Profumo di fraternità

Recentemente mi sono recato al “don Vecchi” di Marghera per informare i residenti che i due volontari che quattro anni fa si sono assunti la responsabilità di gestire il Centro, lo hanno avviato e seguito fino ad oggi, se ne andavano da Marghera per aprire il nuovo Centro e far nascere la nuova comunità di Campalto.

Lino e Stefano in questi quattro anni hanno donato il loro tempo e le loro energie perché il “don Vecchi” di Marghera crescesse in un clima di fraternità e in un ambiente signorile e sereno. Ora che stanno raccogliendo i frutti dell’impegno non facile di far convivere persone provenienti da ambienti e da esperienze le più diverse, e non tutte facili, hanno sentito il dovere di rendersi disponibili per aprire la nuova comunità di Campalto. Senza batter ciglio e pretendere riconoscimenti di sorta hanno fatto fagotto e sono partiti verso una realtà che ora assomiglia più ad un cantiere che ad una convivenza per anziani. Non ci saranno né fanfara, né sindaco, né Patriarca a riconoscere i loro meriti, devono accontentarsi del grazie di questo povero vecchio prete che non cessa di sognare la Terra Promessa. Essi lasciano una dimora avviata per sobbarcarsi l’impegno di dar vita ad una comunità di cui, per ora, ci sono solo i muri; impegno certamente arduo!

Nel contempo essi hanno preparato, a sostituirli, una coppia di sposi, Teresa e Luciano ai quali ho chiesto di diventare padre e madre della grande famiglia di soli nonni che ha dimora presso la chiesa dei Santi Francesco e Chiara di Marghera. Neanche per queste due care persone ci saranno mandati ufficiali, contratti per remunerazioni adeguate, ma solo l’onore di poter servire anziani, vecchi genitori dei quali molto spesso i figli non si sono fatti carico.

In questo passaggio di consegne senza difficoltà s’è respirato solamente profumo di fraternità, sogno di un mondo nuovo, desiderio di far felici gli infelici.

Il tutto si è svolto in un ambiente quasi incantato, prato verde rasato come un tappeto, pavimenti lucidi, quadri alle pareti, silenzio e buon gusto. Me ne sono tornato a casa con la sensazione che il “Regno” di cui Cristo parla di frequente nel Vangelo sia del tutto simile, se non uguale, a quello che già esiste in via Carrara 10 a Marghera, accanto alla Chiesa dei Santi Francesco e Chiara.

Devo imparare a lasciarmi trasportare fiducioso dalla misericordia del Signore!

Renzo Tramaglino, il famosissimo personaggio dei “Promessi sposi”, impegolato fino al collo in eventi più grandi di lui, pur essendo un sempliciotto, constatando come lassù ci sia Qualcuno che manovra i fili, non soltanto della grande storia, ma anche di quella piccola intessuta dalle banalità del quotidiano, ha avuto la sapienza di concludere “La c’è la Provvidenza!” quando, attraversato l’Adda, mise piede nel terreno sicuro della Serenissima. Meglio sarebbe dire che la fede di Manzoni sapeva leggere nella trama complicata, e spesso aggrovigliata, degli avvenimenti, che spesso sembrano assurdi, ingiusti e crudeli, una regia saggia e generosa che pian piano sbroglia la matassa ed apre sentieri fin poco prima sconosciuti. Così è capitato anche a me, che sono un povero diavolo indifeso e sempliciotto quanto il promesso sposo di Lucia.

La Regione, ch’era rimasta assolutamente sorda alle richieste d’aiuto, in modo insperato s’è offerta di finanziare un progetto pilota per gli anziani in perdita di autonomia. Nonostante questa Provvidenza mi rimaneva scoperto il tassello essenziale: reperire un terreno per dar vita a questa nuova struttura provvidenziale. Non sapevo più da che parte girarmi, sennonché l’ANAS, improvvisamente ed inaspettatamente, ha comunicato al Comune di Venezia di dover rinunciare alla nuova bretella che doveva costruire parallela a via Orlanda. Tutto questo mi potrebbe rendere fortunatamente disponibile cinquemila metri di proprietà della Fondazione, sui quali possiamo tranquillamente costruire la struttura pilota.

Stesso discorso dicasi per i magazzini della solidarietà. Il Patriarca ha ripreso in mano l’iniziativa e con un colpo di reni ha organizzato una “cordata” di piccoli imprenditori del privato sociale reperendo la somma necessaria per costruire i magazzini.

In una mezza giornata la Provvidenza ha messo assieme una serie di tasselli sufficienti per dar volto al mosaico di queste realtà solidali che fino al giorno prima ritenevo inimmaginabili.

Non ho ancora imparato ad abbandonarmi alla sapienza e all’onnipotenza del buon Dio! Spero che almeno prima di morire imparerò finalmente a rimanere a galla “facendo il morto”, ossia lasciandomi portare dall’onda del mare della misericordia del Signore.

