Che emozione assistere alla “semina” del villaggio solidale degli Arzeroni!

Io sono nato in campagna e quindi porto con me tante immagini e tanti ricordi della mia terra, immagini che ormai sono parte integrante della mia persona e della mia cultura. Uno dei ricordi più “sacri” che in certi momenti mi affiorano, è quello dei contadini che con un gesto calmo e pacato spargevano la semente tra le zolle che l’aratro aveva appena preparato per la semina. Sembrava che la mia gente con coraggio, speranza e fiducia affidasse al campo quel “tesoro” che gelosamente aveva tenuto in serbo nel granaio per tutto l’inverno; in quella semente era riposto il pane per la nidiata numerosa di figli.

Qualche settimana fa, in un momento particolarmente importante, per associazione di idee, ho avuto la sensazione che un gruppetto di amici sensibili ai bisogni delle persone in difficoltà, abbia compiuto lo stesso gesto sacro della semina affidando alla Divina Provvidenza e alla generosità dei mestrini un progetto veramente coraggioso che dovrebbe essere realizzato in parte presto e in parte nel prossimo futuro.

Io non sono più presidente della Fondazione dei Centri don Vecchi; guida questa istituzione il giovane ed intraprendente nuovo parroco di Carpendo con la collaborazione di altri quattro membri del Consiglio, ma questa cara persona, con un gesto di squisita cortesia, mi invita, quasi in qualità di “padre nobile” alle sedute del Consiglio, pur non avendo in quell’organismo alcuna responsabilità.

Ebbene, in una delle recenti sedute ho assistito con profonda emozione interiore alla semina del “villaggio solidale degli Arzeroni”. Avendo il Comune assegnato alla Fondazione quasi trentamila metri quadri di superficie, essa ha deciso di progettare, per ora, e di realizzare, per stralci, questo “villaggio solidale” che si articolerebbe in questo modo:

1) Un “Centro don Vecchi” di 120 alloggi per anziani in perdita di autonomia;

2) “Il Samaritano”, una struttura comprendente una ventina di stanze per i famigliari provenienti da paesi lontani, venuti ad assistere i loro congiunti negli ospedali di Mestre e per gli ammalati dimessi dagli ospedali e bisognosi di cure;

3) Una struttura di una quindicina di alloggi in cui accettare per 3, 4 anni, a prezzi di favore, padri divorziati che vengono a trovarsi in condizioni pressoché disperate per lo sfascio della propria famiglia, affinché possano superare l’emergenza ed accogliere i figli nel tempo loro assegnato;

4) Una casa con una decina di alloggi per preti anziani ed in cattive condizioni di salute;

5) Una struttura di una quindicina di appartamenti da assegnare per 3, 4 anni a giovani sposi in difficoltà, perché possano procurarsi poi un alloggio adeguato;

6) Una decina di alloggi per disabili che scelgano di puntare all’indipendenza abitativa;

7) Un ostello di almeno 50 stanze per operai, studenti, impiegati e persone che si trovano in difficoltà di alloggio per un’accoglienza provvisoria.

Di fronte ad una scelta così coraggiosa e cristiana ho provato la sensazione di chi semina con coraggio e si fida finalmente di Dio e degli uomini di buona volontà.

A qualcuno tutto questo potrà sembrare un azzardo ed un’utopia, interpretando il termine in maniera impropria; a me è parso un seme che (se il Comune farà la sua parte e i concittadini la loro) consentirà a Mestre di presentarsi finalmente al Paese come una città di uomini veri e di cristiani da Vangelo!

Il furto al Don Vecchi

Nota della redazione: questo intervento, come gli altri, risale a un paio di mesi fa.

Stamattina, mentre avevo appena aperto la porta della mia “cattedrale prefabbricata”, mi ha raggiunto una telefonata concitata di suor Teresa: «Hanno portato via la cassaforte!»

Presso la segreteria del “don Vecchi”, fin dalla sua apertura, abbiamo comperato una cassaforte del peso di più di due quintali, per mettervi qualche documento e soprattutto il denaro contante che si riceve per i motivi più diversi.

Sette, otto anni fa avevano pure rubato, nottetempo, la cassaforte del “don Vecchi” con dentro tutte le chiavi degli appartamenti. Per nostra fortuna quei ladri sono stati sfortunati, perché devono aver lavorato una notte per racimolare appena 500 euro, ma “onesti”, perché han lasciato in un campo di Dese la cassaforte inservibile, ma con tutte le chiavi dentro.

Stamattina si è ripetuto il furto, senza che nessuno dei 230 residenti se ne sia accorto.

Il furto della cassaforte per il piccolo borgo di anziani del “don Vecchi” ha rappresentato un avvenimento di cronaca nera, da scrivere con un titolo a cinque colonne sugli annali del Centro: supposizioni, commenti, preoccupazioni e suggerimenti a non finire.

Fortunatamente al “don Vecchi” non ci sono che vecchie signore ultraottantenni da rubare e perciò penso che non sia una merce molto ambita anche tra le categorie più scalcinate di ladri.

