Il valore perduto dell’apprendistato

Un tempo c’era una massima che circolava tra gli artigiani, ed io appartengo e provengo da questa povera ma bella ed interessante categoria: “Il garzone o l’apprendista bravo ruba con gli occhi il mestiere”

Mio padre, che gestiva una piccola bottega di falegname, mi raccontava che quando, “andava a mestiere”, l’apprendistato un tempo era in auge ora è ormai scomparso, cercava di imparare il mestiere pur essendo incaricato di scaldare la colla, di raddrizzare i chiodi vecchi per poterli riadoperare e scopare la bottega dai trucioli, spiava le soluzioni del capomastro, tanto che pur molto giovane riusciva a risolvere i problemi che anche colleghi più anziani non riuscivano ad affrontare.

Questa riuscita gli veniva dal suo impegno a “rubare” il mestiere al falegname esperto suo maestro d’arte.

Oggi è sparito l’apprendistato perché i giovani “nascono” o pretendono d’essere nati già “imparati”.

Io, alla mia veneranda età, dovrei essere un esperto del mestiere del prete, dopo 55 anni di attività sacerdotale. Talvolta sono stato tentato, avendo ottenuto qualche risultato positivo, di passare le esperienze al giovane clero che mi stava accanto, ma non solamente nessuno mi ha chiesto un qualsiasi consiglio, ma anzi c’è stato perfino chi si è premurato di dirmi che ho sbagliato tutto, che il mio efficentismo non aveva spazio nella chiesa attuale, giungendo perfino a raccomandarmi che avrei dovuto smobilitare tutto l’apparato della mia comunità per standardizzare la parrocchia al modello di inedia e di miseria dominante (queste ultime note ben s’intende sono esclusivamente un mio parere).

Ricordo un progetto, poi mai realizzato, del vecchio Patriarca Luciani, che sperava di imbastire tre o quattro parrocchie efficienti e vitali perchè il giovane clero facesse in esse delle belle esperienze iniziali in maniera tale da impiantarle poi nelle comunità future alle quali sarebbe stato destinato.
Il Papa Luciani poi è morto portando nella tomba il suo progetto.

Spero che ci siano ancora preti coraggiosi e liberi che rimangono tali pur senza seguaci, almeno immediati!

Però penso che la moda, in mondo globalizzato, investe tutti, senza eccezione alcuna.

Gli scout, una bella realtà che regge nel tempo

Don Armando e la redazione augurano un sereno Natale ai lettori con l’invito non solo a pregare ma a darsi da fare in prima persona per i bisognosi!

Qualche settimana fa sono tornato come ogni domenica pomeriggio da un’ulteriore visita alla cappella del cimitero, dove mi ero recato per accertarmi dello spegnimento dei lumini e delle candele e per un riordino sommario in maniera che fin dalla prima mattinata del lunedì, tutto fosse ordinato ed accogliente.

Nel pomeriggio della domenica sono in servizio solamente due operatori della Veritas che hanno il compito di chiudere ben quattro o sei cimiteri e perciò è sempre possibile che tutto non sia messo in sicurezza.

Nel ritorno, dopo aver percorso via Santa Maria dei Battuti, quando ho imboccato via Trezzo, la mia attenzione è stata subito attratta da una lunghissima fila di ragazzini in divisa scout, con tanto di zaino, di guidoni e di materiale vario, che ritornavano molto probabilmente dal parco di Villa Tivan, ove ancora molto probabilmente, avevano celebrato l’inserimento dei nuovi lupetti e il passaggio dei più anziani alla branca successiva dell’organizzazione scout.

Per più di 50 anni mi sono occupato di questa associazione, infatti già nel 1954, prete novello, diventai assistente del 24° gruppo scout che aveva sede ai Gesuati. Poi a San Lorenzo assieme a qualche vecchio capo, abbiamo resuscitato lo scoutismo che si era ridotto a due poveri reparti e per lo più spelacchiati e spauriti.

Fu un’esplosione, per cui a S. Lorenzo arrivammo ad avere tre reparti di esploratori, due branchi di lupetti, due clan ed un noviziato ed altrettanti gruppi femminili, dato che a quel tempo erano distinti i maschi dalle femmine.

Giunto a Carpenedo nel ’71, mi detti da fare per ripetere il “miracolo” e nonostante i tempi si fossero fatti difficili per via della contestazione del ’68, in pochi anni raggiungemmo e superammo quota 200 scout.

