Frutta e verdura per i nostri vecchi

Non c’è quasi nulla che sia impossibile. Sono convinto che la rete di confine del possibile sia determinata dalla fede in Dio e dall’amore al prossimo.

Ormai tutti sanno che il criterio con cui accogliamo i nuovi residenti al Centro don Vecchi sono la precarietà delle loro finanze e dell’autonomie esistenziale. Prendiamo i più poveri e i più malandati sotto ogni punto di vista.

Ricordo che quando cominciai ad imbarcarmi nell’impresa dei Centri don Vecchi, chiesi consiglio ad un mio amico commercialista. Questo signore mi rispose senza esitazione: «Don Armando, punti esattamente sulla categoria che ha la pensione medio-alta». Per fortuna, e per grazia di Dio, feci esattamente l’opposto.

Però confesso che non è facile pagare la pigione, i costi condominiali, le utenze, le medicine con una pensione di 580 euro, e talvolta anche meno. Nei Centri don Vecchi una cinquantina di residenti sono in queste condizioni ed altri cento non superano i sette-ottocento euro mensili. Perciò ci siamo dati da fare per trovare fonti alternative e soluzioni che agevolano questi poveri vecchi.

L’ultima trovata è stata quella del chiosco di frutta e verdura. Forte dell’esperienza della Bottega solidale, ci siamo lanciati in questa impresa. La “capa” è una mia coetanea ottantatreenne che ripete a tutti che il Centro don Vecchi non è una casa di riposo ma “un centro benessere”. Il frate elemosiniere è Luigi, un meridionale capace di vendere “aria di Napoli in scatola”. Questo signore si è creato una piccola “compagnia di Gesù” e con alcuni suoi adepti parte verso le quattro e va a questuare frutta e verdura a Padova e Santa Maria di Sala; altri rimangono a casa a preparare “il mercatino”. Altri ancora offrono a 5 euro al mese la tessera che dà diritto a ritirare questa frutta e verdura di prima qualità tre volte la settimana.

Io non so se sia sant’Antonio o san Gennaro, ma fatto sta che, a giorni alterni, arrivano uno o due furgoni carichi di frutta e verdura. I vecchi clienti del “don Vecchi” la ritirano per loro, per i figli, per i nipoti e i pronipoti, perché se i vecchi dovessero mangiare tutta la frutta e verdura che ritirano, scoppierebbero come la rana di Esopo che voleva diventare grande come la mucca.

Il banco alimentare del “don Vecchi” ci mette il furgone e il gasolio, io aggiungo soltanto brontolamenti, minacce, lusinghe e mediazioni per la pace.

Questo servizio fornisce alimenti ai due Centri di Carpenedo, quello di Marghera, quello di Campalto, e contemporaneamente rifornisce il banco alimentare del Centro che assiste duemila poveri alla settimana.

Vedendo tanto ben di Dio provo solamente tanta tristezza al pensare che molte parrocchie se ne stanno infreddolite all’ombra del campanile ad aspettare “il sol dell’avvenir”.

L’Europa, l’Italia, il Comune…

Anche quando uscirà questa pagina del mio povero diario spero che le cose delle quali ho pieno il cuore, e che mi preoccupano alquanto, siano felicemente risolte.

Ho osservato il silenzio perché ora non porto più la responsabilità della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi. Ritengo giusto che chi è al timone scelga la rotta e le modalità di condurla e che chi vi collabora non lo intralci, anzi favorisca in ogni modo il suo modo di raggiungere lo scopo. Ho poi grande fiducia e grande rispetto per il giovane “capitano” e perciò spero proprio che ci porti alla meta.

Grazie a Dio siamo riusciti, pur con qualche difficoltà, ad ottenere il finanziamento per il “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia. L’assessore Sernagiotto ha ottenuto un fondo di rotazione di cui a noi sono stati destinati quasi tre milioni di euro, da restituire in 25 anni a tasso zero.

Sarà di certo un percorso di guerra quello di incassare concretamente la somma, perché alla burocrazia italiana dovremo sottostare; in questo nostro caso si è aggiunta quella europea.

Comunque, disponendo di collaboratori ormai abituati a percorrere gli itinerari tortuosi ed assurdi della burocrazia, credo che da questo lato ce la faremo. Mentre le difficoltà insorgono a causa del nostro Comune. La fruibilità di un terreno che la Fondazione possiede a Campalto è condizionata dal fatto che il Comune decida di fare o non fare la via Orlanda bis.

