Don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, veri riformatori!

M’è capitato, in quest’ultimo tempo, di leggere nei periodici, che normalmente seguo e che sono periodici di matrice cristiana, degli articoli interessanti, almeno per me, su don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani.

In quest’anno si celebrano due ricorrenze significative che riguardano questi due sacerdoti a me particolarmente cari per la loro testimonianza di fede e per il loro messaggio cristiano.

Non sono i soli due preti che stimo e che amo, fortunatamente il nostro Paese e la nostra chiesa hanno espresso nell’ultimo secolo delle bellissime figure sacerdotali. Don Mazzolari e don Milani, li abbino come Pietro e Paolo, Cosma e Damiano, perchè hanno fatto scelte ed hanno una virtù in comune, pur essendo stati “bastonati” duramente da uomini dell’apparato della chiesa, gente di corte vedute e di ben scarso respiro religioso, sono rimasti fedeli ed obbedienti, non aprendo la facile porta della ribellione, ma continuando ad offrire la loro proposta con umiltà e coraggio, subendo provvedimenti poco rispettosi degli splendidi carismi che lo Spirito Santo semina abbondantemente in chi crede.

Mi pare di aver letto che don Mazzolari o don Milani abbia affermato che la chiesa non aveva mai proibito loro di essere santi e di impegnarsi generosamente ed essere veri discepoli “mitii ed umili di cuore”.

Spesso mi sono domandato che ne è stato del parroco dell’Isolotto di Firenze che alla prima difficoltà avuta con i suoi superiori, pensò di fondare una chiesa autocefala o dell’Abate Benedettino don Franzoni che, pur intelligente, sbattè la porta del monastero alle sue spalle sperando di riformare la chiesa con questo suo atto di ribellione?

I veri riformatori sono quelli che approfondiscono la loro conversione e seminano all’interno del Popolo di Dio coerenza e santità. In fondo è solamente il Signore che dà fecondità ai semi di verità che i veri profeti seminano con il sudore della loro fronte!

Giovani preti

Io sono talmente vecchio e soprattutto sono tanto rintanato nel mio piccolo mondo “antico” così da non conoscere i preti giovani della mia diocesi.

La finestra a cui mi affaccio per vedere il mondo è costituita dai giornali locali: il Gazzettino, la Nuova Venezia, e soprattutto Gente Veneta.

Forse i preti giovani sono tanto pochi, forse appartengono al mondo dei benpensanti, motivo per cui non fanno nè storia, nè cronaca.

Quando sento il bisogno di qualche stimolo debbo rifarmi ai preti della mia giovinezza, che nonostante passino gli anni e perfino il secondo millennio, continuano a far storia e cronaca del pensiero e soprattutto dell’avventura cristiana. Forse il panorama ecclesiale che scorgo dalla mia finestra è troppo piccolo per cui spero che sia per questo motivo che faccio fatica a scoprire giovani preti, coraggiosi che buttano il cuore oltre il filo spinato, che combattono per il Regno, che sperimentano strade nuove, che portino avanti l’utopia di Gesù.

Non so ancora rassegnarmi che la chiesa veneziana sia così vecchia e stanca da non offrire giovani e nuovi virgulti per il Regno!

A dire la verità, fortunatamente per me, da molti mesi sto seguendo su “Avvenire” una rubrica tenuta da un non credente, lo psicologo di fama nazionale, il dott. Andreoli. Questo studioso è stato capace di raccogliere delle bellissime testimonianze che gli sono arrivate da ogni angolo d’Italia. Andreoli le ha sapute incorniciare, con attenzione e rispetto, tanto che ne è venuta fuori una bella e numerosa galleria di preti vivi, decisi e sereni, innamorati di Cristo e del loro “mestiere”.
Spero, prima o poi, di scoprire anche qualche ritratto di “casa nostra”.

Una lettera deludente!

Qualche giorno fa mi ha incuriosito un titolo in grossi caratteri apparso su “Avvenire”: “Lettera ai cercatori di Dio”

La presentazione è del Vescovo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti e di Vasto, ed è in verità una bella presentazione.

