Caffè da dodici euro

Ogni tanto, pur non domandandomelo direttamente, avverto che qualcuno, leggendo i miei scritti, si chiede se sono di destra o di sinistra. A questa domanda purtroppo non riesco a rispondere nemmeno io. Bisogna quindi che faccia io la domanda a chi interessano i miei orientamenti politici: “Che cosa significa destra e sinistra?”.

Quando io ero bambino e le cose in politica erano molto più semplici di oggi, si diceva che i liberali erano di destra, quindi a favore dei ricchi, e i comunisti di sinistra, a favore dei poveri. Rimaneva in mezzo la Democrazia Cristiana che i primi dicevano che fosse di sinistra, mentre i secondi dicevano essere di destra. Io non sono mai riuscito a risolvere questo problema, tanto che ero arrivato a votare per la sinistra della Democrazia Cristiana perché, a quel tempo, c’erano le preferenze.

Adesso la confusione è somma; per ora scelgo di impegnarmi con tutti i mezzi che ho a disposizione per i più poveri, per gli ultimi. Vorrei tanto che qualcuno mi dicesse come si fa, “a livello politico”, ad aiutare chi ha più bisogno. Se fosse vero quello che si diceva un tempo, dovrei votare per D’Alema che, fin dalla prima infanzia, è comunista, ma mi dicono che lui, come i più sinistri della sinistra, prendono tranquillamente da sempre circa 20.000 euro al mese, quindi 660 euro al giorno, mentre al “don Vecchi” più di una trentina di anziani ha una pensione di 512 euro al mese e quindi 17 euro al giorno.

Qualche tempo fa ho incontrato “un giovane” che ho sposato tanti anni fa e che fa il cameriere al Quadri a Venezia. Gli chiesi, per curiosità, quanto costa un caffè al Quadri e lui mi ha risposto che, seduti al tavolo, mentre suona la musica, un caffè costa 12 euro – quasi il reddito giornaliero di uno dei miei anziani. Il mio amico ha poi soggiunto che “lavorano sempre bene”, ossia il locale, e il relativo plateatico, sono sempre affollati.

Io quindi vorrei votare per chi non costringe gli anziani a sopravvivere con un caffè e mezzo al giorno, ma non conosco sigle di partito che mi garantisca questo.

Alla luce di questi dati, se qualcuno ne conosce uno che aiuta davvero i più poveri, me lo dica, che mi iscriverò subito a quel partito. Per ora rimango un libero battitore solitario.

Olmi: delusione

A nessuno “tutte le ciambelle riescono col buco”. Stavolta è capitato ad Ermanno Olmi, il grande regista cinematografico, e di riflesso anche a me che ne sono sempre stato un grande ed appassionato ammiratore.

Credo che ci sia da togliersi tanto di cappello di fronte all’arte e alla poesia di alcune opere cinematografiche del cantore del mondo contadino dal quale quasi tutti noi, direttamente o meno, proveniamo e che rimane, in fondo al nostro spirito, un mondo un po’ appannato, ma sempre avvolto dall’incanto di ciò che abbiamo sperimentato nei tempi lontani della nostra fanciullezza.

Questa dolce nostalgia, alimentata dai ricordi ormai vaghi, vale soprattutto per la gente della mia generazione, alla quale appartiene anche Olmi, per il mondo rurale che non era ancora meccanizzato e perciò si muoveva con i ritmi lenti delle stagioni, con la sobrietà dei costumi e con la guida forte della tradizione.

Chi ha un minimo di cultura cinematografica non può non ricordare con sconfinata ammirazione “L’albero degli zoccoli”, “La leggenda del santo bevitore” e, più recentemente, “Il villaggio di cartone”. Soprattutto in quest’ultima opera Olmi ha affrontato, sempre in chiave poetica, il problema della fede e della Chiesa. La critica seguita a questo film ha messo in luce particolarmente la sua presa di posizione nei riguardi di una Chiesa ingessata, eccessivamente attenta ai riti, poco aperta alla sensibilità e alle attese della società. A me è parso di condividere questa lettura, critica ma stimolante.

Quando mi fu regalato il volume “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”, di Ermanno Olmi, mi sono buttato a capofitto nella lettura, tanto da sentire il bisogno di riprodurre integralmente nel mio diario la “spalla” della copertina, che pretende di condensare il pensiero di questo uomo di cultura.

La lettura dei primi capitoletti mi pare che confermasse l’attesa; proseguendo però, mi sono imbattuto in uno zibaldone di argomenti assai irrequieti e sconclusionati, attraverso i quali Olmi rivendica il primato della coscienza ed esprime una critica poco argomentata e disordinata sulla Chiesa attuale e nulla più.

Il volume non fa certamente onore all’autore e non offre una chiave di seria lettura del messaggio cristiano e della Chiesa di oggi. Sento quindi il dovere di fare questa precisazione per evitare ai miei amici una lettura pesante, per nulla documentata sulle problematiche della Chiesa. Spero che Olmi torni a fare il mestiere che sa fare e non annoi il prossimo con un volume raffazzonato e con discorsi poco consistenti.

