La grazia di avere ricordi cari e presiosi da ritrovare!

Quest’anno ho vissuto il ferragosto, come ogni domenica, a Mestre, in cimitero, facendo serenamente le cose di sempre. Per me non c’è più bella vacanza di quella passata facendo la vita che mi piace con le persone che amo. Però sto usando termini impropri perché conosco la festa dell’Assunta, non il ferragosto, che non mi piace e che rifiuto.

L’Assunta di quest’anno è stata veramente bella e dolcissima: il cielo fresco e limpido, il sole che ha messo in luce tutte le tonalità del verde appena lavato dalle ultime burrascate, la chiesa gremitissima, il coro dei miei vecchi che ha tirato fuori le note più calde; uno splendido incontro spirituale veramente denso ed appagante.

Nel pomeriggio, dopo il pisolino pomeridiano, seduto nella mia comoda poltrona nel mio alloggio solitario, mi sono lasciato andare per qualche tempo a sognare, riandando a questa festa di mezza estate del mio passato. Mentre le immagini si accavallavano l’una sull’altra, lasciandomi vedere scorci cari ed intimi di tanti anni di vita, ho scoperto che è una grazia possedere dei ricordi così ricchi e così intensi.

Per un istante rividi la piccola cappella a ridosso di Villa Fietta quando, seminarista in vacanza, mi trovavo sulla collina ai piedi del Grappa con i miei compagni e superiori: che festa viva ed esaltante per l’Assunta!

A questa immagine si sovrappose quella di quando ero giovane prete in servizio ai Gesuati, entrai in un ferragosto di più di mezzo secolo fa, nella basilica dei Frari, con la pala del Tiziano illuminata, mentre padre Rizzi, all’organo, tirava giù a piene mani le melodie del paradiso. A questo quadro subentrò quello delle “Assunte” celebrate all’aperto tra i cipressi e la gente, appoggiata sulle lapidi delle tombe, a guardare in alto, per vedere tra i cumuli di nubi bianche la Vergine salire verso la luce celeste.

Poi un susseguirsi rapido di immagini, una più bella dell’altra, inquadrate dai colli asolani a Villa Flangini. Quelle fughe dalla città nel primo pomeriggio, per entrare nel viale fresco e ombroso della villa. La messa con gli ospiti e i tanti amici del coro e della comunità che si erano dati appuntamento nella nostra amata villa, gioiello veramente stupendo. Poi la tavolata infinita con i tavoli imbanditi con grandi piatti di soppressa e di pane cotto a legna nel forno di Asolo. La fiaccolata verso l’eremo francescano di sant’Anna per ringraziare la Madre della Vergine e quindi i canti sulla piazzola verde antistante la chiesetta cara alla Duse e a Grazia Deledda, guardando Villa Flangini illuminata, vera perla tra i colli.

Quanti bei ricordi dell’Assunta! E’ veramente una fortuna e una grazia poter estrarre dal passato ricordi cari e preziosi, ed io ho questa fortuna.

Una commovente testimonianza della tenerezza di Dio

Qualche mese fa è morto don Zega, il sacerdote della Compagnia di San Paolo che, prima, diresse per qualche anno “Famiglia Cristiana” e poi fu un ottimo redattore della rubrica “Lettera al direttore”. In quella circostanza il periodico, fondato da don Orione, dedicò parecchi articoli e servizi su questo splendido sacerdote intelligente e libero di pensiero.

Ho letto avidamente quegli scritti perché io sono quanto mai interessato a ciò che riguarda il sacerdote in genere e, in particolare, il sacerdote del nostro tempo. Fui, in quell’occasione, colpito da una frase che don Zega pronunciò durante l’omelia che tenne nel suo piccolo paese natio, quando festeggiò coi suoi paesani i cinquant’anni di sacerdozio. Don Zega disse: «Noi preti di questo tempo siamo chiamati soprattutto a testimoniare la tenerezza di Dio». Stupenda intuizione: “la tenerezza di Dio”!

Oggi la gente non teme più né il giudice, né il Dio punitore, ma credo che si commuova ancora quando incontra Dio che ci tratta, nonostante tutto, con tenerezza; almeno a me sembra così.

Stamattina, nella mia breve meditazione, ho letto un brano quanto mai persuasivo ed efficace sulla tenerezza di Dio. Me lo sono ritagliato perché voglio rileggerlo di sovente.

“Un giorno mi sono imbattuta in un passerotto, il più comune degli uccelli, che era stato ferito da un’auto. L’ho soccorso con delicatezza e l’ho portato a casa. Mi ha colpito la sua fragile bellezza: il dorso di un caldo color castagna, le ali marroni a strisce bianche, la testolina grigia, il petto candido e arruffato. Ero stupita che quelle fragili zampette fossero in grado di sostenere questa piccola e fragile creatura, anche in mezzo ad una tempesta. Mentre tenevo il minuscolo corpicino al sicuro tra le mie mani, ho sentito il battito del suo cuore affievolirsi, poi cessare: mi sono commossa.

Nel Vengelo è scritto che Dio sa quando un passero cade a terra. Mi sono resa conto che come il passero ha trovato rifugio benevolo tra le mie mani, così anch’io sono tenuta nel palmo della mano di Dio. Mi sussurra parole di tenerezza, mi dice che sono amata, accettata, accolta oltre ogni aspettativa.”