Questo Vescovo è un noto biblista; io l’avevo conosciuto indirettamente ascoltando alcune sue lezioni che avevo scelto di trasmettere a Radiocarpini, quando ne ero direttore.

Forse la buona opinione che già avevo di questo prete e pure la presentazione mi ha alquanto incuriosito.

Questo Vescovo affermava che l’uomo ha un bisogno esistenziale di Dio e che comunque, credente o meno, lo cerca mediante la sua sete insopprimibile di felicità.

Oggi, a suo parere, c’è il riflusso di quel tempo, non molto lontano, in cui riecheggiava per ogni dove il verbo del noto filosofo tedesco morto di pazzia: “Dio è morte!” Infatti sta rinascendo, consciamente o meno, la richiesta di Dio.

Il Vescovo afferma, giustamente, che finalmente, s’avverte questa nostalgia di Dio.

Mons. Forte continua scrivendo che la risposta a questo bisogno d’assoluto che gli uomini d’oggi cercano seguendo il bisogno di felicità e di bellezza, deve passare attraverso il cuore e la testimonianza di una chiesa amica. La notizia del periodico fece vibrare le corde più intime del mio cuore: “Finalmente uomini di chiesa buttano ponti e s’aprono al dialogo col nostro mondo sempre più secolarizzato!

La presentazione avvertiva che suddetta “Lettera” era contenuta interamente in un inserto del periodico.

Incuriosito, sono andato subito a cercarla. La delusione è stata immediata: otto pagine, fitte fitte, di luoghi comuni e di espressioni soporifere appartenenti al consueto repertorio chiesastico.

Oggi si confessa poco e meno ancora si danno penitenze impegnative, ma suddetta lettera potrebbe andar bene per una penitenza ad un grosso peccatore!

Una pizza appartenente alla peggior tradizione ecclesiastica, non c’è un guizzo di poesia, una traccia di bello scrivere, un qualcosa di stuzzicante.

Basta poi consultare le fonti per renderci conto che purtroppo quella strada è un binario morto.

Pare che questa gente non conosca nulla dell’uomo d’oggi, non abbia letto una pagina delle opere dei pensatori del nostro tempo. E continuino a scrivere per gli addetti ai lavori che s’intendono solamente tra di loro usando un linguaggio da ghetto.

Il guaio peggiore è che questo scritto ha avuto l’avvallo della commissione episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio della catechesi. Poveri noi!

Il Vescovo in pensione di Acerra, Mons. Riboldi mi confidò, tanto tempo fa, che faceva la visita pastorale incontrando i fedeli della diocesi in osteria. Credo dovremmo consigliarlo anche a suddetta commissione qualora avesse intenzione di dar seguito a questa “Lettera”!

Gli operai del Regno

Penso che succeda a tutti di ricordare, tra i mille discorsi che ascoltiamo durante la vita, qualcuno in particolare.
Almeno a me succede così!

Molti anni fa sentii un prete serio, con una buona esperienza pastorale alle spalle, ma soprattutto convinto quanto mai delle sue scelte, affermare: “I cristiani si conoscono e si contano alla balaustra!”

A quel tempo c’era normalmente nelle chiese una balaustra di marmo o in gesso lavorato, che separava il presbiterio, (il luogo in cui c’era l’altare ed operava il sacerdote) dall’aula della chiesa. Per moltissimi anni fui convinto che quel prete avesse ragione. Da ciò nacque il mio impegno a far sì che la gente venisse a messa, si confessasse e si comunicasse, perchè credevo, come quel prete, che per queste scelte e per questo comportamento si distinguessero i veri cristiani. Ora però, da qualche anno, non ne sono più tanto sicuro, anzi più passa il tempo e più mi convinco che sia un’affermazione sbagliata ed anche pericolosa.

