Anche gli uomini di Chiesa dovrebbero fare autocritica

Riflettere a voce alta su questo argomento so che è molto pericoloso per un prete, perché finchè un uomo di chiesa critica i partiti, il sindacato, gli organismi vari che hanno responsabilità nella conduzione della vita pubblica, almeno per quanto riguarda l’organismo di cui fai parte, non corri alcun pericolo di richiami, di critiche o di provvedimenti vari.

Se però il tuo discorso odora solamente di autocritica del mondo di cui sei parte, c’è sempre qualcuno dell’apparato che arriccia il naso, che al minimo, ti dice imprudente!

Io sono contento quando uomini di chiesa, che occupano posti importanti nell’organizzazione ecclesiastica, prendono posizione contro chi non rispetta la libertà, la dignità, il diritto di esistere, di avere una vita degna e per quanto posso gli do manforte, però mi piacerebbe che in tutto questo partissimo dalla nostra testimonianza anche perché non posso non ricordarmi di quella frase del nostro maestro: “Togli prima la trave dal tuo occhio e poi preoccupati pure della pagliuzza dell’occhio del tuo fratello!”

La chiesa struttura è certamente un qualcosa di consistente, dispone di molti mezzi economici, di molti fedeli, di una solida e vasta organizzazione, di un apparato mastodontico.

Non è che onestamente la chiesa se ne stia con le mani in mano, ma altrettanto onestamente potrebbe fare molto, molto di più! Quasi sempre poi quelli che si espongono e si impegnano a livello di difesa dei deboli, di soccorso ai poveri, di sostegno a chi è in difficoltà, sono spesso, non i vertici, ma la base, i singoli, quelli che non contano, quelli che sono spesso guardati a vista perché intemperanti, poco prudenti!

Non passa giorno che qualche monsignore, che presiede uffici, commissioni, dicasteri ed altro fa la sua “sfuriatina” contro il governo, contro certi provvedimenti.

Non dico che sempre non abbia ragione, però se assomigliasse un po’ di più al volto e all’opera di Madre Teresa di Calcutta o di San Vincenzo de Paoli, o del Cottolengo, ne sarei più orgoglioso e convinto.

Quando guardo a come le singole parrocchie, i cattolici di Mestre sono impegnati nei riguardi del prossimo, sono preoccupati della situazione degli “ultimi”, credo dovrebbero pensarci mille volte prima di pretendere che gli “altri” facciano o non facciano!”

Per me la critica dovrebbe sempre cominciare dall’autocritica!

La comunicazione cristiana nella nostra diocesi

Ieri ho precisato il mio pensiero sull’importanza di avere strumenti adeguati per offrire il messaggio cristiano, per difendere le posizioni della chiesa, per contrappormi a certe soperchierie dei “furbi”, che non mancano mai, per promuovere la solidarietà e soprattutto per partecipare al discorso circa la costruzione di un mondo nuovo e più onesto.

Sono assolutamente del parere che nonostante qualche splendida eccezione, a livello di comunità parrocchiale, si fa troppo poco in proposito.

Più volte ho avuto modo di apprezzare pubblicamente l’azione di Monsignor Bonini in proposito mediante “Piazza Maggiore”, c’è anche qualche altra parrocchia in cui esce un periodico modesto, ma dignitoso, oltre c’è il deserto.

A livello diocesano le cose vanno bene, molto meglio, col settimanale “Gente Veneta”; mi spiace invece la pratica scomparsa di quello che è stata la mia utopia: “Radiocarpini”.

Per quanto riguarda il settimanale della diocesi “Gente Veneta” sta costantemente aumentando in autorevolezza e partecipazione attiva alla messa a punto del pensiero collettivo apportando un serio contributo sia a livello informativo che a livello di formazione di una cultura civica che tenga conto dei valori che i cristiani possono e debbono offrire.

So che la diocesi è pure attrezzata con i recenti mass-media; purtroppo la mia mancanza di conoscenza in proposito, dovuta all’età, non mi permette di esprimere un giudizio sulla validità e l’incisività di questi nuovi strumenti tesi a formare l’opinione pubblica.