Mi piacerebbe tanto che i miei amici, e soprattutto i fedeli che mi ascoltano attenti e numerosi nella mia cattedrale tra i cipressi, potessero leggere queste parole per provare la dolce sensazione che ho provato io. Purtroppo io non riesco a parlare così bene della tenerezza di Dio.

E’ giusto vivere la vita con gioia!

Qualcuno dei fedeli, che partecipano numerosi all’Eucarestia che celebro nella mia amata chiesa dedicata alla Madonna della Consolazione, talvolta rimane un po’ sorpreso dei miei sermoni, che s’allontanano dai cliché tradizionali. D’altronde io non riesco a tradurre in maniera diversa della mia sensibilità e del mio cuore, la Parola ed offrirla con convinzione ed amore ai fratelli che vengono nella nostra cara chiesa per incontrare il Signore.

Spesso, dall’attenzione assoluta e da qualcosa che vibra nei volti, ho la sensazione che i fedeli accolgano volentieri e talvolta con entusiasmo la “versione” che di volta in volta ho preparato e poi tento di offrire con semplicità, ma con tanta convinzione. Perché non ci siano fraintendimenti, più di una volta ho affermato che il messaggio di Dio è un pozzo profondo ed infinito dal quale ognuno può trarre quello di cui sente il bisogno. I miei cenni sono colti in rapporto alle mie attuali esigenze, ma ognuno può trovare nella stessa Parola quello di cui ha necessità in quella particolare congiuntura in cui si trova.

Il giorno dell’Assunta, dopo qualche cenno per inquadrare “il dolce mistero”, ho affermato che la conclusione dell’epilogo soave e glorioso della vita della Madonna, ci offriva il gran dono di poter sognare. L’uomo di oggi, così pragmatico ed efficientista, ha bisogno di sognare guardando il Cielo e l’Assunta offre una visione bella e positiva della vita che vede avanti a sé una strada, percorsa da Maria, che porta al Padre.

Ho invitato i presenti ad avere l’ebbrezza di vivere la splendida avventura della vita come un gioco gioioso e appassionato. Io non ho alcun timore d’essere accusato di essere un sentimentale, perché una vita senza sentimento, senza poesia e senza sogni è ben misera e deludente.

Ho concluso dicendo che l’alternativa a questa ipotesi – dicano quel che vogliono i filosofi contemporanei, si riduce alla tesi del Cronin che, nel suo romanzo più famoso, afferma che le stelle fredde e beffarde guardano con cinismo il protagonista che è costretto, dopo il fallimento del suo sogno di liberazione, a ritornare nelle viscere buie della miniera.

Mentre io scelgo di gran lunga – e la celebrazione dell’Assunta ne è un valido supporto – le parole del protagonista, interpretato nella versione cinematografica da Paul Newman, che conclude la sua tormentata ma vittoriosa vicenda affermando «Lassù uno mi ama», o le parole di santa Teresa «Il mio nome è scritto lassù». Sono infinitamente felice e riconoscente a Dio e alla Chiesa di poter donare questa lettura della vita.

La paura di morire

Qualche giorno fa, riflettendo su ciò che lo scoutismo mi ha insegnato, sono tornato ad una vecchia reminiscenza che mi ha portato alla memoria la splendida testimonianza di un giovane scout francese, che aveva colto ed interpretato al meglio lo spirito scout. Tuttavia, in occasione di un ennesimo ricovero nella clinica urologica di Padova, mi è capitato di fare una esperienza simile alla sua, anche se un po’ meno brillante e mistica.

Guy Delagaudie, in un assolato pomeriggio d’estate, trovandosi su un alto sperone di roccia e vedendo sotto di sé un mare limpido ed azzurro, ebbe istintivamente la voglia di tuffarsi. Però, spiccato il salto per il tuffo, ebbe l’impressione d’aver sbagliato la misura e di stare per sfracellarsi sulla roccia sottostante. In quell’attimo fece in tempo a ripetersi “Signore, fra qualche istante sarò tra le tue braccia!”

Per me il fatto è stato più prosaico, però non meno preoccupante. Avevo subìto l’intervento chirurgico positivamente ma, per non so quale motivo, i sanitari si sono accorti che il valore del potassio era schizzato in alto in maniera preoccupante e pericolosa. Per affrontare questa emergenza, il medico mi fece fare un prelievo del sangue ogni due ore, per monitorare le reazioni ai farmaci prescrittimi. L’ultimo prelievo avvenne alle 21 e mi riferirono che il valore stava scendendo. Mi addormentai con una ritrovata serenità ma, a mezzanotte, due infermieri, entrati in stanza furtivi alla luce di una torcia, mi svegliarono e mi dissero che dovevo farmi una flebo. Poi uno di loro iniettò nel flacone del liquido una siringa di nonsoché. Chiesi spiegazioni per sapere se questo fosse dipeso dall’esito negativo dell’ultimo prelievo. Essi, che normalmente, per motivi di deontologia professionale, sono sempre parchi di informazioni, furono molto evasivi. Il buio della notte, il fatto che la mattina seguente avrei dovuto essere dimesso e che m’erano state tolte tutte le cannule, mi fece immediatamente pensare: “Ci siamo!”