Recupero dell’angelo custode

Nel periodo liturgico che precede l’Ascensione e la Pentecoste, la Chiesa offre alla riflessione dei fedeli, durante le messe, testi dell’evangelista san Giovanni che parlano delle raccomandazioni e delle promesse che Gesù fa ai suoi discepoli prima di “ritornare al Padre”.

Alcuni giorni prima della festa dello Spirito Santo mi ha positivamente impressionato una accorata preghiera che Gesù rivolge al Padre perché assista i suoi apostoli: «Padre santo, custodisci nel Tuo nome coloro che mi hai dato». Gesù si sentiva responsabile personalmente dei suoi amici e quindi rivolge a Dio la sua preghiera perché non abbiano a perdersi.

Commentando il testo sacro alla quarantina di fedeli che partecipano alla santa messa feriale, dissi che capita spesso anche a noi di non avere la capacità di aiutare persone alle quali vogliamo bene, ma ci sentiamo impotenti di porgere aiuto. Sviluppando questo pensiero, dissi che quando avvertiamo questa impotenza, possiamo in ogni caso rivolgere una preghiera a Dio perché Egli “che conosce i reni e il cuore” dei suoi figli, intervenga e faccia quello che noi vorremmo fare, ma non ci riusciamo.

Per associazione di idee, mi venne in mente una confidenza fatta a noi chierici dal patriarca Roncalli, poi diventato Giovanni XXIII. Il cardinale Roncalli, appena finita la guerra, da nunzio apostolico in Bulgaria fu trasferito a Parigi, sede ben più importante. In qualità di rappresentante di tutto il corpo diplomatico, toccò a lui il compito non facile di tenere il discorso di fronte al generale De Grulle, che di grandeur ne aveva fin troppa.

In quel tempo tra il generale e la Santa Sede c’era una questione bollente perché il presidente pretendeva che una sessantina di vescovi – che secondo lui si erano compromessi con il governo del generale Pétain, filotedesco, fossero allontanati dalle loro diocesi. Il cardinale, che in questo clima di estrema tensione doveva prendere la parola, ci raccontò che, assai preoccupato, pregò con fervore il suo angelo custode perché “prendesse contatti” con quello di De Gaulle perché – soggiunse il cardinale – così sarebbe stato più facile la comprensione tra i loro “assistiti”.

Noi chierici, curiosi, domandammo al Patriarca: «E com’è andata?». «Bene!!» ci rispose, come se la cosa fosse assolutamente scontata.

Oggi, fresco di questo ricordo, sono ricorso anch’io al mio angelo custode per un’operazione del genere. Non mi è andata però bene, comunque ritenterò, perché sono convinto che la preghiera con “destinazione definita” sia comunque efficace.

Preconcetti

Quando queste note vedranno la luce, di certo fra non meno di un mese, un mese e mezzo – tanto è lenta ed aggrovigliata la catena di montaggio de “L’incontro” – sono assolutamente certo che il discorso che sto per fare sarà assolutamente superato, comunque purtroppo la sostanza temo che continuerà molto nel tempo.

Sul “don Vecchi 5”, ossia la struttura per anziani in perdita di autonomia, stiamo pensando e lavorando da almeno tre anni. Non vi dico le peripezie perché dovrei scrivere quello che san Luca dice nel suo Vangelo circa i fatti e i detti di Gesù: che quanto ha scritto è una piccola parte, ma per contenerli tutti ci vorrebbe un’intera biblioteca.

Comunque, tra tentativi, speranze, delusioni, insistenze e minacce, il 10 agosto dello scorso anno è stato presentato in Comune il progetto con le relative documentazioni. Da quel giorno sono passati ben nove mesi e c’è stato perfino qualche burocrate che s’è meravigliato della mia impazienza.

Quando quasi vent’anni fa abbiamo costruito il “don Vecchi 1”, era sindaco l’avvocato Ugo Bergamo ed assessore all’edilizia un certo Armando Favaretto della Democrazia Cristiana. Bergamo m’ha portato a tale esasperazione che un giorno gli scrissi che se entro quindici giorni non m’avesse dato la concessione edilizia, avrei suonato ogni giorno le campane a morto fino all’ottenimento del tanto sospirato consenso. Quanto all’assessore Favaretto, nuovo d’incarico ed ancora ignaro ed innocente circa la lentezza della burocrazia comunale, mi assicurò che da allora in poi le richieste per le costruzioni edilizie non avrebbero superato i 15 giorni di attesa. Di certo questo giovane democristiano era un’anima candida, mentre di anime nere o rosse ce ne sono, e come! Mi sono state riferite certe obbiezioni, insinuazioni, sospetti e critiche dei componenti di una delle infinite commissioni, cose dell’altro mondo!

C’è stato perfino chi s’è meravigliato e ha trovato di che dire sul fatto che i cittadini di Campalto in vent’anni non sono riusciti ad ottenere la messa in sicurezza della fermata dell’autobus dell’ACTV di via Orlanda, mentre il “don Vecchi” in un paio d’anni c’è riuscito.

