte semplicità, di autenticità e di coerenza tra messaggio e vita reale.

Questa attesa ed esigenza che Papa Luciani ha fatto emergere nella coscienza dei cattolici penso sia stato un dono immenso per la Chiesa di Dio.

I segni del tempo

Io cominciai il mio ministero sacerdotale presso la parrocchia veneziana di Santa Maria del Rosario, che tutti chiamano “Gesuati”. Infatti la chiesa è stata costruita dall’ordine religioso dei Gesuati, ordine che la Serenissima ottenne dal Vaticano di sopprimere per incamerare i suoi beni in cambio della fornitura di galee per la battaglia navale di Lepanto.

Ricordo di quelle mie prime esperienze pastorali un episodio che a quel tempo giudicai più banale di quanto oggi lo ritenga. Una signora, penso cinquantenne, mi confidò che quando si guardava allo specchio e scopriva le rughe incipienti, si lasciava andare ad un pianto accorato.

Allora una simile reazione mi sembrava futile ed espressione di quella innata e persistente mania tipicamente femminile di essere belle comunque e di continuare ad esserlo nonostante il passare del tempo.

Oggi sono molto più comprensivo, perché talvolta mi capita di provare sentimenti analoghi, che di certo non mi portano alle lacrime, ma non nascondo che mi provocano una certa nostalgia e una certa inconfessata amarezza per i segni che il tempo ha lasciato in tutti gli aspetti della mia umanità.

Ogni anno mi capita di incollare sulla tessera di pubblicista il bollino annuale, tessera che mantiene la mia foto di trent’anni fa: figura asciutta, capelli castani, volto giovanile.

Istintivamente li confronto con la mia attuale zazzera bianca, la pancia abbondante e il volto carico di rughe. Il confronto, confesso, è amaro e deludente.

Qualche giorno fa mi è capitato di riascoltare qualche omelia che ai tempi di “Radiocarpini”, trent’anni fa, venivano registrate: una voce limpida, un parlare fluido, delle argomentazioni lucide. Tutt’altra cosa oggi! Dire “tutto passa!” è una cosa, constatare i segni del passaggio è tutt’altra cosa, non solo per la mia vecchia parrocchiana, ma anche per il nuovo vecchio parroco in pensione!

Accorciare le ferie non è un delitto

Mario Monti, il nostro presidente del Consiglio, ce la sta mettendo tutta. Qualche settimana fa, incontratosi con i colleghi del suo Governo, è rimasto in conclave per ben otto ore – un’intera giornata – per studiare un piano per rilanciare l’economia e l’occupazione. La coperta è però tanto corta che se la tira su restano fuori i piedi e se la tira giù rimangono scoperte le spalle.

Mi spiace che siamo già a novembre e le mitiche ferie siano già finite, però il mio consiglio potrebbe servire per l’anno prossimo, perché non credo che basteranno pochi mesi per guarire l’Italia. Perciò mi permetto di dargli un suggerimento:
«Professore, prema sull’acceleratore e dimezzi le ferie. Sto constatando che gli italiani che, per i motivi più diversi, durante le vacanze sono stati a casa, sono ancora tutti vivi e vegeti, nessuno è morto per mancate vacanze! La Sua posizione è favorevole e irripetibile, sfidi partiti, sindacati e confindustria e faccia le riforme che sono necessarie! Per il nostro Paese Lei è già un eroe e lo sarebbe anche molto di più se i politici La mandassero a casa come Cincinnato. Sapere di avere uomini coraggiosi che non si compromettono per qualche gioco di potere è una vera ricchezza per l’Italia»!

Il vecchio Cardinale

Il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, l’ho sempre immaginato: imponente, autorevole, sicuro, colto. Infatti il vedere questo prelato, già alto di statura, con la mitria in capo che lo allungava ulteriormente, tenere sulla destra il pastorale, che dava la sensazione di comando, il sapere che egli era un biblista di fama mondiale e che governava una diocesi di un paio di milioni di abitanti, l’aver letto alcune sue pastorali dotte ed incisive: tutto questo me lo faceva immaginare come una roccia e me lo faceva collocare tra la schiera degli apostoli e dei profeti, uomini completi e sublimi che incutono soggezione.

Ora scopro sulla copertina del suo ultimo volume che sto leggendo, “Qualcosa in cui credere”, un suo pensiero e l’immagine di questo Cardinale, una immagine che lo mostra curvo, vecchio, ammalato e ritirato in convento, mentre afferma: «L’angoscia nasce dall’insicurezza diffusa e dalla fatica di trovare nel proprio bagaglio risposte rassicuranti. E’ la paura di dover affrontare un futuro incerto, rimanendo privi di quel poco di terreno solido che si pensava di aver conquistato. Tuttavia, se impareremo a guardarci negli occhi con rispetto e da fratelli, ci troveremo uniti nella fiducia, o almeno nel presentimento che ci deve pur essere qualcosa in cui possiamo ancora credere».

Ebbene le parole umili, incerte e povere di questo vescovo che “da ricco s’è fatto povero”, mi stanno aiutando molto di più di quando pontificava sulla cattedra di Sant’Ambrogio. Anche questo è miracolo di quel Signore che con gli umili fa cose grandi.