Chiesi in fretta perdono al buon Dio, poi pensai che avrei dovuto essere felice di essere in procinto di incontrarmi col mio Signore; però la cosa non mi riuscì molto facile. Allora tentai di scusarmi aggrappandomi al pensiero che avrei lasciato in difficoltà i miei collaboratori per reperire i fondi per il “don Vecchi” di Campalto. Capii però che questo, in realtà, era solo un pretesto, e dovetti ammettere che avevo paura.

Al mattino tutto si risolse molto prosaicamente. Conclusi però che devo incentivare il mio “apparecchio alla buona morte”, come si diceva un tempo.

Stampa minore cattolica (e non solo) K.O.

A cominciare da “Gente Veneta”, il periodico del nostro patriarcato, a tutti i periodici minori, ossia di tiratura limitata o di diffuione locale, fino alle riviste o giornali espressi dalla base e non controllati dalle grandi lobbies nazionali o internazionali, tutti hanno ricevuto con l’ultima finanziaria una mazzata mortale.

Fino a quella data, infatti, quei periodici godevano di agevolazioni postali per l’invio agli abbonati e gran parte dei lettori li ricevevano in abbonamento postale. Avendo tolto queste agevolazioni, che venivano erogate per facilitare la circolazione delle idee e il confronto fra varie matrici culturali ed interessi diversi, quei giornali si trovano ora a sostenere delle spese di spedizione enormemente superiori.

Il mondo cattolico, che è sempre stato fragile nel settore della stampa e dei mass-media, rimane il più colpito da questo provvedimento che mette letteralmente in ginocchio quella miriade di testate minori, ma capaci di offrire contributi ideali seri, non solamente ai destinatari, ma a tutta la collettività. I direttori di questi periodici si sono dati immediatamente da fare per evitare la chiusura ma, non avendo più “santi” nel mondo politico che conta, a cui rivolgersi, si trovano indifesi e smarriti.

La vecchia Democrazia Cristiana avrà avuto mille pecche e debolezze, però, tutto sommato, si faceva carico delle istanze dei cattolici. Attualmente in Forza Italia c’è una presenza notevole di vecchi socialisti, di liberali che, per nascita, sono sempre stati laici e spesso anticlericali e poco sensibili ai valori religiosi. Nel Partito Democratico poi, la cultura dominante e la classe dominante sono rimaste quelle comuniste, che hanno ricevuto l’educazione politica alle Botteghe oscure, e che pare abbiano ancora nostalgia del “compagno” di bandiera rossa e del saluto col pugno chiuso, nonostante la presenza dei convertiti Franceschini e Bindi, che sembrano ben poco preoccupati del pensiero dei cattolici.

Rimane Casini a pretendere di rappresentare il nostro mondo, senza però averne i numeri, la coerenza; chiacchiera, ma pare che nessuno l’ascolti. Poveri cattolici in politica!

“L’incontro”, per fortuna, rimane del tutto immune da questo dramma; la sua debolezza è diventata la sua forza: i canali di distribuzione, che rimangono in parte sconosciuti perfino alla sua direzione, funzionano in maniera misteriosa ma, fortunatamente, efficace.

“La c’è, la Provvidenza!”, direbbe Renzo Tramaglino dei “Promessi Sposi”.

“Dio è il direttore!”

Ho inteso più volte il nostro vecchio Patriarca, Angelo Roncalli, ripetere, nelle sue catechesi semplici ma incidenti, la massima “Quando hai qualche difficoltà con qualcuno, prima di intervenire dormici sopra una notte sulla questione del contendere, meglio ancora due notti!”. Ci sono delle massime, molto semplici ed elementari, però ricche non solamente di buon senso, ma anche di notevole saggezza, massime che facilmente si imprimono nella memoria e che, nel momento giusto, s’affacciano alla coscienza, ti aiutano e talvolta ti costringono a riflettere prima di prendere una decisione avventata e frettolosa.

L’altra mattina, come di consueto, ho fatto meditazione su un versetto della Sacra Scrittura, commentata ed attualizzata molto brevemente da una signora di fede cristiano-metodista degli Stati Uniti d’America. La frase della Bibbia era questa: “Gettate su di Lui (il Signore) ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di voi”. Il suggerimento è abbastanza scontato in chi ha una certa pratica della teologia cristiana, però la maniera con cui questa donna di fede lo ha tradotto, e ne ha tratto frutto spirituale, mi pare veramente originale e, soprattutto, efficace; essa infatti ha affisso, nello studiolo in cui si ritirava per lavorare e pregare, una tavola con scritto, a grandi lettere rosse: “Dio è il direttore!”, quale promemoria giornaliero. Poi commenta così la sua scelta, di primo acchito un po’ strana e sorprendente:

Io tendo a dimenticare che è Dio il supervisore della mia vita. Come moglie e madre a volte voglio comandare mio marito e i miei figli. Come impiegata penso che a volte ne so più io del mio capo. Non vado d’accordo con la gente, coi vicini o coi politici. Tutto questo finisce per turbare la mia pace.
Anche se ritengo di avere il diritto o il dovere di esprimere le mie idee, non posso imporre agli altri di agire come intendo io. La mia scritta mi ricorda di porre le mie ansietà e preoccupazioni davanti a Dio. Lui non è solo il mio direttore, ma lo è di tutte le nostre vite. E’ Dio che ci guida, non siamo noi. In preghiera gli chiedo di assegnarmi il mio compito giornaliero. Non mi preoccupo di quello che fanno gli altri, lascio che sia Lui a dirigerli. Gli parlo delle mie preoccupazioni e gli chiedo di fare la sua volontà. Quando sono io a dirigere, lo spettacolo non sempre riesce bene. Lasciare questo compito a Dio assicura il meglio per tutti.”

