La benedizione annuale delle case, da sempre per me un momento di gioia!

A tutt’oggi non ho ancora perduto il vecchio “vizio” di andare a “benedire le case”.

Il mio carissimo amico, già direttore della Banca Cattolica del Veneto e membro della Conferenza della San Vincenzo, a cui partecipavo ogni settimana, era solito dire in maniera scherzosa e quasi come un vezzo: «Io, don Armando, sono così affezionato a certi peccatucci che proprio non ho alcuna intenzione di abbandonarli!» In realtà alludeva a qualche convinzione o pratica personale, non universalmente condivisa, a cui egli credeva e che, pur controcorrente, egli intendeva mantenere.

Così anch’io, pur essendo rimasto fino alla pensione uno dei pochissimi parroci della città a visitare ogni anno tutte le duemilaquattrocento famiglie della parrocchia per la “benedizione annuale”, ho continuato a farlo ogni anno e per tutti i 35 anni che ho fatto il parroco.

Ora che sono “parroco” per modo di dire della borgatella delle 194 famigliole del “don Vecchi” 1° e 2°, continuo a “benedire le case” dei miei nuovi parrocchiani, ricevendo le confidenze ed ascoltando i problemi della mia gente. Ogni giorno “benedico” una decina di “case” e mi si allarga ogni giorno il cuore sentire quanto i miei parrocchiani si sentano contenti di vivere in un ambiente protetto, al caldo, senza preoccupazioni di ricevere uno sfratto e con la serenità di poter arrivare alla fine del mese senza debiti e pensieri.

Quest’anno poi, alla consolazione di sempre, mi si aggiunge il fatto che tutti, proprio tutti indistintamente, mi stanno porgendo la loro offerta, pur non richiesta, magari di soltanto cinque euro, per il “don Vecchi” di Campalto.

Questa calda ed affettuosa solidarietà mi lenisce la ferita del constatare che tanta gente piena di denaro, e tanti amministratori pubblici, così amanti dei poveri durante la campagna elettorale, continuano a lasciar cadere nel vuoto le mie accorate richieste d’aiuto.

Oggi schierarsi è impossibile!

So di correre il grosso pericolo di essere accusato di qualunquismo, anche se questa accusa oggi non mi pare così alla moda come lo era un tempo.

Fino a pochi anni fa chi non si schierava con una parte, magari chiudendosi gli occhi e tappandosi il naso, era accusato di qualunquismo. Non ho mai ben capito la consistenza e la gravità di questa accusa, ossia ho capito, fin troppo bene, anche se gli interessati rifiutano questa lettura, che bisogna comunque schierarsi, anche se il novantanove virgola nove per cento non condivide la soluzione che pare meno dannosa.

Probabilmente ora io sono un qualunquista, pur sognando un governo di gente intelligente, aperta, non faziosa, dialogante e soprattutto sensibile ai bisogni dei più deboli. Non vedo proprio quale delle parti in campo e chi dei personaggi alla ribalta possa offrirmi questa soluzione. Capisco la diversità dei pareri, le matrici culturali, i temperamenti, le esperienze, i valori fondanti, però non capisco l’assoluta contrapposizione, il rifiuto del dialogo, di un onesto compromesso, la volgarità e la faziosità dei discorsi, l’aggressività, l’intolleranza e la perfidia di voler fiaccare a morte l’avversario, mentre la barca sta inesorabilmente affondando.

Un tempo capivo che le ideologie annebbiavano le idee e costituivano quasi una fata morgana che incantava ed illudeva, ora però il disincanto è totale e perciò non riesco a capire perché non si possa fare anche da noi quello che si fa in Germania o negli Stati Uniti!

Penso che la “maggioranza silenziosa” debba finalmente destarsi per mandare a casa i politici mestieranti di professione; per arrivare però a questo è necessario che la legge elettorale non sia più elaborata dai soliti noti di una parte o dell’altra, ma da un comitato di tecnici che studino soluzioni capaci di far emergere una nuova classe dirigente che non abbia nulla a che fare con i soliti personaggi intriganti che pensano soprattutto ai loro vantaggi.