Purtroppo il bottino questa volta è stato, per pura coincidenza, più rilevante ed ha portato in tutti, me compreso, una nota di amarezza e di sconcerto. Con tante banche, con tanti supermercati dove i ladri avrebbero trovato ben di più, perché venirsi a sporcare le mani con i soldi dei vecchi più poveri della città?

Un certo isterismo stava montando tra la nostra popolazione, tanto che sentii il dovere di minimizzare le cose, dicendo che siamo assicurati e che è meglio essere derubati che ladri. In questo processo di rasserenamento mi ha aiutato quanto mai il racconto di Victor Hugo nel suo splendido romanzo “I miserabili”. Il santo vescovo, ai poliziotti che erano riusciti ad acciuffare il forzato con il bottino rubato, disse: «Ho piacere che mi abbiate portato questo signore, al quale ho donato i miei candelieri d’argento, perché mi dà l’opportunità di dargliene un paio che si è dimenticato di portare con sé».

Io non sono arrivato a tanto, ma se penso che dei concittadini hanno avuto il coraggio di rubare i pochi risparmi di vecchi poveri da una struttura che è nata e vive solamente per aiutare in tutti i modi il prossimo, non posso che avere pena e pregare per questi poveri ladri, nel senso più vero del termine.

Don Valentino, il nuovo “parroco” del Don Vecchi di Campalto

Il venerdì santo, in mattinata, mi sono recato al “don Vecchi” di Campalto per dare il benvenuto al sacerdote che la diocesi ha donato a quella piccola comunità cristiana ormai formata da sessantaquattro mini-famiglie.

Sono stato particolarmente felice perché il Centro era “vestito a festa” in occasione della Pasqua: il prato appena rasato appariva come un soffice tappeto verde, vasi di fiori rossi ingentilivano il vialetto che porta all’entrata, e dentro aria di festa, un viavai di residenti sereni e orgogliosi del loro piccolo borgo signorile ed ordinato.

M’è parso che l’atmosfera fosse veramente lieta e ci fosse una grande disponibilità per far crescere una vera comunità.

Ho incontrato il “collega” col quale ho condiviso molti anni di vita in seminario, ma che poi, diventati preti, ho perso di vista perché siamo vissuti ai lati opposti della diocesi. La mia vita ha ruotato per cinquant’anni attorno a Mestre, mentre lui ha esercitato il suo ministero in piccole comunità dell’interland di Caorle.

L’incontro è stato quanto mai cordiale, perché abbiamo scoperto di avere tante esperienze diverse da raccontarci: in verità lui ha un paio di anni meno di me, mentre per quanto riguarda acciacchi e pastiglie da prendere, forse mi supera di misura. Don Valentino – così si chiama il nuovo “parroco” del “don Vecchi”, ha fatto il suo “ingresso ufficiale” al mattino di giovedì santo e lo stesso pomeriggio, ha celebrato il primo “pontificale” particolarmente affollato, durante il quale ha tenuto l’omelia sull'”ultima cena”. Con don Valentino, pastore sereno e pacato, abbiamo concordato un mini piano pastorale: celebrerà l’Eucaristia ogni giorno, visiterà “le famiglie” e tenterà di diventare punto di riferimento per la vita spirituale.

Avrei voluto avere la capacità di dargli il benvenuto, come fece il cardinal Cè nei riguardi del nuovo Patriarca, benvenuto tanto paterno e ricco di calore che ha commosso l’intera Chiesa veneziana, però tutto ciò è rimasto solamente un pio desiderio.

Il nuovo vecchio sacerdote è stato veramente un dono del Cielo, che mai avrei immaginato potesse giungerci. Don Valentino potrà disporre fin da subito dell’accolito Lino, del teologo Enrico e di volontari che collaborino con lui per far si che i momenti di preghiera diventino il cuore della vita di questa nuova piccola “parrocchia” di anziani. Spero che con la benedizione del Signore la nuova comunità “cresca in età lentamente, mentre in grazia velocemente, davanti a Dio e agli uomini”.

Un prete per il don Vecchi di Campalto

A Campalto la casa degli anziani del “don Vecchi” è bella e luminosa, circondata da una campagna verde ed ubertosa, l’arredo è quanto mai signorile e la galleria di quadri ben fornita di quadri di tutti gli stili e per tutti i gusti. Pur tuttavia rimane quasi “una prigione dorata”. Se un residente desidera recarsi a Campalto o in qualsiasi altra località, deve farlo sempre con l’autobus di linea o in automobile, ma sono appena una decina gli anziani che ne posseggono una, mentre chi poi gode della pensione di 580 euro non può permettersi neanche la più scassata delle auto.

Per ora prosegue “la guerra di logoramento” contro l’ANAS e il Comune per avere i permessi a costruire una pista ciclo-pedonabile, però senza grandi risultati.