Ci vorrebbe maggiore interesse per il bene comune!

Dietro ogni volto c’è una vita, una storia con i suoi successi e le sue sconfitte. Dietro il volto di un anziano c’è un passato ancora più vasto.

Io conosco appena il volto e il nome dei miei coinquilini residenti al “don Vecchi”, non certamente le loro storie e l’impressione che ne ricevo è solamente quella che appare dai loro capelli bianchi e dai loro volti ricchi di rughe. Però so da sempre che la nostra vita di oggi è la risultante dell’educazione e delle vicende del nostro passato.

Talvolta, partendo dall’oggi, mi viene l’istinto di indagare, o meglio di fantasticare sul passato della gente che vive con me. Ci sono persone che fin dal primo ingresso si mettono a disposizione e si danno da fare, probabilmente capendo che la vita e il benessere della comunità dipende dall’impegno e dalla collaborazione di ognuno. Ci sono altri che, pacificamente, danno per scontato che il “quasi Paradiso” che hanno scoperto e in cui sono entrati, senza merito alcuno, sia quasi un albero selvatico nato per caso nel terreno di nessuno e i cui frutti ognuno ha diritto di cogliere senza dover chiedere permesso e ringraziare alcuno.

Ci sono altri ancora che perfino accampano diritti fasulli e si pongono in posizione critica per ogni cosa che non risponde ai loro desideri. Altri ancora che vivono da stranieri, per nulla preoccupati del bene comune, del tutto impegnati a fare i fatti loro e infine altri che han ricevuto un benservito assai disinvolto dai loro figli e poi spendono ogni risorsa ed ogni tempo per continuare a servirli, trascurando in maniera spesso assoluta la comunità in cui hanno trovato rifugio e che altri mantengono in vita.

Io avevo sognato, avevo sperato, avevo tentato di farne una “famiglia felice” di amici e di fratelli, ma ogni giorno di più mi accorgo che questa era un’utopia e, come tutte le utopie, costituisce un obiettivo ed una speranza ideale a cui tendere, ma che realisticamente non possiamo pretendere che si realizzi, almeno in tempi brevi e compiutamente.
Sono rassegnato? Ancora no, ma dovrò rassegnarmi!

Questa analisi un po’ deludente e amara, quando la applico alla nazione, all’Italia, mi fa compatire i suoi governanti, perché anche quando essi fossero retti e capaci di governare gli uomini, senza usare la forza e la costrizione, il loro compito è così arduo se non impossibile. Comunque vale la pena tentare.

Un doveroso ringraziamento al prof. Sandro Simionato

Finalmente una buona notizia dal Comune! Qualche giorno fa un funzionario della pubblica amministrazione, che si occupa degli anziani e dei disabili, ci ha telefonato per informarci che nel bilancio approvato il 30 giugno, – l’ultimo giorno utile – il Consiglio Comunale, nel budget inerente al comparto della sicurezza sociale, è stata approvata la proposta di un finanziamento per l’assistenza notturna agli anziani che vivono nei trecento alloggi dei Centri “don Vecchi”, messi a disposizione dalla Fondazione Carpinetum.

Mai nella mia vita ho seguito con maggior attenzione e trepidazione le travagliate vicende inerenti, quest’anno, all’approvazione bilancio della pubblica amministrazione del Comune di Venezia. Ogni giorno leggevo con apprensione le notizie che apparivano sulla stampa locale concernenti i sempre nuovi “tagli” imposti dalla crisi finanziaria che investe l’intero Paese. La “coperta” era ed è veramente corta, per cui cultura, sport, servizi scolastici e tutti gli altri che dovrebbero godere della magra disponibilità finanziaria della pubblica amministrazione di Venezia, tiravano dalla loro parte, lasciando fatalmente scoperte altre parti.

Non avendo la Fondazione “santoli che contano” all’interno del Consiglio Comunale, temevo che proprio la realtà degli anziani residenti al “don Vecchi”, sarebbe rimasta allo scoperto. Invece no! Non so quale “santo” debba ringraziare, comunque ora avremo al “don Vecchi” un portierato sociale durante il giorno e pure degli addetti all’assistenza anche per la notte.

Nel numero consistente di anziani, quali sono quelli residenti al “don Vecchi”, anziani che superano poi tutti ed abbondantemente, gli ottant’anni, i malori notturni sono quanto mai frequenti, tanto che il 118 è di casa al nostro Centro.

Di certo dovrò “accendere una candela” alla dottoressa Francesca Corsi, che da sempre ha perorato la causa degli alloggi protetti in genere e in particolare di quelli del “don Vecchi”, ma un “moccolo” lo accendo pure volentieri all’assessore alle politiche sociali, prof. Sandro Simionato, che spesso è stato oggetto dei miei strali. Ora però, in questa situazione difficile, se non tragica, del bilancio comunale, l’esser stato capace di destinare nuovo denaro ad una voce per l’assistenza notturna, è certamente un merito ed io ritengo doveroso rendere onore a questo merito, seppur parziale e tardivo.