Una influenza micidiale: la politica!

La televisione e i giornali abbastanza di frequente ci dicono che questi sono i mesi dell’influenza, ci informano sul tipo di virus che sono presenti e ci invitano a vaccinarci, se non altro per consumare i milioni di dosi che lo scorso anno, nonostante le previsioni disastrose, la gente ha avuto il buon senso di non usare. Le imprese farmaceutiche devono pur vivere e guadagnare!

Io ho già preso “l’influenza”, che mi provoca enormi disturbi e mi fa salire la pressione alle stelle. Il nome dei virus di quest’anno li conoscono tutti: Berlusconi, Casini, Franceschini, Di Pietro, Bindi, Bersani, Fini e qualche altro di minore. A detta di tutti, ma anche per esperienza personale, sono virus micidiali che provocano malesseri di ogni genere e possono perfino portare alla disperazione e ad una angoscia mortale. Come tutti sanno però, le diagnosi non sono impossibili, anzi, nel nostro caso, sono anche fin troppo facili, perché i fattori patogeni del nostro tempo li potrebbe diagnosticare anche il farmacista del paese. Quella che invece si dimostra ostica e quasi impossibile è la terapia.

E’ da scartare in partenza la ricerca dell'”uomo forte che metta ordine” (soluzioni del genere le abbiamo purtroppo provate anche recentemente!) Pare però che sia pure illusorio adoperare ricette proposte da un “medico” o da un altro: le ricette della sinistra sappiamo per esperienza che portano ad un’anemia perniciosa con l’impoverimento di tutto l’organismo, quelle della destra, a parte i pareri discordi dei vari “sanitari”, pare che finiscano per favorire e far crescere paurosamente certi organi del corpo sociale, ma contemporaneamente risultano micidiali e distruggono tutte le difese del resto dell’organismo.

Perfino il Papa è entrato in campo, auspicando una nuova classe dirigente fatta da giovani onesti, intelligenti e volonterosi, ma tutti sappiamo quanto tempo ci vuole per preparare questo vaccino!

Per ora non vedo altra soluzione che rivolgermi alla Madonna della Salute perché ci liberi da questa pestilenza mortale.

Le ali dell’avvoltoio

Io sono nato alla coscienza civile con l’avvento della democrazia nel nostro Paese. Sono cresciuto con essa, ma man mano che passavano gli anni sono cresciute le incomprensioni, le diffidenze e gli scontri. Quando eravamo “bambini” tutto era più facile: i comunisti erano per i poveri e gli operai, avevano come santo protettore Giuseppe Stalin, per modello la Russia sovietica e per canto ufficiale “Bandiera rossa”. I democristiani invece erano i difensori di Dio e della Chiesa, avevano come angeli custodi i “Comitati civici”, come modello l’America e come canto “Biancofiore”.

Crescendo, le posizioni andarono a diversificarsi e complicandosi. La sinistra era per una esasperata nazionalizzazione, motivo per cui ogni ente doveva essere gestito dal partito dominante, mentre la destra era per una economia di mercato, motivo per cui chi poteva più piangeva meno. La sinistra era finanziata dalla Russia e la destra dall’America.

Poi, più avanti, le cose si confusero ulteriormente: i rappresentanti del popolo, sia di destra che di sinistra, dovevano fare un lungo apprendistato come galoppini e portaborse, e alla fine venivano gratificati con un posto in Parlamento o in uno dei grossi enti statali o parastatali. Sia gli uni che gli altri potevano arraffare il più possibile, con la benevola conoscenza ed accettazione l’uno dell’altro, però quelli di sinistra ci han saputo far meglio, mentre quelli di destra, ladri come i primi, erano meno scaltri, così è nata e vissuta “tangentopoli”.

Siamo arrivati così ai nostri giorni, in cui impera una babilonia tale per cui ogni capobanda ha i suoi mercenari e combatte con ogni arma la sua guerra per prevalere.

Bandiere, inni, colori, santi protettori sono ornai morti e sepolti, tanto che non si capisce più niente! Un mio amico ha definito splendidamente la situazione affermando che destra e sinistra sono le due ali dello stesso avvoltoio.