Per me, almeno ora, la religiosità non può e non deve ridursi ad una serie di pratiche o di gesti di culto. La fede deve essere il respiro della vita. Se un fedele facesse la comunione due volte al giorno, dicesse le lodi ed il vespero, aggiungendovi pure un paio di rosari, ma non si facesse carico della gente senza un letto in cui riposare la notte, se non avvertisse il problema degli extracomunitari senza permesso di soggiorno, se non combattesse lo spreco, se fosse preoccupato solamente delle proprie vacanze e del proprio benessere, se non sentisse il dramma della solitudine e dell’abbandono contro le ingiustizie, gli imbrogli, l’inerzia e la prepotenza, mi viene da chiedermi: “Ma come può chiamarsi cristiano, discepolo di Gesù costui?” abbia fatto pure i voti di povertà, obbedienza e castità, sia pur stato ordinato prete o diacono, ma se non sente la sofferenza del povero, non si spende per il pagano, come può costui illudersi di essere discepolo di quel Gesù che disse: “Gli uccelli hanno un nido, le volpi una tana, ma il figlio dell’uomo non ha neppure una pietra su cui posare il capo!”.

Più ci penso e più mi convinco che il cristiano non è tale perché possiede il certificato di cresima ma solamente se è un operaio del Regno!

Le più belle chiese di Mestre

Forse il mio atteggiamento e il mio desiderio di appartenere ad una chiesa bella, viva, pulita, aperta al domani, generosa e coerente è talmente forte per cui rimango triste e desolato quando alla prova dei fatti m’accorgo che essa è ben poco di tutto questo.

Io ho fatto una delle mie prime esperienze ecclesiali nel duomo di San Lorenzo di Mestre, e quindi della storia di questo diacono, della prima comunità cristiana di Roma, ne ho sentito parlare tante volte in largo ed in lungo. La bella immagine di questo giovane uomo di Dio e della chiesa, che all’invito del Prefetto romano a presentargli i tesori della sua chiesa gli presenta un folto gruppo di miserabili, non ha inciso solamente nella mia fantasia, ma anche nella mia concezione di chiesa.

La mia chiesa non può essere che la chiesa dei poveri, la chiesa che lava i piedi, la chiesa in “grembiule” come amava definirla don Antonino Bello, l’indimenticabile Vescovo di Barletta.

Questa immagine è rimasta così incisa nella coscienza, che quando ai Magazzini San Martino o al nostro Banco alimentare vedo una folla di poveri di tutte le razze, vestiti con le fogge più diverse, sento un’ebbrezza particolare, mi pare di assistere ad un pontificale, in una cattedrale tra le più belle del mondo e i volontari e le volontarie mi paiono i più venerati ministri della chiesa di Dio!

Dicono che il Vescovo è il presidente della carità, se le cose stanno così, il nostro Patriarca, un giorno sì e l’altro pure, dovrebbe venire nell’interrato del don Vecchi, dai Cappuccini, a Ca’ Letizia o ad Altobello.

Queste realtà sono per me le più belle e vere chiese di Mestre!

Gli errori degli uomini di Chiesa

Ho avuto modo di constatare che i motivi, o forse i pretesti, che fanno decidere a qualche persona di allontanarsi dalla chiesa e talvolta perfino a combattere Dio e la comunità cristiana, sono spesso non di ordine ideologico e razionale, ma spesso sono determinati da delusioni avute per il comportamento di qualche ecclesiastico.

Motivazioni quindi banali, inconsistenti a livello ideologico e razionale!

Augias, il giornalista della Rai, che si distingue per la sua acredine nei riguardi della fede e della chiesa, ha confessato che la “rivelazione” che l’ha portato all’ateismo militante, è nata dal comportamento amorale di un prete sporcaccione incontrato nel periodo della sua fanciullezza.

Mi rendo conto che motivazioni del genere razionalmente non possono giustificare scelte esistenziali così importanti, però pare che, molto di frequente, sia questa la causa scatenante.

A livello personale, ho avuto anch’io recentemente un’esperienza, non grave, ma che faccio fatica a dimenticare.

Ho incontrato una persona intelligente, che occupa un posto abbastanza rilevante nella nostra società ed appartiene ad un movimento ecclesiale che, tutto sommato, ammiro e stimo, la quale mi ha deluso per un suo comportamento, che sarei tentato di definire settario, ma che con un po’ di buona volontà, potrebbe ritenersi un po’ fazioso, troppo attento all’affermarsi del suo gruppo, e poco rispettoso della vita e delle scelte di altri cristiani.