Un altro aspetto del problema è certamente quello di un impegno pastorale teso a formare i giornalisti ed operatori del settore con una pastorale specifica e quello d’avere rapporti cordiali e collaborativi con le testate giornalistiche, radiofoniche e televisive presenti nel nostro territorio. Non sono al corrente se ci sono sacerdoti qualificati e deputati a questo compito che io reputo essere di capitale importanza, ma so che quando ci sono questi rapporti è possibile sfruttare graficamente i loro strumenti.

Pare che troppi preti siano ancora fermi alla predica domenicale come strumento di evangelizzazione, non essendosi ancora accorti che il sermone raggiunge una percentuale pressoché insignificante di cittadini e che spesso non sfiora neppure quelli che svolgono un ruolo significativo nella vita cittadina.

Di certo la chiesa non può più rannicchiarsi nelle anse del fiume, ma deve affrontare le problematiche della città ove essa scorre, nè tutto questo può essere deputato solamente agli addetti ai lavori.

Non tutti i preti capiscono che la fede senza le opere è sterile

Qualche giorno fa un signore, che non credevo di conoscere, mi chiese il mio diario del 2008.

Pensavo di non averne più una copia, invece ne trovai fortunatamente una.

Il signore che aveva manifestato questo suo desiderio alla figlia, abita a Padova ed è un mio coetaneo, probabilmente il fatto dell’età costituisce già un minimo denominatore comune, per leggere la cronaca e il sentire della gente del nostro tempo.

La domenica successiva suddetta figlia, si presentò puntualmente dopo la messa, celebrata tra le tombe, per recuperare il diario e per portarmi una generosa offerta.

Si sa, una parola tira l’altra tanto che pian piano sono riuscito ad inquadrare la personalità del richiedente padovano, le sue figlie, una delle quali era una ragazzina di San Lorenzo, da grande aveva adottato due bimbi e l’altra una mamma a cui avevo battezzato due o tre figli.

Bella gente, dal cuore grande, ricco di umanità e di fede semplice e concreta! Mi sovvenne durante il colloquio, anche questo anziano imprenditore, sollecitato dalle sue care figliole, aveva sognato e tentato di coinvolgere il suo parroco a costruire in un suo terreno un qualcosa di simile al don Vecchi per gli anziani di Padova. La cosa non procedette perché il suo parroco aveva ben altri progetti per la testa. Scopro ogni giorno di più quanto sia estranea dalla coscienza dei preti la solidarietà.

Un giorno c’è stato un parroco della marca trevigiana che mi invitò a parlare, durante una congrega di preti della sua foranìa, delle mie esperienze caritative in parrocchia. Man mano che procedevo ad illustrare queste esperienze, mi accorsi che prima si avvertiva noia tra i presenti, poi disagio ed infine insofferenza! La cosa non interessava loro per nulla.

E’ ancora molto diffusa tra i preti l’idea che la carità sia un’opzione piuttosto che una componente essenziale della vita cristiana.

Moltissimi preti pare che non credano che la fede senza le opere è sterile, anche se ciò è stato detto da un esponente autorevole della chiesa ben venti secoli fa!

Come in una scena del film “Lo spretato”

Tantissimi anni fa ho avuto modo di vedere un film che mi è rimasto impresso particolarmente nella memoria e soprattutto nella coscienza.

Il titolo era “Lo spretato”.

A quel tempo erano ben pochi i preti che “appendevano la tonaca al chiodo”, ma dal ’68 in poi questo fatto non fece quasi più notizia perchè cominciò da allora una “emorragia” che non si è ancora bloccata del tutto.

Di quel film ricordo soprattutto tre o quattro scene che non dimenticherò mai.

Questa mattina ne ho ricordata particolarmente una per una strana associazione di idee.

Lo spretato era accompagnato alla tomba di uno dei tanti cimiteri dell’anonima periferia di Parigi, dal solito furgone funebre, senza alcun segno religioso, dietro al furgone due o tre persone soltanto, uno squallore inconcepibile, per me abituato ad Eraclea vedere l’intero paese seguire il defunto al camposanto in due interminabili file, ma anche a San Lorenzo, quasi sempre una folla attraversava Piazza Ferretto mentre si chiudevano rapidamente le serrande dei negozi, quando si portavano i morti in cimitero.