Credo che alle prossime elezioni dovrò scegliere il partito buttando i dadi!

Silenzi, ritardi e rifiuti!

Purtroppo sono ben cosciente di non tener conto di un saggio consiglio che Papa Roncalli ha ripetuto più volte quando era Patriarca a Venezia: «Quando sei turbato da una notizia, dormici sopra almeno una notte prima di reagire». Non ci riesco proprio. Sarà per un’altra volta che metterò in pratica il consiglio del Papa buono!

Ho appena aperto la lettera della Regione nella quale, dopo tre mesi dalla mia richiesta di un contributo economico per finanziare il “don Vecchi” di Campalto, mi si risponde che “La Regione finanzia le strutture per anziani non autosufficienti, mentre gli alloggi protetti, quali sono quelli del “don Vecchi” – in quanto del settore sociale – sono a carico del Comune. Distinti saluti”.

Nella stessa data, cioè in agosto, avevo inviato una richiesta simile al Comune, ma a tutt’oggi non mi è arrivata alcuna risposta.

Questo ritardo, da parte del Comune, lo posso anche ben comprendere, perché avendo esso solamente quattromilaseicento dipendenti, fa fatica ad essere tempestivo nelle risposte. Probabilmente la Regione ha qualche migliaio di dipendenti in più e perciò riesce in soli tre mesi a dare una risposta!

Alla Regione voglio dire: «Perché allora non accogliete gli anziani non autosufficienti attualmente residenti al “don Vecchi” che da anni vi supplico di accogliere e che sono a posto con tutte le schede SWAM che voi richiedete? D’altronde penso che voi vi sentiate con la coscienza tranquilla sapendo che il Comune ci passa euro 1,25 per anziano. Voi pensate di fare un affare risparmiando, mentre voi e il Comune dovreste spendere cento euro per ogni anziano che dovesse venire nelle strutture per non autosufficienti che voi finanziate!»

Il Comune poi, penso che non abbia scrupoli del genere, perché per averli bisogna avere una coscienza, ma temo proprio che esso non l’abbia affatto, vedendo come si comporta!

Il prete mendicante

Sto tentando con ogni mezzo di convincere i fedeli, che con me ogni domenica ascoltano la “parola di Dio”, che questa Parola non possiamo lasciarla passare sopra i nostri capelli senza investire la nostra mente e il nostro cuore e rimanere pressoché indifferenti, come quando non prestiamo alcuna attenzione alle chiacchiere della televisione.

Più di una volta ho ricordato che quando Dio ci parla, e lo fa sempre per il nostro bene, dobbiamo avere almeno l’attenzione con cui ascoltiamo il nostro medico che fa la diagnosi sui nostri malanni e ci suggerisce le medicine per guarirli.

Qualche domenica fa ero ancora emozionato da questi discorsi, quando incontrai, nei pressi della chiesa del cimitero, ove avevo appena celebrato l’Eucaristia, una cara signora che mi vuol bene e che frequenta assiduamente il precetto festivo, ed è una di quelle signore che noi definiamo normalmente “una buona cristiana”. La quale, sgranando gli occhi con sorpresa e meraviglia, mi chiese incredula : «E’ vero, don Armando, che Lei chiede la carità per costruire il “don Vecchi” a Campalto?» Di certo era convinta che fosse disdicevole per la dignità di un sacerdote chiedere l’elemosina per i fratelli in difficoltà.

Le risposi arrossendo, perché sapevo di barare: «E’ vero!». In realtà chiedo sì l’elemosina, ma lo faccio mediante l’anonimato di una lettera, soluzione meno impegnativa che bussare personalmente ad una porta e stendere la mano. Già, perché questa soluzione mi costa già molto ed arrossisco mentre copio l’indirizzo dall’elenco telefonico, immaginando la reazione del destinatario e perciò non so quanto mi costerebbe farlo in maniera diretta.