Nulla quindi di scandaloso e di grave, però questa delusione seguita all’iniziale ammirazione, mi ha turbato alquanto tanto che mi è difficile dimenticarla.

Lo scandalo è sempre scandalo, ma se proviene da un uomo o una donna di chiesa, diventa di per sè stesso una aggravante che chi non è santo, gli è difficile comprendere e perdonare!

Una Chiesa giovane si può ancora fare

Qualche giorno fa il cappellano di mio fratello, don Roberto, mi ha chiesto di venire al don Vecchi perchè pensava bene che il “coretto” dei bambini della parrocchia, che concludeva l’anno sociale, potesse esibirsi a favore dei nostri anziani.

Gli dissi evidentemente di sì, perché ogni evento diverso dalla monotonia del solito quotidiano “sveglia” un po’ il cronico torpore dei residenti che alternano la giornata tra il sonno e il mangiare.

Sapevo che a Chirignago c’è un vivaio meraviglioso di ragazzi e giovani, ma il termine “coretto” mi aveva fatto pensare ad una dozzina di ragazzini che facessero da coro guida per l’assemblea liturgica.

All’ora fissata arrivò invece una folla di bambini dalle elementari fino alla seconda media, una sessantina di ragazzini, maschi e femminucce, ordinati e composti ma di una vivacità sorprendente per il popolo del don Vecchi.

Incominciò l’esibizione: piano, chitarra e coro a più voci.
La sala Carpineta cominciò a rimbombare, tremare come il Cenacolo a Pentecoste, canti vivacissimi, accompagnati da battimani e movimenti fisici, tanto che mi sembrava di partecipare ad una delle liturgie africane in cui voci, tamburo e danza cantano la gloria del Signore impegnando tutti i sensi.

Terminato il concerto offrimmo loro il gelato e poi si tuffarono letteralmente nel prato verde; l’erba era stata rasata da poco per cui sembrava che in qualche istante sotto gli olivi secolari, fosse fiorita improvvisamente un’aiola multicolore e mossa dal vento.

Talvolta mi capita di incontrare parrocchie incartapecorite, vecchie e stantie e soprattutto mi capita di sentire qualche collega, e purtroppo qualcuno anche giovane, affermare che oggi i bambini sono troppo impegnati, che non è possibile fare un’attività seria ed impegnativa.

Quante volte ho pensato: andate a Carpenedo ad incontrare i cento chierichetti, a Chirignago a vedere “il coretto” dei bambini, o a Scorzè i 400 scout!

Io sono vecchio e come quasi tutti i vecchi brontolone ed intemperante e perciò sono nemico giurato delle foglie di fico che tentano di nascondere la vergogna o i paraventi dietro cui è nascosta la pigrizia e il disimpegno.

Anche oggi si può fare di tutto, forse meglio del passato, ma solamente serve fatica, impegno e sacrificio!

Una nuova spiritualità aderente al reale

E’ da tanto che sto rimuginando un’idea, ma è talmente ardita ed informe e soprattutto è rimasta dentro al mio spirito come un grosso diamante, di cui ho coscienza del valore, ma è un diamante grezzo, non sfaccettato che ha bisogno di mani esperte e di molto impegno per farlo brillare in tutto il suo splendore.

Leggendo degli ultimi numeri di “Gente Veneta”, il periodico del Patriarcato, ho scoperto l’editoriale in cui un giornalista che non conosco, Gigi Malvolta, ha trattato l’argomento su cui sto pensando da tempo, in maniera intelligente e più esperta di quanto io sappia fare.

L’idea che mi tormenta si basa su una contestazione che vado facendo: La forma religiosa ereditata dalla tradizione, forma che ha funzionato bene da tantissimi secoli, ora mi pare superata, incapace di alimentare e tradurre i valori religiosi del cristianesimo. Mi sembra quasi che sia uno dei tanti strumenti della civiltà contadina che sono raccolti in alcuni musei sparsi un po’ ovunque nel nostro Veneto, sono strumenti ormai rozzi, superati tecnicamente, che non possono reggere minimamente alla concorrenza sia per quantità che per qualità del prodotto che essi riuscivano a lavorare.