A parte il fatto che la Fondazione si è impegnata per un anno e mezzo e s’è dovuta accollare tutte le spese, ma il senso civico, l’impegno per il bene verso i propri concittadini e la solidarietà, pare che questa gente non sappia proprio dove stiano di casa, nonostante il loro Marx, il loro Togliatti e Bersani. In Italia c’è, purtroppo, uno spirito anticlericale parolaio e fazioso che neanche i peggiori preti meritano.

“Il castello di carta”

Tra noi preti si dice abbastanza di frequente che chi rimane troppo a lungo in una parrocchia, arrischia di distruggere quanto ha costruito nei primi tempi.

Partendo da questa affermazione ed aggiungendo ad essa che sempre, nella mia vita, ho avuto la sensazione di non essere all’altezza dei compiti affidatimi, quando giunsi alla data che la Chiesa ha fissato per la pensione, con un ossequio, che in verità non ho mai avuto, per il codice di diritto canonico o le norme sinodali, ho presentato, come di dovere, le mie dimissioni. Non furono accettate, un po’ per consuetudine, un po’ come gesto di fiducia e soprattutto perché, con la carenza endemica di sacerdoti, credo che sia un dramma per il nostro patriarcato provvedere ai ricambi. Passati due anni dalla data fissata dalla norma, insistetti, e fui accontentato. La stessa cosa è avvenuta per la presidenza della Fondazione Carpinetum.

Nella mia vita credo, per grazia di Dio, di aver potuto annoverare più successi che insuccessi e, tutto sommato, non ho mai dovuto registrare sconfitte di un certo rilievo. In verità ce l’ho messa tutta, mi sono speso senza riserve, ho perseguito con onestà gli obiettivi e ho tentato di essere coerente. Se dovessi descrivere le mie imprese pastorali, credo che, ove ho operato, mi è sempre andata dritta, compreso il mio compito attuale.

Mi piacerebbe chiudere in bellezza, comunque voglio lucidamente accettare la fine, quale essa dovesse essere.

Non so se la sensazione di inadeguatezza che mi ha sempre accompagnato in ogni impresa mi sia stata più di aiuto che di danno, comunque so per certo che ho pagato con un prezzo salato questa sensazione e questi risultati.

Ricordo che tanti anni fa un mio collaboratore, in un momento di non condivisione – in realtà io sono sempre stato determinato nel perseguire i miei obiettivi – o per stizza, mi disse: «Il suo è un castello di carte, alla prima “ventata” crollerà miseramente». Questa frase mi fece molto male, perché acuì ulteriormente il mio stato d’animo, tanto che essendo passato più di un quarto di secolo, quando ho modo di verificare la tenuta della mia vecchia parrocchia e dei Centri don Vecchi, tiro un sospiro di sollievo e ringrazio il buon Dio! Sarà pure il mio un “castello di carta”, però, per grazia di Dio, regge e spero che così sia per il futuro.

Il quotidiano da scoprire

Questa mattina, iniziando la santa messa, come sempre ho invitato i fedeli a fare l’esame di coscienza per chiedere perdono a Dio e ai fratelli prima di presentarci all’incontro col Signore. Gesù infatti, nella parabola “dell’invito a nozze”, insegna che è vero che “il re” disse ai suoi servi di invitare tutti, poveri ed infelici, però, quando questa folla di miserabili si presentò per le nozze, pretese che avessero “l’abito nuziale”, ossia un atteggiamento decoroso e conveniente. Il Signore accetta tutti: storpi, sciancati e peccatori, però pretende che “ci laviamo mani e cuore” prima di far festa con Lui.

Normalmente, per non lasciarmi irretire dalla solita formula che l’abitudine svilisce, tento di rifarmi a qualche immagine o pensiero che desti dall’istintivo torpore. Questa mattina, improvvisando, dissi: «Prima di iniziare questo giorno assolutamente nuovo – perché nessuno di noi l’ha mai vissuto prima d’ora – purifichiamo col pentimento la nostra coscienza prima di aprirci a questo dialogo che Gesù ci offre l’opportunità di avere».

Mentre pronunciavo queste parole, fui “folgorato” da questa strana sensazione: “Oggi non vivo uno dei tanti giorni della mia lunga vita, giorni pressoché tutti uguali, monotoni e facenti parte del “terribile quotidiano”, ma avrò la splendida opportunità di esplorare e scoprire una realtà sconosciuta, di cui finora non ho mai fatto esperienza”.

Una volta finita la messa sono quasi stato costretto a pensare alla nuova avventura, alla scoperta di un giorno tutto nuovo, fatto di sensazioni, parole, incontri, volti, immagini e atmosfere finora mai incontrate nella loro concatenazione mai uguale.