Nonostante pensi a padre Cristoforo dei “Promessi sposi” o mi rifaccia ai frati mendicanti di san Francesco, la cosa mi costa assai: eppure, sia io che la signora, fin dall’infanzia conosciamo il precetto di Gesù “Ama il prossimo tuo come te stesso!” E’ evidente, perciò, che il mio modo di ascoltare Cristo, come quello della mia interlocutrice, lascia ancora molto a desiderare!

Credenti

Qualche tempo fa una signora, amante della filosofia, mi fece qualche osservazione in merito alla mia presentazione assai positiva di un lettore di “Gente Veneta” che, in una sua lettera al giornale diocesano, appoggiandosi alle prove dell’esistenza di Dio addotte da san Tommaso, affermava che credere è un atto razionale, mentre lo è molto meno – anzi non lo è – il non credere.

Io sono d’accordo con questo signore e sono pure convinto che la metafisica non sia roba vecchia da mettere in soffitta. Mentre mi trovo d’accordo con questa signora che la pura razionalità non produce fede. La razionalità nuda e cruda non giustifica nemmeno l’amore, la bellezza, la verità e così avviene pure per la fede. La fede è un dono misterioso e magnifico che il buon Dio concede sempre quando il cuore e la mente dell’uomo sono limpidi, umili e aperti al raggio di luce che viene dall’alto e che arriva attraverso i canali più disparati.

Ricordo una raccolta di una quarantina di testimonianze raccolte da un volontario della “pro civitate cristiana” di Assisi, in cui persone provenienti da esperienze le più diverse raccontano come sono approdate alla fede. C’è perfino lo scrittore Pittigrilli che afferma di esserci arrivato attraverso una strada assai insolita: lo spiritismo. Il credere è una luce interiore che s’accende, magari flebilmente e ad intermittenza, è un intuito che supera la pura logica razionale, ma che si rifà ad una sapienza sottile che viaggia su una lunghezza d’onda esistenziale e che appartiene alla natura profonda della coscienza umana.

Qualche settimana fa, parlando, nel mio sermone domenicale, della resurrezione e della vita nuova affermata da Cristo, mi sono rifatto ad un film che racconta l’avventura di Cristoforo Colombo. Mi pare di vederlo ancora, appoggiato alla paratia della sua fragile caravella, sballottata tra le onde dell’oceano infinito, mentre scruta l’orizzonte sempre irraggiungibile; egli è solo, incompreso, con poche motivazioni razionali e sente che ci deve essere “un’altra sponda” e che, sfidando l’irrisione, prima degli uomini della cultura e, poi, la diffidenza e quindi la disperazione della sua ciurma, crede, contro ogni speranza, “all’esistenza delle Indie”.

Il credente è colui che usa sì della ragione, ma fa leva soprattutto sulla sua percezione profonda che gli suggerisce che la vita ha senso, ha un approdo e fiorisce dopo quella che gli atei chiamano “fine” e i credenti “principio”.

Qesta nostra società semina e abbandona sempre piò “rifiuti d’uomo”!

In due giorni ho celebrato tre funerali di concittadini senza fissa dimora. Devo ammettere che nella mia chiesa fra i cipressi giungono, più frequentemente che nelle altre parrocchie, le richieste di commiato per anziani quasi dimenticati nelle case di riposo, barboni, cittadini assolutamente non praticanti che i congiunti non si sentono di portare nella parrocchia ove sono conosciuti, persone sole, poco conosciute o da poco residenti a Mestre.

Può darsi che questa minoranza di commiati di persone che sono vissute ai margini della società sia assolutamente casuale, comunque ho la netta impressione che il numero di concittadini non inserito nella normalità del tessuto urbano sia decisamente numeroso e, peggio ancora, sia in crescita.

Come la città produce sempre più rifiuti urbani, tanto da diventare questo un grave problema, così ho l’impressione che siano in crescita anche i “rifiuti d’uomo”.

Ricordo una scena di un vecchio film, che tanti anni fa fece scalpore per il tema trattato, “Lo spretato”. Il prete, che aveva appeso la tonaca al chiodo, dopo aver passato una notte squallida in un locale notturno, esce all’alba e incontra un netturbino al lavoro: «Cosa fai?», gli chiede melanconicamente. «Raccolgo i rifiuti!» risponde quello. Ed egli, alludendo alla sua condizione disperata, aggiunge: «Non raccogli rifiuti di uomo?»