Per noi anziani destano ancora qualche lontano e romantico ricordo legato ai tempi delle nostre prime esperienze di ragazzi, ma che per le nuove generazioni cresciute con il computer non possono destare che curiosità e compatimento.

Il titolo di suddetto editoriale è il seguente: “Una nuova spiritualità che sia aderente al reale”.

Il giornalista fa una premessa intelligente, dando per analizzato il profondo cambiamento della nostra società; “Nessuno riuscirà a farmi dire che i cambiamenti in atto nella società italiana sono una terribile sventura. Tutt’altro, sono convinto che essi siano “Parola di Dio” per noi, “segni dei tempi” che la comunità ecclesiale deve imparare a scrutare e interpretare per leggervi la volontà di Dio su se stessa e sul mondo. E da un attento discernimento su questi segni dei tempi devono derivare le linee di azione pastorale per il futuro.

La questione, però, mi sembra un’altra. Un discernimento della fede, per sua natura, esige rigorosi criteri di spiritualità ecclesiale. Una spiritualità incarnata, vitale, incisiva.

Noi siamo ancora abituati a considerare la spiritualità come qualcosa di intimistico, di personale, di interiore: restiamo piuttosto manichei in materia, ancora avvezzi a separare nettamente l’anima dal corpo, lo spirito dalla concretezza. E qualcuno riesce a scegliersi una spiritualità distaccata dal mondo, completamente separata dalla storia; una spiritualità in qualche modo alienata… e, forse, alienante.

Sono veramente felice di aver letto queste considerazioni che da molto avevo intuito come un possibile sbocco della triste situazione attuale, perché temevo di essere veramente solo a pensarla così. Avere ora il conforto dell’editoriale di Gente Veneta non vuol dire avere risolto il problema, ma almeno non sono solo a farneticare un sogno impossibile!

Un sermone che ho apprezzato

La tomba di Matteo Vanzan, il giovane carabiniere caduto a Nassiria, sta proprio dietro la chiesa del nostro cimitero ad un paio di metri dal piccolo piazzale davanti a quello che pomposamente ed impropriamente chiamiamo l’altare della Patria.

Quest’anno in occasione dell’anniversario della morte ha celebrato il cappellano dei carabinieri di una caserma di Udine, che al tempo dell’imboscata, in cui è caduto il nostro giovane, si trovava pure lui in servizio a Nassiria.

Erano presenti alla messa e alla commemorazione quasi soltanto militari e un gruppetto di familiari, oltre all’associazione di militari in congedo, sezione che ha organizzato l’incontro.

I cappellani militari non brillano nel tener sermoni e quando lo fanno si lasciano prendere da una certa retorica patriottica e militaristica che suona sempre molto stonata per chi non è del mestiere.

Quest’anno non è stato così. Quel prete di mezza età, nel tono e nel contenuto è apparso veramente un cristiano vero, consapevole del messaggio e capace di inquadrare anche la morte in una cornice di servizio e di speranza. Mi ha però convinto soprattutto la virilità nei concetti, del modo di coniugarli con le tensioni esistenziali degli uomini del nostro tempo. A me disturbano quanto mai quei discorsetti effeminati, fragili, dolciastri, che mi sanno più di pettegolezzo religioso che di proposte evangeliche sul senso della vita. La carenza di virilità religiosa nei preti non so proprio da che cosa derivi, se dal fatto che i fedeli normali siano in maggioranza donne o dal fatto che i preti non riescono a maturare un senso della vita compiuto, nutrendosi culturalmente di letture pietistiche, involute e poco calate nella realtà della vita.

Il cambiamento richiesto oggi al mondo ecclesiastico è veramente impegnativo e vasto, ma anche questo aspetto della carenza di virilità nei concetti e nel modo di esprimerli non mi pare del tutto marginale.

L’evoluzione delle parrocchie

Spesso mi affaccio al davanzale del mio terrazzino per osservare i colori del grande campo che si estende a ponente del don Vecchi. Soltanto il guardare mi offre lo spunto per scoperte interessanti che mi sorprendono e che mi fanno comprendere la complessità della natura e la sua vasta evoluzione. Più spesso ancora il mio sguardo e il mio pensiero si spingono più lontano ed abbracciano tutto il panorama pastorale religioso che ora posso scorgere quasi dal di fuori e pian piano coglierne la lenta ma graduale e progressiva, ma quasi ineluttabile, evoluzione.