Avevo in programma di andare a Chirignago da mio fratello, don Roberto, per parlargli di una cosa che mi stava tanto a cuore. Ho visto con estrema curiosità la sua casa, i suoi collaboratori, i suoi quadri, l’atmosfera della sua parrocchia, i fiori e le piante del suo giardino. Finito fin troppo presto l’incontro, con esito non troppo soddisfacente, ho fatto un salto al “don Vecchi” di Campalto e ho visto il riordino dell’ingresso, la crescita della chiesa copta, tutta cupole e pinnacoli, le donne sedute sul muretto dell’aiuola a chiacchierare.

Confesso che per tutto il giorno non ho fatto altro che scoprire cose interessantissime: parole, colori, volti, odori, sensazioni meritevoli di attenzione, anzi di stupore e meraviglia.

C’è della gente che sente il bisogno di andare alle Maldive o a Capo Nord per vedere cose nuove, mentre ha sotto gli occhi, a chilometro zero, un mondo interessantissimo e sempre nuovo da scoprire.

La scommessa di Pascal

Quest’anno ho impostato l’omelia del giorno dell’Ascensione sulla “scommessa di Pascal”, pur sullo sfondo della descrizione che François Mauriac ha fatto di questo evento nella sua “vita di Gesù”.

La descrizione che il Vangelo e “Gli atti degli apostoli” fanno del mistero che inquadra il ritorno di Gesù al Padre, è carica di incanto, ma il narratore francese, pur partendo dai dati storici forniti dal Nuovo Testamento, inquadra in un clima di struggente dolcezza questo mistero cristiano.

Mauriac immagina che in una luminosa mattinata di primavera Gesù convochi in una radura verde vicino a Betania, circondata da nodosi ulivi, sua madre e i suoi amici più cari, gli apostoli; e dopo averli abbracciati ad uno ad uno salga dolcemente al Cielo, confondendosi pian piano con l’azzurro e con la luce del dolce sole di primavera.

Il racconto dell’ascensione fatta da Mauriac diventa ancora più limpido e fresco grazie alla traduzione del testo fatta da Angelo Silvio Novaro, il poeta della “Pioggerellina di marzo”. Concesso spazio alla tradizione e al sentimento, ho sentito però il bisogno di ancorare questo racconto della conclusione della vita di Gesù su questa terra con un supporto razionale più consistente, rifacendomi alla “scommessa di Pascal”.

“La vita di ogni uomo, scrive Pascal, incontra fatalmente questo bivio: scegliere un cammino verso la luce nuova del Cielo, come dice sant’Agostino “E’ inappagato il nostro cuore finché non riposerà in Te, Signore!”. Oppure l’altro percorso alternativo: la vita come cammino ineluttabile verso il buio di una notte senza aurora.

Molti uomini del nostro tempo o sono insipienti o, peggio, non hanno il coraggio di fare questa scelta lucida e razionale. Pascal afferma che è assolutamente più conveniente e razionale optare comunque per l’eternità. Se essa c’è, hai fatto centro, se anche non ci fosse, hai tutto da guadagnare perché, sorretto dalla speranza di una risposta adeguata alle tue attese, il cammino è più facile e meno pesante.

Ai miei fedeli, che han seguito attenti ed interessati le mie parole, dissi: «Io scelgo la vita indicata da Gesù, anche perché diversamente la vita si ridurrebbe ad un inganno, una illusione ed una beffa se alla conclusione di tanta fatica, di tanto impegno e di tanta ricerca, quella realtà che chiamo “morte” venisse a distruggere d’un colpo solo “il castello” costruito con tanta fatica.

M’è parso che i fedeli convenissero con me e non con quel pensatore inglese che ha affermato che bisognerebbe denunciare le maggiori religioni perché ingannano gli uomini, promettendo loro la vita eterna, distogliendoli così dall’impegnarsi per l’emancipazione ed il progresso.

Ribadisco: «Io rimango decisamente con Cristo e con Pascal!».

Amarcord

So, perché i miei amici me l’hanno detto, che gradirebbero da me un po’ più di romanticismo, di poesia, di avventura.

Le mie riflessioni sulla fede, la mia inquietudine religiosa, le mie considerazioni di carattere sociale e politico, pongono problemi e suscitano in loro reazioni che non sempre li rendono entusiasti per i miei scritti. Il guaio è che, pur godendo del Creato, dai fiori alle stelle, dal mare alle montagne rocciose, le problematiche che mi interessano maggiormente sono quelle della fede, della vita sociale, della libertà, della solidarietà, della democrazia e della coscienza.

Comunque vorrei dire ai miei amici che io non rinnego affatto il sentimento, il sogno, l’arte e la poesia; le ritengo infatti componenti essenziali della vita e in fondo al mio animo non c’è solamente rabbia nei riguardi della burocrazia, disprezzo per i fannulloni, gli arruffapopoli e i politicanti, i furbi e gli ipocriti, ma anche gioia del vivere, del sognare ed incanto per le cose e le creature belle.