Sono passati appena quarant’anni e stamattina ho aperto io il corteo funebre, c’erano poi i quattro becchini con la bara su un carrello e Cristiano il capoufficio della Vesta, che pur faticando, ha voluto rendere onore al concittadino, che dopo essere rimasto sei mesi nel congelatore della cella mortuaria, riceveva finalmente sepoltura sotto una piccola croce bianca regalata dall’amministrazione comunale.

Povero Gino, povero Paese, povera cristianità che non si accorge neppure più della scomparsa di un suo membro!

Combattenti del Sol Levante

Mi reco due volte la settimana a rifornire, della buona stampa, gli espositori dell’Angelo.

Non ci sono più sacerdoti a servizio a tempo pieno “della cittadella della sofferenza”; che almeno il messaggio di speranza offerto da Cristo giunga attraverso i nostri periodici!

Ogni settimana portiamo cinque/seicento copie de “L’incontro”, un centinaio di copie del mensile “Il sole sul nuovo giorno”, ottocento/novecento copie di “Coraggio”, un centinaio di copie settimanali delle preghiere del cristiano e un centinaio di copie de “L’albero della vita”, per la lettura positiva del mistero della morte.

Con questi contributi non risolviamo certamente il problema della pastorale degli ammalati, ma almeno la nostra diventa una presenza, umile finché si vuole, ma gradita.

Infatti non solo i nostri periodici non rimangono sugli espositori, ma anzi li aumentiamo di settimana in settimana.

L’altra sera facendo il giro degli espositori del primo piano, forse la visione delle grandi palme dello splendido giardino pensile, per associazione di idee, mi fecero venire in mente il fatto di alcuni combattenti del Sol Levante, che non essendo stati avvertiti della fine della guerra perché in servizio all’interno della giungla, anche dopo vent’anni dalla fine si consideravano ancora in armi.

Guardando suor Teresa, che mi accompagnava, mi venne da chiedermi: “Ma non saremo anche noi come i soldati giapponesi, sopravissuti al mutare degli eventi?” Un tempo le suore di San Paolo, organizzavano tavole della buona stampa, le Figlie della Chiesa passavano di casa in casa, per l’apostolato del libro. Pare che tanti forse troppi, cattolici si siano ritirati, accontentandosi della routine, della prassi religiosa.

S’è celebrato l’anno di San Paolo, ma pere che all’infuori di qualche sermone di maniera abbia inciso ben poco la sua testimonianza del “combattente per la fede per antonomasia!”

Certo che fare i combattenti, quando è calata la fase secolare costa e costa molto, sarebbe molto più facile e perfino meno costoso andare in vacanza come ogni buon cristiano!

Spero in una rinascita dei patronati

A Milano li chiamano oratori, i luoghi dove i ragazzi e i giovani della parrocchia s’incontrano, giocano e vengono educati alla vita cristiana. Pure i ricreatori dei Salesiani si chiamavano oratori.

Quando ero ragazzino ho frequentato per due anni l’oratorio dei salesiani di San Donà di Piave. Era un luogo frequentatissimo e ne riporto un ricordo semplicemente meraviglioso.
Da noi questi luoghi invece sono chiamati patronati.

A Milano avevano, nel passato, una organizzazione poderosa, mentre da noi, anche nei tempi migliori, sono sempre stati ben poca cosa.

Ricordo che ai Gesuati, ove fui cappellano, il patronato era costituito da una vecchia bicocca, seppur restaurata di recente, e lo scoperto consisteva in un cortiletto di pochi metri quadrati, condiviso coi Cavanis, e circondato da ogni parte da una rete metallica perché il pallone non finisse nelle cucine o nelle camere da letto delle case circostanti.

Quando giunsi a Carpenedo nel 1971, c’erano vere folle di ragazzi, un po’ selvaggi e poco desiderosi della parola di Gesù, ma comunque erano tantissimi. Poi con i decenni la cosa andò scemando, riducendosi ultimamente, nonostante notevoli investimenti, al luogo della raccolta dei rompi tutto!

