La linea del Piave

Nota della Redazione: questo articolo, come gli altri, risale ad un paio di mesi fa e fortunatamente nel frattempo il comune ci ha dato il terreno.

Quando si parla della grande guerra ci si riferisce all'”offensiva del Piave” come alla battaglia decisiva di quel tragico ed immane conflitto.

Mio padre, che a quel tempo abitava al Eraclea nel mio paese nativo, che è a ridosso della sponda sinistra del Piave, mi raccontava dei tentativi dei tedeschi di passare il fiume tentando in ogni maniera di buttare ponti di barche. Io sono suo figlio; quasi un secolo dopo mi pare non solamente di partecipare con trepidazione a questo evento, ma sento su di me la responsabilità di guidare un’altra battaglia importante, come il vecchio Cadorna. Se entro poco tempo non riusciamo ad ottenere la superficie per costruire il “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia, perdiamo il finanziamento della Regione, una opportunità che capita una volta nella vita.

Qualche giorno fa ho scritto al sindaco e alla compagine dei suoi assessori che sento il dovere sacrosanto di dar voce a chi non ha voce e che perciò adoprerò ogni mezzo lecito per sconfiggere la burocrazia dell’amministrazione comunale.

Spero che una volta tanto Orsoni esca dalla sua pace olimpica per prendere posizione ed aiutarci ad aiutarlo.

Terrò informati i miei amici pubblicando ogni settimana i bollettini della nostra guerra.

P.S. le mie minacce hanno raggiunto lo scopo: il Comune ci ha dato il terreno

Voce per chi non ha voce

Una volta tanto spero di essere totalmente fedele al Vangelo. In questi giorni ho grosse difficoltà col Comune perché la sua proverbiale inerzia rischia di farci perdere i duemilioniottocentomila euro di mutuo se entro fine di agosto non ci assegna il terreno per il “don Vecchi 5”.

Mi sono chiesto che cosa posso fare per non permettere che i vecchi poveri di Mestre perdano questa fortuna. La lettura del Vangelo mi ha fornito la risposta attraverso la parabola del giudice disonesto e la vedova che chiedeva giustizia. La vedova insistette tanto che il giudice si disse: “Anche se la sorte di quella donna non mi interessa punto, purché non mi scocci ulteriormente, l’ascolterò”.

“Signore ti ringrazio di questo insegnamento”, non lascerò passare settimana senza tirare il sindaco per la giacca. Spero che Orsoni non sia più iniquo del giudice della povera vedova. Comunque informerò i miei amici sulla validità dell’insegnamento di Gesù.

P.S. una volta tanto il Comune è arrivato in tempo!

L’arbusto del granello di senape

Nella vita, mi par di aver capito che bisogna avere il coraggio di gettare un seme, per quanto piccolo possa apparire.

Gesù è un buon maestro anche in questo settore, quando parla del “granellino di senapa” che è il più piccolo tra le sementi, ma una volta cresciuto, diventa un arbusto sui cui rami possono ripararsi gli uccelli dell’aria.

La stessa cosa è avvenuta per il “don Vecchi”. Gettato il seme, in pochi anni è cresciuto, quasi senza che nessuno se ne accorgesse, arrivando a 310 appartamentini, 400 ospiti, 250 volontari, il magazzino dei vestiti per i poveri con trentamila presenze l’anno, il Seniorrestaurant con i suoi volontari. Altrettanto il bar, il chiosco della frutta e verdura con 200 “clienti”, il magazzino dei mobili, dei supporti per gli infermi, il banco alimentare con i suoi 2500 assistiti, la Galleria San Valentino, ecc.

Da queste realtà un vero esercito di collaboratori offrono il loro tempo e lavoro, ma nel contempo hanno pure i loro vantaggi. La gente dice che “una mano lava l’altra”. Questa massima è valida anche da noi, motivo per cui i beneficiati dal “don Vecchi” non sono solamente i 400 anziani, ma l’indotto è dieci volte più numeroso.

Pronto alla guerra in difesa degli anziani in perdita di autonomia!