Non sempre ebbi sacerdoti collaboratori convinti e motivati a questo riguardo, ma comunque, almeno a livello numerico l’associazione resse, tanto che quando me ne andai dalla parrocchia potei lasciare questa, per me bella, eredità.

Per un certo tempo parve che l’azione cattolica ragazzi si riprendesse in diocesi, ma fu invece un’estatella di San Martino, infatti, fatta salva qualche eccezione come a Chirignago, tutto è scomparso.

Gli scout rimangono sostanzialmente l’unica organizzazione di giovani di ispirazione cristiana che regga ancora da un punto di vista organizzativo e numerico, mentre ho più di un dubbio circa i contenuti, ma questo dipende dagli assistenti ecclesiastici, sui quali io non ho certamente voce in capitolo!

Il piano pastorale 2009-2010 della parrocchia di San Lorenzo, un esempio da seguire!

E’ stato il mio mestiere per più di mezzo secolo e perciò non riesco a non appassionarmi per tutto quello che riguarda la pastorale, cioè le “strategie” per far vivere e crescere una comunità cristiana.

Sono perfettamente d’accordo, prima con Leon Blois,poi con San Paolo che “tutto è grazia”, motivo per cui il ruolo di Dio e la santità dei suoi ministri sono le componenti determinanti della vita del cristiano e delle relative comunità, ma sono anche convinto che il buon Dio normalmente non bypassa le leggi della psicologia, della sociologia e di tutto ciò che determina la riuscita della comunità.

Se un parroco è veramente santo, tutta la comunità ne ha beneficio, ma è pur vero, se questo parroco è un santo per il nostro tempo, deve essere sensibile ed attento alle esigenze del momento storico in cui vive, e perciò, deve porre in atto tutto quello che il progetto di Dio prevede per la riuscita, altrimenti vien meno un requisito essenziale per essere santo,

il mio discorso nasce dall’impatto favorevole che ho avuto in questi giorni essendomi capitato in mano, il programma e l’organigramma chiamato a realizzare il piano pastorale 2009-2010 della parrocchia di San Lorenzo, il duomo della città.

Scorrendo le pagine dell’opuscolo, che fra l’altro è un piccolo gioiello anche a livello tipografico, ci si accorge di incontrare una parrocchia che tien conto di tutti, o quasi, gli aspetti della vita comunitaria e tenta di dare risposte ed attese ad esigenze estremamente articolate di una comunità che vive nel terzo millennio.

Ho riscontrato in questo opuscolo operativo, certe mie intuizioni, però sviluppate, ampliate e migliorate tanto che mi è venuto quasi il desiderio di “rubare” tanti opuscoli quanti ne servirebbero per inviarli a tutti i parroci della diocesi.

La pastorale non può ridursi a ripetitività passiva e ridotta all’osso. Ma è ricerca, tentativo di innovazione, risposta alle nuove tensioni e ricerca di linguaggio di uno stile consono alla vita dell’uomo d’oggi.

Su queste tematiche, su questi progetti e su queste esperienze gli operatori pastorali devono essere chiamati a confrontarsi a dibattere per calare l’utopia cristiana sul concreto della vita scegliendo, di tempo in tempo, i mezzi più idonei per farlo. Il diverso è fuga dalla realtà, e motivo certo di fallimento.

Il volto e il cuore del Dio della nostra Chiesa può essere sorprendente!

Credo che mai ho apprezzato il Vangelo quanto lo sto amando ed apprezzando oggi.

Quasi ogni domenica sarei tentato di aprire il mio sermone dicendo alla mia comunità, che in maniera tanto partecipe si riunisce attorno all’altare: “Oggi il Signore ha delle splendide cose da dirci, apriamo il cuore per riceverle come un dono importante”.

Spesso ripeto questa premessa e se talvolta la ometto non è perché non sia convinto dell’importanza del messaggio, che veramente rappresenta la più bella notizia, ma solamente perché non voglio essere ripetitivo e tedioso.

Questa mattina mi è parso che Gesù abbia voluto mettere a fuoco come Egli concepisce la religione, non come un qualcosa di chiuso, prerogativa e monopolio di qualcuno, ma una realtà avulsa da vita e chiusa in un fortino per custodire gelosamente i suoi tesori, paurosa di un mondo ostile e meschino che l’assedia, tutta intenta a celebrare i suoi riti misteriosi che poco hanno a che fare con la vita, ma come un faro che indica il porto a tutti, a coloro che la stimano e che hanno fiducia, ma altrettanto disponibile verso chi la pensa diversamente e talvolta perfino l’osteggia.