A prescindere

Ricevo almeno due telefonate al giorno da parte di persone disperate che non sanno più dove battere il capo. Quasi sempre, prima di telefonarmi, si sono rivolte al loro parroco il quale, quasi sempre, non sapendo cosa fare, fa loro il mio nome.

Non credo di essere il più amato e stimato dai miei colleghi, ma di certo so di essere spessissimo usato come una speranza o, peggio, come pretesto che li libera dall’imbarazzo di non avere soluzioni da offrire.

Io sono un pensionato, non ai margini della vita della mia Chiesa, ma anche oltre i margini, una voce scomoda che i più si rifiutano perfino che giunga presso la loro gente, però rimango un comodo pretesto nei momenti imbarazzanti posti dalle vecchie e nuove povertà.

Di certo, finché avrò fiato, non cesserò di ripetere che la solidarietà, quella concreta, spicciola, non quella che si colloca nella stratosfera, è una componente essenziale del messaggio cristiano.

Non cesserò di ripetere che la nostra Chiesa, se vuol essere fedele al messaggio di Gesù, deve farsi carico dei poveri. E rifiuto quei vecchi e superati discorsi di comodo per i quali qualcuno pensa di liberare la propria coscienza affermando che le soluzioni concrete spettano allo Stato, mentre la Chiesa può continuare ad occuparsi delle candele e dell’incenso. Non cesserò di ribadire che non soltanto è un dovere, ma che la nostra Chiesa oggi ha tutte le possibilità di dare delle risposte concrete.

Un tempo pensavo che la carità avrebbe portato in chiesa chi ha beneficiato del suo aiuto. Ora non lo penso più, però rimango convinto che la si debba fare anche se non ci fossero ritorni in pratica religiosa.

Betlemme in versione terzo millennio

Ho telefonato ad un mio collega per segnalargli il caso pietoso di un’anziana signora che vive nella sua parrocchia sola nonostante un’incipiente demenza senile. Questo, a sua volta, mi ha chiesto aiuto per una giovane coppia con un bambino di due o tre anni ed un altro in arrivo fra pochi giorni.

Non sapendo che cosa fare e a chi rivolgersi – ma nessuno di noi, per quanta buona volontà ci metta, sa cosa fare – li aveva ospitati nel suo garage. Da un paio di mesi questa famigliola ha bussato a tutte le porte civili e religiose, senza trovare risposta.

Per mangiare e vestire la nostra città ha qualche disponibilità, ma per ospitare non c’è proprio nulla. Perfino all’asilo notturno i senzatetto da qualche tempo sono costretti a turnarsi, ma comunque il rifugio dei barboni non sarebbe stato adatto per questo caso.

L’inettitudine del Comune è senza limiti. Pare che, specie ultimamente, esso si sia dedicato agli sperperi (vedi i 30 milioni per le fondamenta, inutili, del Palazzo del Cinema) o ad impedire, a chi si impegna per i poveri, di portare avanti i suoi progetti sociali, mediante una burocrazia dissennata ed irresponsabile. Non parlo tuttavia solo del Comune, ma mi riferisco pure alla mia Chiesa. Possibile che la nostra diocesi non possa affrontare qualcosa almeno per le emergenze?

La cittadella, con il relativo ostello per chi ha bisogno di un tetto da un paio d’anni è stata appesa alla “virtù della carità soprannaturale”. Oggi, come duemila anni fa, non c’è posto in alcun “albergo” per il bimbo che deve nascere!

Unità pastorali e comunità sacerdotali

Il processo di accorpamento delle parrocchie è un processo irreversibile dovuto alla carenza del clero, all’assottigliarsi della frequenza religiosa dei battezzati e alla complessità organizzativa delle parrocchie.

Fino a una trentina di anni fa s’è proceduto ad assottigliare le comunità parrocchiali moltiplicandole. Ora comunque la vita impone un processo inverso.

Ricordo come il cardinale Agostini si sia impegnato in maniera lodevole per assicurare ad ogni zona in sviluppo un prete ed una chiesa. Attualmente questo discorso non è più possibile. Credo che sia preferibile una grossa parrocchia con almeno due preti, piuttosto che due parrocchie più piccole con un prete ciascuna.

La sinergia produce dei vantaggi più che evidenti. Però in questo processo, che ritengo irreversibile ed anche positivo, non sento mai parlare della formazione di comunità sacerdotali che sono la condizione “sine qua non” perché la cosa funzioni.

In una comunità in cui più preti vivono assieme, ognuno può contribuire con le sue risorse specifiche, si è costretti al confronto e all’edificazione reciproca, si elimina l’isolamento, soprattutto si possono impegnare le forze quando occorrono ed infine si eliminano i doppioni che sprecano inutilmente energie.

Vivere assieme è difficile, però oggi penso sia l’unica strada percorribile se non si vuole arrivare all’inedia e all’inefficienza. Se in queste comunità entrassero anche i laici di ambo i sessi a condividere l’impegno pastorale, saremmo all’optimum!