Il don Vecchi 4 nasce grazie a tanti gesti d’amore dei semplici

Era nei progetti che fra un paio di mesi – e precisamente alle ore 11 dell’8 ottobre, il Patriarca, cardinale Scola, avrebbe benedetto ed inaugurato il “don Vecchi” di Campalto – altri 64 alloggi per anziani poveri costruiti secondo la formula innovativa e vincente degli alloggi protetti.

Le cose però non andranno così perché a quel tempo il Cardinale sarà già a Milano. Il centro di Campalto si inaugurerà comunque: la benedizione del nostro vecchio patriarca Marco Cè o del giovane vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, o comunque di monsignor Bonini o del neo monsignor Danilo Barlese, penso sia altrettanto efficace perché i nostri anziani si trovino bene nel nuovo Centro e vivano una vecchiaia serena.

Spesso in queste mie “confidenze”, ho parlato dei guai, degli ostacoli e delle difficoltà incontrate in questo ultimo paio d’anni in cui è compendiata la storia della nuova struttura. Io sono abituato a giocare allo scoperto e a parlare apertamente ai miei concittadini che considero da sempre miei compagni in questa avventura; non vorrei perciò che essi pensassero che io abbia incontrato solamente spine in questo percorso, perché in verità questa storia è stata una bella storia in cui non sono mancate “le rose”; anzi dovrei dire che in questo tempo il sogno è diventato un autentico roseto.

Voglio solamente accennare a qualche “sorpresa” bella, anzi affascinante, colta durante questo percorso. Da quella dello scultore veneziano Enrico Camastri, che ci ha offerto “La Madonna dell’accoglienza”, un altorilievo di due metri per uno in terracotta – impresa quasi leggendaria per uno scultore – alla signora dottoressa Elena Vendrame, mai vista e mai conosciuta, che ci ha regalato cinquantamila euro, alla nonna Rossi di Marghera, che ci ha lasciato un’eredità del valore di quasi mezzo milione di euro, al signor Mario Tonello di Mirano, che ci ha donato il suo appartamento, alla signora Amelia Conte che ci ha fatto un lascito di ventimila euro, all’Associazione “Carpenedo solidale” che ci ha messo da parte mobili pregiati da arredare un castello, all’altra associazione di volontariato “Vestire gli ignudi” che ci ha donato un finanziamento così consistente da portarci fuori dalle preoccupazioni e dai guai.

Accanto a queste “rose” così straordinarie ed esemplari, c’è stata poi un’infinità di “roselline” più modeste ma altrettanto belle e profumate: dalla pioggerella continua di offerte che da mesi continua a cadere dolce come quella “di marzo” del poeta della nostra infanzia, alla signora che s’è tolta i denti d’oro e ci ha mandato l’equivalente (100 euro per Campalto), alla giovane collaboratrice dal cuore d’oro e dalle mani prestigiose che sta restaurando, con una incredibile maestria, i vecchi lampadari che impreziosiranno la nuova struttura.

E’ stato un ininterrotto succedersi di gesti cari e gentili con i quali la città ha dato volto bello e cuore caldo alla nuova dimora per i nostri nonni.

Gli angeli di Mestre

Tanti anni fa, certamente più di mezzo secolo fa, ho letto un bel romanzo di Cronin, lo scrittore inglese dal racconto scorrevole e persuasivo, autore di “Anni verdi”, “La cittadella”, “Le chiavi del Regno”, “Le stelle stanno a guardare”, “L’albero di Giuda” ed altri dei quali non ricordo più il titolo.

Uno di questi romanzi aveva come titolo “Angeli nella notte” e raccontava il servizio generoso e caro che le infermiere svolgevano durante il giorno e soprattutto di notte negli ospedali. Durante la notte insonne degli ammalati, di frequente questi “angeli” vestiti di bianco s’accostavano per confortare, sorridere ed aiutare e portare la dolce e calda umanità dei loro cuori di donna.

Quante volte ho sperimentato personalmente, durante i miei numerosi ricoveri, la dolcezza e il conforto di queste care creature, sempre pazienti, pronte e disponibili, e quante volte ho ringraziato il buon Dio per questi “angeli della notte”!

In questo tempo di forzato “riposo”, dovuto alla mia caduta rovinosa, ho pensato che a questo mondo sono ancora numerose e provvidenziali queste creature senza nome che svolgono il loro servizio silenzioso in tutti i settori della nostra società.