Tutto questo perché non ci sono quasi più giovani cappellani e quando ci sono pare che non reputino più giusto perdere il loro tempo stando insieme ai ragazzi perché impegnati altrimenti con il computer, convegni, incontri, università e quant’altro!

In questi giorni ho letto che i pochi futuri preti faranno un giro di tre settimane col Patriarca in Brasile per conoscere le realtà di quel Paese.

Spero tanto che vedano giovani preti animare la gioventù e i ragazzi, anche se mi rimane qualche dubbio, da un lato perché il Brasile è un po’ lontano e queste esperienze pastorali spero che si trovino, pur se rare, anche nel nostro Paese e dall’altro lato perché immaginavo che l’America latina fosse un Paese importatore piuttosto che esportatore di esperienze pastorali!

La nota positiva, che mi apre il cuore alla speranza, è la buona riuscita dei “grest” di alcune parrocchie della Terraferma, spero proprio che sia una prima nota della rinascita.

La vera ricchezza non sta nella forma ma nel valore e nella bontà del messaggio

L’inizio del mio servizio da prete è avvenuto nel lontano 1954 presso la parrocchia dei Gesuati a Venezia. Suddetta parrocchia è costituita da quella parte di territorio veneziano che va dal ponte dell’Accademia e termina con la Punta della dogana, limitato a destra dal Canal Grande e a sinistra dal canale della Giudecca.

Era parroco a quel tempo Monsignor Mezzaroba, sacerdote che mi aveva conosciuto da bambino ad Eraclea, quel parroco era un prete zelantissimo, con una fede semplice come quella di un bimbo è col desiderio di convertire e salvare anche il cristiano più renitente. Se aveva un limite era quello d’essere di una ingenuità disarmante tanto da riporre una cieca ed assoluta fiducia in ogni novità che a suo parere poteva realizzare il miracolo della conversione dei suoi parrocchiani piuttosto renitenti alla vita cristiana.

Ricordo che a quei tempi era uscito il “magnetofono” a filo, per registrare le voci.

Comperò immediatamente questo marchingegno essendo certo che con quello strumento io avrei incantato tutti i ragazzi della parrocchia che mi avrebbero seguito come il pifferaio magico.

Sono ritornato a questi lontani ricordi qualche settimana fa leggendo ai fedeli il brano del Vangelo che parla del mandato di Gesù agli apostoli: “Non portate bisaccia, né bastone, né denaro, e nemmeno due tuniche!” quasi a dire: “La vostra ricchezza non sta nelle tecniche raffinate dell’offerta, ma nel valore e nella bontà del messaggio: Il Regno di Dio è vicino!”

Ora un po’ meno, ma fino a qualche anno fa quando non s’è parlato d’altro che di strategie pastorali, di strumenti di apostolato, di organizzazioni ecclesiali, di gruppi con metodologie e dei carismi più diversi, di formazione teologica ecc.

Certamente anche questi strumenti quali: giornali, radio, televisione, gruppi, metodi, hanno una loro funzione però essa sarà sempre modesta, limitata e marginale!

Quello che vale però è il messaggio che dà risposte alle domande esistenziali, la coerenza dell’apostolo, la solidarietà che l’accompagna, la convinzione assoluta di offrire la “merce migliore” che supera di gran lunga quello che offre la “concorrenza”; tutto il resto è solamente carta da pacchi più o meno colorata!

Dio non è un “re travicello”!

Una delle mie insistenti preoccupazioni a livello spirituale, sperando tanto che non diventi una mania, è quella di far sì che l’essere credente nel messaggio e nella persona del Cristo, non si riduca ad atto formale.

Io sono arciconvinto della necessità che il fedele partecipi all’Eucarestia domenicale, lo faccia seriamente, in maniera devota e partecipe, ma mi preoccupa alquanto che una volta assolto il dovere della frequenza, della correttezza e della partecipazione attiva, tutto si riduca a questo e non ci sia invece un confronto a tutto campo col Cristo che parla con te che dimostra interesse ai tuoi problemi, che ti dà consigli e semmai rimprovera.