Ho tentato con tutte le mie forze di dire che Gesù pensa alla chiesa non come una setta chiusa, diffidente, arroccata in se stessa, che vede nemici dappertutto, che diffida del domani, della vita e del prossimo, ma invece come una comunità aperta solidale con tutti, felice di riconoscere tutto il bene che germoglia nel cuore dell’umanità, attenta a tutto ciò che c’è di positivo, fiduciosa con tutti ed invece estremamente preoccupata che il male non si annidi dentro di se, e decisa a liberarsene perché non diventi scandalo per “i piccoli”.

Mi è parso che i testi della Scrittura non solo avvalorassero questa visione, ma invece me la imponessero.

Però dopo “l’andate in pace” mi tormentava la coscienza temendo di non aver espresso bene questa bellissima ed affascinante verità. Se non che mi si accostò una cara signora, che conosco da tanti anni, tormentata che il figlio avesse abbracciato la religione indù, mi disse: “Allora posso sperare, don Armando, che c’è salvezza anche per mio figlio, che ama, rispetta il prossimo, vive mite e sereno?”

Risposi: “Certamente si, il Padre non vuole “cattolici”, ma invece desidera uomini buoni, pacifici, onesti e soprattutto fratelli, questo è il volto e il cuore del Dio della nostra Chiesa”.

La morte della parrocchia

Ancora un incontro, poi la pausa per pranzo, senonchè, verso mezzogiorno, squilla il telefonino.

Una signora mi pregava di dare una benedizione, prima che calassero nella fossa, un suo conoscente o parente.

Non capii subito come stessero le cose, pensai che si trattasse, come abbastanza di frequente avviene, che i familiari volessero un’ultima benedizione, come si usa da secoli, prima dell’inumazione e che uno dei tanti parroci, come avviene spesso, si fosse rifiutato di farlo dopo aver concluso il funerale.

Invece no, non s’era fatto alcun rito religioso in occasione del commiato e la salma era destinata a passare dalla cella mortuaria direttamente alla fossa.

Probabilmente una parente era riuscita a convincere la famiglia a permettere, almeno all’ultimo momento un piccolo segno religioso.

Sarei andato immediatamente, ma un precedente impegno mi teneva occupato almeno per mezz’ora.

Per quella famiglia sembrò troppo e così la terra scese a palate rapide senza che un prete potesse chiedere che l’angelo del Signore, dopo aver accompagnato l’anima in cielo, vegliasse su quel corpo che ne era stato per molti anni la custodia.

L’indomani celebrai il sacrificio di Cristo, per quel fratello ignoto, che non so se riposerà almeno sotto una piccola croce bianca sotto la terra del nostro camposanto.

Spero che con la nuova chiesa abbia un piccolo luogo dove possa lavorare, rimanendo disponibile ad ogni chiamata.

Dietro questa amara vicenda c’è certamente una storia, un dramma che io non conosco, ma c’è anche una storia di una comunità cristiana e di un suo pastore che quasi certamente non si è neppure accorto che un membro della sua comunità era ammalato, era morto, e non si sentiva più parte del popolo di Dio.

Finchè un parroco non visita di frequente la sua gente, e a Venezia (era infatti un isolano) lo dovrebbe pur fare spesso, data la piccolezza delle parrocchie, non ha un dialogo mediante un foglio parrocchiale, non ha occasioni di incontro, credo che questi eventi saranno sempre più frequenti.

Le parrocchie non possono più esaurire il loro compito con i fedeli solamente in sacrestia.

La parrocchia che ormai non garantisce neppure l’apertura durante il giorno della chiesa, è destinata all’inedia e alla morte poi!

Anche certe provocazioni atee possono aiutare i cristiani

Quando alcuni mesi fa ci fu l’episodio, certamente poco gradevole per noi credenti, degli autobus genovesi con le scritte pubblicitarie che annunciavano ai cittadini di Genova che Dio non esiste e che la cosa non poteva che rendere soddisfatta la cittadinanza, un sacerdote tentò di interpretare positivamente questo episodio.

Quel prete affermava che la provocazione costringeva i credenti a prendere posizione di fronte al problema di Dio e quindi aiutava a fare scelte più coerenti e più convinte.