La nostra società, che presume d’esser civile, sta producendo, in maniera sempre più scellerata, “rifiuti d’uomo”. Io sto raccogliendo, spero con rispetto e amore, questi rifiuti che il mare anonimo, abbastanza disordinatamente, lascia sulla battigia, per consegnarli al cuore di Dio, essendo cosciente che il Padre del prodigo accetta a braccia aperte “il figlio” disperato e misero che ritorna. Spesso mi sento felice e fortunato di fare questo “mestiere”!

La Provvidenza non smette di rispondere ai miei dubbi!

Qualche tempo fa ho letto sulla rivista “Il seme”, periodico genovese che raccoglie riflessioni, episodi e testimonianze che appaiono in tutta la produzione letteraria del nostro Paese, un episodio riguardante un grande prete fiorentino, don Facibeni.

Questo sacerdote, che operò nella Toscana, specie durante la seconda metà del novecento, era impegnato in una grande opera sociale a favore dei più diseredati, ed avendo aperto una casa di accoglienza, gli serviva come sbocco un mulino dismesso che stava accanto alla sua struttura. Come sempre tocca a chi si occupa del prossimo, non aveva i soldi per l’acquisto.

Mediante la mediazione di un’anima buona, trovò due coppie di coniugi facoltosi che gli prestarono l’enorme somma, per quei tempi, di centomila lire, con l’impegno di restituire ogni sei mesi diecimila lire.

La prima data scadeva a dicembre e don Facibeni non aveva un soldo, sennonché, proprio l’ultimo giorno prima della scadenza, una signora gli donò le diecimila lire, che egli spedì immediatamente ai creditori. Costoro però, a stretto giro di posta, gli risposero che avevano deciso di concedersi il regalo di condonargli l’intero debito.

Letta la paginetta dell’episodio, che dimostrava, una volta ancora, quanto può la Divina Provvidenza, provai invidia verso il prete toscano sembrandomi che a lui le cose erano andate ben più lisce di quanto non capiti a me per il “don Vecchi” di Campalto.

Ma il giorno dopo la lettura di questo episodio, stavo smettendo le vesti liturgiche che avevo indossato per il funerale, quando uno dei fedeli venne nella piccola sagrestia e mi disse che aveva deciso di donarmi quindicimila euro per Campalto. «Non sono ricco, mi disse, ma posso permettermi questa partecipazione alla sua opera per i vecchi.»

Io non ho di certo la statura né la santità di don Facibeni, eppure la Provvidenza in un paio di anni mi ha fatto avere più di due milioni dei tre e mezzo che mi servono; spero perciò che non abbia difficoltà a fornirmi anche il resto. Di fronte alla promessa del benefattore mi è salita dal cuore alle labbra la confessione di Pietro: «Allontanati da me, Signore, perché sono un peccatore!»

In “guerra” a ottantanni per gli anziani

Sono sempre più convinto che la rivoluzione che può salvare l’uomo dall’egoismo, da una vita fatua inconsistente e disordinata, sia quella della solidarietà. Sia a livello civile che religioso l’unico rimedio per uscire dal degrado morale in cui stiamo affondando, è per me la solidarietà.

In questa “guerra” io svolgo il ruolo di un povero fante, senza gradi e senza potere, però sento il dovere di fare la mia parte fino alla fine. Non so quanto la testimonianza di un vecchio prete, senza gradi e senza grandi risorse umane e spirituali, possa incidere sull’esito di questa “rivoluzione”, ma mi è ben chiaro che l’esser fedele alla mia coscienza e ai miei convincimenti è l’unica cosa che posso fare e che possa salvarmi dalla desolazione.

Il mio posto di combattimento è collocato sul versante della terza età; portare avanti l’idea che dobbiamo dar voce e soluzioni adeguate alle istanze di questi nuovi poveri.