La mia preoccupazione è che il fedele instauri un rapporto con Cristo, come una persona attuale, con cui si deve avere un dialogo esistenziale vivo, fecondo ed efficace, anche talvolta critico, burrascoso, o tenero ed affettuoso.

Qualche settimana fa ho avuto il bisogno di mettere a fuoco questo argomento in occasione del brano del Vangelo in cui si raccontava che i discepoli di Gesù, mandati in missione, tornano per riferire il risultato e le difficoltà incontrate durante il loro servizio. Gesù li ascolta e poi, vedendoli stressati, li invita ad un momento di quiete e di riposo.

Non so quanti fedeli alla domenica facciano questo e meno che meno conosco i dialoghi che dovrebbero essere sempre appassionati, che essi intrattengono con l’inviato da Dio.

Se tutto si riducesse alle botte e risposte, prefabbricate della liturgia, sarebbe un guaio, una delusione ed una perdita di tempo la stessa messa.

Mi ha fatto impressione, ma anche mi ha convinto, un padre del deserto che diceva al suo discepolo che la preghiera non era quella di un coro ben educato che salmodiava, ma le imprecazioni di un contadino che protestava con Dio per la tempesta che avevano subito i suoi campi.

Lui, il contadino da credente riteneva giusto protestare col titolare, mentre se il credente o meglio il pseudo credente non gli pare neppure valga la pena pigliarsela con chi può tutto, vuol dire che in realtà lo considera un “re travicello”!

La tentazione di Santa Teresina

I letterati in genere esasperano i problemi e i drammi umani, tingendoli con pennellate e colori forti, in modo da far emergere con più evidenza e più forza certe verità che spesso investono l’uomo.

Ricordo di aver letto moltissimi anni fa un dramma di Cesbron, il famoso letterato francese del secolo scorso, il secolo in cui praticamente sono vissuto ed in cui ho subito tutti i contraccolpi che la vita non risparmia a nessuno.

Cesbron, cattolico fino al midollo, descrive una tentazione che Santa Teresina avrebbe subito in punto di morte. Non so se il dramma di Cesbron abbia avuto un qualche riferimento alla vita reale di questa giovane santa carmelitana, o se egli abbia solo preso a pretesto per mettere in maggior rilievo la tentazione che può colpire o tormentare una persona che s’è spesa tutta e in maniera radicale per una scelta religiosa fuori dal comune.

Il drammaturgo immagina che il diavolo, sotto le sembianze di un medico dal pensiero lucido e sottile, le sussurri l’ipotesi che ella avesse fatto una scelta sbagliata ed avesse perciò investito la sua sete d’amore, di verità e di assoluto, su ideali religiosi inconsistenti, effimeri in cui altri per convenienza o per motivi e circostanze particolari si erano trovati a vivere in un modo illusorio ed inconsistente.

Ricordo come ora che le insinuazioni, di una razionalità perfida e sottile, portano la santa morente alla terribile sensazione d’aver sprecato tutte le sue potenzialità umane per qualcosa di fatuo, che altri non avevano perseguito se non solamente in maniera formale, mentre lei vi aveva investito tutto. Teresa stava per scoppiare per un’angoscia mortale ed una disperazione assoluta per il venir meno, almeno apparentemente, della scelta ch’ella aveva irrimediabilmente fatto.

Poi l’angelo la placa e la salva e le appare infatti il Padre che l’attende amoroso: ed ella muore serena.

A me ottantenne, al termine dei miei giorni, ormai al tramonto della vita s’affaccia talora qualcosa del genere soprattutto quando mi accorgo che confratelli o peggio personalità ecclesiastiche d’alto rango pare prendano molto alla leggera l’impegno religioso e ne colgano spesso solamente o quasi, i vantaggi sociali.

In questi momenti difficili mi aggrappo ai profeti e ai testimoni nei quali ho sempre avuto fiducia; per ora reggono e spero tanto che tengano fino alla fine!

Siamo ancora monoteisti?