Il nostro Comune, anche in questo settore, si rifà al comportamento dell’asino di Buridano, che non riesce a scegliere. Allora ci ha ventilato, in alternativa, un’altra soluzione, ma anche per questa sta manifestando indecisione.

Intanto il tempo passa ed aumenta il rischio di perdere questa insperata e splendida opportunità. Oggi è in gioco il domani e la serenità di un’altra ottantina di anziani poveri e per di più alquanto acciaccati.

Io sarei stato per lo scontro frontale, per l’assalto mediatico all’arma bianca. Avrei portato alla sbarra dell’opinione pubblica l’indecisione e l’ambiguità di certi personaggi che tengono banco nella giunta comunale di Venezia. Appartengo infatti alla categoria del piccolo David che ha fiducia nella sua fionda e nei ciottoli del torrente, piuttosto nell’armatura pesante della diplomazia.

Spero, una volta tanto, di aver torto e che il guanto di velluto del nuovo Consiglio di amministrazione raggiunga lo scopo senza ferite e “spargimento di sangue”. Sarò quindi ben felice se la Fondazione otterrà, prima della scadenza del tempo, la superficie alternativa a quella che abbiamo indicato alla Regione. Se così non avvenisse, “non ci saranno santi che tengano”: attaccherò con ogni mezzo chi si è offerto di governarci e ora non ha più coraggio di farlo.

La biennale d’arte sacra

“Il dado è tratto!”, facciamo risorgere “La biennale d’arte sacra”.

L’esperimento di una biennale locale d’arte sacra ebbe inizio nella mia vecchia comunità pressappoco una ventina di anni fa ed è morta quattro o cinque anni orsono.

Io mi sono sempre interessato di arte; quest’amore è nato da un bacillo che monsignor Vecchi, assistente dell’UCAI di Venezia (Unione cattolica artisti veneziani) ha seminato nel mio animo negli anni del liceo, quando ero ancora vergine e reattivo ad ogni bella semente. Venezia poi è una scuola d’arte a cielo aperto. A Venezia tutto parla di armonia, di bellezza: chiese, palazzi, calli, rii, ponti ed orizzonti marini.

Non so se ci arrivai da solo o se qualcuno me l’ha fatto capire, che mentre nei secoli andati religione ed arte erano come due sorelle siamesi, dal settecento in poi pian piano si è arrivati alle liti, quindi al divorzio, infine allo scontro duro ed amaro. E’ sempre triste e desolante la divisione e il guardarsi in cagnesco.

Sognatore come sempre, pensai di dar vita nella mia città ad un tentativo di riconciliazione, nella speranza di arrivare pian piano a far rinascere prima il dialogo, dopo la simpatia, infine l’amore. Con pochi soldi, ma con tanta buona volontà, è nata la “Biennale d’arte sacra” per aiutare gli artisti e presentare le realtà della fede con un linguaggio moderno, anzi corrente.

Le edizioni di questa singolare e povera impresa sono state parecchie e molti artisti aderirono al progetto cimentandosi sul soggetto sacro.

Al “don Vecchi”, dove si trova la più vasta galleria d’arte moderna, sono molte le opere provenienti da questa biennale in miniatura.

La mia uscita dalla parrocchia e l’abbandono di una pastorale globale che abbracciava tutto l’uomo ed ogni suo interesse, fece si che venisse a mancare il respiro a questa iniziativa.

Quest’anno per Pasqua, con l’aiuto di una giovane e coraggiosa critica d’arte, ritentiamo l’esperimento su un soggetto che, a nostro parere, è facile: “Maria di Nazaret”.

Non m’aspetto Madonne di Leonardo, Michelangelo, Pinturicchio, Cima da Conegliano, Lotto o Veronese, ma spero che avremo delle immagini della Vergine che vesta come le nostre donne, ne riporti il sorriso, le lacrime, la luce interiore, ossia delle immagini di una Madonna che parli la lingua degli uomini del nostro tempo.

Il Don Vecchi 5 è una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana

E’ arrivato il finanziamento della Regione per realizzare il nuovo Centro “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia fisica. Ora possiamo sperare di riuscire a far vivere in maniera autonoma anche gli anziani, che pur avendo ancora la testa a posto, hanno bisogno di più di un supporto per godere ancora della loro autonomia decisionale e “da persone” fino all’ultimo respiro.

La stampa locale sta dando molta evidenza a questo fatto e credo che abbia ragione perché si tratta di “un fatto epocale” che finalmente difende la libertà e l’autonomia dell’anziano, lo rende libero da dipendenze burocratiche, da un lato, e dall’altro gli permette di non pesare sui figli, che in questo momento di crisi hanno essi stessi molto da faticare per arrivare alla fine del mese.