Anche per quanto riguarda la frequenza alla messa domenicale via Orlanda rappresenta la invalicabile “linea Maginot”! Supponendo che le cose sarebbero andate così, il giorno dell’inaugurazione avevamo usato lo stratagemma di donare “le chiavi della cittadella degli anziani” al parroco, don Massimo, per invogliarlo a frequentare il suo “possedimento”. Fatica sprecata, perché il parroco di Campalto è un povero diavolo, solo soletto, che deve pensare ad una parrocchia numerosa.

Alla mancanza dell’Eucaristia settimanale finora abbiamo supplito con una “messa secca” celebrata dal signor Enrico Carmio. Al sabato, come nei Paesi di missione, il nostro laico conduce la liturgia della penitenza, della parola e della lode al Signore. Una trentina di anziani partecipa all’incontro religioso, ma penso non sarebbero molti di più anche se il nuovo Patriarca vi celebrasse il pontificale con tanto di mitria e di pastorale!

Ora la Provvidenza ci ha dato una mano con la richiesta di un vecchio prete in pensione e relegato in un quasi “esilio” in un paesetto di campagna del contado, di avere un alloggio al Centro. Don Valentino, il prete ottantenne, carico di acciacchi, è entrato per Pasqua, con grande gioia di Lino, Stefano – responsabili del Centro – e mia. Ora spero tanto che abbia il fascino del suo celebre omonimo e trascini attorno alla Mensa del Signore la maggioranza degli ospiti che, come sempre, sono donne, ma spero pure che ad esse si accodino anche gli uomini.

La curia ci aveva promesso un prete giovane, insegnante di teologia; s’è però rotto una gamba sciando e perciò non l’abbiamo visto. Speriamo ora che don Valentino, vecchio prete di campagna, pur con meno teologia, abbia parole più semplici ma anche più convincenti per portare a Dio le pecorelle del “don vecchi” di Campalto.

Mi pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici sia più che un diritto!

Mi sono fatto una cattiva fama presso gli uffici del Comune e forse presso qualche assessore. Pare che mi ritengano una persona che pretende, che forse voglia essere privilegiato e che non abbia pazienza di aspettare che le pratiche facciano il loro corso.

Più di una volta l’architetto Zanetti, che da alcuni anni è il professionista a cui ci siamo affidati per progettare il “don Vecchi” di Marghera e di Campalto, di fronte alla mia insofferenza per le lungaggini del Comune, mi confidò che in città godo della stima e della protezione di molte persone, ma ve ne sono altre che non mi sopportano e che non approvano il mio modo di rapportarmi con l’amministrazione comunale.

Qualche giorno fa (relativamente a quando è stato scritto questo intervento, NdR) ho spedito al Comune e all’Anas una lettera, con tanto di protocollo, sulla questione della messa in sicurezza dell’uscita ed entrata da via Orlanda al Centro don Vecchi di Campalto. Per la settantina di anziani ottantenni il salire e lo scendere dall’autobus che da Campalto li porta al “don Vecchi” e viceversa, rappresenta una vera roulette russa, tale è il pericolo di via Orlanda dove c’è un traffico estremamente intenso e veloce proprio lungo il rettilineo antistante il Centro.

Ho chiesto personalmente all’assessore Ugo Bergamo, responsabile della viabilità e all’ingegner Entimino Mucilli, capo del compartimento dell’Anas una pista ciclopedonabile che congiunga il Centro a Campalto. Ambedue si sono dichiarati attenti e disponibili ma impossibilitati a finanziare la pista perché privi di fondi.

S’è concordata allora una soluzione tampone per una parziale messa in sicurezza dell’ingresso ed uscita, in attesa che questi enti possano disporre delle somme necessarie. Il costo della soluzione tampone se la sobbarca per la maggior parte la Fondazione dei Centri don Vecchi, pur non spettando ad essa questo compito.

Sono passati ben cinque mesi dall’inaugurazione del Centro, senza che si sia arrivati ad alcunché per la mancanza dei permessi. Io mi sono recato in queste due amministrazioni: locali lussuosi e confortevoli, fattorini eleganti e numerose segretarie, un apparato veramente consistente, ma per quel che mi riguarda: nessun risultato.

So che il Comune ha quattromilaseicento dipendenti ed è la più numerosa azienda della zona e l’Anas non so quanti, comunque ha un’organizzazione efficiente per raccogliere denaro. Un dipendente Anas, non appena è apparsa sulla facciata del nostro edificio di Campalto la scritta “Centro don Vecchi”, ci ha minacciato una multa; abbiamo pagato la tassa, ma è arrivato cinque mesi dopo il permesso di scoprire la scritta.

Mi renderò forse ulteriormente antipatico, ma qualche giorno fa ho ribadito, con lettera raccomandata, che se succedesse il sia pur minimo incidente, partirebbe immediata una mia denuncia alla magistratura. A me pare che pretendere efficienza dagli enti pubblici, che i cittadini pagano, non sia un diritto, ma un dovere!

Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto!

Ormai s’è voltato pagina. Per evitare diatribe con il parroco e con uno dei tanti comitati a lui collegati, che di legale non han proprio nulla se non il gusto e l’arroganza di opporsi a qualche iniziativa concreta e di rappresentare, senza mandato alcuno, “la cittadinanza”, il consiglio della Fondazione ha accettato la proposta del Comune per un terreno ai margini della città, chiamato – non so perché – degli “Arzeroni”.