La Provvidenza mi ha assegnato il presidio di un piccolo avamposto che voglio difendere ad ogni costo: dimostrare che è possibile permettere agli anziani, seppur poveri e fragili, vivere una vita dignitosa e serena, indipendente dalla elemosina dei figli o degli enti pubblici, nonostante le pensioni miserevoli delle quali moltissimi fruiscono.

Purtroppo la crisi economica in atto, le avversità atmosferiche, i tagli di bilancio e gli sperperi degli enti pubblici, mi rendono particolarmente difficile tenere la posizione. Nonostante ciò ho deciso di giocarmi tutto; non mi importa cosa possano pensare confratelli o concittadini, pur facendo fatica ed arrossendo, sto costringendomi a tender la mano e a mendicare i mezzi economici per realizzare l’impresa della costruzione di ulteriori 64 alloggi a Campalto. Non so ancora con quale risultato, mi pare e mi auguro che sia positivo, comunque spero che possa testimoniare che la solidarietà non può ridursi ad un sogno fumoso, ma è un qualcosa che va perseguìto anche se costa e ti toglie la possibilità di vivere una vecchiaia in pantofole, leggendo “Il Gazzettino”.

L’opera di Antonio Fogazzaro mi aiuta ancora a capire i tempi d’oggi

Verso Antonio Fogazzaro ho sempre nutrito un sentimento di ammirazione, sia per le sue qualità di ordine letterario, sia per le sue posizioni a livello religioso. “Piccolo mondo antico”, il romanzo più noto di Fogazzaro, è stato per me uno dei primi romanzi più impegnativi che ho letto ai tempi della mia adolescenza. Sono rimasto incantato dall’atmosfera romantica, sempre ovattata e ricca di sentimento che inquadra il travaglio tra la nostalgia di un passato amato e familiare, e l’oggi, ormai proiettato verso nuovi orizzonti. Questo romanzo mi ha fatto sognare e rimpiangere l’infanzia, però mi ha costretto a non chiudere gli occhi verso i tempi nuovi.

Più adulto ho avuto modo di conoscere pure le vicende amare di questo cattolico teso a leggere in maniera nuova e nella lunghezza d’onda della cultura del tempo, che sentiva i sintomi di una nuova primavera spirituale, e che pagò con la messa all’indice de “Il santo”, il romanzo che mette meglio a fuoco le sue tesi religiose. Il processo sognato dal Fogazzaro, nonostante il pesante intervento della gerarchia ecclesiastica del tempo, continuò a svilupparsi e in buona parte fu recepito dal Consiglio Ecumenico Vaticano Secondo.

In questi giorni, avvertendo il risucchio che il tipo di fede e di Chiesa, proprio della mia infanzia, esercita ancora nel mio spirito e l’istintiva diffidenza che, a livello inconscio, provo nei riguardi del nuovo modo di impostare i problemi religiosi e la pastorale dei tempi nuovi, m’è parso di capire che la generazione che sta chiudendo con la vita non può non rimpiangere il suo “piccolo mondo antico”.

Forse per questo faccio fatica ad accettare che i giovani preti diano per scontato l’allontanamento di una grande maggioranza dei battezzati, accettino passivamente lo sfascio della famiglia cristiana, non sognino che il numero dei cittadini del territorio geografico della parrocchia non coincida con quello dei “parrocchiani”, l’accettino abbastanza serenamente una pratica religiosa attorno al quindici per cento!

Poi comprendo che solamente chi è nato in tempi diversi provi nostalgia di un mondo religioso che non c’è più o va scomparendo, mentre chi è nato in questo tempo non conosce che questo e perciò crede il presente l’unico possibile. Tra le pene della vecchiaia c’è anche questa ed io purtroppo la sopporto di malavoglia e senza alcuna rassegnazione.

Pensando ai nuovi preti

Talvolta mi accorgo di essere duro, esigente e deluso dalle nuove generazioni di sacerdoti. Spesso ho la sensazione che siano dei rassegnati, degli uomini sempre in difesa o, peggio, in ritirata. Talora ho l’impressione che non abbiano né sogni, né coraggio per vivere all’attacco, ma che si accontentino del piccolo gregge, rinchiuso nello steccato all’ombra del campanile e per nulla preoccupati di scendere nella mischia ove si costruisce il domani e la storia.