Nello stesso tempo permette all’ente pubblico di non dissanguarsi per dover affrontare rette pesantissime ed impossibili con l’aumento esponenziale della popolazione anziana e la diminuzione della forza lavoro che si sobbarchi questo peso economico.

A questo riguardo sento il bisogno di precisare qualche aspetto che potrebbe essere frainteso. La Regione non ci regala nulla; ha costituito un fondo di rotazione col quale possiamo affrontare il costo della struttura, ma dovremo restituire fino all’ultimo millesimo ciò che ci viene anticipato.

Al Comune abbiamo chiesto “il diritto di superficie” per costruire la struttura. Neanche questo ente ci darà niente per niente: pagheremo questo diritto di superficie pur alleggerendo l’onere del Comune di pagare delle rette veramente salate alle case di riposo per non autosufficienti.

Da noi i futuri residenti pagheranno solamente i costi condominiali e le utenze e chi avesse un reddito abbastanza consistente darà un contributo di solidarietà per chi ha la pensione minima. Tutto ciò si chiama, ed è, solidarietà. Molti lo daranno volentieri questo contributo mentre gli avidi e gli egoisti invece lo dovranno fare perché questo è giusto.

Se il Comune sarà sollecito ed intelligente quanto la Regione, al massimo entro due anni la nostra città potrà disporre di quasi quattrocento alloggi per anziani poveri e questo non è poco.

Voglio precisare altre due cose che reputo importanti: le nostre strutture sono e saranno, oltre che comode, anche signorili, perché siamo convinti che “i poveri sono i nostri padroni”! Secondo: questa operazione la consideriamo una lode a Dio che nasce dalla nostra fede e dalla carità cristiana, poiché vogliamo che non si rifaccia a criteri di beneficenza e di filantropia. Stiamo facendo tutto questo solamente “perché Dio lo vuole!”.

Il dono di “angeli della notte” venuti da lontano

Credo di aver letto quasi tutti i romanzi di Cronin, il medico inglese che è passato dalla medicina alla letteratura. Non penso che Cronin sia un autore ancora molto letto oggigiorno. Ai miei tempi però i romanzi di questo narratore, dalla prosa scorrevole e dal racconto sempre vivo ed avvincente, erano molto conosciuti, anche perché alcuni sono diventati dei films che hanno ottenuto molto successo, quali “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le stelle stanno a guardare”. Di questo autore però ho letto alcuni romanzi che hanno riscosso meno successo, ma che comunque a me sono piaciuti.

Qualche settimana fa, incontrando di primo mattino una delle signore che la Fondazione ha assunto per l’assistenza notturna al don Vecchi, la quale stava terminando il turno della notte, il mio pensiero è andato ad un romanzo minore del Cronin, “Angeli nella notte”, nel quale questo autore descrive, in modo veramente brillante, il lavoro delle infermiere che negli ospedali vigilano notte e giorno gli ammalati.

Cronin, avendo esercitato la professione di medico, conosceva molto bene le mansioni di queste operatrici della sanità. Porto ancora un dolce ricordo della descrizione ricca di poesia di queste giovani donne che, spinte dalla loro calda femminilità, rimboccano le coperte, spengono le luci, danno un sorso d’acqua, chiedono agli ammalati come si sentono, danno le medicine, arrivando talvolta ad un incoraggiamento rasserenante o perfino dando una carezza delicata e carica di affetto.

Nei miei reiterati ricoveri in ospedale, ho avuto modo di riscontrare la bellezza e la preziosità del servizio di queste infermiere che si dedicano al mondo della sofferenza.

Da noi al “don Vecchi” gli “angeli della notte” vengono dalla lontana Moldavia od Ucraina, due paesi le cui donne più intraprendenti e generose sono ormai sparse in tutta Europa.

Mi sono fermato un attimo a salutare questa giovane donna col volto sereno, dolce e sorridente, nonostante avesse vegliato l’intera notte per assistere i nostri anziani che, pur dovendo essere tutti autosufficienti, soffrono invece almeno per l’età – infatti la vecchiaia è di per se stessa una malattia – lo dicevano pure i romani.

Vedendo la composta bellezza di questa donna che è venuta da lontano a donare il suo cuore ai nostri vecchi, ho provato un sentimento di ammirazione, di riconoscenza e d’affetto per il suo dono così caro e generoso.

Che gioia la prima riunione del nuovo Consiglio della fondazione!