Credo che la decisione sia stata saggia, non solo per evitare ulteriori polemiche, ma anche perché l’area del parco che sarebbe stata concessa era veramente angusta. Si tenterà, agli Arzeroni, di dar vita ad una struttura più capiente, per poter ospitare più anziani e dar respiro ad progetto più articolato e spazioso.

Ho letto le proposte, veramente generose, che il presidente della Fondazione, don Gianni, ha fatto al comitato “rappresentato” da un “triumvirato”, ma non c’è stato nulla da fare, il “popolo” ha detto di no, basta, non si discute, ma si deve accettare la volontà (in questo caso non si può proprio dire “popolare”) ma della borghesia, come sempre poco interessata alla sorte degli ultimi, di quelli che non hanno voce, né diritto di chiedere di essere aiutati.

Ho letto sul “Gazzettino”, le conclusioni, più che concilianti, del presidente della Fondazione, don Gianni Antoniazzi, il giovane parroco di Carpenedo che, nonostante tutto, assicura che il “don Vecchi” sarà a disposizione anche degli anziani di San Pietro Orseolo, qualora ne avessero bisogno.

Questa è la decisione del consiglio di amministrazione e del suo presidente, sulla quale non ho nulla da eccepire, della quale sono veramente ammirato e che favorirò con tutta la mia volontà. A livello personale però, e per coerenza alle scelte di tutta la mia vita, sento il dovere di affermare con forza che per me questi comportamenti non solamente non sono solidali, ma certamente incomprensibili per la parrocchia e per chi si ritiene cristiano. Prima di tutto viene l’uomo, e soprattutto l’uomo debole e bisognoso di aiuto.

Credo che la gente di Viale don Sturzo, a motivo dell’intervento di qualcuno, abbia perso una buona occasione per dimostrarsi civile ancor prima che cristiana.

Nell’articolo del Gazzettino si dice che quelli del comitato hanno affermato che stanno “sopportando” i due Centri, mentre in realtà il Centro don Vecchi è l’unica realtà positiva che c’è in Viale don Sturzo. Mezza Italia s’è interessata a questa esperienza di eccellenza che dà lustro e che tutti ci invidiano.

Tutto questo sento il dovere di affermare per dire “pane al pane” e perché ognuno si prenda le sue responsabilità.

Don Vecchi 5: il nostro impegno e la burocrazia

Ho l’impressione che il dottor Remo Sernagiotto, assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, sia un neofita in politica e, peggio ancora, nel settore amministrativo di un ente pubblico, perché mi pare che sia partito in quarta per dare una soluzione al gravissimo problema degli anziani, ma ora stia sbattendo il naso sugli sbarramenti burocratici dell’amministrazione regionale.

Mi par di aver capito che gli enti pubblici, per tutelarsi dagli imbrogli e per garantire trasparenza, finiscano invece per far allungare i tempi e far lievitare i costi, arrivando sempre in ritardo e scontentando un po’ tutte le persone di buon senso.

Sernagiotto ha certamente capito che le cose non possono più continuare come sono state impostate finora per quanto riguarda gli anziani: non ci sono case di riposo, i posti che ci sono hanno un costo insopportabile perfino per la Regione ed infine la qualità della vita offerta è assai scadente.

Quando ha visto il “don Vecchi”, e soprattutto quando gli abbiamo presentato i costi, gli è parso di aver finalmente “scoperto l’America” e ci ha detto: «Cominciate, io vi offro il finanziamento per la costruzione e vi garantisco una modesta diaria per la pulizia alle persone e agli alloggi». Noi, temerari come sempre, abbiamo accettato la sfida.

I guai però sono sbocciati immediatamente: c’è voluta una legge, s’è dovuto bandire un concorso, con regole e cavilli infiniti e nel frattempo è già quasi passato un anno. Ora ci vorrà un bando europeo per la gara di appalto e dovremo fare un percorso di guerra per ottenere a bocconi il denaro stanziato.

Ogni tanto sulla stampa esce qualche dichiarazione di Sernagiotto sugli obiettivi, sulla dottrina e quant’altro; ogni volta pare che il progetto si ingarbugli. Da parte nostra le idee sono più chiare: l’alloggio offerto diventa la casa dell’anziano che ne diviene il titolare. L’anziano paga i costi condominiali, le utenze e provvede per il suo sostentamento e il costo di tutto dovrà essere sopportabile anche per chi ha la pensione minima.

In più, agli anziani in perdita di autonomia, sarà garantita, a titolo gratuito, la pulizia dell’alloggio e della persona, e tutto questo a spese della Regione, cosa questa di non poco conto, perché così anche gli anziani poveri potranno vivere in un alloggio più che decente, potranno fruire di spazi comuni e, soprattutto, sapranno che dietro a loro c’è un minimo di organizzazione su cui poter contare nei casi di emergenza.