Per tanto tempo i miei maestri mi hanno insegnato che il popolo ebraico fu grande perché, a differenza di tanti altri popoli, fu monoteista, ossia credeva in un solo Dio.

Ora, dopo una lunga vita ed una certa frequentazione della Bibbia, ho delle grosse riserve sul monoteismo ebraico, perché sono arrivato alla convinzione che piuttosto di credere in un solo Dio, gli ebrei credevano che il loro Dio era più forte degli dei degli altri popoli e tutto ciò non lo si può definire proprio monoteismo.

Le mie considerazioni si sono spinte col tempo molto più in là, tanto che temo che, anche dopo venti secoli di storia cristiana, i seguaci dell’ebreo Gesù non siano proprio dei monoteisti puri! A livello formale credo che vinca il monoteismo, ma nella pratica si possono trovare piccoli e grandi idoli anche nel nostro mondo cristiano.

Alcune settimane fa, una mia amica, che ha cercato un ufficio postale in periferia, perché quello centrale è troppo affollato, come avviene spesso per la poca organizzazione e solerzia negli uffici pubblici, ha scorto a Trivignano una lunga fila di persone in attesa. Si concedevano i prestiti per le vacanze! Le vacanze sono un idolo molto affermato.

Leggevo sulla cronaca sportiva delle gare in acqua, gli epici risultati della gloria di Spinea, che si irradia però sul Veneto, in Italia e nel mondo!

Mi pare che la Fede (diminutivo di Federica) ha raggiunto il record dei 400 metri superando di due decimi di secondo quello precedente.

Non vi pare che la Pellegrini si meriti l’erezione di una Basilica? Per non parlare del valore economico di un giocatore di calcio! Siamo decisamente regrediti a livello di fede reale. Altro che monoteismo!

Padre Ugo Molinari e don Giuliano Bertoli, preti che non fecero compromessi

Il ricordo di don Giorgio prete che per obbedienza e convinzione, si impegnò, con risultati positivi contro ogni speranza, a proporre il sacerdozio in tempi in cui una crisi gravissima si abbatteva contro i preti e molti appendevano la tonaca al chiodo, ha fatto emergere in me, altre due figure di preti che voglio ricordare perchè lo meritano.

Padre Ugo Molinari, prete somasco, parroco di Altobello.

Padre Ugo, che penso fosse proveniente dalla Somasca oltre ad essere un discepolo di San Girolamo Emiliani, esercitò negli anni difficili, attorno al ’68, il ministero di parroco di Altobello.

Ora quella zona s’è risanata, a quel tempo era ancora in subbuglio in cui povertà e prostituzione si accompagnavano come sorelle siamesi. L’intero apparato della parrocchia cominciò prima a scricchiolare per poi franare completamente. Ricordo che a San Lorenzo, a quei tempi, avevamo più di mille iscritti alle varie associazioni, dopo un paio di anni tutto era raso al suolo. Don Ugo, a differenza di tantissimi preti, che si lasciavano andare alla moda del tempo, blindò la parrocchia, continuò imperterrito il suo ministero e la comunità resistette al tornado della contestazione.

Don Ugo fu un prete che con saggezza, forza e santità salvò dal disastro della contestazione la sua comunità. Gli altri preti lo definivano “matusa” (così venivano chiamati i preti che i progressisti ritenevano reazionari e conservatori), ma egli riuscì a tenere in piedi l’ossatura della sua comunità.

Il ricordo di don Giorgio è per me collegato a quello di don Giuliano Bertoli, il rettore del seminario, altra figura di “prete resistente”.

I seminari di tutta Italia con il ’68 sbandavano, chiudevano o si davano alle sperimentazioni più spericolate, ma a Venezia don Giuliano, con il suo sorrisetto a mezz’aria, con un atteggiamento sornione ma con spirito saggio resistette alla moda del tempo, tenne ben fermo il timone e non si lasciò incantare né dalle sirene, né temette l’impopolarità. Finché visse a Venezia ci fu il seminario. Poi fu un’altra cosa!

Desidero ricordare questi preti saggi e coraggiosi quando quasi tutti si illusero di stare a galla scendendo a compromessi pericolosi che poi li travolsero!

