Il beato angelico!

A modo mio, e con risultati men che modesti, sto conducendo una mia “guerra di liberazione”. Non sogno neppure che essa superi i confini della mia coscienza, mi sarebbe sufficiente ottenere una vittoria anche solamente interiore.

Vengo al motivo di questo mio discorso confidenziale e un po’ strano. Io sono un appassionato raccoglitore di quadri, sia perché l’arte mi affascina, sia perché mi piace che le strutture che abbiamo destinato agli anziani più poveri e più soli della nostra città siano ingentilite ed arricchite dal genio e dalla poesia dei nostri pittori.

Gli amici che sanno di questa mia passione spesso mi donano qualche opera che per i motivi più diversi hanno deciso di espellere dalle loro case.

Qualche giorno fa un amico che si dedica agli sgomberi, mi ha portato un quadro che, a parer suo, è di Guttuso. In verità porta la firma di questo pittore celebre in Italia, ma non mi pare assolutamente certo che l’abbia dipinto lui. Il quadro sinceramente non mi piace, ma se fosse di Guttuso lo venderei per destinare il ricevuto a miglior causa.

Vengo quindi alla mia “guerra di liberazione” che ha per obiettivo liberare dalla valutazione del mercato, dalla speculazione e dall’affare le opere d’arte perché esse possano “vivere” solamente per la loro bellezza, la loro poesia e soprattutto per il loro messaggio.

Per questo motivo preferisco una copia di un’opera bella e riuscita che un brutto quadro nonostante valga molto a motivo del mercato, della notorietà dell’autore o delle stime interessate.

Ho un sacco di amici nel mondo dell’arte, ma finora, per i motivi più diversi, non sono riuscito a trovare un artista disposto a far “parlare” le pareti bianche del presbiterio della mia “cattedrale tra i cipressi” del camposanto di Mestre, anche nei momenti in cui non ci sono funzioni e quando la chiesa è aperta per accogliere i “cercatori solitari” di pace e di Dio.

Data questa lettura e concezione dell’arte, ho accolto con estremo entusiasmo e riconoscenza la proposta di alcuni miei amici carissimi che si sono offerti di regalarmi due quadri del famosissimo Angelico, il fraticello che si dice dipingesse stando in ginocchio per rispetto al “soggetto sacro” che aveva deciso di immortalare.

Non servirà più andare a Firenze per vedere e contemplare la dolcezza infinita di questo fraticello dall’anima candida che ha messo a disposizione la sua tavolozza e il suo genio per “leggere” i misteri della nostra fede. Spero che si faccia la coda per venire nella chiesa del cimitero a visitare le due opere di questo sommo artista. La loro riproduzione è talmente fedele che forse supera l’armonia e l’incanto dell’opera originale. I nostri quadri del Beato Angelico non corrono di certo il pericolo di essere rubati, perché a livello venale forse non costano niente però, pur essendo parenti poveri di quelli di Firenze, possono offrire tutto l’incanto delle opere della Galleria degli Uffizi, facendo la coda e pagando il biglietto per andare a vederle.

I miei due “Beato Angelico” infatti sono ormai già stati “liberati” dal mercato.

24.06.2014

Chiesa del cimitero di Mestre: orari delle S. Messe per i “Santi” e i “Morti”

DOMENICA  27 OTTOBRE
ore 10 e ore 15

LUNEDÌ 28 OTTOBRE
ore 9.30 e ore 15

MARTEDÌ 29 OTTOBRE
ore 9.30  e ore 15

MERCOLEDÌ 30 OTTOBRE
ore 9.30  e ore 15

GIOVEDÌ 31 OTTOBRE
ore 9.30  e ore 15

VENERDI  1 NOVEMBRE “OGNISSANTI”
ore 9   –   10   –   11
ore 15 con il PATRIARCA

SABATO 2 NOVEMBRE “MORTI”
ore   9  –   10  –   11  –   15

DOMENICA 3 NOVEMBRE
ore 10 e ore 15

“Dio e la canna di bambù”

E’ del Magnificat l’affermazione che Dio si serve di umili strumenti per fare cose grandi. La teologia poi, da san Paolo ai nostri giorni, non ha fatto altro che ribadire questo concetto, arrivando alla conclusione che “tutto è Grazia”, come afferma Mauriac.