Credo di non aver mai sognato, e meno che meno tentato, di essere il direttore d’orchestra, però spesso tenterei idealmente di fare la parte del suggeritore e più spesso faccio maldestramente, in maniera rozza, “il critico” di questa strana orchestra che è la vita, la storia, la società, la Chiesa.

Se qualcosa mi ricordasse più frequentemente ed in maniera efficace che è Lui e sempre Lui, il Signore, a tenere la bacchetta in mano e a dirigere gli eventi e gli uomini, perderei meno la pace e direi meno corbellerie.

Proposito: tirerò via dalla parete uno dei miei amati quadri, per sostituirlo con la scritta: “Lui è il direttore!”. Spero che ciò mi tolga ansie e responsabilità.

Per fortuna ci sono poveri che aiutano i poveri, perché chi potrebbe latita

Un mese fa ho spedito, molto speranzosamente, una serie di lettere raccomandate con risposta pagata, per essere certo che esse arrivassero a chi di dovere e che nel nostro mondo tiene le chiavi della cassaforte, per chiedere un contributo a favore dei nuovi 64 alloggi per gli anziani poveri della città.

Quasi due terzi del costo li ho raccolti, o li sto raccogliendo, goccia a goccia, tra la povera gente: le persone dallo stipendio di “mille euro al mese”, quelli che hanno la pensione minima di 516 euro, e chi perfino molto meno. Supponevo quindi che chi manovra le grosse cifre della finanza pubblica ci avrebbe aggiunto, senza grande fatica – constatando ogni giorno l’infinito, ripeto l’infinito, spreco di denaro pubblico – l’ultimo tassello.

“Illusione, dolce chimera sei tu!”.
La prima risposta è stata quella dello Stato, il quale, mentre dichiara mediante il Governo e perfino mediante i suoi uscieri, quanto abbia a cura i poveri, mi dice che non solamente non è disponibile a scucire un centesimo, ma anzi pretende il dieci per cento della spesa, chiamando IVA il furto!

Lo Stato di Napolitano, di Berlusconi, di Bersani, di Di Pietro e di Bossi pretende ben trecentocinquantatremila euro (settecento vecchi milioni), perché mi fa il benevolo piacere di permettermi di aiutare i vecchi più poveri della mia città!

La Chiesa mi invita spesso a pregare per “le autorità del nostro Paese”. D’ora in poi pregherò più insistentemente e più devotamente perché il buon Dio conceda loro quel che si meritano.

Allo Stato finora ho versato già 14.500 euro, pari a quasi trenta milioni, sempre di vecchie lire, per la prima trance.

Seconda risposta in ordine di tempo e di mia speranza: Fondazione Venezia. La vecchia Fondazione della Cassa di Risparmio che per il “don Vecchi 2” aveva contribuito con l’acquisto dei blocchi cucina (mi pare con trecento milioni di vecchie lire), m’ha risposto, medianta una lettera del suo presidente, prof. Segre, che per statuto e scelte della Fondazione stessa, non può assolutamente accogliere la mia richiesta. E due!

In attesa delle altre risposte alle mie richieste – ma se dal mattino si può arguire cosa ci riserverà il giorno – credo che ci sia poco di buono da sperare.

La prima e parziale mia conclusione è questa: per fortuna a Mestre ci sono ancora i poveri disposti ad aiutare i più poveri! La seconda: mi procurerò una bisaccia da frate da cerca ed andrò di casa in casa a domandare, per amor di Dio, qualche soldino per la casa dei nostri nonni!

Lasciamo sia Dio a giudicare

L’interminabile e sporca guerra in Afganistan non cessa di sorprendere -escludendo purtroppo i paesi di religione islamica – il mondo intero, con le sue sempre nuove e raccapriccianti crudeltà.

Ho impresse nella memoria alcune scene tristi ed emblematiche degli orrori di questa guerra. Ricordo l’immagine terrificante di un bambino talebano che, circondato da una cerchia di loschi figuri con strani turbanti in testa, sgozza con un lungo coltello un prigioniero. Era un esempio di lezione della scuola di crudeltà che educa le nuove generazioni di fanatici per il prossimo futuro.

Un’altra immagine mi rimane impressa nella memoria e nella coscienza, quella di una bimbetta nuda che corre in mezzo alla strada, mentre le bombe americane al napalm bruciano la desolata terra del Vietnam. O quella del ragazzino ebreo con le mani alzate e gli occhi atterriti cacciato dalle SS in un vagone merci, verso un lager nazista, per morire in una camera a gas.

Sono i momenti in cui mi affiora alla memoria una frase del filosofo Spinoza, che ai tempi del liceo mi suonava strana ed incomprensibile: “Homo, homini lupus”, l’uomo, lupo famelico nei riguardi degli altri uomini, ma che ora vedo espressa da queste immagini.

Purtroppo in qualche parte recondita di quella splendida e meravigliosa creatura che è l’uomo, s’annida pure la bestia spietata e feroce. Guai lasciarla uscire!