Realtà ecclesiali che cambiano

Ho saputo l’altro ieri che uno dei miei ragazzi è andato in pensione. Questo ragazzo, di mezzo secolo fa, frequentava il seminario da semiconvittore. In quei tempi lontani in cui si era in più di duecento in seminario, i ragazzi che abitavano a Venezia potevano frequentare, fino a non so quale classe, il seminario da semiconvittore.

Venivano presto alla Salute, partecipavano alla messa, poi entravano in classe, alla mezza pranzavamo assieme nel grande refettorio, poi si giocava prima di studiare nel pomeriggio e verso le 18 ritornavano a casa. Io sono stato il loro assistente per vari anni.

Ricordo questo ragazzo, serio, silenzioso, ordinato; una personcina a modo.
Percorse tutto l’iter scolastico e divenne prete.

Non ho seguito la sua “carriera” ecclesiastica, sono sempre stato superimpegnato per le mie cose, così che non ho potuto seguire, quasi mai, le vicende del clero veneziano.

So però che egli da molti anni faceva il parroco di S. Felice, una delle troppe parrocchiette di Venezia, comunità che conta 1300 fedeli.

Sono andato a consultare il prontuario della diocesi perché per me è rimasto il ragazzo di cinquant’anni fa, motivo per cui mi stupì alquanto la notizia del suo pensionamento.

Settantacinque anni l’età canonica per la pensione dei sacerdoti.

Però mi ha sorpreso ancor di più che il suo successore sarà un diacono e l’amministratore economico un prete di una parrocchia vicina.

Ormai sono all’ordine del giorno le “unità pastorali” e i diaconi!

Ho l’impressione che queste soluzioni siano quasi un pretesto per risolvere il problema del celibato ecclesiastico senza scandire le scelte di ordine ideologico!

Spero che questi diaconi riescano a mantenere unite le comunità e che il messaggio di Cristo sia predicato e testimoniato con vigore e convinzione.

La Chiesa amata e cercata

L’apparato della chiesa è veramente elefantiaco. Le rare volte che partecipo a qualche celebrazione liturgica, organizzata dai responsabili diocesani e mi ritrovo fra cento duecento colleghi nel presbitero e poi volgendo lo sguardo verso la navata scorgo suore di tutte le fogge e cristiani impegnati a centinaia e centinaia, mi chiedo come mai, a dirla come l’ex segretario del PCI, funziona così poco e non sfonda questa “magnifica macchina da guerra!”

La chiesa dispone ancora di tanti preti, frati, suore, strutture di ogni tipo, ricchezze economiche e di una tradizione splendida, di una cultura sopraffina, di verità e di ideali, ma nonostante tutto questo è lenta, amorfa, pesante, pare quasi che impieghi tutte le sue forze residue per sopravvivere.

Io non ho quasi mai negato la validità della chiesa come istituzione, ma anche ho sempre desiderato la chiesa della profezia che sventola le sue bandiere, che balza fuori dalla trincea, guarda al domani e crede nell’uomo.

Ho sempre amato e cercato la chiesa che sposta i paletti di confine in avanti, che progetta e si impegna in missioni impossibili, perché convinta che il passato è un bagaglio talora pesante e spesso ingombrante, mentre nel domani c’è la vita.

Mi convinco sempre di più che combina di più un profeta che mille parrocchiani e cento ordini religiosi, motivo per cui il cristiano d’oggi deve stare con gli occhi spalancati e le orecchie tese per scoprire il volto e la voce dei profeti e coglierne il messaggio.

Ancora una volta debbo confessare che Madre Teresa di Calcutta, don Tonino Bello, don Milani, don Mazzolari, La Pira, De Gasperi, Papa Giovanni e Papa Woityla valgono mille encicliche, diecimila lettere pastorali ed una infinità di canoniche e conventi. Oggi c’è assolutamente bisogno di profezia, di libertà, di coraggio e di carità. Questa è la chiesa amata e cercata perfino dai senza Dio!