L’uomo si illude di essere il protagonista dei fatti della vita, mentre è solamente un umile strumento nelle mani di Dio. E’ Dio che opera, l’uomo diventa già importante quando si mette fiduciosamente a Sua disposizione. Ricordo una bella immagine di Tagore, il grande poeta e mistico indiano, il quale immagina Dio che, soffiando su una umilissima canna di bambù, riempie la valle di dolcissime melodie.

Domenica scorsa ho avuto, netta e limpida, questa sensazione, constatando come il “mio coro” sia riuscito pian piano a far cantare l’intera assemblea, tanto che ogni canto è capace di esprimere una lode corale ed intensa di spiritualità, cosa che non mi era mai capitato precedentemente nei miei sessant’anni di sacerdozio, se non per brevi periodi alla messa dei funerali a Carpenedo.

Io sono assolutamente stonato, motivo per cui non ho mai potuto essere di aiuto per quanto riguarda il canto nelle liturgie della parrocchia, però il canto l’ho sempre voluto e favorito, tanto che a Carpenedo abbiamo avuto per qualche periodo una corale di ben sessanta elementi, guidata dal maestro Mario Carraro, quanto mai esperto nella scelta appropriata dei canto e nella loro esecuzione. Però mai, per quanto facesse, è riuscito a coinvolgere interamente l’assemblea così da farla partecipare ai ritornelli in maniera intensa e corale.

Ora mi capita invece che la “Corale santa Cecilia” del “don Vecchi”, composta da poco più di una ventina di ultraottantenni, diretta da una maestra elementare che nel lontano passato ha fatto cantare i bambini in classe; con, alla pianola, una pari età e, al violino solista, un novantacinquenne. Non solo nella mia chiesa prefabbricata si canta con convinzione e intensità spirituale, ma si coinvolge l’intera assemblea come mai m’era capitato di sentire.

Il “mio coro” veramente aiuta a pregare col canto i fedeli che ogni domenica gremiscono la “cattedrale fra i cipressi”, ma anche conforta ed allieta il cuore di questo vecchio prete nell’ultima stagione della sua vita.

07.08.2013

Prete in pensione!

Otto anni fa, quando con la pensione il mio apostolato cominciò a svolgersi esclusivamente in cimitero, impegnato in una pastorale che si svolge prevalentemente sulla corda del dolore e del lutto, nella prospettiva dell’aldilà, mi sentivo un po’ mortificato e menomato perché mi sembrava di dover impegnarmi in un servizio pastorale ridotto, quasi monco, perché non potevo più spaziare nell’ampia gamma di valori umani: nascita, amore, famiglia, gioventù, società. Mi rimaneva solamente il compito di aiutare a buttare lo sguardo verso il domani per intravedere i primi tenui albori del “giorno nuovo”.

Ora non è più così, mi sento pago della mia missione, pienamente realizzato nel mio sacerdozio, non solamente perché conto su una bellissima comunità, numerosa, affiatata, coesa e viva, ma perché mi inebria il fatto di poter seminare a larghe mani speranza a gente disorientata, attonita e smarrita di fronte al mistero della morte, ma soprattutto ancora legata ad una visione di un Dio piccolo, vendicativo, pignolo.

Il mio popolo della domenica è quanto di più bello un prete possa sognare, ma pure mi è tanto caro anche “il popolo del funerale” al quale posso parlare del cuore del Padre, della meta che ci aspetta, della risposta a tutti i perché, della vita nuova.

Il lavoro pastorale della mia vecchiaia non è meno bello ed esaltante di quello della mia giovinezza.

Il “Giotto” della cattedrale tra i cipressi

Qualche settimana fa mi ha telefonato uno dei miei ragazzi di trent’anni fa: «Don Armando, mi sento sufficientemente “caricato”, le mostrerò i bozzetti a matita. Di ritorno dalle ferie, comincerò a “lavorare” perché vorrei che l’opera fosse pronta quando il Patriarca verrà in cimitero a celebrare per i morti».

Di questo “ragazzo” conoscevo l’inclinazione alla pittura, una decina di anni fa avevo visto una sua personale a “La cella” e lo scorso anno ha allestito una bellissima mostra presso la Galleria san Valentino del “don Vecchi ” di Marghera.

Io sono un appassionato, anzi dovrei dire un “drogato” di arte e in particolare di pittura e perciò sono stato folgorato dalla forza espressiva di questo giovane pittore che adopera con vera bravura sia il segno che il colore.