Mi fa tristezza il pensiero di gente che possiede una verità che potrebbe illuminare la vita, dare profumo all’impegno, far sognare “nuove frontiere”, mentre si riduce a vivere un quotidiano stinto, insapore ed immeschinito da un valore basso e con orizzonti limitati.

Poi spesso mi dico che anche i preti sono figli del nostro tempo, caratterizzato dal pensiero debole, dalle verità smorte e da un nichilismo imperante e senza respiro, con pochi ideali e meno dimestichezza con la fatica e la lotta.

Forse noi vecchi preti, che siamo vissuti nella seconda metà del novecento, siamo stati più fortunati, da un punto di vista ideale, perché abbiamo avuto la fortuna di vivere “il risorgimento” del dopoguerra, sorretto da leaders di grande statura morale, abbiamo respirato a pieni polmoni l’aria profumata di primavera del Concilio Ecumenico che ha fatto fremere la Chiesa e la fede ed infine siamo pure stati investiti dall’uragano del ’68, che ha travolto ciò che era fittizio, ma ha aperto nuovi orizzonti alle coscienze a livello della giustizia, della solidarietà e della libertà.

Io non so che cosa augurare ai nuovi preti, spero però che non si rassegnino a vivere una vita mediocre e non si lascino condizionare dall’aria stanca ed asfittica della società attuale.

Ognissanti e Defunti, feste dal profondo significato

Quest’anno il tempo e il calendario sono stati veramente micidiali per la festa di Ognissanti e per la commemorazione dei defunti. La pioggia insistente e il cielo cupo da un lato e la sequenza del “sabato – domenica – lunedì” di festa hanno lusingato la gente a concedersi una “vacanza di medio termine”. Questo mi è dispiaciuto davvero perché ha sottratto ai miei concittadini due grandi opportunità.

La festa di Ognissanti aiuta a prendere coscienza del bene enorme che ancora esiste nel mondo. I mass-media mettono in luce ogni giorno in maniera ossessiva il peggio dell’uomo “il ramo che si schianta con tanto fracasso a terra”, mentre la liturgia di Ognissanti aiuta a scoprire la “foresta che cresce” silenziosamente, ma in maniera massiva e costante. Ognissanti aiuta a guardare con ottimismo il vivere dell’uomo anche del nostro tempo e a scoprire che a questo mondo vivono uomini e donne di ogni cultura e sotto ogni cielo, dalla vita sana, pulita e laboriosa.

Per questo motivo io celebro ogni anno l’Eucaristia della festa di tutti i santi con grande ebbrezza. Mi pare che, come dice il grande don Zeno di Nomadelfia, “gli angeli dalle trombe d’argento suonino a gran voce l’accolta dell’immensa moltitudine degli uomini di buona volontà” e con essi posso sognare, sperare e lodare il buon Dio per la vita che ci ha donato.

La festa poi di Ognissanti mi presenta una rassegna sconfinata di “campioni in umanità”, campioni di tutte le discipline della vita spirituale, che diventano punti di riferimento sicuri e stimoli a cercare, a crescere e a vincere, raggiungendo i traguardi che essi garantiscono possibili.

La commemorazione dei defunti non è per me una celebrazione meno feconda, perché da un lato ci aiuta a recuperare l’immenso patrimonio umano e spirituale che i nostri cari ci hanno lasciato, e dall’altro lato ci fa riflettere, una volta tanto in maniera positiva, a “nostra sora morte corporale” , come canta Francesco d’Assisi, facendoci pregustare l’ebbrezza della meta da raggiungere e la vita nuova e più bella promessa dal buon Dio.

Le verità di taluni

Ne “L’incontro” non c’è la rubrica “Lettere al direttore” che hanno quasi tutti i periodici. Questa rubrica è per me sempre interessante perché esprime gli umori dei lettori più reattivi.