Durante la scorsa settimana sono stato gentilmente invitato a partecipare alla prima convocazione del nuovo consiglio di amministrazione della Fondazione del “don Vecchi”. Sono stato estremamente ben impressionato, a cominciare dalla convocazione.

Sotto la mia gestione l’incontro del Consiglio era una vera questione di Stato. Si cominciava con una serie di telefonate per verificare la disponibilità dei vari membri a parteciparvi e non era cosa da poco riuscirvi, per i vari impegni di ognuno. Una volta risolto questo problema, veniva mandata una E-mail con l’ordine del giorno. Infine, non fidandomi delle “diavolerie” dell’elettronica, mandavo anche una lettera. Quasi sempre mancava qualcuno e tra quelli che intervenivano c’era sempre uno o due che dovevano andarsene presto per precedenti impegni.

Con don Gianni le cose sono cominciate ben diversamente. Inviò ai consiglieri una semplice e-mail a bruciapelo, a me una telefonata per rispetto alla mia canizie. Don Gianni, presidente, ha tirato fuori il suo computerino portatile e mentre con la bocca parlava, le sue mani danzavano leste sulla tastiera.

Il nuovo presidente ha comunicato velocemente date e modalità della nomina, si è informato sui problemi più urgenti, ha fatto mettere a verbale le prime iniziative e scadenze ed ha condotto in maniera veloce e spigliata la seduta di consiglio, riprendendo in mano l’annosa discussione sulla “cittadella della solidarietà”, avviando il progetto su un binario sicuro e sgombero da ostacoli curiali.

Sono rimasto veramente ammirato dalla autorevolezza, dalla spigliatezza e dal senso di responsabilità nel prendere in mano le varie questioni. Sono uscito ringraziando il Signore della grazia che ha fatto a me e al “don Vecchi” per aver mandato questo giovane prete, perché credo che con lui il movimento della solidarietà avrà certo un domani.

Ritornando in appartamento ho ripetuto il “nunc dimittis Domine” che avevo pronunciato durante l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, dicendo l’antica frase che ripetono gli anziani: “Beati voi giovani!”. Sono convinto che nella famiglia del “don Vecchi” si siano ricomposti i ruoli e finalmente io potrò svolgere quello che mi si addice, cioè il nonno!

Il Don Vecchi di Campalto è nato senza l’aiuto dalle istituzioni ma dal cuore della gente comune!

Il “don Vecchi” di Campalto è stato finito anche nei minimi particolari. Il 15 ottobre l’abbiamo inaugurato in maniera solenne davanti a cinque-seicento persone che sono sopravvissute ad un vento di bora che tirava glaciale, pur di vedere “il miracolo” sbocciato, come per incanto, sulla gronda della laguna.

All’inaugurazione ha partecipato la più bella gente di Mestre e dintorni, in un clima di entusiasmo e di ammirazione. C’era ben donde essere entusiasti di fronte ad un complesso di 64 alloggi, con servizi di prim’ordine, luoghi ampi e ben arredati, con lo scoperto vasto e già seminato e verde, con piante ed arbusti in fiore, pannelli solari e fotovoltaici già funzionanti.

Dalle autorità presenti non abbiamo avuto sostegni economici di nessun genere, ma noi, gente alla buona, ci siamo accontentati anche del dono dei loro complimenti e dell’invito ad andare avanti.

Questo miracolo è stato concepito, voluto e cresciuto nel cuore della povera gente, nonostante la crisi economica e i prelievi fiscali, il crollo delle borse e il dramma di Berlusconi che, col cuore sanguinante, ha dovuto mettere le mani nelle tasche dei poveri e che per darci il permesso a costruire questa struttura per gli anziani più poveri della città, per questo “lusso” che ci siamo presi, ha preteso il 21% del costo, ossia seicentocinquantamila euro – un miliardo e trecento milioni delle vecchie lire! Questa è l’Italietta per la quale più di un migliaio di parlamentari si danno da fare onde garantire serenità e sviluppo per i più poveri.

Credo che sia davvero doveroso da parte mia informare i miei concittadini su come le istituzioni hanno concorso per il “don Vecchi” di Campalto. Ebbene, ve lo faccio sapere chiaramente: tra la Regione Veneto, la Provincia, il Comune di Venezia, la Fondazione Carive della Cassa di Risparmio, l’Associazione Industriali, la Camera di Commercio, la Banca Antoniana, la Cassa di Risparmio di Venezia, solamente il Banco San Marco ha elargito 1000 (diconsi mille) euro, gli altri zero!

Sono quasi costretto a concludere che la crisi ha colpito solamente i ricchi ed ha risparmiato i poveri. Per fortuna!