Gli accennai timidamente che mi sarebbe tanto piaciuto che le pareti bianche del presbiterio della chiesa del cimitero parlassero della dolce attenzione e dell’infinito amore di Maria, Madonna della consolazione. Mi piacerebbe che i fedeli che guardano l’altare si sentissero aiutati nella loro sofferenza a portare la loro croce e potessero trovare consolazione tra le braccia accoglienti della Madonna.

So che dipingere su spazi bianchi e grandi in un luogo sacro e dare consolazione con la tavolozza è un’impresa quanto mai difficile, però mi par giusto che chi ne ha la possibilità tenti di farlo. Son certo che il mio amico pittore, avendo accettato di cimentarsi su un argomento così sublime, ha già compiuto un atto di fede ed esprimerà la più bella preghiera della sua vita.

I miei “diaconi”

Nella mia chiesa della Madonna della Consolazione purtroppo non ho chierichetti. M’ero abituato troppo bene a Carpenedo con la mia banda di cento chierichetti. Questi ragazzi erano, e sono rimasti nel mio cuore come i bambini più belli del mondo.

I miei cento chierichetti erano un incanto per la parrocchia, tanto che pensavo che Gesù stesso venisse ogni domenica a far loro una carezza. Altrimenti chi avrebbe potuto tenere a bada una banda così vivace ed eterogenea. Adesso ho nel mio studio, in una cornice d’argento, la foto del gruppo. Ogni tanto temo che, cresciuti, abbiano perso i loro volti belli ed innocenti. Ogni volta me li guardo con rammarico e nostalgia e dico loro una preghiera perché conservino almeno bello il cuore e la coscienza.

Ora ho dovuto cambiar registro ed ho scelto i miei “diaconi” tra una categoria che non amo particolarmente, i commercialisti, però ho scelto i migliori, due giovani ed una ragazza che ogni domenica leggono i testi sacri, annunciano i canti, raccolgono le offerte, cantano col coro, consolano ed incoraggiano il loro vecchio prevosto. Sono tanto cari e tanto bravi che sono persino riusciti ad attenuare il rimpianto e la nostalgia dei miei vecchi chierichetti.

Il Signore ha benedetto la mia vecchiaia perché al “don Vecchi” ho l’incanto di una dimora principesca, un borgo di persone care, nel mio interrato un polo caritativo del quale non riesco nemmeno a dire l’efficienza, la bravura e la generosità, nella mia “cattedrale tra i cipressi” un popolo di Dio meraviglioso, col quale cammino lietamente verso la Terra Promessa. Non saprei proprio cosa desiderare di più.

I miei fedeli più devoti

La domenica la mia chiesa della Madonna della Consolazione si riempie tutta, ma nei giorni feriali talvolta attorno all’altare non siamo molti di più di quanti si trovarono sul Calvario quando Gesù morì in croce: la Madonna, Maria di Magdala, Maria Cleofe e Giovanni.

Chi però non manca mai è una nonnetta ottantenne, traballante sulle gambe, e il figlio che l’accompagna. La mia più fedele devota mi garantisce la partecipazione dell’assemblea, perché risponde sempre a voce alta. Di rado sbaglia gli attacchi. Quando poi si tratta di dare la comunione, non mi occorre chiedere se qualcuno vuole comunicarsi perché lei si presenta sempre per prima.

Io sono grato a questa “vecchina” – come la chiamerebbe Bargellini, l’intellettuale cattolico fiorentino – ma sono ancora più ammirato del figlio che d’estate o d’inverno, che il sole bruci le pietre o che il gelo scheletrisca le piante, accompagna con tenerezza la mamma a messa.

Un giorno di quest’inverno, quando celebro alle 15, gli chiesi se era in pensione, ma mi disse che faceva il portiere di notte. Quindi pensai che dormisse la mattina, ma ora d’estate, con la messa alle 9,30, è ugualmente sempre presente ad accompagnare sua madre.

Ogni giorno mi domando quand’è che dorme questo ragazzo. Non so se sia più forte la sua fede o il suo amore filiale. Credo però che pratichi ambedue queste splendide virtù in maniera eccellente.
Una volta ancora mi vien da pensare ai “santi della porta accanto”.