In questi giorni ho messo un po’ d’ordine nel grande armadio in cui ho raccolto tutti i volumi dei miei scritti, i periodici in cui mi sono impegnato nella mia lunga vita. Ogni tanto mi capita il desiderio struggente di sfogliare, di rivedere vecchi volti, di rileggere quello che ho scritto dieci, venti, cinquant’anni fa. M’è capitato tra le mani una foto di mia madre anziana: un volto nobile, profondo, intriso di un pizzico di malinconia, un volto scavato dalla fatica, dal lavoro e dal sacrificio. Questa immagine di mia madre è bellissima, piuttosto di una foto sembra un dipinto di un grande pittore del passato. Quanta dignità, quanta tenerezza, quanta volontà e capacità di sacrificio e di donazione!

Mi sono lasciato andare ai ricordi: quando la mamma cantava riordinando le camere, quando faceva quaranta, cinquanta chilometri, tra andata e ritorno, in bicicletta per portarmi pan biscotto in seminario durante la guerra perché il poco cibo era quanto mai scarso per un adolescente. Ho ricordato quando mio padre era in Germania e lei si portava dietro una decina di ragazzini come me nelle terre bonificate dal fascio dove andavamo a coltivare grano, fagioli, olio di ricino, al quarto, ossia tre quarti del raccolto andava al padrone e solo un quarto a noi che coltivavamo quel po’ di terra che riusciva a farci assegnare.

Ricordai di quando andavamo a spigolare, ossia a raccogliere le poche spighe di frumento che rimanevano sul campo dopo la mietitura, spesso cacciati dai padroni. Povera mamma! Mi domando ancora come faceva a tenere unita e a far lavorare quella brigata irrequieta e irresponsabile di ragazzini. Ricordo che ci prometteva: «Quando saremo arrivati alla fine del campo – sempre infinito – mangeremo». Il pranzo consisteva in polenta fredda, tegoline o un po’ di marmellata, seduti per terra.

Guardando quella foto dolce e ricca di una sana umanità, mi sono ripetuto l’altro ieri: “Mia madre merita non un monumento, ma un mausoleo!”, e nel mio animo questo momento è quanto di più bello si possa immaginare. A lei e a mio padre debbo tutto!

Lontani ricordi pressoché dimenticati

Qualche anno fa uno dei miei ragazzi che fa il giornalista al “Corriere della sera” è venuto al “don Vecchi” per farmi una proposta davvero incredibile: «Don Armando, vorrei scrivere la sua vita».

Pur gradendo quanto mai questo gesto di estremo affetto, rifiutai nella maniera più decisa. Non credo che la mia vita, pur essendo stata bella, intensa e soprattutto libera, meriti un volume, ma soprattutto non credo che abbia qualcosa di particolare che possa interessare la gente.

Mi sono ricordato di questo episodio pochi giorni fa quando, avendo raccontato qualche particolare della mia fanciullezza, una signora che ha familiarità con la penna mi confidò che avrebbe desiderato fare un articolo sulla mia fanciullezza. Forse le venne questa idea perché chiacchierando del più e del meno, le avevo raccontato che quando facevo le medie, ad ottobre, per Natale e per Pasqua, raggiungevo in bicicletta il seminario. A quel tempo non andavano le corriere e perciò partivo da Eraclea, mio paese natio, con la mia biciclettina da bambino, con la valigia su un portabagagli artigianale costruitomi da mio padre, facevo tutta la via Fausta fino a Treporti misurando il cammino percorso, leggendo sulle case coloniche che si affacciano ancora ad intervalli regolari, case costruite dal duce che portavano in facciata le frasi epiche “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, “Credere, obbedire, combattere”, “Vincere e vinceremo!”. Povero duce!

Ricordo che un giorno, mentre percorrevo quella strada che mi pareva non terminasse mai, per mettere nella canonica di Treporti la bicicletta, per poi prendere il vaporetto che portava a Venezia, incrociai un drappello di tedeschi a cavallo, elmetto in testa e fucile a tracolla; soltanto a ripensarci provo ancora i brividi di paura e risento ancora il passo cadenzato di quel drappello di cavalli. Finiti i mesi di scuola rifacevo il cammino a ritroso, riprendevo la bicicletta per tornare a casa, trafelato ed affaticato per quella ventina di chilometri di strada sterrata tutta buche e con tanta ghiaia.

Pensandoci ora, sono convinto che fatica, paura e sacrifici mi hanno temprato, così che oggi ogni più piccola comodità mi mette a disagio e spesso arrossisco e quasi mi vergogno di percorrere nella mia Punto bianca i due chilometri che conducono ogni giorno al mio “posto di lavoro”.

Mi pare che sia san Paolo che dica che anche l’oro si purifica col fuoco.

Le mie esperienze passate sono tali per cui oggi pretendo da me quello che, normalmente, chi non ha fatto esperienze del genere, non osa fare. Se posso dare un consiglio a genitori ed educatori, dico loro con grande convinzione: «Se volete bene ai vostri ragazzi, pretendete molto, pretendete sempre, solo così costruirete degli uomini liberi e positivi.