Il dieci agosto abbiamo presentato alla Regione il progetto definitivo per i sessanta alloggi per anziani in perdita di autosufficienza, progetto correlato da un documento che attesti che la Fondazione dispone di una superficie in cui collocare la nuova struttura, altrimenti la Regione non può erogare il mutuo di duemilioniottocentomila euro già stanziati per questa operazione.

Credo che molti concittadini conoscano la triste storia. Il Comune aveva promesso un’area contigua al “don Vecchi”, ma il parroco di san Pietro Orseolo, attraverso la “mano secolare” di un sedicente “comitato antiantenna” si è opposto perché il quartiere non sia privato di una porzione di un parco che attualmente è destinato ai “bisognini” dei cani.

L’amministrazione, impaurita, ha ritirato la promessa ed ha proposto una superficie alternativa nella zona degli Arzeroni, certamente più decentrata. Comunque la Fondazione ha accettato il cambio, anche se svantaggioso. Il guaio è che alcune fasce di terreno il Comune non le ha ancora acquisite e perciò, per dar corso all’atto d’obbligo, deve portare a termine una serie di operazioni la cui competenza è dell’assessorato al patrimonio.

Io, nel passato, ho avuto la sfortuna di avere a che fare con questi uffici e ne conosco purtroppo i tempi biblici. Siccome le settimane passano producendo solamente promesse ed assicurazioni verbali, mi sento costretto a mettere in moto “la meravigliosa macchina da guerra” per mobilitare l’opinione pubblica. E’ certo che in guerra valgono poco le bombe mirate, si finisce sempre per sparare sul mucchio.

Venezia, da cinquant’anni parla del nuovo stadio che non è ancora nato, del nuovo carcere che ha perduto, ora chiacchiera sul Fondaco dei tedeschi e finirà per perdere anche quello. Le capita la fortuna insperata dell’offerta della torre di Chardin e anche su questo progetto chiacchiera e tentenna. Non vorrei che capitasse la stessa fine anche alla nuova struttura pilota per gli anziani in perdita di autonomia.

Da oggi comincia la guerra, che sarà senza quartiere, verso un Comune che è esattamente l’opposto della Serenissima Repubblica. In questo caso prometto alla città che mi batterò fino all’ultimo sangue.

Se quando verrà pubblicata questa pagina del mio “diario” non avrò in mano documenti certi, comincerò col pubblicare la lettera già inviata al sindaco, ricordandogli che “uomo avvisato mezzo salvato!”.

La Messa festiva al don Vecchi di Campalto

Nota della Redazione: questo articolo è stato scritto diverse settimane fa. Da allora la situazione, almeno per quanto riguarda via Orlanda, si è sbloccata perché finalmente l’Anas ci ha dato il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso e l’uscita del centro don Vecchi di Campalto su via Orlanda. Al più presto inizieremo i lavori che saranno a carico quasi totalmente della Fondazione Carpinetum.

Ci pareva di aver finalmente risolto il problema della messa festiva per i residenti del Centro don Vecchi di Campalto, ma ora il problema è tornato in alto mare.

Tutti ormai sanno che il Centro don Vecchi di Campalto conta 64 appartamentini; essendo però alcuni destinati a coppie, i residenti risultano 70. La parrocchia di Campalto dista solamente settecento metri però via Orlanda, che è l’unica strada che porta in chiesa, è una “strada proibita” perché senza margini e con un traffico intenso e veloce, tanto che si contano, in questi ultimi anni, più di una decina di incidenti con dieci morti. L’unico modo per recarsi in centro per partecipare al precetto festivo è l’autobus, ma anche questo mezzo è assai pericoloso perché esige l’attraversamento di questa “strada maledetta”.

Tutti conoscono le vicende veramente tragicomiche per ottenere la messa in sicurezza, almeno per quanto riguarda l’autobus. Da quasi nove mesi stiamo aspettando il permesso dal Comune e dall’Anas e, al momento in cui sto scrivendo queste note, non è ancora arrivato.