Un passaggio del testimone tutto in positivo

In quest’ultimo tempo è avvenuto il passaggio delle consegne alla presidenza della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi. Questo passaggio è stato da me deciso e fortemente voluto per i motivi che più volte ho confidato ai miei superiori: la mia età avanzata, gli acciacchi della mia salute e la convinzione che soltanto chi è di questa generazione la sa comprendere compiutamente e la può gestire in maniera adeguata.

In questo passaggio del testimone mi pare di essere stato particolarmente fortunato perché don Gianni, il mio successore, è un prete giovane, intelligente ed intraprendente, ha tutta la mia fiducia e sono inoltre convinto che darà un domani ai Centri don Vecchi e ciò non è poco per chi, come me, ama perdutamente la “sua creatura”.

Quando cinque anni fa si è deciso di costituire una fondazione, con la sua autonomia dalla parrocchia, don Danilo ebbe la cortesia di permettermi di essere io a scegliermi i consiglieri, cosicché la conduzione risultò facile e positiva. Ora il nuovo Consiglio ha deciso che io partecipi alle riunioni svolgendo ancora un ruolo attivo.

Sarà mio impegno essere assolutamente discreto e facilitare il nuovo Consiglio perché si muova in maniera assolutamente autonoma, non volendo diventare la suocera seccante ed impicciona. Sono anche tanto felice di poter collaborare con discrezione e misura aiutando questo giovane parroco che di impegni ne ha fin troppi. Sto quindi finalmente assaporando la stagione del nonno: poche responsabilità, però impegno serio per alleviare il peso di chi deve combattere la dura battaglia del quotidiano.

Mi convinco sempre più che la mia vita è stata particolarmente benedetta e che debbo veramente ringraziare il Signore che è stato tanto benevolo e comprensivo con me.

Il passaggio del testimone

Chi desidera che una stagione abbia le caratteristiche di un’altra stagione sarà sempre illuso e deluso. L’uomo d’oggi ha trovato sì dei surrogati perché d’inverno si possa godere del tepore della primavera o perfino dell’estate o, viceversa, che si possa vivere una stagione estiva che abbia le caratteristiche dell’autunno o perfino dell’inverno, però questi surrogati costano sempre cari e non hanno mai la totalità della ricchezza propria di ogni stagione.

Credo che questa legge della natura valga anche per le stagioni della vita dell’uomo. Una persona anziana può anche illudersi di avere la lucidità, la forza, la capacità di leggere i tempi nuovi; in realtà però avrà sempre l’impronta del suo tempo, farà quindi molta più fatica di un giovane e riuscirà sempre meno bene di lui ad affrontare i problemi della vita e ad adeguarsi alla nuova stagione della società in cui vive.

Il giorno dell’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, quando ho ufficialmente annunciato il mio abbandono della presidenza della Fondazione e ho presentato don Gianni – appena quarantenne – come mio successore, pur col rimpianto per l’avvicendamento che ho voluto decisamente, ho provato pure una sensazione di liberazione per un compito che mi stava diventando idealmente sempre più pesante; ho avuto la sensazione di esprimere amore vero per ciò in cui ho tanto creduto e che ho amato, e nello stesso tempo la sicurezza di aver fatto quello che era giusto e saggio fare.

Per questo passaggio del testimone, in un momento in cui, fortunatamente, godo ancora di un po’ di lucidità e di energia, non mi riterrò minimamente dispensato dall’impegnarmi per quello che ho sempre creduto doveroso. Però il fatto che la barra del timone sia ora nelle mani di un sacerdote giovane ed intelligente mi dà pace e mi fa sentire coerente con le mie profonde convinzioni.

Il concepimento del don Vecchi e quella bistecca fiorentina…

L’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto e le promesse per il “don Vecchi” quinto, ossia quello che stiamo progettando con la Regione e che dovrebbe rappresentare un ulteriore passo in avanti, cioè il tentativo di mantenere nel proprio domicilio anche gli anziani che stanno perdendo decisamente l’autonomia a livello fisico, mi ha portato in questi ultimi tempi a ricordi ormai lontani.

Una ventina di anni fa, stavo faticosamente mettendo a fuoco nella mia mente il progetto che doveva permettere all’anziano di non essere costretto al ricovero in un ospizio, o alla amarezza di dover mendicare dai figli denari per sopravvivere o essere condannato alla solitudine in condomìni anonimi. Sennonché lessi con curiosità su “Famiglia Cristiana” che a Lastra a Signa, presso Firenze, avevano trasformato una casa di riposo in una specie di condominio per anziani.