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

La mia “amicizia” ideale con Ermanno Olmi, il famosissimo regista italiano, dura da moltissimi anni, almeno fin dal tempo dell'”Albero degli zoccoli”. Recentemente si è ancora rinvigorita col suo “Villaggio di cartone” e per alcune interviste ai giornali, sempre su temi di fede.

La mia simpatia è determinata da una “sintonia religiosa” veramente forte, tanto che le sue dichiarazioni fatte a mezzo della stampa e, in maniera ancora più esplicita, attraverso i suoi film, mi sono state sempre di tanto conforto ed incoraggiamento. Avere “dalla mia parte” un intellettuale ed un credente del genere, mi ha sostenuto, liberandomi, in qualche modo, da una solitudine ideale che spesso mi preoccupa e mi addolora.

Qualche giorno fa un volontario mi ha regalato un volumetto di Olmi che, fin dal titolo, mi ha incuriosito in maniera quasi morbosa: “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”. Sto leggendo il volume, però sento il bisogno di riportare integralmente, fin da subito, la sua presentazione scritta sulla spalla della copertina, perché posso ritenerla come “manifesto” del mio credere oggi. Quando avrò finito il volume, ci ritornerò, perché le argomentazioni di Olmi e le sue analisi sulle “piaghe” della Chiesa odierna, mi paiono valide almeno quanto quelle più che note di Rosmini.

“Attinge alle emozioni più profonde questa lettera appassionata, e il suo autore, fra i più grandi cineasti viventi, non nasconde che forse disturberà gerarchie e devoti benpensanti, ma nella sincera convinzione che il nostro Occidente e la nostra Italia – sempre più piccola e incapace di grandi slanci – abbiano bisogno di un supplemento d’anima.

La Chiesa dell’ufficialità è sempre più lontana dagli uomini di questo tempo, il suo apparato ha esaltato la “liturgia del rito” dimenticando la “liturgia della vita”, ha aperto sportelli bancari anziché combattere l’idolatria del superfluo, ha fatto di se stessa un dogma svilendo la sacra libertà della coscienza. Questa progressiva lontananza dall’umanità è coincisa con un allontanamento da quel falegname e rabbi di Nazareth che con la sua vita ha suggerito l’unica strada della gioia: spendere senza sconti il bene prezioso della propria esistenza.

Nel rivolgersi alla Chiesa, Olmi chiama in causa anche altre “chiese”, che con la loro supponenza si sono allontanate dalla realtà: le “chiese” dei potenti, delle lobbies, degli pseudo-intellettuali e di tutti coloro che vorrebbero condannarci a consumare in perpetuo per sostenere sistemi ed economie che hanno divorato il patrimonio di nostra madre Terra nell’illusione che le sue risorse fossero illimitate.

Da sempre attento ai temi della religiosità, Olmi non disdegna di dire che la sua è frutto più del sentimento che della dottrina, perché «i sentimenti sono misteriosi, e hanno dentro più verità di qualsiasi ragionamento»”.

Cambiar passo

Tanti anni fa lessi una frase che mi ha messo in guardia da un grosso pericolo che non conoscevo. Il testo diceva che noi abbiamo accanto un pericolo mortale sempre in agguato: l’abitudine.

L’abitudine toglie slancio, colore alle cose che ci circondano, mortifica la ricerca di novità e standardizza, appiattisce la nostra vita. Questo è vero a livello esistenziale e più vero ancora per tutto quello che riguarda la vita religiosa. Spesso gesti, formule, riti, esperienze, diventano pian piano incolori ed insapori, cosicché non incidono quasi per niente sulla nostra vita spirituale e non sono affatto stimolanti. Noi abbiamo bisogno, ogni tanto, di voltar pagina, di ricominciare e di dare un ritmo nuovo al nostro spirito. Questo pericolo vale per tutti, in maniera particolare per i cristiani praticanti, perché l’abitudine svuota di contenuti, fa evaporare il profumo, la verità e il mistero della sostanza, lasciandoci in mano un guscio vuoto ed insignificante.

Per dare nuovo impulso alla nostra anima, credo che non servano gesti plateali o conversioni radicali, talora basta un po’ di silenzio, una verifica onesta, la lettura di una rivista o di un testo ricco di sostanza, una conversazione con un uomo di fede. “Cambiare passo” non solo è opportuno, ma necessario.

A questo proposito ritengo utile trascrivere una confidenza – che può sembrare ingenua – ma che invece io ritengo assai saggia.

“Quando nostro figlio era piccolo, a volte si fermava mentre tornavamo a casa a piedi, dicendo: “Papà, sono troppo stanco per camminare.” Io gli rispondevo: “Allora corri un poco.” Era una di quelle risposte illogiche che un bambino a volte riceve da un adulto. Lo dicevo per distrarlo, ed ero sorpreso nel vedere come il cambiare passo ravvivasse le sue energie e non si sentisse più stanco. Tutti abbiamo i nostri cali di energia, a volte solo perché procediamo sempre allo stesso passo. Viviamo nelle nostre abitudini, non siamo disposti a cambiare. Il motivo per cui ammiro il paralitico del vangelo di Marco è proprio perché quando Gesù gli dice di alzarsi e camminare, lui ha il coraggio di farlo. Gesù gli chiede di fare quello che non é abituato a fare. Perseverare nella fede richiede disponibilità ad ascoltare la voce di Dio che ci chiama alla conversione, a cambiare passo e a fare quello che non abbiamo fatto prima. Ci vuole coraggio per un tale cambiamento, ma “Fedele è colui che vi chiama” e Lui ci darà la forza di cui abbiamo bisogno per farlo.