Spero quindi che Sernagiotto e i suoi funzionari non ingarbuglino le cose più del necessario.

Invitato a parlare del don Vecchi

Il Centro di Studi Storici di Mestre mi ha invitato a parlare al Candiani sui Centri don Vecchi. Quando il presidente di questo prestigioso gruppo culturale, con una telefonata calda e confidenziale, mi ha invitato ad esporre questa esperienza, che grazie a Dio è diventata, certamente non per merito mio esclusivo, un fiore all’occhiello della nostra città, d’istinto gli avrei detto subito di no. Io sono schivo, introverso e sono convinto di non avere le qualità del conferenziere sciolto e brillante che sa presentare l’esperienza – pur estremamente valida, ne sono convinto – in maniera convincente e soprattutto tale da non annoiare, ma anzi di entusiasmare il pubblico.

Il prof. Stevano, però, è stato così irrompente e deciso che non sono riuscito a sottrarmi all’invito che mi offriva l’opportunità di promuovere questa struttura per gli anziani e soprattutto mi offriva “peso” per poter ottenere dall’amministrazione comunale la superficie indispensabile per attuare il progetto, già finanziato dalla Regione, a favore di una struttura destinata agli anziani in perdita di autonomia.
Dissi di si proprio perché non sono riuscito a dir di no!

Il Centro Studi Storici ha fatto veramente le cose per bene. Un titolo incisivo: “Il miracolo della sfida dei Centri don Vecchi”. Un manifesto con la mia immagine, molto bello, tanto che mi sono sorpreso della mia figura armoniosa, quasi quella di un vecchio dalla capigliatura copiosa e candida, ma soprattutto dal volto ricco di bonomia e di calda umanità. Consistente la diffusione dei manifesti e notevole l’informazione sulla stampa.

Il pubblico m’è apparso subito accattivante: molti volti conosciuti ed amici, consistente la rappresentazione del popolo dei vecchi, il resto costituito perlopiù dalle solite persone anziane che normalmente partecipano a queste cose.

Mi sono subito sentito a casa, facilitato da un anfitrione che ha condotto il discorso con maestria, interrompendo quel temuto monologo che mi avrebbe affossato in un mare di noia.

La dottoressa Corsi poi, ora funzionario del Comune e mia antica allieva delle magistrali, la quale è stata praticamente l’ideologa e la “cofondatrice” di questa iniziativa innovatrice nel settore della terza età, ha costruito in maniera brillante una cornice di taglio intellettuale al mio intervento. Cosicché, tutto sommato, penso che la cosa abbia sortito un risultato positivo.

Ora, forte anche di questo avvallo civico, presenterò con più decisione ed autorevolezza la mia richiesta al Comune io mi predisporrò ad uno scontro deciso attraverso i mass-media per ottenere quello che il Comune ci dovrebbe dare in un piatto d’argento.

La vittoria di Pirro

Ormai è da un’eternità che per “vittoria di Pirro” si intende una riuscita fatua, inconsistente, quasi un boomerang che finisce per colpire non l’obbiettivo prefissato, ma colui che l’ha lanciato.

Ormai mi pare sia notizia sicura che il nuovo “don Vecchi” per gli anziani in perdita di autonomia non si farà in margine al parco di viale don Sturzo. Ha vinto il parroco della parrocchia di San Pietro Orseolo e un comitato del rione che s’era battuto contro l’installazione di un’antenna per telefonini, ma che per l’occasione è stato delegato a portare avanti anche questa “nobile” battaglia contro la cementificazione del verde.

Io in verità non avevo mai creduto alla realizzazione del progetto in quel sito, perché da trent’anni ho avuto modo di conoscere i soggetti protagonisti dell’attuale triste vicenda. Hanno raccolto 150 o 350 firme, ma che cosa rappresentano quando in cinque minuti avremmo potuto raccoglierne altrettante e più ancora tra gli attuali residenti di viale don Sturzo 53, che attualmente abitano al Centro? A meno che, secondo la logica marxista di triste memoria, alla quale qualcuno torna ancor conto di credere, non si dica che questi cittadini non sono “democratici” e perciò i loro pareri non sono comparabili a quelli illuminati e progressisti.

La cosa è andata così ed io che credo alla Provvidenza, spero che tutto sommato la soluzione alternativa sia veramente migliore. Peccato perché questo viale, che è rimasto viale non raggiungendo ancora la soglia di comunità cristiana e che prevedo che prima o poi ritornerà sotto ogni aspetto a ridiventare un “colmello” della vecchia parrocchia di Carpenedo, aveva tutto da guadagnare con la nuova struttura, anche se avrebbe perduto due o tremila metri di verde pubblico di cui nessuno fruisce.

Il “don Vecchi” è l’unica cosa bella e qualificante del viale don Sturzo, è il suo fiore all’occhiello sotto ogni punto di vista, tra un dilagante anonimato che forse ora ha, come punto di riferimento significativo solamente l’Ins, il supermercato popolare.