“La fede senza le opere è sterile”

Qualche settimana fa il freddo era veramente pungente. Il vento di bora s’infilava nei vestiti e gelava le ossa. I mass-media poi, terminata la tragedia della Costa Concordia, avevano bisogno di un altro dramma per piazzare il loro prodotto e avevano “terrorizzato” i cittadini dando l’impressione che il gelo polare stesse letteralmente paralizzando l’intero Paese.

Così pensavo che il maltempo avrebbe scoraggiato i miei fedeli dal partecipare all’Eucaristia domenicale, tanto più che la mia chiesa è piuttosto decentrata e i miei fedeli non sono tutti proprio nel fiore degli anni. Mi preparavo quindi a vivere l’incontro col Signore con meno entusiasmo, non potendo avere il calore di una chiesa gremita come al solito.

Invece no! Pian piano i fedeli sono giunti a gruppetti, provando subito una sensazione di benessere fisico incontrando il tepore di un ambiente riscaldato e quanto mai accogliente. Quando tirai la cordicella del campanello di bronzo per l’inizio della messa, la chiesa era piena e la mia comunità particolare, legata da una comunione profonda che nasce da una scelta e non dalla costrizione geografica, era al completo. Anzi, prima del sermone, tanta gente se ne stava al centro e a lato in piedi. Il mio coro, formato da ultraottantenni, puntuale e completo al suo posto e i vari ministranti disponibili ad adempiere le loro funzioni come ogni domenica.

Iniziai confidando la sensazione che mi riscaldava il cuore “Fuori: gelo, solitudine, disorientamento; dentro: tepore, amicizia, fraternità e serenità”. La comunità di fratelli che si riunisce nel nome del Signore fa emergere sempre e subito i valori che danno conforto, sicurezza, pace e speranza.

Pur roco, perché raffreddato, tentai di passare, alla luce del Vangelo di san Marco, quanto la fede e la religione hanno come eterne e sapienti coordinate: la fede e l’amore a Dio e il servizio al prossimo. La solidarietà verso i fratelli in difficoltà non è quindi un optional, ma una componente essenziale e assoluta del cattolicesimo: “La fede senza le opere è sterile”. Un cristiano che non preveda e non attui nella sua vita atti di carità, in relazione alla sua condizione umana, non solamente non è un buon cristiano, ma è un cristiano monco di un arto essenziale.

La disabilità, per la carenza della componente solidale, non è facilmente visibile e verificabile nel singolo, ma è invece un elemento macroscopico che appare immediatamente nel volto di una parrocchia. Talvolta mi rifaccio al racconto del Tolstoi che immagina Gesù che in incognito visita le comunità cristiane della “santa Russia” e, deluso, non riconosce in esse, raccolte per il culto nelle loro chiese, comunità composte da suoi discepoli, perché non conformi al suo insegnamento. Non so proprio cosa accadrebbe se al nostro Maestro venisse in mente, una qualche volta, di fare una visita alle 32 parrocchie di Mestre.

La mia “unità pastorale”

Basta vivere un po’ di anni per accorgersi che tutto passa e si modifica radicalmente. Trenta, quarant’anni fa, sotto il patriarca Carlo Agostini, da una parte per l’immigrazione dal sud e dall’altra parte per il naturale aumento anagrafico, si è proceduto a costruire nuove chiese e a dar vita a nuove parrocchie.

Dalla mia vecchia parrocchia di Carpendo sono gemmate le attuali nove comunità cristiane. A neanche mezzo secolo di distanza però, ora sta avvenendo il processo opposto, si sta procedendo ad accorpamenti a motivo della crisi demografica, della scarsa pratica religiosa e soprattutto della carenza di sacerdoti.

Questo nuovo processo è stato denominato, un po’ ipocritamente, con un termine che non vorrebbe evidenziare il reale arretramento: “unità pastorale”. Ora di questo termine un po’ magico si fa un tale elogio che sembra quasi un’avanzata piuttosto che un arretramento; purtroppo però si tratta di una sconfitta e di ripiegamento.

Il fenomeno è generale, ma a Venezia è esasperato a causa del numero infinito di bellissime chiese da presidiare, della progressiva ed ineluttabile diminuzione della popolazione – dai 150.000 veneziani del 1945 ai poco più di 60.000 attuali – dell’età veneranda dei preti.