La rivelazione è in un continuo divenire

Tanta gente – e pure io per la gran parte della mia vita – pensa che con l’Apocalisse di san Giovanni evangelista la Rivelazione sia completamente conclusa, quasi che il Signore avesse terminato il suo discorso con gli uomini e non avesse più nulla da dir loro. Credo che la stragrande maggioranza dei cristiani abbia una visione statica della fede, quasi che la verità sia giunta all’estremo confine assolutamente invalicabile.

Per molti quello che si può fare attualmente è soltanto conoscere meglio quello che Dio ha detto attraverso i profeti, gli uomini di Dio e soprattutto suo Figlio Gesù. Mentre mi pare che sia certamente più vero che Dio continua il suo dialogo, il suo farsi conoscere dalle sue creature, motivo per cui la nostra conoscenza della verità continua a crescere col tempo e mai si sarà esaurita perché Dio è infinito, inesauribile nel suo manifestarsi agli uomini.

Qualche giorno prima dell’Ascensione, sono rimasto felicemente colpito da una frase di Gesù pronunciata poco prima del ritorno al Padre: «Ho tante altre cose da dirvi, ma voi ora non ne siete capaci, però vi manderò il Paraclito che vi farà comprendere quello che vi ho detto e vi parlerà del Padre».

Per me diventa quanto mai importante apprendere che noi uomini del nostro tempo – ma così avverrà anche per il futuro – possiamo avere una conoscenza di Dio più profonda e vera di chi ci ha preceduto e la qualità della nostra religiosità e della nostra fede è certamente migliore e più avanzata di quella che era nel passato. Quando molti nostalgici rimpiangono il passato per quanto riguarda lo spirito religioso, credo che sbaglino di grosso. L’uomo di oggi, credente o no, praticante o no, è di certo molto più religioso di quanto non sia stato nel passato.

Partendo da questa considerazione sono portato ad essere tanto più ottimista sulla religiosità attuale ed aggiungo che l’uomo che oggi vuol essere in dialogo con Dio, deve essere sempre in una posizione dinamica di ricerca e di crescita, mentre chi si ancora in maniera statica al passato, ha un rapporto con il Signore povero, grezzo e carente.

La consolazione offertami da san Paolo

Pur sapendo di sbagliare sarei tentato di addebitarmi gli insuccessi di ordine pastorale causati dai miei limiti di intelligenza e di capacità nel porgere adeguatamente ai fedeli quello splendido messaggio di Gesù in cui credo e che sono convinto che sarebbe veramente un dono ed una grazia per tutti.

Impiego sempre più tempo e pago con sempre più sofferenza la mia preparazione all’omelia domenicale. Talvolta ho paura di banalizzare la parola di Dio ed anche quando mi pare di averne scoperto degli aspetti di grande attualità e validità anche per gli uomini d’oggi, ho la sensazione di impoverirli con un dire povero e deludente.

Tante volte ho fatto il proposito di accettare questa croce, però ad ogni predica debbo pagare un duro prezzo alla delusione e alla mortificazione per la mia pochezza.

Qualche giorno fa, nella liturgia feriale, mi è capitato di leggere negli atti degli apostoli un vero flop di san Paolo, che pure era un uomo intelligente e veramente santo. Si è trattato di quel brano in cui si racconta l’avventura apostolica di san Paolo nei riguardi degli ateniesi che, come la gente del nostro tempo, era piena di sé e convinta di saper tutto.

San Paolo ebbe un’intuizione veramente felice e, avendo scoperto in Atene un altare dedicato al dio ignoto, raccontò che era andato in quella città appunto per parlare di questo dio sconosciuto. Lo spunto felice attirò l’attenzione di quella gente perfino troppo abituata a discettare su tutto, però quando lui disse che voleva parlar loro di quel Dio che Gesù risorto era venuto ad annunciare, qualcuno se ne andò subito e qualche altro, con un atteggiamento di irrisione, gli disse: «Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta»!

Io sono d’accordo con Mauriac quando afferma che “tutto è grazia”, tanto che “il Signore sa scrivere dritto anche su righe storte” e perciò spero sempre che il Signore faccia il miracolo di “accendere la fede” anche quando “l’accendino” è assai difettoso, con poco gas, e la pietra focaia logorata, oppure che i miei fedeli siano così buoni come quel cristiano che di fronte alle critiche di fedeli difficili col loro prete, disse: «Io ho sempre ricavato qualcosa di buono da ogni predica che ho ascoltato durante la mia lunga vita».