La vita continua, però confesso che percorrendo questo stradone costruito dall’ingegner Cecchinato proverò tristezza pensando a questa comunità che si rifà ad un doge diventato santo per il suo amore verso i poveri e che oggi è costretto a far da patrono a fedeli che dei poveri e dei vecchi non ne vogliono proprio sapere.

I “comitati del no”

Quando ero bambino la mia gente nutriva un estremo disprezzo per “gli uomini che si fanno comandare dalle donne”. Certamente questo era ancora un antico retaggio della cultura maschilista imperante, soprattutto in campagna, fino a mezzo secolo fa. Ora non so come vadano le cose, ma credo che la mentalità sia cambiata anche nei paesi di campagna.

A dire il vero, quando mi capita di vedere qualche bisbetica di donna che tratta il marito come un cagnolino e gli comanda a dritta e a manca, la cosa non mi esalta, anzi provo disistima per quel poveruomo che non reagisce ai capricci, al fare smorfioso, arrogante e poco rispettoso di queste presunte superdonne che schiavizzano chi vuol loro bene e sfruttano questo amore per imporre le loro bizze.

Un qualcosa di simile lo provo anche per i reggitori delle comunità più vaste della famiglia: Comune, Regioni e lo stesso Stato.

Mentre butto giù queste mie note è appena terminata “la guerra” del “no Molin”, una furia invece quella del “no Tav” in Val di Susa. Comprendo i valligiani, attaccati ai loro prati e ai loro boschi, ma non comprendo punto i giovani incappucciati che, come soldati di ventura, si spostano, si arruolano per combattere, da mercenari della violenza, la guerra di turno.

Meno che meno poi comprendo la polizia che non ne fa qualche retata di tre o quattrocento al colpo e li mette nelle patrie galere, quanto mai adatte a far sbollire i roventi spiriti.

Non comprendo lo Stato che non interviene in maniera massiccia ed efficace.

In questi giorni i giornali hanno plaudito all'”eroico” carabiniere che, imperterrito, ha ascoltato le sciocchezze, i vaniloqui di un giovane contestatore; io l’avrei ammirato molto di più se avesse usato decisamente il manganello che aveva in dotazione.

Oggi non si fa che ripetere il valore sacrosanto delle regole, delle leggi che il popolo sovrano ha promulgato per il bene della collettività, mentre poi si permette che della gente dissennata, che dei perditempo cronici e violenti, sbarrino le strade, impedendo il lavoro delle gente per bene e creando danni quanto mai consistenti.

Oggi “i comitati del no” nascono come funghi e sentenziano su tutto, facendo perdere tempo e denaro.

Noi del “don Vecchi” siamo stati fortunati, perché il locale comitato “non antenna”, bontà sua, “ci permette” di fare il nuovo Centro, ma lontano dal quartiere, e mi tocca poi vedere che l’amministrazione comunale si adegua a tanta prepotenza e a tanta insensatezza nei riguardi del bene comune!

E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!

Permettere che gli anziani vivano da persone fino alla conclusione naturale della vita, è di certo un’utopia a livello razionale, ma non certamente una chimera.

Adopero il termine “utopia” nel suo vero significato, ossia una méta alta e nobile a cui tendere anche se irraggiungibile in maniera definitiva, ma che costituisce la spinta ad avanzare costantemente e progressivamente, e non nell’accessione popolare in cui si pensa all’utopia come ad una realtà impossibile.

Noi del “don Vecchi” perseguiamo l’utopia che gli anziani possano vivere e dare il meglio di sé fino all’ultima goccia della loro esistenza e crediamo che ciò sia possibile facilitando l’ultimo percorso di queste persone della terza e quarta età.

A supportarmi in questa avventura sono gli anziani miei coinquilini del “don Vecchi” e pure un certo numero di anziani che, pur non abitando al Centro, ne condividono la vita e gli obiettivi.

Qualche giorno fa mi si è avvicinato il signor Nino Brunello, 95 anni a giorni, che due volte la settimana suona il violino nell’orchestra del “don Vecchi”. Mi dice: «Don Armando, domenica le suonerei un pezzo di Vivaldi, è contento?». Sempre lui ha cominciato a donarmi i dipinti della “sua” Venezia e poi, usando delle belle e grandi cornici, forniteci da amici, ha dipinto per noi altri bei paesaggi veneziani che si rifanno al Guardi e che “sanno di primavera” per le pareti del Centro di Campalto. Altri dipinti sono in magazzino in attesa del “don Vecchi 5”, destinato agli anziani in perdita di autonomia.

Al “don Vecchi” gli anziani novantenni non sono mosche bianche: il coro del Centro ha un’età media di 85 anni, eppure la domenica della neve ho dovuto proibir loro di venire nella chiesa del cimitero per animare la messa, altrimenti avrebbero sfidato in maniera impavida il ghiaccio e la bora.

Noi del Centro perseguiamo la massima che afferma: “E’ tempo non solamente di dare più anni alla vita, ma anche più vita agli anni!”. Mi pare che tutto ciò non sia una fata morgana, ma una meta allettante. Il sogno “che la morte ci incontri ancora vivi” è possibile a chi ha il coraggio di impegnarsi e non si fa mettere in casa di riposo.