“L’incontro”, molto probabilmente, ha un bacino di lettori molto tranquilli che condividono, in linea di massima, gli orientamenti del settimanale, o si tengono per sé le divergenze! Però almeno tre o quattro volte al mese mi giungono delle lettere con prese di posizione favorevoli e, talora, discordanti.

C’è una signora, dalla scrittura ordinata e di pensiero intelligente, che m’ha scritto più volte. Deve trattarsi di una cara donna, molto probabilmente di una insegnante di filosofia, che con affetto e con garbo mi fa qualche complimento, mi incoraggia, ma nel contempo mi fa qualche osservazione che io accetto di buon grado. Più volte ho affermato che nella Chiesa di Dio io ho svolto sempre la funzione di “manovale”, anche se “per obbedienza”.

Pur avendo per molti anni insegnato alle magistrali, al Pacinotti, al Volta e alle tecniche commerciali, sono ben cosciente di non aver alle spalle un buon apparato culturale e perciò so di essere vulnerabile e so che la mia “impresa giornalistica” è pressoché temeraria. Detto questo, spero però di poter pure dire con umiltà il mio pensiero, pur offrendolo in maniera dimessa.

La signora mi ha fatto due appunti. Il primo: il mio scarso entusiasmo per i filosofi. E’ vero! Talora mi sembrano piuttosto scontate certe verità, cardini del pensiero di certi filosofi. Ad esempio “Tutto scorre”, “Penso, quindi esisto”, “L’uomo è lupo per l’altro uomo”, oppure “L’uomo è una monade senza porte e senza finestre” …!
Ho la sensazione che certi detti dei nostri vecchi siano ben più sensati!

Secondo: Questa signora non comprende la mia “crociata” contro gli atei militanti. E’ pure vero! Sono indignato nei riguardi di taluni di questa categoria che s’impalcano come tanti “padreterno” e che minano “l’innocenza” dei semplici di cuore. Per me la scommessa di Pascal è più che mai valida: “A credere si guadagna sempre; se c’è Dio, il credente ha colpito nel segno; se non ci fosse, il credente sarebbe comunque sorretto nella sua vita dalla certezza di avere lassù uno che l’aspetta e che gli vuol bene. E questo non è poco! L’ateo umile e rispettoso, l’ateo in ricerca, ha però tutta la mia stima e il mio affetto. Quella che mi disturba è la sicumera e la presunzione che certi “atei militanti” pretendono d’avere in tasca tutta la verità.

Generosità e…

Le vicende della vita sono sempre per me varie e sorprendenti, ma credo che lo siano un po’ per tutti.

Qualche settimana fa, dopo avermi lungamente cercato, su e giù per i meandri del “don Vecchi”, mi ha finalmente scoperto nella hall un parroco di mezza età della nostra città.

La parrocchia di questo “collega” non è mai stata nota per navigare nell’oro, anzi; pure questo prete non è riconosciuto come molto abbiente. Io lo conosco da molti anni, il nostro rapporto è sempre stato corretto, ma mai particolarmente intimo, un po’ perché lui è riservato ed io ancora di più, e un po’ perché solamente per un po’ di tempo abbiamo “lavorato” assieme in una delle tante commissioni, pressoché inutili della diocesi; ma nulla più!

Comunque là nella hall, su due piedi, presso il “tavolo della cortesia”, mi consegnò un assegno di cinquemila euro. Rimasi di stucco, non mi capita di frequente che uno, senza averlo pregato, mi consegni dieci milioni delle vecchie lire e non m’è quasi mai capitato che l’abbia fatto un parroco!

Il contributo del confratello m’ha fatto più felice di quanto lo sarei stato se avessi vinto i centosettanta milioni dell’Enalotto!

Versai subito l’assegno al Banco San Marco per paura di perderlo, sennonché tre o quattro settimane dopo, la direttrice del Banco mi avvertì che la filiale di viale San Marco della Cassa di Risparmio aveva fatto una segnalazione alla Banca d’Italia, per motivi di antimafia, perché l’assegno superava di un centesimo quelli permessi senza la scrittura “non trasferibile”!

Persi la pazienza e la grazia di Dio, constatando che in questo povero mondo non ci sono solamente parroci generosi, ma anche bancari cretini.