Io non mi trovai totalmente d’accordo pur dovendo ammettere che c’era un qualcosa di vero e di positivo nel suo ragionamento.

In quell’occasione mi riproposi di non lasciarmi andare a reazioni immediate ed emotive, ma di tentare di valutare possibilmente tutti i risvolti di qualsiasi avvenimento.

Il proposito mi tornò buono qualche giorno fa, quando lessi su “Il Gazzettino” che un circolo veneziano di atei militanti ha informato i lettori che la Regione spende 10.000 euro al mese per pagare l’assistenza religiosa negli ospedali di Mestre e Venezia e perciò rivendicava una somma per l’assistenza svolta in suddetti ospedali per i maomettani, protestanti, atei, agnostici e via diseguito.

Pensai: “Sono sempre quei quattro piantagrane che approfittano per dare addosso alla chiesa!”

Poi ripensandoci mi chiesi se ci sono veramente i cinque sacerdoti a tempo pieno, se non sarebbe più giusto che l’assistenza religiosa fosse fatta a titolo gratuito da qualcuno dei 200 preti e 300 frati presenti in città?

Credo che le critiche, pur malevole e cattive dei soliti arrabbiati pongono sul tappeto problematiche che un tempo erano risolte in un certo modo, ma che attualmente devono essere riviste di fronte a situazioni decisamente diverse.

Ho concluso che anche dal male possono emergere aspetti positivi, anche dagli atei militanti può giungere una mano per la purificazione e il rinnovamento del nostro modo di vivere la religione.

Non serve ed è stolto essere troppo apprensivi!

Siamo in tempo di grandi cambiamenti non credo che i laboratori pastorali stiano lavorando su un nuovo progetto di comunità cristiana a livello diocesano, anzi sono più propenso a pensare che invece stiamo rattoppando un tessuto sdrucito e con grossi strappi su modelli sorpassati ed ormai impossibili.
La realtà invece costringe i responsabili a nuove strategie.

Io sono completamente all’oscuro di tutto; conosco appena le difficoltà, le forze di cui dispongono gli strateghi della pastorale veneziana e le motivazioni delle scelte.

Riesco solamente ad intravedere i cambiamenti, le sostituzioni, l’assemblaggio delle comunità parrocchiali e non sempre riesco a connettere le scelte, ad intravedere le motivazioni del movimento delle pedine sulla scacchiera diocesana.

Talvolta ho perfino vergogna di sentirmi quasi felice per essere in panchina e fuori gioco e quindi non più responsabile.

Qualche giorno fa mi è venuta la tentazione di invitare a pranzo un mio vecchio collaboratore, che normalmente è estremamente aggiornato sulle vicende dei preti e della chiesa, perché mi informi e mi aiuti a capire le “mosse”. Poi, punto dal rimorso e dalla vergogna, vi ho rinunciato pensando al proverbio spagnolo: “Il Signore riesce a scrivere diritto e bene anche su righe storte”.

La provvidenza spesso, o molto di frequente, guida e porta al bene anche le mosse più sbagliate dei giocatori.

In questi giorni penso e traggo grande motivo di consolazione constatando che un prete che era stato messo fuori gioco, perché non se ne condivideva l’impostazione e le scelte, in realtà nel nuovo ruolo si sta rivelando un ottimo operatore, intelligente, capace di leggere gli eventi e capace di anticipare con scelte oculate i tempi nuovi.

Ho concluso che è assolutamente stolto essere esageratamente apprensivi e spaventati da quella che può sapere di sconfitta irrimediabile, perché in realtà è solamente il buon Dio che aggiusta la lentezza e la poca apertura dei suoi ministri!

Ammiro il giornale-rivista “Piazza Maggiore” e i fini che si propone!

Mi hanno appena portato “Piazza Maggiore”, il grande giornale-rivista edito dalla Fondazione Duomo.

Monsignor Bonini, due-tre anni fa, ha dato vita a questo periodico che favorisce il dialogo tra la civica amministrazione, le migliori realtà culturali ed economiche della città e la chiesa mestrina.

Quella di don Fausto è stata una intuizione intelligente e felice, creando uno strumento nuovo, sotto ogni punto di vista, che mette a confronto gli uomini, le idee dei protagonisti della vita cittadina e le tessere del vasto mosaico che compone sia la società civile che quella religiosa in maniera tale che pian piano, da questo confronto emerga il volto di una città nel senso completo del termine e di una chiesa, che pure faticosamente e in maniera forse non del tutto consapevole, sta cercando un progetto ed una voce comune e soprattutto faccia dialogare queste due realtà prima sul piano delle idee e dei progetti e poi in quello delle opere.