Per grazia di Dio ci è arrivato dal cielo don Valentino, un prete anziano con tanti problemi ed ha cominciato a celebrare ogni domenica, tanto che s’era formata una piccola assemblea liturgica alla quale partecipava un terzo dei residenti. Purtroppo vecchiaia e malanni hanno costretto don Valentino in ospedale ed ora pare che debba andare al Nazaret.

Enrico, il diacono “ad honorem”, ha quindi ricominciato a celebrare la “messa secca” con la liturgia della parola e le preghiere, come avviene nelle comunità sperdute nelle savane africane.

I nostri vecchi pare però che non gradiscano simili surrogati al sacrificio di Cristo e disertano bellamente questi incontri religiosi, mentre sembra che la nuova comunità raccogliticcia avrebbe bisogno di prediche abbondanti!

Ora non ci resta che pregare perché il Signore mandi un nuovo operaio nella sua messe.

La lode a Dio dei giorni nostri è ben espressa dalla solidarietà

Dopo vent’anni di impegno per elaborare la dottrina che l’anziano ha diritto ad avere un alloggio tutto suo, che possa decidere liberamente sul tipo di vita che vuole condurre e che possa avere i mezzi economici sufficienti per gestire, senza mendicare dagli altri, la propria casa, mi pare di riscontrare che un po’ alla volta la città stia recependo questa dottrina e stia facendosi carico di questa esperienza pilota.

Imputo questo splendido e difficile risultato al fatto che le strutture dei quattro Centri don Vecchi presenti nel territorio danno credito e prova concreta a questa nuova filosofia nei riguardi della terza e quarta età.

Secondo elemento determinante credo provenga dal fatto che i giornali e le televisioni locali hanno costantemente informato positivamente sull’evolversi ed affermarsi di questa esperienza. “L’incontro” poi si è fatto carico e ragion d’essere della proposta portata avanti dalla Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi, esperienza innovativa e, per molti versi, pilota a livello nazionale.

L’informazione incalzante ha creato una nuova cultura ed una nuova coscienza riguardo la possibilità di offrire un vespero più dignitoso e gradito ai nostri vecchi.

Pensavo con soddisfazione a tutto questo quando, qualche tempo fa, sono stato invitato ad una conferenza stampa in Comune per lanciare l’iniziativa di donare ai Centri don Vecchi una vettura attrezzata per favorire il trasporto nei luoghi di cura ai nostri anziani.

Tutti i giornalisti, ma pure i rappresentanti politici, mostravano non solamente conoscenza, ma pure condivisione degli obiettivi portati avanti dalla Fondazione che gestisce i vari Centri esistenti in città.

Questa sensazione aveva cominciato ad affermarsi nel mio animo avendo constatato che la città manifestava conoscenza e consenso con una “pioggerella” lieve, ma consistente, di donazioni fatte nelle occasioni più disparate della vita dei concittadini.

Alla “pioggerella” ultimamente si sono aggiunte le eredità e le donazioni di notevole consistenza, tanto che hanno incoraggiato la Fondazione ad elaborare progetti veramente consistenti.

A me, prete, il fatto che la solidarietà abbia trovato uno sbocco così promettente, ha fatto sentire che “Il Regno” si sta affermando in maniera solida, anche se i riti sono spesso disertati, conscio dell’antica sentenza “Ubi caritas, ibi Deus”: dove cresce la solidarietà è sempre presente Dio! Oggi la lode a Dio è ben espressa dalla condivisione e dalla solidarietà.

La bellezza e la volgarità

Tutti dovrebbero sapere che al “don Vecchi” non esiste un arenile, né una spiaggia per prendere il sole. Eppure pare che certe ragazze e certe signore abbiano scambiato viale don Sturzo per il litorale di Jesolo o di Caorle e il “don Vecchi” per uno stabilimento balneare.

Il Centro offre un bel prato e dei vialetti solitari ove ognuno può sentirsi avvolto dalla natura e baciato dal sole, ma nulla più. I corridoi, pur pieni di quadri e di piante in fiore sono abbastanza austeri e gli abitanti del borgo assai attempati, per cui sarebbe quanto mai illusorio fare delle “conquiste”.