Ad ottobre inaugureremo il “don Vecchi” di Campalto, io non posso permettermi la prodigalità del dottor Padovan della ULSS, il quale ha diviso un milione tra i dipendenti che hanno trasferito l’Umberto 1° nell’Ospedale dell’Angelo, però un segno lo voglio dare a quegli angeli ignoti della città che m’hanno offerto un aiuto determinante per la realizzazione della nuova struttura. Offrirò loro le “chiavi” della “città degli anziani”. Ho già provato le chiavi e preparato la pergamena con le motivazioni. Ho cominciato a buttar giù la lista dei nomi e subito mi sono accorto che questi “angeli” sono una “legione”. Sono costretto a fare una scelta come ha fatto l’italia dopo la grande guerra portando nell’Altare della Patria “il Milite ignoto”. Ma voglio che si sappia fin d’ora, se consegnerò fisicamente le chiavi ad una ventina di concittadini, che il mio gesto vuol manifestare riconoscenza ed amore a quella moltitudine – veramente una moltitudine – di persone che m’hanno aiutato a realizzare questo nuovo “miracolo” del costo di sette miliardi di vecchie lire.

Ogni persona a cui il Patriarca consegnerà le chiavi della “città degli anziani”, rappresenterà un numero sconfinato di altri cittadini che hanno operato per la realizzazione di quest’opera a favore dei nostri vecchi. Come mi commuove, mi fa felice il pensiero che Mestre possa contare ancora su questo popolo di “angeli” che fanno da contrappeso all’egoismo, all’indifferenza, alla furbizia di qualcuno che pensa solamente a se stesso e ai propri vantaggi.

Quella caduta mi ha aperto gli occhi

I nostri vecchi, giustamente, ci hanno insegnato che ogni esperienza umana ha due facce, come ogni medaglia. Noi cogliamo per prima e di più la facciata che ci tocca più direttamente nella nostra sensibilità e siamo spesso tentati di trascurare l’altra facciata, quella in penombra, che consideriamo meno interessante, che però è parte integrante ed inscindibile della facciata più appariscente.

Tantissime volte la gente del quartiere, pensando che nel convento di clausura di via san Donà vivesse un folto gruppo di giovani donne chiuse nel loro chiostro ed intente solamente alla preghiera, mi facevano osservare: “Perché queste religiose, invece di starsene tutte chiuse nel loro convento salmodiando da mane a sera, non accudiscono agli ammalati, non si dedicano ad educare i bambini e a soccorrere i poveri?”

Confesso che queste osservazioni facevano un po’ di breccia anche nella mia coscienza. Io non sono mai stato un grande ammiratore delle mura, delle grate, delle tonacone delle suore, le figlie predilette di Dio. Le ho sempre sognate belle, luminose, giovani, avvenenti, operose e piene di entusiasmo. Capisco però che neanche le suore possono fermare l’orologio e il calendario del tempo!

Un giorno in cui con delicatezza riportavo questi discorsi alla priora del convento, ella gentilmente mi fece osservare che loro tentavano di testimoniare la facciata in penombra della medaglia della vita: il bisogno dell’uomo di stare in silenzio, di riflettere, di rapportarsi con l’assoluto. Capii che le monache di clausura non avevano tutti i torti nel fare quello che stavano facendo.

In questi ultimi tempi, in cui mi sono trovato imprigionato in un busto metallico per tenere in asse le due vertebre che mi sono rotte per una rovinosa ed inspiegabile caduta, di frequente ho pensato al discorso delle due facce della medaglia fattomi dalla suora di clausura.

Il primo pensiero è certamente banale e fanciullesco: “come facevano i soldati di ventura del Medioevo a rinchiudersi in quelle pesanti armature e a battersi pure col nemico usando degli spadoni quanto mai pesanti?” Questa però, convengo, è un’osservazione banale dell’altra facciata della medaglia offertami dalla mia caduta e dalla relativa prescrizione medica di portare il busto.

Però ben presto s’affacciò alla mia coscienza un’altra lettura che mi ha fatto pensare e perfino concludere che il mio guaio non è stato del tutto insignificante: “O felice caduta, che mi ha aperto gli occhi su una realtà che mi tocca da vicino”.

Al “don Vecchi” siamo circa 250 anziani con l’età media di 86 anni e le cadute e le relative rotture del femore sono all’ordine del giorno. Allora, osservando la seconda facciata della mia dolorosa caduta, mi sto chiedendo ogni momento: “come fanno i miei coetanei che sono soli, che non hanno soldi, ad affrontare i guai come il mio o peggio del mio?”. Soltanto quando si è “come loro” si può capire.

Conclusione: ho ringraziato il Signore della caduta perché mi ha aperto gli occhi ed ho fatto il proposito che mi impegnerò fino allo spasimo perché quando dovesse capitare ad un povero vecchio di avere questa amara esperienza abbia almeno a fianco chi gli dia una mano.