Mestre si trova veramente in una situazione paradossale; una non città ed una non chiesa, che mai, per vie istituzionali, avrebbero trovato un volto comune, perché Venezia, la vecchia suocera, non favorisce, per motivi anche comprensibili, la maturazione di una Mestre adulta e con coscienza cittadina.

L’escamotage del parroco di San Lorenzo, è stato quanto mai saggio ed intelligente favorendo la crescita reale, perché una volta maturata la coscienza civica ed ecclesiale, non ci sarà di certo legge che tenga per non riconoscere una realtà ormai matura.

E’ stato perso tanto, troppo tempo e nonostante gli sforzi dell’avvocato Bergamo e di qualche altro esploratore solitario, per ottenere una autonomia formale, che Venezia non ha mai voluto e Mestre non era pronta a ricevere.

L’opera discreta e concreta che il parroco del Duomo sta realizzando gli obiettivi che gli altri si sono posti, ma che sempre sono miseramente falliti.

Per quanto mi riguarda, non provo che ammirazione ed entusiasmo di fronte ad un progetto ambizioso, ma necessario ed invito i concittadini a leggere “Piazza Maggiore” che è lo strumento altrettanto intelligente che lo sta maturando.

Parrocchie: catechesi, liturgia e… una carità zoppicante

Da un paio d’anni raccogliamo gli strumenti di supporto per gli infermi per metterli a disposizione di chi ne ha bisogno senza ricorrere a compilazioni di moduli, di presentazione di ricette mediche e di Cud e di mercanzia del genere.
Le cose vanno benino!

Pian piano pare che riusciamo ad ottenere quello che poi ci è richiesto, ma mentre abbiamo una certa carenza per gli esterni, in compenso c’è sovrabbondanza di comode, di stampelle e di treppiedi.

Qualche giorno fa, facendo visita al magazzino, piuttosto angusto, di questo materiale, mi accorsi che in un angolo c’era un treppiedi con una gambetta spezzata, non serve a niente bisogna che lo buttiamo perché solamente l’appoggio su tre gambe offre la stabilità richiesta.

Mentre pensavo di chiedere al responsabile di portare alla Vesta lo strumento che non poteva più servire, per una strana associazione di idee, ho pensato alle molte, troppe parrocchie che dovrebbero, se fosse possibile, essere mandate alla Vesta per essere rottamate perché sono mancanti di un elemento del treppiede che è parte integrante della sua struttura.

Notoriamente i tre supporti della parrocchia sono: catechesi, liturgia e carità. Il peduncolo della carità per molti sembra però quasi un optional e perciò o manca completamente o è sostituito malamente con rimedi di fortuna, tanto che un elemento qualificante la comunità cristiana, anzi uno dei più apprezzati dall’uomo d’oggi per alcuni sembra non importante tanto da essere abbandonato senza tanti drammi interiori.

Qualcuno si illude che debba provvedere lo Stato, qualche altro lo delega a strutture diocesane e qualche altro lascia che cammini come uno sciancato, tirandosi avanti zoppicando.

Non so se questa mancanza sia ritenuta da Rosmini una delle cinque piaghe della chiesa dei tempi nostri, se non lo fosse bisognerebbe denunciarne la presenza, perchè è certamente una causa dei suoi malanni.

“Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

L’amicizia è un modo per stabilire rapporti cordiali e fiduciosi verso tutti, ma in particolare verso chi avverti abbia una consonanza di idee e di convinzioni. Tutto questo vale per le persone del nostro tempo, ma egualmente anche nei personaggi del passato.

Io, per esempio, mi sento molto vicino alla sensibilità e al pensiero di Sant’Agostino, meno per San Tommaso, il grande filosofo e teologo, provo tanta simpatia per l’apostolo Giacomo, uomo concreto e con i piedi per terra piuttosto che per l’apostolo San Giovanni, che mi pare abbia sempre la testa tra le nuvole! Non penso che con ciò faccia un torto né a San Tommaso D’Aquino né a San Giovanni evangelista, l’apostolo tanto amato da Gesù.

La mia amicizia scaturisce probabilmente da un’assonanza di sensibilità e di idee.