Queste tristissime immagini mi sono riaffiorate alla memoria nella dolce estate che ho goduto nel mio piccolo guscio domestico al “don Vecchi”, nella cornice di una bellissima tavolozza di verdi – del prato e degli alberi -, di azzurro del nostro bellissimo cielo e di rossi, bianchi, oro e di mille altre varietà di colori degli oleandri e degli ibiscus giganti del nostro parco.

La notizia dell’ultima crudeltà mi è arrivata improvvisa e lugubre, come una chiazza nera, in quella realtà dolce e rasserenante: una decina di medici volontari impegnati in quel tragico Paese lontano, sono stati uccisi, solamente perché avevano portato con sé la Bibbia, a supporto della loro scelta di fede e scelta di fare del bene in un mondo tanto tragico e crudele.

Di primo acchito ho sentito la tentazione di invocare la bomba atomica per annientare il male oscuro e tragico del fondamentalismo islamico, fautore di terrorismo e di barbarie riconducibili solamente alla memoria di molti secoli fa.

Poi però ho pensato che anche noi cristiani, secoli fa, abbiamo commesso gli stessi efferati misfatti contro gli ugonotti, i catari, gli ebrei, le streghe, gli eretici e tanti altri e gli stessi mussulmani. E mi sono ricordato la risposta di Gesù ai dipendenti che volevano estirpare la gramigna dal campo di grano. Dio evoca a sé il giudizio, perché quello degli uomini è sempre fazioso e partigiano.

Parole e fatti

Il mio ascetismo è assai povero, nonostante tanti tentativi. Non è che io manchi ai doveri di studio, di meditazione e di preghiera, che sono inerenti alla vita sacerdotale: ogni giorno recito il breviario, faccio meditazione, celebro messa e dedico qualche tempo alla lettura spirituale. Però, nonostante queste mie pratiche religiose, mi pare – anzi sono certo – di volare molto a bassa quota.

I due nemici più micidiali per la mia crescita ascetica sono: il razionalismo e il pragmatismo.

Il razionalismo: raramente mi abbandono con piena fiducia alle proposte religiose, alle verità che Santa Madre Chiesa mi offre; la lettura dei salmi, le riflessioni di certi Padri della Chiesa, sono così lontane dai miei convincimenti più profondi e, soprattutto, dalla mia cultura, che sono costretto a chiudere gli occhi su infiniti passaggi. Il secondo nemico è di certo il pragmatismo. Io sono del parere dei nostri antichi romani “Verba volant, exempla trahunt”. Le parole incitano, ma solamente i fatti rimangono e trascinano. Certe elucubrazioni mistiche mi rimangono totalmente estranee, non mi dicono niente, anzi talvolta suscitano in me quasi una repulsione. Sento il bisogno assoluto di un messaggio che migliori la vita dell’uomo, che renda più fluidi e positivi i rapporti sociali, che crei ordine e felicità.

La grande verità che mi esalta è quella dell’incarnazione; l’amore e la verità assoluti, cioè Dio che si incarna, che diventa uomo, cittadino del mondo, che si lascia coinvolgere ed illumina la nostra vita e i nostri problemi col suo esempio e la sua testimonianza.

Faccio un’enorme fatica, pur capendo una sua certa utilità, a credere che il buon Dio sia più interessato alle nostre chiacchiere che alla nostra volontà di diventare creature che tentano di avvicinarsi a Lui, a imitarlo, per riportare sulla terra ordine, bontà, amore, giustizia, dignità e libertà. Sarei tentato di affermare che sono molto più interessato al Dio della vita che a quello della religione.

Il peso delle parole con le ali

Qualche giorno fa Lucia, mia sorella, è ritornata da un suo ennesimo viaggio in Africa. Lucia ha preso il “mal d’Africa” circa quarant’anni fa, avendo accompagnato il famoso oculista prof. Giovanni Rama, che ebbe la splendida idea di donare ai poveri del mondo un periodo delle sue ferie per andare ad offrire il suo contributo di professionista ad un piccolo ospedale situato nel cuore della savana, arsa e selvaggia, in Kenia.

Il medico locale riservava i casi più difficili alle mani magiche dell’oculista mestrino. Mia sorella fu scelta a far parte dell’équipe che era necessaria per gli interventi.

Il contatto con un mondo così povero, ma semplice, sano e riconoscente, fece si che mia sorella non seppe più staccarsi da quella gente che l’aveva accolta con tanto affetto e tanta riconoscenza e continuò ad interessarsi, a portare aiuti, anche dopo la morte di Rama.

L’altro giorno venne al “don Vecchi” per salutarmi, per riferirmi che i bimbetti dalla pancia gonfia avevano tanto pregato per me, e per parlarmi degli immensi problemi di quella povera gente. Tra un discorso e l’altro mi riferì che la piccola comunità di suore che lavorano in ospedale, segue la scuola delle infermiere e si prodiga in ogni modo per i poveri. Mi confidò poi che leggono ogni giorno con interesse una pagina del mio “diario”. Certamente, nella confidenza di queste care donne, che spendono la loro vita per gli altri, c’era della cortesia nei riguardi di mia sorella, però il fatto che le mie riflessioni siano giunte tanto lontano e ad anime così pulite e sensibili, mi fa quasi rabbrividire per la responsabilità che, in modo spesso disinvolto, mi assumo nei riguardi di un prossimo così sensibile e diverso.