Dal mio davanzale scorgo alcuni campanili, che mi fanno immaginare le varie realtà ecclesiali, che pure subiscono una evoluzione, seppur lenta, ma inesorabile evoluzione.

La parrocchia mi pare quasi una chioccia stanca di covare e di seguire i suoi pulcini, incapace di guidarli e di tenerli uniti. M’accorgo che alcuni di essi hanno formato gruppi, congregazioni, movimenti sempre più indipendenti che, pur rifacendosi allo stesso pollaio, non ne riconoscono quasi più la maternità e l’autorevolezza.

Ora sono i movimenti a dettare legge e il percorso da fare, essi sono: neocatecumenali, ciellini, pentecostali, rinnovamento dello spirito, focolarini e via di seguito.

Tutte chiesuole autocefale, sempre più indipendenti, chiuse agli altri, autoreferenziali, che alzano ponti levatoi, che assumono linguaggi e stili di vita religiosa tutti propri e puntano sempre più ad un’autarchia sempre maggiore dalla chiesa madre.

Tutto questo, mi da sempre più la percezione che lentamente il fenomeno spirituale stia slittando dalla vita ecclesiastica alla vita di setta.

Se poi alcuni parroci sono meno robusti e si lasciano condizionare dallo spirito e dallo stile di questi movimenti, la parrocchia si riduce ad un gruppo supernutrito religiosamente e perciò anomalo e fuori dal contesto umano e sociale, non curante dei “pagani” e dei “gentili” di fuori casa e che sempre più trascurati vanno alla deriva e smarriscono ogni senso religioso.

Credo che se andremo avanti di questo passo non ci sarà più un Benedetto Croce a ripetere “Perché non possiamo dirci non cristiani!”

Bisognerà epurare qualche passo del Vangelo e poi saremo giunti al tempo delle repubblichette cristiane!

A Mestre il fenomeno mi pare sempre più evidente e consistente!

Scrivo per costruire non per demolire

Non mi è capitato di frequente, ma in verità non è neanche l’unica volta che qualche sacerdote mi chieda una copia dei miei volumi.

Normalmente non riesco ad accontentarlo perché, per la mia “mania” che nulla vada sprecato, sono sempre stato preoccupato di far circolare non solo fino all’ultimo foglio dei periodici, ma anche dei libri; conservo una o due copie solamente per i momenti di ripiegamento sul passato e di nostalgia. Non sono mai partito con l’intenzione di scrivere un libro, non ne avrei le risorse né il coraggio di farlo. Le mie sono sempre state antologie o raccolte di interventi fatti nelle occasioni più disparate che colgono lo stato d’animo, l’atmosfera, il fatto o l’illuminazione interiore del momento. Passata l’emozione, il momento di rivolta, la scoperta o la luce di una verità che mi si manifesta, pare che tutto si spenga dentro di me e che diventi non interessante.

Qualche giorno fa una “pecorella” del mio ovile raccogliticcio mi chiese, a nome del suo giovane parroco a part-time, i volumi che lui non aveva. Non potei accontentarlo, ma mi fece enorme sorpresa questa richiesta perché sono sempre stato convinto, a me pare a ragione, che le mie tesi fossero per nulla condivise dai confratelli, tanto d’aver paura d’essere un don Chisciotte fuori tempo che combatte una inutile battaglia!

Se la mia ricerca interiore e tradotta in parola o con la penna potesse interessare o mettere in crisi positivamente qualche collega, specie se giovane, questo mi darebbe molto conforto e tanta gratificazione.

Spero di non aver mai preso la penna in mano col desiderio di demolire o di far del male alla chiesa che ho considerato sempre come madre, ma mi ha sempre mosso il desiderio di promuovere autenticità, coraggio, coerenza, speranza.

Se a qualche confratello tutto questo potesse essere di una qualche utilità potrei intonare in pace il “Nunc dimittis” Perché vorrebbe dire che anch’io avrei incontrato il Salvatore, il Risorto!