Per ora, pur con difficoltà e paura, mi reggo su questi due appigli.

La mia stima per Andreotti

Una volta ancora mi trovo in disaccordo col mondo intero! In occasione della morte di Giulio Andreotti, come era prevedibile, si sono versati fiumi di inchiostro per inquadrare la sua persona e la sua opera. Ne han parlato tutti e ne han parlato molto: gli sono stati riconosciuti dei meriti, però, in quasi tutti gli interventi, m’è parso di cogliere sempre un’ombra di riserva, una critica talora aperta da parte dei suoi avversari politici, e talora sommessa da parte di quel mondo con cui egli ha pur collaborato a livello politico.

Io non sono certamente uno studioso, né godo di una documentazione tale da poter dare giudizi, eppure ho sempre avuto una grande simpatia ed una grande stima per questo politico rimasto al vertice dello Stato dall’inizio della storia repubblicana ad oggi. Per me Andreotti è stato una persona intelligente, capace, arguta e coerente. Dobbiamo anche ad Andreotti la rinascita del Paese e soprattutto l’averci risparmiato la tragica esperienza di un regime comunista, e questo è un merito pressoché insuperabile. Come ogni uomo anche Andreotti ha avuto i suoi limiti ed avrà fatto i suoi sbagli, ma mai quanti i suoi detrattori.

Come ho avuto stima per Andreotti, altrettanto ho avuto disistima per i suoi detrattori, soprattutto per il magistrato Caselli che ha fatto spendere al Paese una cifra enorme per un processo fazioso durato dieci anni, con spreco di tempo, oltre che di denaro, con sofferenza e soprattutto con perdita di stima della magistratura presso l’opinione pubblica.

Andreotti è sempre andato diritto per la sua strada, ha detto con franchezza ad ognuno quello che pensava di lui, ha testimoniato a viso aperto la sua fede e credo che abbia fatto il bene del Paese in tempi tristissimi.

Più volte ho scritto della mia stima per i cristiani che non si vergognano di essere tali e che non hanno complessi di inferiorità nei riguardi della gente faziosa, prepotente o sempre schierata con le idee alla moda.

Tanti anni fa ho ricevuto dalle mani di Andreotti il titolo di “Mestrino dell’anno”, titolo di cui vado fiero; conservo con piacere la foto di questo evento e ritengo doveroso dargli questa testimonianza di stima per controbilanciare quel mondo anticlericale e di sinistra che non riesce mai a riconoscere il merito dei cattolici coerenti e tenta sempre di infangarne la testimonianza con supposizioni e malignità di ogni genere.

i timori di un vecchio prete

Tante volte mi capita di invidiare chi parla o scrive bene. Più volte ho fatto l’esame di coscienza chiedendomi se questa invidia sia solamente invidia per orgoglio o vanagloria o sia, piuttosto, come io spero, “santa invidia” per non essere capace di offrire il messaggio cristiano in maniera bella e convincente.

Per quanto riguarda lo scrivere, mi giunge una serie di giornali e riviste, spesso ben fatte e con una prosa limpida, scorrevole e convincente. Proprio venerdì scorso ho pensato a tutto questo tenendo tra le mani “Gente Veneta”, di cui è direttore mio nipote, don Sandro Vigani. Il giornale è pieno di notizie su molti argomenti affrontati in maniera brillante, l’impostazione grafica è piacevole, moderna, tanto che se confronto il giornale della diocesi con il mio “Incontro”, il primo è pari a quello di un gigante in confronto a quello di un piccolo nano. Mentre “Gente Veneta” è un vero giornale vario, serio, intelligente, con belle e convincenti argomentazioni, “L’Incontro” è talmente povero da arrossire di metterlo accanto, pur costandomi tanta fatica e tanto denaro.

Talvolta mi è capitato di pensare a Giuliano Ferrara e al suo “Foglio”, in cui lui fa da mattatore, però nel “Foglio” c’è cultura, intelligenza, argomentazioni brillanti, mentre ne “L’incontro” tutto è povero e disadorno.

Ogni giorno di più mi chiedo se valga la pena impegnare tanta fatica e tanto denaro per risultati così modesti. Ho sempre avuto coscienza dei miei limiti, però essendo convinto che il messaggio non lo possiamo lasciar morire di inedia nelle nostre canoniche o nelle nostre sagrestie, ho osato, e forse mi sono messo in un’impresa più grande di me.

Un tempo c’era l’entusiasmo e qualche guizzo felice, mentre ora mi appare tutto tanto piatto e scontato. Talvolta mi voglio illudere che sia una crisi passeggera, però essa dura ormai da troppo tempo e d’altronde non vedo attorno qualcuno che possa sostituirmi. Spero quindi che si affacci all’orizzonte qualche bella intelligenza che con una penna felice faccia rifiorire questo sogno pastorale. Io sarei ben contento di tenere, come Mosè, le mani alzate in preghiera per chi volesse continuare questa “santa battaglia”.