Convinsi l’architetto Renzo Chinellato, che a quel tempo tentava di tradurre in un progetto le mie fantasticherie, ad andare nella lontana Toscana per vedere come stavano le cose. Scoprimmo il prototipo, in verità assai rozzo, anche perché risentiva di un adattamento, ma l’idea c’era tutta. Soprattutto mi accorsi che i residenti avevano un volto più sereno di quello di tutti gli ospiti delle case di riposo che avevo visti fino ad allora.

Il prototipo fu perfezionato, ingentilito, reso signorile a livello abitativo e più accessibile a livello economico e ne venne fuori il “don Vecchi” che risultava quale una “mercedes” in confronto alla “Balilla” di Lastra a Signa.

Il ricordo mi rimase però nel cuore come un’esperienza bella e positiva, suppongo anche per il fatto che l’architetto mi offrì il pranzo in una locanda di campagna in cui mangiammo pasta e fagioli e la bistecca fiorentina. Mi par di sentire ancora il profumo del braciere in cui danzavano le fiamme di legna dei boschi toscani e il gusto ineguagliabile di quel ben di Dio che è la bistecca di Firenze! Ne mangiai mezza, ma me ne sarebbe bastata un quarto per saziarmi e per sentire quanto era buona. La festa per il concepimento del “don Vecchi” non poteva essere più affascinante.

Tornammo a casa entusiasti, quasi illusi che nel “don Vecchi” ci sarebbe stato un caminetto con una enorme bistecca a rosolare sulla graticola. In realtà oggi ci dobbiamo adattare al menù del Catering Serenissima, ristorazione nella quale non è prevista la bistecca fiorentina!

Storia di un “invito a nozze”

Confesso: non so se sia una tentazione maligna o, finalmente, un lampo di onestà. E’ successo qualche settimana fa quando, su mandato del Consiglio di Amministrazione che mi ha incaricato di invitare, secondo la prassi, “le autorità civili, militari ed ecclesiastiche” per l’inaugurazione del “don Vecchi” di Campalto, ho trovato qualche difficoltà a reperire un elenco di tutti i notabili che normalmente si invitano in queste occasioni. Allora m’è venuta la “tentazione” (ma, ripeto, non ho ancora capito se sia stata tale o sia stata una “ispirazione del Cielo”) di mandare ai giornali e alle televisioni locali il testo della parabole evangelica dell'”invito a nozze”.

Tutti ricordano quel re che desiderava che le persone più ragguardevoli del paese partecipassero alle nozze del figlio, nozze che egli aveva preparato con tanta cura ed amore. Purtroppo i notabili di allora, con una buona dose di ipocrisia, si scusarono e lasciarono cadere l’invito: “ho preso moglie e perciò abbimi per iscusato, ho comperato un paio di buoi, devo andare a vedere i campi, ecc.” Quel re, deluso e sdegnato, mandò l’invito a ben altre persone, dicendo ai suoi servi: «Andate per le strade, nei sobborghi, raccogliete i poveracci, gli storpi, gente che non conta, e fateli venire alle nozze di mio figlio».

A suo tempo avevo invitato la Regione, la Provincia, il Comune, gli industriali, la Camera di Commercio, le banche, i ricchi di Mestre a partecipare alla nobile impresa di far festa agli anziani, offrendo loro una dimora confortevole. Nessuno, proprio nessuno ha partecipato neppure con un euro. Mi sono rivolto allora ai poveri, ai mestrini e agli extracomunitari, che non si possono permettere non solo di andare per gli acquisti alla boutique, ma neanche in negozio, e perciò vengono al “don Vecchi” ai magazzini “San Martino”.

Loro hanno risposto a centinaia, a migliaia, con i loro spiccioli – cinquanta centesimi, un euro, cinque euro – e con questi contributi della Mestre povera ed emarginata abbiamo costruito il “don Vecchi” di Campalto.

La mia “tentazione”, o la mia “illuminazione” era quella di dire ai giornali e alle televisioni: «Invitate a nome mio i più poveri, i mestrini che non contano, le moldave, le donne ucraine, le badanti, perché chi aveva soldi s’è “scusato” a causa della crisi, mentre i poveri hanno risposto a migliaia. Sono quindi questi ultimi che meritano d’essere invitati “a nozze”, ossia all’inaugurazione.

Non abbandono il campo!

Ho un gruppo di giovani giornalisti che fanno a gara per pubblicare qualche notizia inerente le mie imprese e le scelte che faccio in rapporto agli eventi e alle questioni che coinvolgono la nostra società e la nostra Chiesa. Ognuno tenta di carpirmi la notizia che in qualche modo possa rappresentare uno scoop nel nostro piccolo mondo.