Quell’opposizione incomprensibile

Nota della Redazione: come gli altri, anche questo articolo è stato scritto da don Armando un paio di mesi fa.

Con la richiesta che fosse un prete più giovane e più intelligente a presiedere la Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, pensavo di essermi finalmente ritirato a vita privata. La mia vita è sempre stata un “continuo combattimento”, come afferma una certa sentenza che non ricordo di chi sia. Ho sempre combattuto, mi sono sempre esposto in prima persona, incurante delle ferite, della solitudine e delle critiche, soprattutto quelle dei colleghi.

Sono rimasto un soldato semplice, ma questo non mi ha mai impedito di schierarmi con gli ultimi. Questa situazione è forse stata la mia salvezza. Mi ritrovo vecchio ed acciaccato, ma sono contento delle “battaglie” alle quali ho partecipato con fervore e passione sociale.

Sentendomi stanco e sempre più fragile, ho scelto liberamente, come Garibaldi, che la mia Caprera fosse il “don Vecchi”. Per facilitare la successione, ho promesso ai miei capi che avrei continuato ad offrire il mio contributo dietro le righe, in umiltà e al servizio di chi ha la responsabilità della Fondazione, rifacendomi alla massima che papa Roncalli citava spesso: “Miles pro duce et dux pro victoria”, il soldato agli ordini del suo comandante e il capo impegnato a raggiungere la vittoria.

Ora però arrischio di essere ancora coinvolto nell’agone sociale e sono tentato di scappare da Caprera come Garibaldi o dall’Isola d’Elba come Napoleone, anche se sono ben cosciente che i paragoni non reggono punto!

Questa mattina mi sono trovato il titolo di un servizio de “Il Gazzettino” che informa della bega tra preti in relazione alla costruzione del nuovo Centro “don Vecchi”. Don Gianni Antoniazzi, in qualità di presidente della Fondazione, che preme per ottenere dal Comune un’area per costruire una struttura, finanziata dalla Regione, per gli anziani in perdita di autonomia ed un parroco del quartiere, (parroco scaduto da quattro anni per limiti di età) che si oppone.

Questo vecchio parroco non è nuovo a queste opposizioni. Non riesco a capire il perché, anzi mi pare un autentico sacrilegio che un sacerdote si opponga a che qualcuno che si impegna a fare, un’opera di carità cristiana a favore dei poveri. Spero che sia l’età a provocare questo atteggiamento per me incomprensibile verso un confratello più giovane, zelante e pieno di entusiasmo. Anche se “Il Gazzettino” fa il mio nome, io non c’entro, sono soldato semplice e per di più in pensione. Confesso però che sento il bisogno e il dovere di “tirar fuori di nuovo la spada” e di andare sulle barricate se fosse necessario per difendere la causa dei poveri.

Cosa non è il don Vecchi

Una ventina di anni fa è sbocciata la moda delle assistenti sociali. Una scuola a Venezia ha cominciato a sfornare, a getto continuo, questa sorte di professioniste che avrebbero dovuto facilitare i rapporti fra dipendenti e classe dirigenti dei vari comparti della società. Questa scuola però è nata con un peccato originale, del quale è affetta, fin dalla sua nascita, pure la facoltà di psicologia e, un po’ meno, ma anche quella di psichiatria.

Ricordo che molti anni fa la responsabile dell’istituto veneziano che prepara le assistenti sociali mi diceva che si iscrivevano a quella scuola soprattutto quelle personalità fragili che avevano problematiche personali di ordine psicologico e, inconsciamente, pensavano di risolvere i propri problemi frequentando quella scuola. Insomma erano le meno adatte per il compito che le attendeva.

Inizialmente le industrie assunsero in maniera massiccia queste figure professionali, ma ben presto le eliminarono accorgendosi che complicavano le cose piuttosto che risolverle, mentre lo Stato e il parastato, che notoriamente hanno amministrazioni ferruginose, poco efficienti e sono sempre in sovraccarico di personale, sono rimasti la riserva di caccia di queste professioniste che, per la maggior parte, sono donne.

Le assistenti sociali del Comune stilano valutazioni di ordine psicologico, istruiscono progetti, per finire poi di affibbiare a qualche realtà che ha i piedi per terra, soggetti difficili da gestire.

Qualche settimana fa le assistenti del Comune hanno proposto al “don Vecchi” di accogliere una signora poco più che cinquantenne che da dieci anni vive all’asilo notturno perché ora sentiva il bisogno di avere un alloggio tutto suo.

Ho letto il profilo psicologico, la storia pregressa e il “progetto” stilato da queste assistenti per il suo inserimento. L’abbiamo accettata perché di certo è una povera creatura, sono certo però che queste operatrici sociali, una volta “risolto il caso”, non si faranno più vedere, come non riesco a capire perché in questi lunghi dieci anni non hanno aiutato questa creatura a trovarsi un lavoro col quale vivere.