Pensando a queste confidenze, credo una volta ancora che da parte mia sia quasi un azzardo adoperare strumenti così delicati e pericolosi, quali sono la penna e la parola, senza valutare fino in fondo quale sia l’impatto e quale risultato possano avere le mie riflessioni sulla vita.

Questa notte mi sono svegliato più di una volta pensando a questo problema. Sono arrivato alla conclusione di dover ripetere che le mie parole non sono la Bibbia, ma solamente un’occasione di confronto, ma soprattutto ho pregato per quegli uomini e quelle donne che intendo solamente amare e, semmai, aiutare.

Gli “amici” ossequiosi che rovinano la politica a tutti i livelli

Non ho mai stimato coloro che non hanno i coraggio di confrontarsi con chi non è della propria corrente e anche con chi gli è notoriamente contrario. Il dialogo, il confronto e perfino lo scontro onesto, sono convinto che siano sempre un fatto positivo che produce libertà, democrazia, giustizia e benessere. Purtroppo chi detiene il potere, forse per comodo, o per l’illusione di essere più libero di fare una politica efficace, si circonda di lacchè e di collaboratori sempre ossequiosi.

Monsignor Vecchi – e qui mi scuso con chi mi dirà che lo cito perfino troppo di frequente (d’altronde lui fu uno dei maestri più incidenti) – ogni tanto mi ripeteva: «Armando, circondati di persone libere ed intelligenti, perché se anche non sono del tuo stesso parere, ti criticano e si spingono fino a contrariarti ed opporsi dialetticamente ai tuoi giudizi o alle tue disposizioni, con essi potrai trovare sempre un punto di accordo, mentre tienti lontano dagli stupidi, perché questi facilmente ti pugnalano alle spalle o comunque non fan nulla perché tu non sbagli».

A tal proposito, non sono riuscito a capire i motivi veri, non quelli dichiarati per gli allocchi, del divorzio tra Berlusconi e Fini. A parte che hanno messo in un bel pasticcio il Paese, ma non so perché non hanno voluto trovare un punto d’incontro. Tra persone intelligenti, amanti del bene della collettività, c’è sempre un punto di intesa. Probabilmente, uno e l’altro, hanno ascoltato solamente “amici”.

Un giorno ho sentito uno che affermava che le liti ad oltranza, i ricorsi alla magistratura e in particolare le guerre, sono sempre assurdità, perché dopo una lite dannosa per tutti, in ogni caso salta fuori una soluzione, altrimenti saremmo ancora a proseguire le guerre puniche o quelle del Risorgimento! Tanto vale trovare l’intesa o il compromesso fin da subito!

Ma tornando a noi, ormai la civica amministrazione di Venezia ha celebrato i primi cento giorni di governo. Non so proprio dare un giudizio sul bilancio di questa nuova amministrazione, ma da quanto mi risulta e per quanto mi riguarda, non penso che l’assessore, che dovrebbe occuparsi dei poveri e dei vecchi, abbia mai convocato gli addetti ai lavori, chi si gioca su questi settori, per sentire una proposta o una critica. Forse ha parlato con i suoi burocrati, la carriera dei quali dipende da lui. Anche se questo assessore fosse intelligente, preparato, ed avesse accanto una buona squadra di tecnici, non solo non farebbe male, ma anzi avrebbe tutti i vantaggi, a concordare con chi ha lunga e diretta esperienza un progetto, da verificare con una certa frequenza.

Spesso l’amministrazione pubblica opera in solitudine e cala dall’alto norme inefficaci e perfino ingiuste. Giorgio Gaber affermava intelligentemente, che oggigiorno operare socialmente significa “partecipare”; le soluzioni migliori spesso sono quelle che emergono da un crogiolo di pareri diversi.

Stampa di oggi e d’ieri

Che Mussolini non sia stato un santo, ormai lo sanno tutti, anche i fascisti più convinti, perché emerge ogni giorno di più, dalla storia e dalla cronaca, ch’egli fu un socialista transfuga dal suo partito, mangiapreti come la gente del suo paese e del suo tempo, per nulla liberale e democratico. Poi si montò talmente la testa da volere a tutti i costi l’impero, tentando di diventare il Giulio Cesare dei nostri tempi nei riguardi dell’Europa. Fallì totalmente e finì in maniera meschina, trucidato da figuri tristi come lui o peggio di lui. Proprio in quest’ultimo tempo ho assistito ad un programma di Rai3 che ha ricostruito con una documentazione seria la meteora del fascismo e la fine tragica del Duce.

Dal punto di vista poi della morale personale, fu peggio che peggio. Mi fa tristezza solamente il pensiero che egli confinò in manicomio la donna che gli diede il figlio e che egli ebbe la spudoratezza di non riconoscere, e dei suoi rapporti quanto mai disinvolti con le donne – perché la Petacci fu l’ultima solamente perchè la pallottola del mitra dei partigiani non gli permise di andare oltre.

Io sono stato balilla, ho fatto la guardia col moschetto giocattolo al monumento dei caduti, e probabilmente avrei fatto una certa carriera se l’appartenenza al gruppo dei chierichetti della parrocchia non mi avesse impedito di partecipare alle adunate del sabato fascista.

Detto questo, credo però che anche Mussolini ebbe qualche merito, tanto che spero che, in considerazione di questo, il buon Dio gli abbia concesso un posto in Cielo.