Alvise Sperandio ha avuto qualche indizio della mia volontà di passare la mano circa la presidenza della Fondazione, Pur avendogli detto che non c’era nulla di ufficiale a questo proposito e che i tempi non erano maturi, ha steso l’articolo ed in aggiunta il titolista de “Il Gazzettino” ha buttato giù il titolo ad effetto: “Don Armando lascia!”

C’era da vederlo: è scoppiata la “tempesta” nel solito piccolo bicchiere d’acqua. Residenti al “don Vecchi”, amici, ambienti ecclesiastici, si sono meravigliati di un presunto abbandono del “potere”. Le domande sono tante e varie, tanto che credo opportuno fare qualche precisazione. Io non abbandono il campo e sono deciso a portare avanti fino alla fine la mia visione del credere, la testimonianza che la solidarietà è una componente essenziale del vivere cristiano e che non basta l’enunciazione di princìpi, ma bisogna tradurre il messaggio in scelte concrete. Però ritengo da un lato di non avere più né la lucidità, né le risorse fisiche per stare al timone ulteriormente.

Dall’altro lato sono altresì convinto che bisogna far spazio ai giovani perché si misurino con la vita, perché riescano ad interpretare al meglio i tempi nuovi e perché essi hanno il vigore per battersi per i progetti in cui credono.

Io non voglio abbandonare ciò in cui ho creduto e in cui credo, ma desidero farlo in seconda linea, come supporto e come rinforzo, nella misura in cui si riterrà opportuno il mio contributo. Ho sempre ritenuto giusta la massima che “non si può essere uomini per tutte le stagioni” e di certo la mia stagione è ormai agli sgoccioli, e forse già tramontata.

Il don Vecchi, isola felice per tanti anziani

Vivere è faticoso per tutti, ma ancor più per gli anziani. Ben ha fatto la società civile a mandare in pensione uomini e donne a 65 anni; non so se proprio facciano bene ad innalzare l’età della pensione, come pare che i nostri governanti vogliano fare. Di certo impegnando gli anziani domandano loro uno sforzo ed una fatica supplementare, non perché il loro lavoro domandi più fatica e più intelligenza, ma perché l’anziano è più vulnerabile ed ha meno risorse.

Mio padre, che è morto a 83 anni (la mia età attuale) mentre si accingeva ad entrare anche quel giorno, come aveva fatto per tutta la vita, nella sua bottega di falegname, mi ha ripetuto più volte: «Ricordati, Armando, che noi anziani basta poco per metterci in crisi e fortunatamente basta ugualmente poco per sentirsi rasserenati». Io ho capito, magari tardi, questa verità, spero che i nostri giovani la capiscano presto, rendendo così più serena la vita della moltitudine dei membri della terza età.

Al “don Vecchi” mi pare venga data risposta positiva a questa esigenza; la gran parte dei residenti si impegna a tener ordinata la propria persona e il proprio alloggio e tutto questo riempie quasi l’intera giornata, anzi moltissimi avvertono il bisogno di qualche aiuto esterno. C’è invece un gruppo di loro che, beneficiando di una buona salute o, più spesso, abituati da una vita ad essere impegnati e a non far spazio all’ozio, si impegnano in lavori marginali, ma quanto mai utili: seguire i fiori, annaffiare le piante, dare una mano al bar o in cucina, prestare servizio presso i magazzini gestiti dai volontari, distribuire la posta, chiudere ed aprire al mattino e alla sera le porte e fare qualche altro lavoretto non troppo impegnativo.

Credo che il “don Vecchi” sia una risposta ideale alla fragilità dell’anziano; la cordialità che si respira al Centro è un elemento rasserenante, e il poter contare sulla disponibilità dei responsabili sempre pronti a fare da supporto e talvolta da supplenza ad eventi fuori dal ritmo quotidiano, offre ulteriore tranquillità.

Ora poi la scelta veramente saggia e generosa del Comune, che garantisce una presenza ed una vigilanza anche di notte, ed un piccolo aiuto a chi non ha mezzi per pagarsi una assistente familiare, pure se a “part time”, credo aggiunga benessere e serenità ulteriore. Credo che valga proprio la pena di impegnarsi perché il “don Vecchi” rappresenti “l’isola felice” per tanti anziani in disagio e sia veramente una risposta alla fragilità e l’insicurezza di tanti nonni che non possono godere del calore e della protezione della loro famiglia naturale.

