La tomba di Matteo Vanzan, il giovane carabiniere caduto a Nassiria, sta proprio dietro la chiesa del nostro cimitero ad un paio di metri dal piccolo piazzale davanti a quello che pomposamente ed impropriamente chiamiamo l’altare della Patria.
Quest’anno in occasione dell’anniversario della morte ha celebrato il cappellano dei carabinieri di una caserma di Udine, che al tempo dell’imboscata, in cui è caduto il nostro giovane, si trovava pure lui in servizio a Nassiria.
Erano presenti alla messa e alla commemorazione quasi soltanto militari e un gruppetto di familiari, oltre all’associazione di militari in congedo, sezione che ha organizzato l’incontro.
I cappellani militari non brillano nel tener sermoni e quando lo fanno si lasciano prendere da una certa retorica patriottica e militaristica che suona sempre molto stonata per chi non è del mestiere.
Quest’anno non è stato così. Quel prete di mezza età, nel tono e nel contenuto è apparso veramente un cristiano vero, consapevole del messaggio e capace di inquadrare anche la morte in una cornice di servizio e di speranza. Mi ha però convinto soprattutto la virilità nei concetti, del modo di coniugarli con le tensioni esistenziali degli uomini del nostro tempo. A me disturbano quanto mai quei discorsetti effeminati, fragili, dolciastri, che mi sanno più di pettegolezzo religioso che di proposte evangeliche sul senso della vita. La carenza di virilità religiosa nei preti non so proprio da che cosa derivi, se dal fatto che i fedeli normali siano in maggioranza donne o dal fatto che i preti non riescono a maturare un senso della vita compiuto, nutrendosi culturalmente di letture pietistiche, involute e poco calate nella realtà della vita.
Il cambiamento richiesto oggi al mondo ecclesiastico è veramente impegnativo e vasto, ma anche questo aspetto della carenza di virilità nei concetti e nel modo di esprimerli non mi pare del tutto marginale.