La proposta che non farò

Ci sono certi eventi che producono nella mia sensibilità umana un impatto così forte da non essere capace di smaltirlo in poco tempo, anche perché ritengo doveroso tenermi nel cuore questa benefica sofferenza.

Ricordo di aver sentito di una certa querelle sorta tra gli alti ranghi del nostro Paese per il fatto che il presidente Napolitano insisteva con decisione per uno stanziamento consistente per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia – e la sfilata delle forze armate fu certamente un elemento clou di questa celebrazione.

Il presidente Napolitano è arrivato un po’ tardi all’amor di Patria perché nel suo passato le sue simpatie erano rivolte altrove, ma ora pare convinto quanto mai perché l’ho visto impettito e commosso di fronte al grande spettacolo di cinquemila soldati, ben vestiti e ben addestrati, alla sfilata (e d’altronde di tempo ne avevano a iosa per prepararsi a questa esibizione).

Io non sono estremamente esperto di conti, ma se comincio a pensare alle paghe da versare a cinquemila uomini, paghe che vanno da quella dell’ultimo volontario arruolato al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, ai costi per i carri armati, i camion, i missili, i fucili e quant’altro, la mia mente si annebbia.

Mentre i miei occhi osservavano lo scorrere veloce dei vari corpi in armi, con le loro divise impeccabili e il portamento marziale, il mio animo andò alla proposta ingenua, ma sapiente, di Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi, che una quarantina di anni fa scrisse al presidente degli Stati Uniti e della Russia, dicendo loro: “Datemi ciascuno l’equivalente del costo di un cacciabombardiere ed io risolverò con quel denaro il problema dei milioni di lebbrosi nel mondo”. Non credo che abbia avuto risposta, era una proposta troppo saggia perché dei capi di Stato lo potessero prendere in considerazione.

Mentre io guardavo con curiosità la marcia dei vari corpi del nostro esercito, mi sono chiesto: “Se io scrivessi a Napolitano proponendogli: `Presidente, mi dia il costo della sfilata del 2 giugno, il costo delle paghe dei cinquemila uomini che hanno marciato e delle armi che orgogliosamente hanno mostrato ai ventimila romani che sono andati ad applaudirli, io le garantisco di costruirle tanti “don Vecchi” da accogliere tutti gli anziani poveri che vivono almeno da Napoli a Bologna!'”

Non ho però scritto a Napolitano perché penso che la proposta sia troppo valida perché possa essere presa in considerazione dal capo della burocrazia d’Italia!

“Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”

Fra poche settimane inaugureremo il “don Vecchi quattro” di Campalto, altri 64 alloggi per anziani poveri.

Questa non è assolutamente una novità per nessuno. Da tre anni a questa parte non faccio che parlarne a destra e a manca, tanto che questo progetto credo sia diventato il progetto di tutti i miei duecentomila concittadini.

Qualche giorno fa sono stato in cantiere. Mi è sembrato una torre di Babele, ma in positivo: muratori, pittori elettricisti, addetti all’ascensore, piastrellisti, una teoria infinita di fili, di barattoli di pittura, mucchi di piastrelle, alberi tagliati e ruspe per riordinare il terreno.

Agostino, il capomastro, tesseva sorridendo il filo di questa gran ragnatela di operai con competenza e serenità.

Presto il “don Vecchi” aprirà i battenti a quasi un altro centinaio di anziani che avranno una dimora dignitosa, sicura e soprattutto alla portata delle loro magre risorse.

Mentre osservavo con meraviglia questo “miracolo” non meno entusiasmante e sorprendente di quelli di Lourdes e di Medjugorie, mi sono chiesto: “Ma dove ho trovato quei tre milioni e mezzo, ossia quei sette miliardi di vecchie lire, che sono occorsi? Ciò è avvenuto nella stessa maniera di come la fede e le preghiere provocano i miracoli nei più grandi santuari del mondo nei quali il buon Dio o la Vergine elargiscono le loro grazie?

La risposta m’è venuta immediata e perentoria dalla Bibbia: “Infelice chi confida nell’uomo, fortunato chi confida nel Signore!”. Nei miei calcoli di previsione avevo fatto conto sull’aiuto del Comune, della Provincia, della Regione, della Fondazione della Cassa di Risparmio di Venezia, delle banche, dell’Associazione Industriali, tutte realtà alle quali mi sono presentato col cappello in mano per chiedere aiuto.

Molte di queste realtà non mi hanno neanche risposto e quelle poche che l’han fatto, hanno risposto picche. Ai miei amici la voglio fare questa confidenza: dal mio chiedere la carità per i vecchi, che in Italia sono ben cinque milioni e che vivono con la pensione sociale di 580 euro, solamente il Banco di San Marco ha risposto dandomi mille euro.