“Libero e fedele”

Ho letto con tanto interesse un articolo, passatomi da un mio carissimo amico, su don Primo Mazzolari. Nulla di straordinario sentir parlare di don Mazzolari, dato che era l’anniversario della sua morte.

In queste ultime settimane ne hanno parlato un po’ tutti i giornali, sia quelli di estrazione cattolica, sia la stampa laica. Don Mazzolari è una personalità di tale levatura che supera tutti gli steccati che normalmente ingabbiano le figure di minor respiro umano, sociale e religioso.

Lo strano è che l’articolo passatomi era del “Secolo d’Italia” e faceva eco alla commemorazione che Fini ha fatto alla Camera e il segretario del PD a Bozzolo, la vecchia parrocchia di don Primo.

Io sono quasi geloso di questa splendida figura di prete, lo considero un padre del mio sacerdozio, anzi un salvatore. Se non ci fosse stato lui a darmi della chiesa, della religione e del sacerdozio una lettura alta e nobile, credo che le infinite meschinità ecclesiastiche avrebbero finito per nausearmi e sommergermi.

Di don Mazzolari ho fatto mio, e spero di esservi sempre sostanzialmente rimasto fedele, il suo motto: “Libero e fedele”. Ho imparato da lui il coraggio di oppormi al male, che purtroppo s’annida anche nella chiesa, combattendolo dall’interno.

La prima reprimenda e purtroppo o per fortuna non l’unica, l’ho presa perché in seminario leggevo “Adesso” il periodico di don Primo che ha inciso così profondamente, che ancora mi fa sognare e mi impegna a lottare per una chiesa povera, libera, schierata con i poveri, baluardo contro ogni compromesso e prepotenza contro l’uomo.

Don Mazzolari, don Zeno, don Milani sono per noi preti italiani, bandiera talmente bella e gloriosa per cui nessuna battaglia ti sembra inutile o troppo impegnativa.

Noi preti siamo sempre meno, ma se in Italia ce ne fossero ancora solo una mezza dozzina al secolo, di preti di questo stampo sarebbero sufficienti per far conoscere all’intero Paese il volto più vero e più entusiasmante della nostra chiesa.

Echi lontani

Ora finalmente capisco come i preti, che non sono in linea di combattimento, spesso sembra che non si lascino coinvolgere più di tanto sulle problematiche della fede e della pratica cristiana, anche in occasione delle celebrazioni più importanti dei misteri cristiani.

Un tempo smaniavo al pensiero delle lunghe ed interminabili file di fedeli in attesa di confessarsi, penavo a non finire quando in occasione della settimana santa la chiesa mi sembrava meno gremita degli anni precedenti, mi lasciavo letteralmente travolgere dalle varie iniziative che si ponevano in atto per coinvolgere il popolo cristiano nel dramma della passione, morte e resurrezione di Cristo.

In quarant’anni di parroco quanti tentativi, quante sfide, quante proposte perché “l’ondata di monta” raggiungesse anche gli indifferenti, anche i lontani.

Ricordo quando decisi di uscire dalla sacrestia in occasione del venerdì santo. Dal ’68 in poi le parrocchie non ebbero più il coraggio di fare una processione per le strade della parrocchia. Quando mi dissi perché dovevo soggiacere alla prepotenza di non molti scalmanati e mascalzoni? Ci fischiarono, ruppero i cartelli delle stazioni della Via Crucis, ma finimmo per averla vinta. Anche oggi si può fare di tutto; è solo questione si convinzione e di coraggio!

Quello che però mi faceva male era come una certa frangia di preti di Curia, di scuola o non direttamente impegnati in parrocchie, se ne stesse beatamente da parte, non partecipasse, anzi pensasse ad una vacanza o ad un riposo straordinario.
Ora faccio parte anch’io di questa categoria.

Sì, pulisco, abbellisco, sono presente nella mia chiesetta tra i cipressi, ma l’eco della settimana santa giunge attenuato sia in cimitero che al don Vecchi.

Ho dovuto fare uno sforzo anche quest’anno perché il Cristo crocefisso e poi risorto lo sentissi presente e l’incontrassi nel mio vissuto!