Il “don Vecchi” è una struttura con delle finalità ben precise e credo che sarebbe veramente male permettere che diventi una specie di “rifugium peccatorum” che finirebbe per non fare niente bene.

Sarà opportuno perciò che queste operatrici sociali si spendano perché l’ente comunale, o anche le comunità cristiane, creino qualcosa di specifico perché ogni cittadino in difficoltà abbia la risposta che risponde ai suoi bisogni specifici, senza scompaginare realtà che sono state pensate per altre categorie di persone.

La vita al don Vecchi

Sto cominciando a conoscere i nuovi residenti del Centro don Vecchi di Campalto. Di primo acchito mi sembrano persone care, anche se ancora un po’ smarrite in un ambiente tanto grande, pieno di luce, con un salone immenso arredato con mobili antichi, tappeti, divani in ogni dove: un salone da zar di Russia.

Abbiamo accolto tutti col criterio che abbiamo scelto fin dall’inizio: i meno abbienti e i più bisognosi di un alloggio protetto. La signora Graziella, incaricata dell’accoglienza, certamente ha fatto loro, come le è stato chiesto, un discorso preciso e netto: “Non intendiamo essere un’agenzia immobiliare che affitta alloggi a costi stracciati, ma siamo della gente che sogna di offrire un alloggio dignitoso, alla portata anche di chi ha meno, e vogliamo costruire una comunità di gente che si aiuta e che tende a vivere una vita autenticamente cristiana”.

All’atto della firma del contratto, ognuno ha dichiarato e sottoscritto di condividere ed accettare le finalità con cui è stata data vita a questa struttura. Adesso però viene il bello: la conversione non è mai stata facile per nessuno, meno che meno anche quella di vivere correttamente e coerentemente al “don Vecchi”.

Io sono profondamente convinto che non bisogna imporre nulla a nessuno, però sono altrettanto convinto di pretendere correttezza, osservanza delle regole del buon vivere, pulizia, rispetto per l’ambiente, comportamento irreprensibile, rispetto per le persone e le cose, collaborazione e dignità. Non sarò mai disposto ad accettare gente che giri nei luoghi comuni in veste da camera, con comportamenti sguaiati o sia alticcia.

Non sarà mai che il “don Vecchi” possa assomigliare, anche lontanamente, ad una casa di riposo e, meno che meno, all’asilo notturno. Il “don Vecchi” dovrà diventare un piccolo borgo di gente civile che si attiene alle norme del buon vivere, che si rispetta, che si vuol bene, che è solidale e si sforza di diventare una buona comunità di figli di Dio.

Alla ricerca di un terreno per i nostri anziani

Nota della Redazione: questo articolo risale a fine gennaio. Fra quel tempo e oggi abbiamo visto il netto rifiuto di un quartiere di Mestre e il reperimento di un’area anche migliore.

L’assessore alle politiche sociali della Regione Veneto, in un incontro avuto al “don Vecchi”, ha lanciato la proposta di un “don Vecchi avanzato” per gli anziani in perdita di autonomia. La Regione darebbe un valido supporto al progetto con la concessione di un mutuo a tasso zero rimborsabile in 25 anni e con la promessa di un modesto contributo per fornire la cura della persona e dell’ambiente destinati ad anziani pur fragili, ma che possono vivere ancora una vita normale. Questi anziani non sarebbero così costretti alla “condanna” del ricovero in casa di riposo, dovendo anche pagare, come i condannati a morte in Cina, la pallottola con la quale sono soppressi (dove però, al posto del costo modesto di una pallottola pagherebbero quello ben più salato della retta mensile).

A sentire l’assessore della Regione, il procedimento doveva essere facile e veloce, probabilmente neppure lui conosceva bene il percorso di guerra a cui bisognava sottostare. La burocrazia italiana, alla quale si aggiunse quella europea, perché il “fondo di rotazione” che consente suddetto mutuo proviene da una fonte della Cee, ha preteso il suo costo in pratiche burocratiche. Comunque siamo giunti ad un esito positivo.

Ora però l’inghippo è rappresentato dall’infinita inerzia ed indecisione dell’amministrazione del nostro Comune, perché la superficie che la Fondazione dispone a Campalto è subordinata al passaggio della via Orlanda bis.

L’amministrazione ci ha proposto quindi una superficie alternativa, ma ha paura della scontata reazione dei soliti comitati o dei soliti protestatari che chiedono tanto, ma non sono disposti a dar nulla.

Io sono sempre irritato quando gli amministratori non sanno assumersi le proprie responsabilità e si lasciano condizionare dagli arroganti, dagli stupidi, dagli egoisti, dall’opinione pubblica. Comunque, essendo convinto che sarebbe un autentico sacrilegio e un peccato che grida vendetta a Dio se il Comune soltanto per pavidità non approfittasse di questa opportunità tanto favorevole, qualora non intervenisse in maniera tempestiva nel mettere a disposizione una superficie, “sparerò” a zero non solo sul mucchio, ma con un”fucile di precisione” sui responsabili ben identificabili, che hanno un nome e un cognome e che, per scelta spontanea, si sono offerti a perseguire il bene della città.