Dei tre milioni e mezzo di euro occorsi per il “don Vecchi quattro”, solamente mille euro sono giunti da quegli enti la cui prerogativa è lo sperpero! Le pietre del “don Vecchi” di Campalto, tutte le pietre sono dono dei cittadini più poveri della nostra città.

Sto preparando gli inviti per l’inaugurazione; mi viene tristezza e mi sento in colpa se mi rifaccio alla prassi di “invitare le autorità civili, militari e religiose”. Credo che sia giusto che mi rifaccia alla parabola del Vangelo “Invitate i poveri, gli storpi che stanno ai margini della strada, perché essi seggano al banchetto al posto di chi ha rifiutato l’invito”.

Il mio incidente

L’appisolarmi, come al solito, di fronte ad un programma televisivo per niente interessante, m’è stato galeotto! Un brusco risveglio, in cui non m’era chiaro se fosse mattina o sera, presto o tardi, m’ha fatto balzare in piedi perdendo l’equilibrio e andando miseramente a cadere tra il televisore e il termosifone. Con fatica mi sono rialzato tutto dolorante.

Prima una lastra e poi la tac m’hanno fornito la triste notizia della rottura di due vertebre. Il neurochirurgo ha ordinato, con sentenza inappellabile, che dovevo procurarmi un busto. Ormai da qualche settimana sono imbragato in una specie di armatura metallica che mi dà la sensazione di essere stato condannato alla tortura della “Vergine di Norimberga”, l’antico strumento di tortura in cui il condannato era costretto ad entrare in una sagoma d’acciaio costellata di aculei, sagoma che, una volta chiusa, trafiggeva da parte a parte il povero derelitto.

Ora per me alzarmi è uno strazio, vestirmi peggio, a camminare sembro un robot che si muove a scatti. Povero me! Le prospettive per le ferie estive, che comunque avrei passato a Mestre compiendo il mio ministero nella mia amata cattedrale tra i cipressi, sono ben tristi e desolate. Tento di consolarmi pensando che vi sono tanti cittadini che stanno peggio di me e che il disagio e il dolore forse purificheranno il mio spirito e renderanno più bella la mia anima, ma non sempre questi pensieri sono capaci di rendere più serene le mie giornate.

Fortunatamente, in occasione di questa mia impotenza, il buon Dio ha mandato dal suo Cielo i suoi angeli perché “non inciampi il mio piede”.

Questo incidente però ha anche i suoi risvolti positivi perché mi costringe a pensare ai miei coetanei che, a differenza di me, sono soli, senza soldi e senza aiuti. Tutto questo mi rende più deciso e caparbio nel voler portare avanti il progetto pilota, voluto dall’assessore regionale Sernagiotto, che intende, tramite il “don Vecchi”, provvedere a quegli anziani poveri e in perdita di autosufficienza, offrendo loro un servizio di accudienza.

Spero di saper affermare con la liturgia “Oh felice colpa, che ha aperto il mio spirito a comprendere l’animo di Dio”. Pensare ai poveri è da sempre un gran dono.

Il Centro Don Vecchi è e deve restare del popolo semplice

L’otto ottobre prossimo venturo, alle ore 11, era stato fissato che il Cardinale Patriarca avrebbe benedetto e inaugurato il “don Vecchi” di Campalto, offrendo una piccola ma confortevole dimora ad un’altra ottantina di anziani di modestissime risorse economiche. Gli appartamentini sono 64, ma alcuni sono destinati a marito e moglie o a madre e figlia.

Meno di cinque anni fa la Fondazione che ha realizzato la struttura, aveva in tasca solamente un sogno, un sogno però che nasceva dall’assoluta convinzione che ci si doveva impegnare non in rapporto alle risorse di cui si disponeva – che erano, a livello economico, nulle – ma partendo dalla consapevolezza del bisogno degli anziani meno fortunati.

In questi cinque anni scarsi, abbiamo trovato un terreno, abbiamo comperato una casa pur obsoleta, ma che aveva una preziosa destinazione alberghiera, una ricchezza, dato ch’era situata alle porte di Venezia. Abbiamo però rinunciato a questa opportunità, preferendo, coerentemente alla nostra coscienza, la struttura di solidarietà.

Abbiamo realizzato l’opera nonostante l’indifferenza assoluta degli enti pubblici, delle banche e degli amministratori della cosa pubblica. Mi correggo: il Banco di San Marco fu l’unico ente che ci ha donato mille euro, poi niente, assolutamente niente!

Ci siamo affidati al buon cuore e alla coscienza dei concittadini, quei cittadini che stanno pagando in prima persona i morsi della crisi. La gente ha condiviso il nostro progetto e ci ha finanziato con piccoli versamenti che partivano dai dieci ai cinquanta euro, da aggiungere alla generosità stupenda di alcune persone anziane, le quali hanno fatto quadrare i conti.