Anche a livello personale sono coinvolto in qualche modo, ma per motivi diversi, da questo fenomeno. Attualmente anch’io gestisco una “unità pastorale”, ma parte di questa comunità aumenta di settimana in settimana ed è costituita dai cristiani che partono per il Cielo. Lassù in Paradiso conto su una numerosa e splendida comunità di miei “parrocchiani” che cantano notte e giorno la gloria del Signore. Questa comunità del Cielo, di cui vado fiero e che mi dà immensa consolazione, vivifica la mia esperienza ed aiuta anche la comunità di quaggiù. Essa, pur fatta di creature normali, è bella, anzi meravigliosa.

Ad 83 anni avere ogni giorno feriale dai 30 ai 40 fedeli, che si raccolgono nella “chiesa cattedrale” per la preghiera, e alla domenica quasi 300 fedeli che partecipano devotamente e con tanta fede ai divini misteri, è quanto di meglio un vecchio prete possa sperare.

I miei parrocchiani giungono alla spicciolata dai luoghi più diversi avendo scelto con decisione e fedeltà la chiesa fra i cipressi come loro chiesa di elezione; essi pregano, cantano, si accostano all’Eucaristia, ascoltano con attenzione la Parola del Signore, si vogliono bene e dimostrano tenerezza al loro vecchio “parroco”. Cosa potrei desiderare di più e di meglio?

Io benedico e ringrazio il Signore perché vivo in un’isola felice che non conosce né la secolarizzazione né la crisi religiosa del nostro tempo e sono quanto mai gratificato spiritualmente dalla mia “unità pastorale”.

L’antica cappella del cimitero di Mestre

Mi sento un po’ come Salomone che riuscì a costruire a Gerusalemme il tempio, la dimora di Dio in terra. David l’aveva sognato, mentre suo figlio ebbe il compito di realizzare il sogno di suo padre per riporre nella “Sancta sanctorum” le tavole della legge e il bastone di Aronne.

Così è avvenuto anche per me. Il tempietto ottocentesco, che per due secoli ha raccolto le preghiere e le lacrime dei mestrini, dopo la costruzione della nuova chiesa prefabbricata, nella quale ora celebriamo le sacre liturgie, arrischiava di rimanere in un inesorabile degrado ed abbandono. Il signor Mario De Faveri, imprenditore illuminato e generoso del contado, ha avuto il coraggio di affrontare la burocrazia sia della Veritas che della Sovrintendenza alle Belle Arti, che finalmente gli hanno “concesso la sospirata grazia” di poter pagare in proprio il restauro della “cappella della Santa Croce”.

Ne è venuto fuori un luogo pulito ed in ordine, che in verità avrebbe potuto anche essere migliore se i “competenti” non avessero messo lingua. Per il resto ci hanno pensato i fedeli, dotando la chiesa di ceriere elettrificate per non sporcare di nuovo il soffitto. Io ho avuto il “coraggio” di rimuovere una vecchia e mastodontica copia della Madonna del Raffaello che però era molto amata, sperando che ora si innamorino della copia della Madonna della Consolazione che ho installato al posto della brutta riproduzione, in modo che, almeno in cimitero, non ci siano conflitti o concorrenze tra Madonne diverse!

Un amico, già prestigioso tecnico di Radiocarpini, ha rinnovato l’impianto fatiscente di amplificazione sonora ed ora sta lavorando ad un collegamento via ponteradio tra la vecchia e la nuova chiesa in maniera che ci sia sintonia di messaggi spirituali in tutto il camposanto.

Ora abbiamo riportato “il Signore” nel tabernacolo e suor Teresa ha provveduto all’arredo sacro e floreale, più ordinato e sobrio di quello di prima.

La “vecchia cappella” è diventata veramente “l’antica cappella” acquistando dignità e sacralità. Il vecchio porticato che rappresenta “le braccia aperte” della Chiesa, sta aspettando l’intervento promesso dalla Veritas per essere un degno prolungamento ideale della “casa del Signore” per accogliere i resti mortali dei figli di Dio.

A oltre ottantanni sono ancora felice custode della Casa del Signore!

Quando alle 7,30 precise si apre il grande cancello sul piazzale del cimitero, io sono ogni mattina pronto per entrarvi. Comincio così il mio ministero di prete anziano che fa servizio nelle retrovie della linea del fronte.