La pensione produce purtroppo anche questo!

Come testimoniamo, oggi, il Risorto?

Qualche domenica fa il brano del Vangelo raccontava che alcuni greci chiesero a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù”, Filippo si consultò con Andrea e poi li accompagnarono dal Maestro.

E’ abbastanza comprensibile, che data la fama acquisita di Cristo con i suoi discorsi e i suoi interventi ci fosse qualcuno che, mosso dalla curiosità, volesse conoscere personalmente Gesù. Il fatto poi che fossero greci, quindi appartenenti ad un popolo evoluto e critico, mi ha fatto pensare che il desiderio di “vederlo” significasse in realtà “conoscerlo”.

Sono passati duemila anni, ma sono convinto che gli uomini del nostro tempo coltivino lo stesso desiderio: conoscere questo Cristo e soprattutto le soluzioni che Egli prospetta circa la vita, la morte, il domani, perché gli uomini di oggi sono ancora più soli, più frastornati con meno certezze e valori di un tempo.

Questo desiderio più che legittimo essi giustamente lo pongono a me, discepolo dichiarato di Cristo come a Filippo, e lo pongono alla chiesa.
Quindi io, la comunità cristiana, abbiamo il dovere di far loro incontrare il Cristo.

In questo tempo di Pasqua mi è venuto più volte, da pensare che io del Risorto non posso che presentare vecchie icone, dipinti incorniciati dal tempo in cui sono stati fatti, però sono assolutamente certo che i miei contemporanei non cercano un Cristo da museo o da pinacoteche, ma sentono struggente il bisogno di incontrare il Cristo vivo, vittorioso sulla morte, sul male, sulla solitudine e sulla disperazione.

E chi se non il cristiano e la comunità cristiana ha il dovere di offrire questo volto, questa immagine?
Quando penso a questa responsabilità mi sento desolato.

A Roma nei primi secoli della chiesa definivano i cristiani come “coloro che si amano”, era già una splendida immagine! Ma ora? Meravigliarci perché la gente se ne va è veramente ipocrita!

La chiesa, quindi io, ha bisogno di una conversione radicale. Presto! Prima che sia ormai troppo tardi!

Coraggio e fantasia per trovare Cristo nel domani

Spero, o forse mi illudo, che sia il grande amore che nutro per la mia chiesa e per le parrocchie che le danno volto, che mi rende così critico ed esigente nei loro riguardi.

Quando registro che comunità parrocchiali di cinque o seimila abitanti si accontentano di un paio di messe domenicali, quando constato che le chiese rimangono chiuse per la gran parte della giornata, quando vengo a sapere che un parroco non visita le sue famiglie nemmeno una volta all’anno, anzi che i cristiani vivono e muoiono senza che certi preti neppure se ne accorgono, quando mi dicono che in certe parrocchie dopo la cresima, magari impartita a undici o dodici anni, non esiste null’altro per adolescenti e giovani, quando i giornali scrivono che gli avvenimenti, gli incontri, la vita si svolge non più attorno al campanile, ma all’ombra del centro civico o del municipio, quando avverto cristiani e preti rassegnati alla sconfitta e all’abbandono e soprattutto quando non noto nuove iniziative, tentativi, sperimentazioni pastorali coraggiose ed innovative, il mio animo diventa triste fino alla morte.

La nostra chiesa e le nostre parrocchie sembrano ripiegate sul “glorioso passato” timorose ad impaurite del domani mentre il Cristo della resurrezione, quello vero, ossia l’unico Salvatore, lo possiamo incontrare solamente avanti, nel futuro ove la vita sboccia e si fa storia.

Allora prego e spero che arrivino finalmente profeti, testimoni, cristiani folli e preti coraggiosi che cerchino il Signore oltre la trincea. Oggi la nostra chiesa ha bisogno di novità, di fantasia, di coraggio, di eroismo, di ricerca e di sperimentazione, ma per questo ci vogliono preti e cristiani disposti a pagare l’alto prezzo di questo modo di vivere e trasmettere la fede, convinti che solo così si incontra il Signore della vita!