Chi inviteremo all’inaugurazione? Non certamente i notabili, ma soltanto la gente, la povera gente. A titolo simbolico consegneremo le chiavi della cittadella degli anziani ad alcuni operatori sociali che ci sono stati particolarmente vicini, hanno condiviso e si sono fatti carico del progetto, ma in realtà le consegneremo ad ogni cittadino perché il popolo semplice ed umile s’è impegnato in prima persona e noi vogliamo dire apertamente, il giorno dell’inaugurazione, a chi appartiene a questo popolo umile e generoso, che ci ha creduto, che la cittadella, il “don Vecchi”, è suo e come tale lo deve custodire ed amare e difendere da chi tentasse di farne occasione di lucro.

Noi scommettiamo sul Centro Don Vecchi 5!

Gli amministratori pubblici, responsabili e seri, sono consapevoli d’avere delle grosse gatte da pelare altri però a motivo di populismo, spendono in maniera dissennata, tanto si troverà a sbrogliare la matassa chi verrà eletto alle elezioni successive.

Le persone responsabili, affrontano con onestà i problemi drammatici della nostra società. L’aumento consistente dell’età, la diminuzione della popolazione giovanile che contribuisce fiscalmente al costo degli anziani in pensione e il costo, vero o gonfiato, delle rette per gli anziani non autosufficienti, ha posto l’assessore alla sicurezza sociale della Regione, dottor Remo Sernagiotto, di fronte al dramma di come affrontare una spesa che sta aumentando in maniera vorticosa, e date le proiezioni sul numero di anziani per cui si dovrà provvedere nei prossimi anni, gli ha posto il problema, veramente drammatico, di trovare una soluzione.

Questo assessore, che non proviene dalla politica, ma dall’impresa, ed è perciò un uomo con i piedi per terra, vedendo la signorilità dell’ambiente ed esaminando i costi che al “don Vecchi” sono abissalmente inferiori a quelli che sono praticati dalle case di riposo, certamente ha pensato che sia possibile trovare una soluzione intermedia, meno onerosa e più dignitosa di quelle attuali.

Da questi ragionamenti è nata l’idea di una struttura che si muova sulla dottrina economica e sociale del “don Vecchi”, ma che possa far vivere più a lungo l’anziano in un luogo in cui possa continuare a gestire la sua vita da protagonista, fruendo di qualche aiuto maggiore.

Per impostare un progetto che risponda a queste urgenze, abbiamo pensato assieme al prototipo di un anziano, aiutato da una sorella più giovane o da una nuora generosa, o semplicemente da una “serva” vecchio stampo. La Regione ci aiuterà a dare un compenso all’assistente famigliare, per tutto il resto ci si avvarrà della rete dei servizi sanitari già posti in atto dalla uls.

Questa è la scommessa di Sernagiotto e del “don Vecchi”. Io sono sicuro che vinceremo la scommessa, nonostante che i direttori delle case di riposo per non autosufficienti, i sindacati si stiano stracciando le vesti e prevedano fosche prospettive. Sono disposto a scommettere uno a dieci che il 95% degli anziani che risiederanno nel progetto pilota del “don Vecchi” 5, vivranno e moriranno in un ambiente signorile, alla portata anche di chi gode la pensione minima, amati e riveriti e serviti per quanto è loro necessario, fino all’ultimo respiro. Chi vuole scommettere si faccia avanti!

Gli infaticabili lavoratori del don Vecchi

Questa mattina mi sono recato nella mia “cattedrale tra i cipressi” a deporre in segreteria “i ferri del mestiere” ed ho trovato due giovani pensionati che, a titolo di volontariato, pulivano le “vetrate” della chiesa.

Mi sono sembrati perfino più belli mentre lucidavano con pignoleria ed entusiasmo quei vetri che a me erano sembrati già puliti ma che, osservati dopo la “cura”, offrivano una splendida luce alle verdi piante di aralia che decorano stupendamente le “vetrate della cattedrale”.

Tornai in chiesa dopo le 14,30 per celebrare la messa feriale delle 15 e i due “lavoratori” stavano completando la pulitura dell’impiantito. I miei cari e generosi amici evidentemente han fatto dello “straordinario”. Non so come potrò pagarli, se già per il lavoro ordinario, nelle ore previste dal contratto della “categoria della gente di chiesa” offro il centuplo e la vita eterna. Questo per me è il guadagno!

Al mattino quando, verso le sette, esco dal “don Vecchi” per “andare a bottega”, incontro da un lato la Giovanna che con quella sua aria soave con la manichetta in mano bagna piante e fiori lungo i centoquaranta metri del lato di levante del parco del Centro, e L’Olinda che col volto sorridente e il cipiglio deciso bagna il lato di ponente.

Prima di uscire dal cancello ho sempre modo di salutare Carlo, che con la carriola e la scopa di canna d’India dà la caccia all’ultima foglia caduta durante la notte e all’ultimo pezzo di carta buttato a terra dal solito maleducato.