Eppure, nonostante questo, badanti giovani o meno giovani, figlie o nipoti, amiche e quant’altro, pare non resistano alla tentazione di assecondare la moda e di scoprirsi più del dovuto, tanto che mi sono sentito costretto a ricordarlo affiggendo all’entrata un avviso per ricordare a tutti che un pizzico di modestia non solo non nuoce, ma è necessaria e doverosa.

Più di una volta ho detto in queste mie riflessioni errabonde che considero la bellezza un dono di Dio. Anzi, ho parlato più volte della teologia della bellezza, ossia del bello come un riflesso luminoso che proviene direttamente dal Signore e ne è una splendida ed incantevole espressione. C’è stato perfino qualcuno che s’è meravigliato che pubblicassi di frequente ne “L’incontro” delle belle fotografie di donne. Lo facevo coscientemente e di proposito, perché convinto che ogni espressione di bellezza è garanzia e prova della bellezza di Dio. Altro però è la bellezza, altro è la volgarità, il cattivo gusto e, peggio ancora, la mancanza di rispetto verso se stessi e gli altri.

A me irritano quanto mai certi vestiti straccioni, volgari e di cattivo gusto perché sono convinto che il vestito dovrebbe rappresentare una cornice elegante e gentile che valorizza l’armonia del volto e del corpo della donna.  Viviamo però in un’età barbara per cui troppa gente poco intelligente e, meno ancora, libera, si lascia condizionare dalla moda e sporca?quell’ordine mirabile e stupendo col quale il Signore ha curato tutta la creazione.

Io sogno che al “don Vecchi” le donne che lo frequentano, dalle più giovani alle più anziane, siano tutte belle dentro e fuori, ma non riesco a permettere che qualcuna, di meno cervello, profani questo angolo di paradiso terrestre.

Il Comune deve mettere in sicurezza via Orlanda!

Spero che quando questa pagina vedrà la luce io avrò ricevuto la concessione per mettere in sicurezza l’uscita e l’ingresso del Centro don Vecchi di Campalto che ospita ottanta anziani.

Sono passati ormai otto mesi dai primi approcci con il Comune e con l’Anas per garantire che gli anziani del “don Vecchi” potessero uscire e rientrare al Centro senza incorrere in pericolo di morte. La pratica, nonostante le promesse ufficiali dell’assessore alla viabilità, avv. Ugo Bergamo, e dell’ingegnere responsabile dell’Anas, si sono impantanate nei relativi uffici senza che ci fossero spiragli di speranza.

Sennonché, per puro miracolo, non c’è scappato il morto. Una signora che era venuta a visitare sua madre al “don Vecchi”, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso che ha scaraventato la sua auto nel fosso riducendola ad un rottame.

L’incidente ha mosso le acque, tanto che mi arrivarono due o tre comunicazioni dall’Anas. Poi la pratica si insabbiò di nuovo. Sono passati ancora due mesi ed ogni volta che telefono pare che l’indomani arrivi il permesso. Però non arriva.

Mi pare di ritrovarmi dentro il racconto “Aspettando Godot”, l’attesa vana di una risoluzione.

Una volta che quegli enti mi dessero il permesso a mettere in sicurezza, a mie spese, la salita e la discesa dall’autobus, il problema non sarà ancora risolto perché i miei vecchi non potrebbero usare la bicicletta e le loro gambe per fare una spesa a Campalto, mancando una pista ciclopedonabile che permetta loro di uscire – come ha detto un’anziana residente – dalla loro “prigione” dorata, ma che comunque rimane prigione.

In questi ultimi giorni m’è venuta in mente una strategia imparata da un mio vecchio parrocchiano, Bepi Toldo, il quale, avendo tentato di farsi pubblicare una lettera dal “Gazzettino” e non riuscendoci, la rispedì per 87 volte, finché i redattori capitolarono!