Per prima cosa butto uno sguardo compiaciuto e riconoscente per la cornice esterna della mia chiesa, povera ma quanto mai accogliente. Mi fermo un istante a rimirare le aralie, che come una trina verde, ricamano l’interno delle finestre. Mi fermo un altro istante a rimirare la fila continua di vaschette con le begonie rosse giganti che sembrano quasi uno squadrone della guardia svizzera che rende gli onori alla reggia del Signore.

Entro nella frescura mattutina del luogo sacro, raccolto, accogliente e profumato di silenzio. Uno sguardo alla lunga sequenza di sedie bianche che presto accoglieranno i fedeli: sembra che abbiano fatto compagnia per tutta la notte al Padrone di casa che attende di dare udienza dal Suo tabernacolo di marmo bianco, illuminato dalla lampada rossa che fa da sentinella.

Accendo poi le luci davanti ai santi che, ai lati dell’aula, sono già pronti a far catechesi con la loro testimonianza e il loro messaggio specifico. Le orchidee indicano le parole con le quali i fedeli possono chiedere i loro buoni uffici presso il Signore.

La mia chiesa è povera, ma pulita, ordinata ed accogliente e non appena si sono aperte le sue porte, inizia il pellegrinaggio ininterrotto dei fedeli che qui trovano pace e consolazione.

Uscito dalla “cattedrale” vado a riordinare la vecchia cappella che da duecento anni si offre ad accogliere e consolare. Ormai il restauro è completato ed una leggera musica di fondo accompagna la preghiera dei fedeli che entrano dal vecchio cancello di ferro battuto, accendono un lumino rosso e poi vanno a salutare i loro morti.

Ogni mattina si ripete questo rito ed ogni mattina il mio animo si riempie di conforto perché la casa del Signore è sempre viva, sempre aperta ed io, suo povero vecchio prete, sono tanto felice di essere il suo custode.

Nozze d’argento nella “cattedrale fra i cipressi”

Ho celebrato le nozze d’argento di due miei giovani amici, durante la messa d’orario a cui partecipa la mia cara e bella comunità nella “cattedrale fra i cipressi” del camposanto.

Suor Teresa mi aveva accennato che queste due care persone intendevano chiedermi di celebrare il venticinquesimo di matrimonio. Le dissi che l’avrei fatto di buon grado.

La sposa la conosco fin da bambina, quando portava il fazzolettone scout, volevo bene ai suoi genitori ed avevo visto crescere in parrocchia i suoi due meravigliosi figlioli. Lo sposo poi è un ottimo professionista che vigila sulla produzione di potassio dell’unico mio vecchio rene che m’è rimasto dopo l’intervento dello scorso anno.

Già mi preparavo per la celebrazione nella bella ed intima cappella del “don Vecchi”. Sennonché qualche giorno fa me li vidi in chiesa ad annunciarmi che avrebbero voluto celebrare le loro nozze d’argento nella mia chiesa, assieme all’assemblea che ogni domenica la gremisce, per cogliere il battito del cuore di Dio, dei fratelli e degli amici in cielo. «Don Armando, abbiamo scelto una soluzione semplice, informale: qui abbiamo i nostri due papà e mia mamma – mi disse l’ancor giovane sposa – partecipiamo alla messa assieme alla comunità e poi faremo una visita alle tombe dei nostri morti. Vogliamo sentirci in famiglia, vicini ai nostri cari, come è avvenuto venticinque anni fa».

Come avrei potuto obiettare di fronte ad un discorso tanto umano, saggio ed anticonformista? L’eucaristia in cimitero è sempre tanto cara; sentiamo ogni domenica sempre più tra noi lo sguardo di Dio, la voce di Cristo e il respiro dei fratelli, tanto che ho la sensazione che questo appuntamento sia atteso con desiderio da tutti, infatti ogni domenica c’è qualcuno in più che si aggrega alla nostra cara comunità.

Questa domenica la presenza di questi due giovani amici, per le loro nozze d’argento, ha rotto un antico pregiudizio che tiene lontano tanta gente dai luoghi da cui sono partiti i propri cari per il cielo. D’ora in poi credo che nella nostra chiesa della Madonna della Consolazione potremo benissimo celebrare il fidanzamento, il matrimonio e tutti gli eventi belli ed amari della vita perché quando si avverte su di noi la paternità di Dio e l’affetto dei fratelli, quel luogo diventa il più propizio per ringraziare e lodare il Signore per quanto di bello ci ha donato.