Non sono in grado di illustrare gli aspetti positivi della vita del Duce, perché purtroppo non ho studiato sufficientemente la storia, però voglio accennare a due meriti – e non penso siano i soli – che dovrebbero meritargli la stima e l’ammirazione dei nostri politici.

Il primo fu quello di non permettere alla stampa di abbuffarsi di delitti e di suicidi. Pur essendo amico dei giornalisti e bazzicando anch’io in quel mondo, credo che il favorire la morbosità del sangue sia un qualcosa che non ha niente a che fare con la libertà di stampa. Se si va avanti di questo passo, la stampa diventa la peggior istigatrice dei delitti più orripilanti, compiuti dalle persone fragili di mente.

Il secondo fu quello di far di tutto perché emergesse l’aspetto più positivo della vita sociale e politica. La magistratura sbatta pure in gattabuia i faccendieri, i politici corrotti o chi tresca con l’illegalità, ma non se ne faccia un romanzo distruttore ogni volta che capita un fenomeno del genere, cosa purtroppo frequente.

Povero Duce! Anche se ha fallito, riconosciamogli almeno quel po’ di bene che ha fatto! Togliatti ha detto che i partigiani hanno l’unica colpa di essere stati troppo buoni con i fascisti, io però non la penso così.

“Signore, ricordati quanto d’aiuto sono stati a questo tuo povero prete!”

Oggi non ho più il coraggio di concedermi il piacere di leggere un romanzo o di dedicare qualche ora all’ascolto della musica sinfonica, che mi piace da morire. Uno come me, che sta vivendo da un pezzo nei tempi supplementari, ha una tale urgenza e frenesia di far gol, per vincere la partita della vita, che non gli pare di potersi più permettere divagazioni ed impegni che non siano strettamente necessari.

Qualcuno mi dice che sbaglio a pensarla così, talaltro mi cita san Paolo che afferma che qualsiasi cosa è ben fatta se è fatta per il Signore. Io però, pur accettando con la ragione questi discorsi, a livello esistenziale non riesco più a sottrarre neppure un minuto a quello che credo sia il mio dovere. Detto questo però, ringrazio infinitamente il Signore d’aver letto molto; forse un po’ disordinatamente, perché non ho incontrato educatori che mi hanno guidato, però quello che ho letto mi ritorna come una dolce nostalgia del passato e profuma anche il mio presente. Così mi sento spesso costretto a ringraziare autori che non avranno mai la soddisfazione di sapere che molti dei loro pensieri son fioriti, hanno talvolta allietato e talaltra temprato lettori sconosciuti di popoli diversi.

Se dovessi, come sarebbe doveroso, ringraziare pubblicamente gli autori che mi hanno formato come uomo e come prete, dovrei scrivere una lunghissima lista. Non posso però non citare Cronin, con i suoi romanzi: “Anni verdi”, “La cittadella” o “Le stelle stanno a guardare” o “Le chiavi del regno”. Devo a lui se non sono diventato integralista e bigotto. O trascurare Bernanos, col suo “Curato di campagna”, per lo stimolo ad interrogare sempre la coscienza. O Tolstoi, Dostoewskij e la letteratura russa, che mi hanno aiutato a incarnare la mia vita nella storia e nel cuore dell’uomo. Quanto contò per me “Guerra e pace” o “Delitto e castigo”!

Come potrei non ringraziare Hemingway per “Per chi suona la campana?”, per “L’uomo e il mare” o per “Addio alle armi”. Da lui ho compreso il cuore dell’uomo, i suoi drammi e la poesia espressa con una prosa limpida ed essenziale e la sua condanna inappellabile contro l’assurdità e la meschinità della guerra.

Neanche vorrei dimenticare Bruce Marshall, per l’ironia nei riguardi di una religiosità fittizia, fragile ed incartapecorita. Quanto mi sono cari “Ad ogni uomo un soldo”, “Il miracolo di Padre Malachia”!

Ogni tanto salgono a galla della mia memoria – ora tutta buchi – pensieri, trame, messaggi. Non mi basta dir loro «Grazie», sento il bisogno di dire al mio buon Dio: «Signore, ricordati quanto d’aiuto sono stati a questo tuo povero prete!»

Ecco cosa produce il meraviglioso mondo dello scoutismo!

Per moltissimi anni, nella mia vita di prete, ho fatto l’assistente degli scout. Sia a San Lorenzo, che poi a Carpenedo ho avuto centinaia di ragazzi nei vari settori di questa associazione.

A me lo scoutismo ha dato molto, sia a livello teorico – perché Baden Powell, il fondatore degli scout, ebbe delle lucide intuizioni, fu un grande educatore e, da pedagogo intelligente, impostò un metodo che a distanza di oltre un secolo si dimostra ancora valido in pratica, vivendo con gli scout ho imparato la parsimonia, l’autosufficienza, l’ordine, il rispetto della natura.

Leggevo un paio di settimane fa, su “Gente veneta”, un’intervista del capo scout d’Italia, che attualmente è un veneziano della Giudecca, Alberto Fantuzzo, in cui questo vecchio Akela (il capo dei lupetti) afferma che in Italia il movimento scout conta più di centosettantacinquemila aderenti, e che l’obiettivo attuale dell’associazione è quello di diventare il “manutengolo dei paracarri”, cioè dei veri valori, quali il coraggio, la virtù, la sobrietà, la sincerità, ecc. ecc.