In queste ultime settimane una delle tre letture domenicali della S. Messa, è dedicata a San Giacomo e mi fa felice che egli, pur senza saperlo, faccia da supporto ai miei convincimenti più profondi e mi garantisca che non sono fuori strada.

In questi giorni credo debbano fischiare le orecchie a San Giacomo perché lo penso cento volte al giorno per quella sua frase: “La fede senza le opere è sterile!”

Quante volte ho pensato che al buon Dio gli debba interessare proprio ben poco l’acqua santa, l’incenso, gli inchini e le cerimonie in genere, ma invece gli sia quanto mai gradito ed approvi chi si occupa degli ultimi, si fa carico dei fragili e di quelli che non contano.

Al Padre non può che essere gradito che le sue creature si aiutino, che chi è più intelligente, più forte, più ingegnoso si dia da fare anche per chi è incerto ed impacciato, per chi non tiene il passo, per chi non sa sbrogliarsela da solo.

Il mio esercito di volontari zoppica alquanto a livello della frequenza al culto, della comprensione della liturgia e del tempo dedicato alla preghiera, ma in compenso sgobba, fatica e s’impegna!

Talvolta penso perfino di fondare una nuova congregazione che abbia come prima regola: “Primo obiettivo è fare il bene, ultimo chiacchierare sul bene da fare!”

Non sono però proprio sicuro di ottenere l’avallo pontificio!.

Comunque possiamo procedere anche senza avallo perché all’ingresso del Cielo ci sarà San Giacomo a farci entrare!

Il catechismo e una cristianità in difficoltà

Non ho abbandonato la vecchia abitudine di leggere i bollettini parrocchiali delle varie comunità cristiane della nostra città.

Talvolta sono stato forse troppo esigente nel pretendere idealmente che questi strumenti di informazione e formazione siano fatti bene, tengano conto della sensibilità della gente del nostro tempo e contemporaneamente ottemperino alla regola fondamentale di questi strumenti di comunicazione di massa.

Ad esempio che la “predica” non occupi tutto lo spazio, ma non manchi l’informazione specifica della comunità da cui il foglio è espresso.

Ho notato in queste ultime settimane di inizio di autunno, d’apertura delle scuole, e d’avvio dell’anno pastorale che, in quasi tutti i fogli che mi sono capitati tra le mani, i parroci pretendevano che i genitori iscrivessero i loro ragazzi alla scuola di catechismo, fissando per questo adempimento giorni ed orari.

Qualcuno ha motivato questo invito perché, non potendo la parrocchia attingere i dati dall’anagrafe del comune a motivo delle norme sulla privacy, erano costretti a fare queste richieste, altri invece sembravano voler sottolineare che i genitori dovevano fare una scelta ben precisa da onorare.

Io non sono mai stato di questo parere, finchè sono riuscito a convincere i miei diretti collaboratori, scrivevo ai genitori fornendo loro il giorno, l’ora del catechismo, il nome dell’insegnante e la classe del patronato dove si sarebbe svolta la lezione e questo per i bambini della prima elementare ai giovani universitari.

Da un lato perché la visita annuale a tutte le famiglie della parrocchia mi permetteva di avere un’anagrafe parrocchiale assolutamente aggiornata e da un altro lato davo per accertato che la scelta di istruzione ed educazione religiosa del figlio i genitori l’avevano fatta chiedendo il battesimo.

Il provocare i genitori a scegliere continuamente, da un lato costringe la gente infastidendola, perché già tanto impegnata, ad una ulteriore incombenza burocratica, da un altro dato arrischia di svuotare di significato scelte ben più importanti prese precedentemente.

Che la nostra società stia progressivamente secolarizzandosi è un dato di fatto, ma ho l’impressione che molti preti stiano dando una mano a smantellare la cristianità nel tempo; la stragrande maggioranza dei battezzati non ha poi troppa fretta di uscire dal grembo della chiesa, e se talvolta lo manifesta non è detto che sia dalla chiesa di Cristo, ma invece da quella costruita da una certa società e da una tradizione, che forse appartengono solamente al passato.

Intromissioni e colli torti

Ho sempre rivendicato convinto, che la chiesa ha non solamente il diritto, ma anche il dovere di esprimere il suo parere sui problemi dell’uomo e della società ed in particolare ha questo dovere verso i cristiani.