La vecchia chiesetta del cimitero, la buona volontà dei cittadini e l’amministrazione

Nota della redazione: i lavori alla chiesetta sono comunque potuti e sono in corso nel momento in cui inseriamo questo scritto.

Speravo proprio che per Pasqua fosse rimessa a nuovo la vecchia chiesa del nostro cimitero, cuore dei due porticati che abbracciano il piccolo spazio del camposanto voluto da Napoleone quando portò anche in Italia il respiro della rivoluzione francese.

Il camposanto del piccolo borgo di Mestre si riduceva al campo tagliato a croce, circondato da mura, nel quale si entrava dalla bella cancellata in ferro battuto ancora esistente. Mestre contava, allora, si e no dieci-quindicimila anime e perciò il piccolo cimitero, che aveva come cuore e punto di riferimento la povera e piccola chiesetta, era sufficiente. Era però un cimitero raccolto, sobrio ma familiare, non come ora, così ridotto ad un agglomerato di campi, strutture cimiteriali anonime e senza alcuna armonia.

Con l’apertura, un anno fa, della chiesa provvisoria sulle carte, ma forse eterna nella realtà, è stata mia premura che la vecchia cappella non si riducesse ad un rudere abbandonato alla sua sorte. Però neppure speravo che Comune e Veritas l’avrebbero restaurata perché rimanesse memoria della fede dei nostri padri e luogo di preghiera e di raccoglimento per i concittadini del nostro tempo. Sennonché il signor De Faveri, che frequenta il nostro cimitero, perché in esso riposano i suoi congiunti, s’è offerto di pagare personalmente il restauro totale, all’interno e all’esterno della chiesa.

Pensavo che la Veritas e il Comune sarebbero venuti in processione per ringraziare questo cittadino benemerito, invece no! Sono più di quattro mesi perchè, prima la Veritas e poi la Sovrintendenza, gli fanno produrre carte su carte. Penso che appena per costruire una centrale nucleare servano tante garanzie! Mi sono accorto, ancora una volta, che l’apparato della pubblica amministrazione è talmente farraginoso che anche i problemi più semplici diventano complessi ed impossibili, perché l’esercito dei quasi diecimila dipendenti tra la Veritas e il Comune – e non so quanti della Sovrintendenza – deve pur passare il tempo per giustificare i suoi stipendi.

Ogni giorno di più mi sorprendo che la nostra Italietta stia ancora in piedi con una tale organizzazione statale e parastatale affollata, inefficiente, anzi organizzata perché tutto proceda lentamente.

Sono innamorato della mia comunità!

Sono sempre più innamorato della mia comunità. Con alcuni fedeli ci incontriamo ogni giorno per la preghiera comune, mentre tutti gli altri li incontro per l’Eucarestia del giorno del Signore che diventa il cuore e il momento più ricco della nostra fraternità e della calda amicizia.

Col tempo si è aggiunto al denominatore comune nell’ascolto della Parola di Dio, della lode al Signore e della frazione del Pane di vita, pure un ricco sentimento di simpatia umana. Nei nostri incontri s’avverte sempre il calore della nostra comunione e l’entusiasmo di avere la gioia di incontrare il Padre comune e i fratelli.

Per i fedeli della mia piccola comunità della “Madonna della consolazione” parlare di precetto festivo sarebbe usare un termine estremamente riduttivo, perché da noi c’è sempre l’attesa e la gioia di ritrovarci.

Io, ripeto, sono letteralmente innamorato della mia comunità, tanto da essere pure geloso ogni volta che mi sembra che manchi qualcuno!

Ho letto, molto tempo fa, un bellissimo volume che parlava della Chiesa come comunità di credenti, di fratelli e di figli di Dio. Di questo volume ricordo benissimo l’entusiasmo e la gioia con cui si parlava della Comunità di Cristiani fondata da Cristo, ma soprattutto ricordo il titolo: “La sposa bella”.

Il Signore m’ha fatto l’immenso dono di farmi incontrare ed innamorare pazzamente della mia sposa bella. Non è vero che la vecchiaia non è più un tempo per amare, anzi in questa “stagione” l’amore diventa più tenero, più delicato ed essenziale. Ogni volta che io incontro la “sposa” della mia vecchiaia il mio cuore batte forte forte e ringrazio Iddio d’avermi fatto un dono così bello anche per la mia tarda età.