Il perdono

Quando ero ragazzino, la catechista mi faceva sognare quando ci raccontava la storia del giovane David, dagli occhi belli e dai capelli fulvi, che sfidava in nome del suo popolo, il gigante Golia e lo abbatteva con la sua fionda.

Più grande, ma senza alcuna dimestichezza derivante da una lettura integrale della Bibbia, perché a quei tempi se ne sconsigliava l’approccio, mi si parlava del “pio” re David.

Ora, ormai vecchio, ho conosciuto bene la vicenda, gli amori più o meno leciti di questo “santo re David”.

Credo che se mettessi assieme, facendone una antologia quelli che noi oggi chiamiamo “peccati”, ci sarebbe veramente da essere sorpresi come Dio concedesse la sua benevolenza ad un personaggio del genere, che pare non avesse alcuna dimestichezza con la moralità e il senso religioso della vita.

Ultimamente m’è capitato di leggere sulle sue simpatie nei riguardi di Gionata, sul modo con cui “paga” la dote a Saul suo suocero, sulle sue scappatelle extraconiugali, e in particolare sulle sue scorribande guerresche.

Sì altri tempi, altri costumi! Tutto quello che si vuole! Sarà stato un modello per quei tempi, non certamente per noi.

Eppure non ho perso totalmente la simpatia per questo furfantello di re!

La sua vita e le lodi che riceve dalle Sacre Scritture, mi sono di conforto, nella speranza che se il buon Dio, che è sempre quello di David, se l’è portato in paradiso, farà altrettanto con gli uomini del nostro tempo.

Credo che il pessimismo che è nato da alcuni filoni della Riforma Protestante, non abbia motivazioni profonde e giustificazioni credibili.

Ogni giorno di più constato con meraviglia, la capacità di perdono verso certi figli sconsiderati da parte degli sfortunati genitori.

Spero proprio che il buon Dio usi lo stesso metro anche con gli uomini del nostro tempo.

Canti liturgici a un Dio sorridente

Una sera, alla messa vespertina, la signora Maria Giovanna, la maestra del coro S. Cecilia che anima le liturgie prefestive al don Vecchi, ha intonato una nuova canzone. Diciamo nuova perché non è mai stata eseguita alla messa degli anziani, ma che ha aperto praticamente la primavera del rinnovamento dei canti religiosi, una stagione fresca e luminosa che chiudeva quella di “Noi vogliam Dio Vergine Maria”.

Gli anziani hanno eseguito il canto senza accentuare il ritmo, con cui i ragazzi per tanti anni hanno cantato questa canzone, ma comunque la cadenza veloce ha portato un soffio di primavera e di ottimismo. A me poi “Lui mi ha dato” non soltanto mi ha donato una ventata di entusiasmo, ma anche un’ondata di dolci ricordi e di tanta nostalgia.

La prima volta che udii questa canzone, accompagnata dal ritmo della chitarra, fu durante una S. Messa celebrata nel grande prato di Valbona a Misurina, sotto un cielo limpido in quella stupenda vallata circondata da una abetaia sconfinata.

Attorno all’altare cantavano con voci fresche e sorridenti una cinquantina di ragazzi, cantavano con le loro voci squillanti di giovinezza ma cantavano anche il corpo, gli occhi, i piedi che segnavano il tempo.

Ricordo con infinita gioia che mentre i ragazzi cantavano: “Non so proprio come far per ringraziare il mio Signor, mi ha dato i cieli da guardar e tanta gioia dentro il cuor” e poi ricaricavano la voce e l’entusiasmo con il ritornello: “Lui mi ha dato i cieli da guardar, Lui mi ha dato la bocca per cantar, Lui mi ha dato il mondo per amar e tanta gioia entro il cuor” avevo la dolce sensazione che la chiesa avesse riscoperto la vita, il mondo vero e interpretasse la gioia del vivere, di contare su un Dio sorridente, accomodante, non quello musone, riservato e taciturno che mi avevano presentato al catechismo.

Sono passati quarant’anni, non tutto il sogno s’è avverato, ma almeno per qualcuno finalmente la chiesa s’è sintonizzata al passo delle attese degli uomini d’oggi!