Quelle settecento lampade sono frutto di un dono d’amore

Chi in questi giorni non segue l’andamento della borsa? Piazza Affari la sto immaginando come il falò dei Pezzin in via Ca’ Solaro. Perché mentre i nostri amici invocano prosperità bruciando fascine di sterpi per l’Epifania, a Piazza Affari si bruciano ogni giorno milioni di euro. Tante volte ho tentato di farmi spiegare questo rebus di carattere economico, però non sono mai riuscito a capirci niente.

Qualcosa però ho finito per “capire” dei fenomeni collegati: ad esempio che cala il prezzo del petrolio e pare che tutti siano preoccupati di questo fatto come fosse male che la benzina cali di prezzo, o meglio che dovrebbe calare, mentre invece, per un altro mistero, cresce.

Stanno dicendo inoltre che l’oro continua a salire, raggiungendo prezzi mai visti, perché la gente investe su questo bene “rifugio”. Io invece, in controtendenza, ho approfittato per mettere sul mercato le mie “riserve auree”.

In passato, quando mi regalavano qualche oggettino d’oro, quando andavo a venderlo me lo pagavano quasi niente perché dicevano che era “oro vecchio”! Ora ho approfittato dell’occasione favorevole e del bisogno di pagare le fatture che mi giungono ininterrotte per il “don Vecchi” di Campalto. Questa volta avevo una collana, un bracciale e qualche altra cosetta che una dolcissima e cara mamma aveva ricevuto in dono dal figlio e che, essendo egli morto precocemente, ella mi disse che non avrebbe mai portato e perciò me li offriva per le opere di cui mi occupo.

L’orefice me li ha pagati duemila euro, meno qualche spicciolo. M’è dispiaciuto quanto mai privarmene, perché per me rappresentava un vero “tesoro” l’oro che questa mamma mi ha donato con le mani tremanti e gli occhi lucidi.

Neanche dopo un’ora, con la somma ho pagato le settecento lampade che illumineranno il “don Vecchi” di Campalto.

Lo so che per i vecchi che vi risiederanno e per gli ospiti quelle saranno soltanto delle lampade; per me, invece, nella loro luce, vedrò solamente il cuore di questo giovane che amava sua madre e di quella madre che ha voluto che il dono di suo figlio diventasse amore.

La visita del Sindaco Orsoni al don Vecchi

Il dottor Boldrin, membro della Fondazione che governa i Centri “don Vecchi”, qualche tempo fa ci ha portato il sindaco Orsoni.

Il noto avvocato veneziano era già venuto al “don Vecchi” per la campagna elettorale. In quella occasione gli avevamo prospettato le problematiche del Centro, ma m’era parso così sperduto, frastornato per i tanti incontri, per i tanti problemi che il Comune di Venezia ha da sempre.

In verità gli avevo già mandato nei mesi scorsi, quando ero pressato dalla gran paura di non farcela a pagare Campalto, due lettere accorate per chiedere aiuto. Non avevo ricevuto risposta alcuna e ciò mi aveva un po’ indispettito e deluso. Poi, leggendo i giornali, che da mesi e mesi non hanno fatto che parlare della crisi finanziaria in cui il Comune di Venezia si dibatte, e conoscendo purtroppo, per esperienza diretta, la burocrazia comunale, dispersiva ed inefficiente – infatti i giornali in questi ultimi tempi ci hanno informato che è pure corrotta – ho provato un po’ di pena, immaginandolo indifeso ad annaspare fra infiniti problemi. Motivo per cui l’ho risparmiato dalla mia critica che non vorrebbe guardare in faccia nessuno e che esige efficienza, servizio e attenzione particolare per i più poveri.

Il sindaco ci ha ascoltato paziente; mi è sembrato che abbia condiviso i nostri sforzi tesi solamente a dare una mano al suo e nostro Comune, per cui l’amministrazione dovrebbe esserci eternamente riconoscente, perché noi facciamo presto, a poco prezzo e in maniera efficiente, quello che per il Comune richiederebbe anni e a costi astronomici.

In verità l’avvocato Orsoni non si è compromesso più di tanto, comunque credo che almeno egli ci abbia aperto la porta perché il discorso possa continuare con i suoi collaboratori.

Anche in questa occasione il sindaco mi ha ripetuto che gli ho fatto catechismo quando era bambino. Io non ricordo il bimbetto di cinquant’anni fa, ma di certo gli ho insegnato che il buon Dio vuole che amiamo il nostro prossimo, specie quello più indifeso e quello più povero. Spero tanto che egli non abbia dimenticato questo insegnamento del suo prete-catechista e mi dia una mano per aiutare i poveri.