Carlo opera con la tensione di un chirurgo, perché dopo il pranzo viene per il rendiconto quotidiano a raccontarmi che cosa ha fatto nella mattinata.

Quando ritorno dalla messa c’è Luigi che scarica il camion di verdura che “ha mendicato” ai mercati generali di Mestre, o Padova, o Treviso, e la Marisa e la sua squadra che intervengono per la cernita prima che arrivi la “spettabile clientela”.

Entrato in casa, è già aperto il bar con il banconiere o la banconiera in divisa che serve il caffè.

Tutta questa cara gente non conosce orario, busta paga, mansionario, rivendicazioni salariali o sciopero di sorta, eppure è felice. Il lavoro per questi lavoratori che al “don Vecchi” si contano a decine e decine, è quasi un bel gioco che rende la vita lieta e veloce il tempo.

Ogni tanto però sono preso dall’angoscia che arrivino i sindacati a fare “la frittata”!

Un sogno nell’arte!

Quest’anno m’ha fatto particolarmente felice l’ottima riuscita della prima mostra concorso della “Galleria San Valentino” di Marghera. Il coraggio, un po’ artisticamente “incosciente” della nuova responsabile della Galleria e la sua assoluta e totale dedizione, il mio struggente desiderio di far decollare nel paese-dormitorio di Marghera un centro d’arte e la generosa disponibilità di Luciano, hanno fatto il miracolo.

L’accorrere di più di cento artisti, con opere di un buon livello, soprattutto pensando alla difficoltà obiettiva del difficile tema “il volto”, l’inaugurazione in un ambiente signorile, la serietà della gestione dell’evento e soprattutto la cornice della struttura che, più di una residenza, appare come una bella hall di un albergo di categoria e la presenza vivace del mondo dei giovani, hanno fatto il resto. Tutto splendidamente bene!

L’avvio della Galleria è stato piuttosto faticoso, ma ora ho la sensazione che in poco tempo diventerà una proposta d’arte tra le più coraggiose e di alto livello della nostra città.

Un esito così felice e riuscito mi sta spingendo a sognare che se “La cella” lascia cadere la Biennale d’Arte Sacra che ho avviato una trentina di anni fa, la Galleria San Valentino possa ereditarne la sigla e soprattutto il contenuto: aiutare l’arte moderna a dare volto e colore d’attualità ai misteri cristiani.

Questa possibilità già mi fa sognare di poter riprendere quel dialogo che ha già prodotto tante amicizie e simpatie tra gli artisti e il mondo ecclesiastico, oltre una serie di opere quanto mai significative, delle quali la città può già godere, perché esposte nella più grande galleria cittadina che i centri “don Vecchi” offrono a Mestre con le quasi millecinquecento opere presenti nelle pareti dei quattro centri esistenti a Mestre.

Davanti agli occhi miei ogni giorno Dio allestisce galleria d’arte più bella!

Il mio minialloggio è tanto piccolo, ma anche così confortevole da avere perfino un terrazzino con la balaustra, ove suor Teresa in ogni stagione mette le piante in fiore e che si affaccia su un grande prato che si veste, in ogni stagione, di splendidi colori diversi.

Quando mi affaccio a questo terrazzino per contemplare il cielo e la terra, le piante e gli uccelli, il mio animo ritorna spesso alle parole cariche di nostalgia con cui Celentano rimpiange i prati di via Gluck. Per fortuna io ho la grazia straordinaria di non dover rimpiangere alcunché, anzi posso incantarmi e non stancarmi mai di stupirmi e di contemplare il manto con cui si veste il grande campo. Di certo né Gucci, né Stefanel, né Cristian Dior potrebbero suggerire tinte così delicate e smaglianti quanto quelle che il buon Dio fornisce gratuitamente alla terra incolta del mio grande prato, amico di ogni stagione.

Tante volte, pressato dalle richieste, ho sognato e tentato di costruirvi un’altra dimora per i miei anziani e tante volte il Signore si è servito dell’insipienza o forse della gelosia dei miei concittadini per impedirmi di destinare agli anziani poveri qualche appezzamento di terra, perché voleva che rimanesse uno splendido prato godibile da tutti.

Ora il prato è tutto coperto di piccoli fiori color oro, fiori che da bambini chiamavamo “le scarpette della Madonna”. Chagall sarebbe stato affascinato da tanto giallo-oro che riflette i raggi tiepidi del sole di primavera.

Credo che la regina di Saba non ebbe mai un vestito così bello come quello del prato oltre il terrazzo del mio soggiorno, né mai l’avrà la principessina d’Inghilterra appena sposata. L’artista divino, con una fantasia ineguagliabile, ci offre un quadro sempre nuovo che diventa ogni settimana la galleria più bella della nostra città.