Forte di questo esempio, non appena avrò il primo permesso, ho deciso che ogni settimana manderò al sindaco Orsoni, all’assessore Bergamo e a quello dei lavori pubblici una petizione per ottenere la pista ciclopedonabile. La cosa mi è resa meno dispendiosa perché ho scoperto che posso usare l’ufficio protocollo di via Ca’ Rossa per l’invio delle lettere senza pagare un soldo.

Terrò pure informati i ventimila lettori de “L’incontro” pubblicando anche per loro la richiesta, sperando che Bondi dimagrisca i quattromilaseicento dipendenti comunali per renderli più efficienti.

Una vecchia mania

Ormai da quasi una decina di anni vive con me al “don Vecchi” mia sorella Rachele nata, tra i sette figli dei nostri genitori, immediatamente dopo di me e quindi mi segue come età ad un paio di lunghezze.

Mio cognato Amedeo, compagno dei giochi d’infanzia, era un capomastro di impareggiabile bravura; sennonché, una ventina di anni fa, un ictus prima lo portò sull’orlo della fossa e poi, fortunatamente, si salvò, ma rimase fortemente condizionato.

Mia sorella e mio cognato, una volta sposati i quattro figli, erano rimasti terribilmente soli, tanto che a tutti in famiglia sembrò che al “don Vecchi” avrebbero trovato un alloggio alla portata della modestissima pensione e soprattutto “un borgo” in cui sarebbe stato facile intessere nuovi rapporti umani. E così fu. Amedeo visse tempi veramente sereni, concludendo un paio di anni fa la sua vita, circondato dall’affetto e dalla stima della nostra comunità.

Mia sorella invece, che ha ereditato dal babbo una facilità di intessere amicizie, ha un dialogo facile e piacevole con tutti ed una capacità di collaborare senza farsi condizionare dagli anni e dagli acciacchi. Ogni tanto mi capita di sorprenderla a raccontare fatti della nostra famiglia, episodi della nostra infanzia, incuriosendo le sue amiche con episodi che io, piuttosto riservato, ho sempre tenuto per me, non perché mi vergogni del mio passato più che modesto, ma perché sono piuttosto introverso e solitario: l’opposto di lei.

Credo che talvolta però aggiunga ai racconti qualcosa di suo, comunque queste evocazioni mi portano a galla sentimenti, abitudini e manie proprie della mia infanzia e spesso mi fanno comprendere che la personalità di quel bambino dai pantaloncini corti è rimasta viva tuttora, nonostante che una valanga di anni l’abbia ormai coperta.

Qualche giorno fa l’ho sentita raccontare, con una certa enfasi, e con la mimica di un’attrice provetta, la mia mania dell’ordine. Abitavamo in una casetta di campagna: da un lato c’era un fornello per la polenta, dall’altro il pollaio che mio padre sorvegliava col suo schioppo calibro 16, il giardinetto e il cortile. La mamma affidava a me, che ero il più grande, il compito di scoparlo ogni pomeriggio. Mi aiutavano qualche volta anche le mie sorelle. Io però ero incontentabile e maniaco: non solo pretendevo che fosse perfettamente pulito, ma esigevo che il cortile risultasse quasi un’opera d’arte, che le scopate fossero ordinate ed armoniose.

Son passati settant’anni, ma i Centri don Vecchi hanno la stessa impronta: non una pianta, una foglia, un quadro, una sedia, possono rimanere fuori dal loro posto!

Da grande, negli scritti di ascetica e di morale, ho imparato la giustificazione: “Conserva l’ordine e l’ordine ti salverà”. Mi pare che i residenti al “don Vecchi” “bongré o malgré” hanno imparato la lezione ed osservino anche loro le mie vecchie manie!

Certi “passaggi” sono davvero impegnativi

Venerdì scorso ho salutato Emma Busso, la signorina novantenne che ha vissuto i dieci anni più belli della sua vita al “don Vecchi”. Avendole dovuto affiancare una badante part-time, lei che è sempre vissuta poveramente, rammendando vestiti alle dipendenze di sua madre quanto mai autoritaria, s’è perfino illusa di essere “una signora” che aveva alle sue dipendenze una “serva” a cui poter comandare.