Per gli stati e gli uomini del mondo intero è certamente un vantaggio ascoltare e tenere conto del pensiero di una realtà così antica e così saggia, e per i cristiani, oltre un vantaggio è un dovere preciso ascoltarla, attuare negli ambiti nei quali vivono ed operano quanto essa va insegnando.

Detto     questo, a scanso di ogni equivoco, la società, lo Stato e tutti gli enti impegnati a fare leggi e stabilire ordinamenti hanno tutto il diritto di agire in assoluta autonomia trovando con il dialogo i punti di convergenza tra pensiero e culture diverse che compongono le varie società.

Tutto questo non è una dottrina ma un fatto assodato e ribadito ad ogni piè sospinto fra gli uomini della chiesa e dello Stato.

In pratica però in Italia c’è una situazione particolare, “avendo in casa” la chiesa.

Se posso esprimermi con un’ espressione un po’ fantasiosa, in Italia lo Stato sembra avere una “suocera” in casa che si intromette un po’ troppo e finisce per irritare più che aiutare. Inoltre, continuando con questa immagine pare che alla suocera s’aggiungano interventi, più o meno opportuni, di una serie di “zitelle” ognuna delle quali vuole dire la sua e non sempre opportunamente.

Questa situazione talvolta favorisce un certo anticlericalismo che altrimenti non si capirebbe.
Il caso Boffo, però non è il solo ne sarà l’ultimo ne è una prova!

Pur amando la chiesa, a parer mio, non bisogna chiudere gli occhi sui suoi difetti.

Rosmini con le sue “cinque piaghe della chiesa” credo che abbia fatto più bene che tanti colli torti che non hanno mai trovato il coraggio e capito il dovere di dissentire, che l’amore è una cosa e la discrezione, la saggezza e il rispetto sono un’altra!

Cavour ha proposto una regola con la sua “libera chiesa in un libero Stato!”

Ora però penso sia tempo di fare ancora un passo avanti!

La fede e la religione devon essere respiro dell’anima, non solo riti!

So che può diventare noioso e ripetitivo ritornare di frequente su certi argomenti, eppur c’è un qualcosa dentro di me che mi costringe quasi a ritornarvi, perché passati un po’ di giorni dall’ultima precisazione, ho la sensazione di non essermi spiegato bene, di non aver illustrato a sufficienza il problema che mi sta a cuore. Sempre gli uomini hanno corso il pericolo di ridurre la fede, soprattutto la religione che la esprime concretamente, ad una serie di pie pratiche, di osservanza di determinate norme morali, di cerimonie, preghiere e gesti di culto che non si coniugano profondamente con la vita reale, con i sentimenti, le attese e i bisogni più veri della nostra umanità.

Io non rifiuto i riti, le gestualità di religione, le vesti e tutta la coreografia cultuale perché fa parte delle esigenze della nostra sensibilità, ma tutto questo deve essere non solamente povero, sobrio, essenziale, in linea con i costumi e i gesti del tempo, ma soprattutto debbono esser profondamente coniugati con la vita, il bisogno di speranza, di valori, di autenticità, di assoluto, di immenso, di verità, altrimenti il tutto si riduce ad un solenne ed ipocrita formalismo privo di anima e di respiro spirituale.

Le mie classi di un tempo alle magistrali erano costituite quasi sempre da una stragrande maggioranza di ragazze, dai quattordici ai ventanni. Allora non avevo assolutamente bisogno che mi confidassero se erano innamorate o meglio ancora fidanzate perché era un dato che coglievo di primo acchito, c’era nel volto, nel portamento un incanto, una soavità, che faceva tutt’uno con la loro bellezza ed armonia di adolescenti che sbocciavano alla primavera della vita. L’amore illuminava i loro occhi, l’avvertivi nel tono della voce, nella flessuosità dell’incedere, nella luce del sorriso.

L’amore cantava nel cuore, ma pure nelle membra di queste giovani donne.

La fede e la religione se non diventano respiro dell’anima, sogno, speranza, certezza di essere amati, ebbrezza del dono della vita, gioia di scoprire un mondo sempre nuovo e popolato da fratelli da amare e con i quali camminare, si riduce fatalmente ad un armamentario da soffitta, o da costumi o scene da palcoscenico!

Oggi mi pare di aver finalmente detto quanto penso, ma sono certo che domani, di fronte ad un rito sontuoso, o di una predica “teologica”, o da un comportamento da funzionario di un’azienda multinazionale sentirò il bisogno prepotente di “spiegarmi meglio!”