Ora, alla mia età, non ho più tempo, né forse voglia, ma mi piacerebbe, e riterrei utile, raccontare la mia vita con gli scout: è stata non solamente un bel gioco, una bella avventura, ma un’impresa veramente affascinante! Leggendo l’intervista del capo scout d’Italia, m’è venuto in mente un opuscolo dal titolo “Stella in alto mare”, in cui un giovane scout francese, che faceva il giornalista e che è morto al fronte nell’ultima guerra, è stato capace di trasmettere in maniera piena di fascino, l’aspetto più bello e più profondo dello spirito di questo movimento.

Ricordo alcuni passaggi che m’hanno fatto molto bene, che ho citato mille volte e che mi piace riportare, seppur succintamente.

  • La Rigaudie passa per strada e vede un cartellone con la figura di una bellissima e famosa attrice del tempo ed è colpito dal suo fascino. Entra in una chiesa e prega per lei, perché pensa che, anche nella vita di questa donna, ci saranno stati drammi e dolori, e poi ringrazia il Signore d’aver mandato al mondo donne così belle!
  • Un giorno si tuffa da uno sperone di roccia sopra un mare limpido ed azzurro. Appena staccati i piedi dalla roccia, teme d’aver preso male le misure ed ha la sensazione che dopo qualche istante si sarebbe sfracellato sul costone. In quell’attimo di paura e d’angoscia riesce a pensare: “Fra un attimo, Signore, sarò fra le tue braccia di Padre!”
  • E’ invitato ad un incontro di danza e annota nel suo carnè: “Quanto è deliziosa, Signore, l’armonia del movimento del corpo, della dolcezza della donna, della musica. Ti ringrazio, Signore, per avermi fatto provare esperienze così belle!
  • Partecipò al raid Parigi-Pechino. Durante l’attraversamento di un fiume si rovescia la macchina, lui rimane impigliato sotto, per un istante gli sembra di aver fallito tutto, poi s’abbandona al Padre e pensa: “Sia fatta, o Signore, la tua volontà. Io sono certo che comunque tu mi vuoi bene!”
  • Un’altra annotazione nel diario: “Quando, o Signore, sarà giunta la mia ora, mi piacerebbe offrirti, nel cavo delle mani, la mia vita di uomo, come la preghiera più bella, ma andrà ugualmente bene se le porte sull’eterno si spalancheranno d’improvviso ed io mi troverò tra le tue braccia.”

Lo scoutismo non si riduce ad accompagnare la vecchietta oltre le strisce bianche del passaggio pedonale, ma anche sa produrre uomini di questo valore!

Il chiodo

Ci sono certe affermazioni religiose che il prete fa durante le sue catechesi o le sue prediche, che la gente ascolta senza batter ciglio e senza ribattere alcunché. Però ho l’impressione che spesso parole, idee o messaggi del genere passino veloci sopra i capelli dei devoti ascoltatori senza lasciar traccia alcuna.

Dire che Dio è il punto fermo della nostra vita, che noi viviamo solamente perché il Signore ci vuol mantenere nell’essere, che la fede è essenziale per vivere, è un discorso abbastanza scontato al quale nessuno si ribella, ma del cui contenuto c’è un assenso piuttosto formale. Sarebbe più faticoso obiettare, piuttosto che accettare supinamente, una “verità” che pare aver poco a che fare con i problemi reali della vita, quali la salute, lo stipendio, la carriera o l’amore. Qualche tempo fa, nella mia meditazione, m’ero talmente convinto dell’importanza di questa verità, che m’era parso di capitale importanza passare questo concetto ai membri della mia comunità che, ogni domenica, accorrono numerosi, partecipano attenti e ai quali voglio moltissimo bene.

La mia comunità è veramente la mia famiglia che io tento di aiutare ad imparare a vivere, ma dalla quale ricevo, ogni domenica, un aiuto veramente importante, perché tacitamente mi aiuta a comprendere che vale la pena continuare a fare il difficile mestiere del prete.

Ricorsi perciò al racconto di un “fatto”. Mi ricordai che molti anni fa avevamo chiesto a Cesare Maestri, la famosissima guida alpina, di parlarci delle sue ascensioni e delle sue avventure in montagna.

Della sua conversazione ricordai un episodio. Maestri un giorno era impegnato su una parete di sesto grado – sopra di lui la cima, sotto un baratro di quattrocento metri. Sennonché, come avviene spesso in montagna, il cielo improvvisamente si oscurò e scoppiò un temporalone con lampi, tuoni e una pioggia sferzante. Era verso sera e perciò, allo scalatore, non rimase altro che piantare un chiodo alla roccia, appendervi un’amaca e passare la notte buia appeso a quel chiodo.

Maestri è un ottimo parlatore, perciò ci trasmise la sensazione esatta della sua angoscia e della preoccupazione per la tenuta del chiodo. La vita dipendeva da come il chiodo s’era conficcato nella roccia.

Conclusi guardando negli occhi l’assemblea dei fedeli: «Ci sono dei momenti nella vita che nulla può reggere, se non la fede nel Signore. Soltanto lui può offrirci “un chiodo” che ci permetta, in certe circostanze, di non sfracellarci nel baratro. Solamente quel chiodo piantato nella roccia, e non altro, ci può salvare.