La signorina Emma me la sono portata in dote da Carpenedo, diventando per lei, che non aveva parenti, ma solamente qualche cognata con cui non aveva rapporti a causa del suo carattere un po’ scontroso e diffidente, sono diventato quasi l’unico, il suo unico punto di riferimento, ma anche l’amministratore delegato dei beni provenienti dalla sua pensione di 480 euro mensili!

Prima che partisse “per una cura speciale in clinica”, “le ragazze” l’avevano portata dal parrucchiere e le avevano messo il vestito migliore del suo guardaroba di vecchia sarta, tanto che prima che Bepi della San Vincenzo, confidente e autista di fiducia, l’accompagnasse nella “clinica specialistica” degli “Anni azzurri” di Quarto d’Altino, per rimetterla a nuovo, m’è parsa persino più bella. Confesso che ho avuto un attimo di commozione e di tenerezza.

Spero di averla messa in buone mani, avendola affidata a Bruno, il responsabile degli infermieri di quella casa di riposo e nostro caro amico e al parroco di Quarto d’Altino, che le aveva mandato una volontaria ad accoglierla.

Farò di tutto perché ci sia qualcuno che l’accompagni con affetto nell’ultimo tratto di strada, sperando poi che il Signore me la mandi buona, avendo firmato “come parente prossimo” un sacco di carte, con cui “l’azienda che commercia in vecchi” sia garantita da ogni rischio di qualsiasi genere.

Fortunatamente possiamo contare su tanti collaboratori motivati, intelligenti e generosi, ma trasferire dal “don Vecchi” ad una casa di riposo per non autosufficienti un nostro residente è “un’impresa impossibile”, per gli infiniti inghippi posti dall’una e dall’altra sponda.

Al pensiero che abbiamo almeno un’altra decina di residenti che dovrebbero fare questo “passaggio”, senza però il minimo impegno dei parenti, mi viene veramente da rabbrividire, ma la carità spicciola concreta, non quella soprannaturale o da prediche, purtroppo pretende tutto questo, anche se è molto più prosaica.

Chiedo scusa al Comune, alle assistenti sociali e ad una persona che abbiamo accolto

La Chiesa con tanta sapienza, prima che i cristiani si incontrino con Dio per l’Eucaristia, li invita a confessare le loro colpe non solo a Dio, ma anche ai fratelli. Il “Confiteor” infatti dice testualmente: “Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli, che ho molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”, e quindi il fedele è invitato a battersi il petto in segno di pentimento.

Alcuni mesi fa, proprio su questo diario, me la sono presa con certe assistenti sociali perché avevano fatto pressione affinché un’ospite dell’asilo notturno – luogo che oggi si denomina col titolo più civile “Casa dell’ospitalità”, ma il cui contenuto non cambia – fosse accolta al Centro don Vecchi di Campalto. La cosa non mi era andata giù più di tanto, anzi mi aveva irritato perché ero, e sono, convinto che ogni istituzione debba operare in maniera coerente e quindi non si riduca ad una specie di “rifugium peccatorum” valido per tutti. Semmai è opportuno creare altre strutture che diano risposte adeguate ad esigenze diverse. Col “don Vecchi” vogliamo aiutare gli anziani autosufficienti, quanto basta! Perciò non mi pareva giusto accogliere una persona che da una decina d’anni viveva con i senzatetto dell’asilo notturno e poi, perché le era venuto il ghiribizzo di avere un alloggio tutto per sé, dovessimo spalancarle le porte del “don Vecchi”.

Per affetto e per riconoscenza verso un funzionario del Comune, persona che stimo quanto mai per il suo impegno e per la sua collaborazione con il nostro ente, chiusi un occhio e, pur a malincuore, accettai questa persona perfino a condizioni di favore.