I tempi cambiano, non sempre in meglio

La griglia della mia giornata l’ho predisposta fin dal 2 ottobre 2005, mio primo giorno di pensione.

In parrocchia mi alzavo alle cinque, da pensionato ho creduto opportuno aggiungere mezz’oretta di riposo, altrimenti che pensionato sarei stato! Poi ci ho ripensato e ho ridotto il sonno di dieci minuti perché mi sono accorto che così avrei potuto ascoltare il radiogiornale delle cinque e mezza, e mettermi fin dal risveglio in collegamento con le vicende del mondo.

In un mondo globale non credo ci possa e ci debba essere spazio per una religiosità ed una spiritualità intimistica e personale.

Il mondo del convento e della trappa è definitivamente tramontato, oggi il cristiano deve puntare sulla contemplazione sulla strada, in sintonia con la vita!

Fino a poche settimane fa mi svegliavo all’alba, col sole all’orizzonte e il dolce chiarore del nuovo giorno.

Da ferragosto in poi però, giorno dopo giorno, la luce è diventata sempre più acerba, ed ora è buio davvero. Quando spalanco la finestra e alzo le tapparelle sembra notte profonda. Ho la sensazione che soltanto il galletto di Salvatore, il vecchio ciabattino di via Sappada, cha abita ai margini della città, e l’ex parroco non si lasciano intimidire dalla notte e rimangono fedeli ai tempi dedicati alla vita.

Debbo confessare che però ogni giorno provo un po’ di tristezza, da un lato perchè mi pare che il buio mi rubi un po’ del poco tempo che ho ancora da vivere ed un po’ perché dal passato, che non sono riuscito a cancellare del tutto, riemergono le preoccupazioni di un tempo: la fatica di far ripartire i gruppi della parrocchia, l’attardarsi dell’attività pastorale che la mentalità vacanziera favoriva ogni anno di più.

A questi stati d’animo ora si aggiunge la sensazione che l’inerzia parrocchiale dell’estate sia supinamente accettata come un dato scontato e non so più se sia rassegnazione o gioia per una diminuita gravosità d’impegno!

Belle anime vergini in preghiera per noi povera gente

Mi è giunta qualche giorno fa in una busta bianca una bella cartolina che ritrae papa Wojtyla che affacciato alla sponda di una grande imbarcazione in navigazione, guarda sorridente e fiducioso il mare sconfinato. Nel retro della cartolina un ringraziamento per “L’incontro”, che qualcuno recapita perfino in un Carmelo di Venezia.

Una scrittura minuta ed ordinata di una carmelitana scalza che mi ricorda, che prega per me e che chiede la mia benedizione.

La cartolina mi ha fatto molto felice; mi è parso di sentire un soffio fresco e profumato di primavera raggiungermi in casa durante questa torrida estate.

L’anno scorso ho pubblicato qualche pezzo di una singolare corrispondenza spirituale tra le monache di un eremo toscano “Le piccole allodole di Dio”, con Gandhi e in questi giorni mi è capitato di leggere una relazione dello scambio epistolare tra don Mazzolari e la priora di questo piccolo e sperduto convento toscano.

Centinaia di lettere delicate e sublimi tra anime veramente grandi per la fede, la libertà interiore e l’amore all’uomo.

Io non sono uomo e prete da potermi inserire in questi circuiti ascetici e mistici!

Le carmelitane mi scrivono con accenti delicati e spirituali pregni di fede pressappoco a Natale e a Pasqua ed io rispondo con qualche parola sobria tolta da un repertorio assai banale.

Non sono mai stato in quel convento di Venezia e quasi certamente, conoscendomi, non ci andrò neanche in futuro. Mi fa però molto piacere sapere che a Venezia ci sono delle anime vergini che amano l’amore e che donano la loro freschezza spirituale a noi povera gente impolverata dai problemi e dalle vicende poco sublimi di questo povero mondo. Io non coltivo nel mio animo volti come Beatrice di Dante o la Laura del Petrarca, che mi facciano sognare bontà e bellezza, amore e poesia, però mi fa piacere e mi consola che tra le vecchie mura screpolate ed umide di un vecchio convento veneziano ci siano queste belle e care creature, che posso solo sognare, le quali pregano anche per questo vecchio prete che i guai se li va a cercare in ogni occasione!