Il primo impatto è stato tutt’altro che felice e da qui è nata la mia contrarietà e la critica alle assistenti sociali, categoria di persone con alcune delle quali, in passato, avevo avuto più di un motivo per lamentarmi ed essere più che mai deluso. Di questa colpa ho preso coscienza quando, prima mi fu riferito, e poi ho avuto modo di verificare di persona, che questa persona s’era inserita bene, ha cominciato subito a mostrarsi disponibile, tanto che si comportava con l’attenzione e la premura come il “don Vecchi” fosse la sua casa e la sua famiglia. Questo inserimento, con esito così positivo, nonostante le premesse per nulla favorevoli, mi costringe a battermi il petto pubblicamente e a chiedere perdono a lei, alle assistenti sociali che si sono occupate del caso e al Comune, e mi induce a fare il proposito di trattare ogni creatura come persona unica ed irripetibile, non permettendomi più di pensare che perché uno vive in un certo luogo, debba avere tutte le caratteristiche proprie di quell’ambiente. Spero ora di ottenere il perdono.

L’incidente al don Vecchi 4: cosa aspetta il comune a mettere in sicurezza via Orlanda?

Ciò che da sei mesi temevamo è purtroppo puntualmente accaduto. Oggi (alcuni mesi fa, NdR), poco dopo mezzogiorno, la figlia di una residente al “don Vecchi” di Campalto, avendo visitato sua madre, mentre tentava di uscire dal Centro per immettersi in via Orlanda, è stata centrata da un furgone in fase di sorpasso e scaraventata nel fossato adiacente alla più famigerata e pericolosa strada della nostra città. L’auto su cui viaggiava la signora è stata ridotta ad un groviglio di lamiere e l’occupante, per puro miracolo, è stata tratta dall’abitacolo tutta malconcia ma, fortunatamente, ancora viva.

In un minuto sono arrivati i vigili urbani in gran numero, la Croce Rossa, il 118, i pompieri, il carro attrezzi, mentre i vecchi del Centro guardavano inorriditi e spaventati tutta questa gente trafficare convulsa, non sapendo che l’incidente riguardava proprio loro.

E’ dall’ottobre dello scorso anno, subito dopo aver inaugurato il nuovo Centro per anziani, il “don Vecchi 4”, che ospita 64 alloggi, con una popolazione di più di una settantina di anziani dell’età media di 80 anni, che mi sono accorto dell’estrema pericolosità dell’immissione su via Orlanda, unica via possibile per raggiungere qualsiasi altra meta per i residenti. Per questi anziani non è possibile andare in nessun luogo né a piedi né in bicicletta, ed anche l’uso dell’automobile, che pochi possiedono, è estremamente pericoloso.

Mi sono subito dato da fare: ho incontrato personalmente l’assessore alla viabilità del Comune di Venezia, avv. Ugo Bergamo; ho incontrato pure il capo compartimento dell’Anas, chiedendo una pista ciclopedonabile per raggiungere Campalto in sicurezza (500-600 metri di pista). Questi signori per ora hanno escluso questa soluzione per mancanza di soldi. Quindi si è concordata faticosamente una soluzione tampone provvisoria, una pista in sicurezza per usare l’autobus, addossandoci la maggior parte delle spese.

A tutt’oggi non abbiamo ancora ricevuto i necessari permessi. Per ottenere tutto ciò: 1) sono state raccolte 500 firme di residenti e dei loro famigliari; 2) ho mandato due lettere raccomandate con l’avvertimento che qualora fosse successo un incidente, avrei sporto denuncia contro i suddetti enti; 3) mi sono addossato il costo maggiore dell’operazione; 4) la stampa: “Il Gazzettino”, “La nuova Venezia”, “Gente veneta”, “Il Corriere del Veneto” sono intervenuti svariate volte denunciando il pericolo; 5) gli anziani mi hanno scritto: “Ci ha donato una prigione dorata, ma sempre di prigione si tratta”.

Ora è avvenuto l’incidente. Non so che cosa aspettino ancora!

Da aggiungere però che il 13 ottobre dell’anno scorso abbiamo affisso sull’edificio la scritta “Centro don Vecchi”. Il 14 ottobre, il giorno dopo, un agente dell’Anas ci ha intimato di oscurarla perché altrimenti avrebbe dovuto multarci. L’abbiamo coperta, abbiamo pagato la tassa e dopo tre mesi è giunto il permesso di esporre la scritta.

Volete la ciliegina? Oggi mi hanno riferito che all’Anas sono irritatissimi nei miei riguardi per la mia impertinenza nella richiesta. Questa è la burocrazia dei nostri enti pubblici!

L’avvio della progettazione del villaggio solidale

Finalmente, dopo un’attenta valutazione delle proposte e dei costi, il consiglio di amministrazione della Fondazione qualche settimana fa ha affidato allo studio di architettura di Paolo Mar e della figlia, come capofila, e di quello delle architette Cecchi e Casaril, come associate, la progettazione del plano volumetrico del “villaggio solidale degli Arzeroni” e del Centro don Vecchi 5, come progettisti e direttori dei lavori.

Avendo partecipato al consiglio per benevola concessione del presidente e dei consiglieri, che mi hanno voluto come “padre nobile” o “presidente emerito”, o come vecchio amico, ho chiesto la parola per precisare alcuni concetti che mi stanno particolarmente a cuore e dei quali credo opportuno che la cittadinanza sia a conoscenza.

Dissi all’architetto Mar, che conosco da cinquant’anni e che appartiene ad una famiglia a me particolarmente cara: «La Fondazione vi affida a livello formale e con atto ufficiale l’incarico, ritenendovi professionisti quanto mai validi, ma in realtà vi chiediamo di lasciarvi coinvolgere totalmente nella realizzazione di questo progetto di immensa valenza sociale, in questa nostra avventura solidale. Oltre che professionisti seri vi chiediamo di essere amici e cristiani che assolvono questo compito come un atto di amore verso la nostra città, la Chiesa mestrina e soprattutto verso i concittadini in disagio.

Secondo: vorrei che foste completamente consapevoli che la realizzazione di questo villaggio di accoglienza dei concittadini che versano in ogni tipo di difficoltà, deve qualificare a livello sociale la nostra città».

E aggiunsi inoltre che sia il villaggio che il “don Vecchi 5”, vorremmo che rappresentassero un progetto pilota, estremamente innovativo, che desse vita ad una sperimentazione che dovrà essere punto di riferimento nel settore dell’assistenza sociale e della terza età, come lo è stato il “don Vecchi”, per il quale perfino dal Giappone, oltre che da molte regioni d’Italia, sono venuti professionisti ed amministratori pubblici per avere motivo di confronto e di ispirazione.

E’ nell’animo della Fondazione non solamente creare una struttura di servizio, ma soprattutto aprire la strada per soluzioni innovative più avanzate e più rispondenti alle attese dei fratelli in difficoltà e in disagio.

Inspiegabili vergognosi ritardi per via Orlanda

Un giorno si e un altro si telefono all’architetto Zanetti, il tecnico che ha progettato il “don Vecchi” di Campalto, per sentire se sono arrivati i permessi per mettere in sicurezza l’entrata e l’uscita in via Orlanda per gli anziani del “don Vecchi 4”. Da sei mesi gli ottanta anziani che vi abitano rischiano la vita per il traffico forsennato di via Orlanda, checché oggi ne dicano i vari comitati di Campalto, che stranamente non vogliono più la via Orlanda bis perché sono tanto preoccupati che lo Stato spenda soldi.

E’ la prima volta nella mia vita che incontro degli italiani preoccupati che lo Stato non sperperi, tanto che sarei tentato di informare questi concittadini così zelanti, che io conosco ben altri motivi ed enti che sperperano inutilmente denaro pubblico, non lo faccio solamente perché non vorrei incorrere nello sdegno di altre categorie, oltre quella benemerita delle assistenti sociali.

L’avvocato Bergamo, assessore alla viabilità del Comune di Venezia, mi ha scritto anche oggi che ogni giorno sollecita l’Anas a dare i permessi prescritti. La cosa mi pare inverosimile perché il giorno dopo che abbiamo scoperto la scritta “Centro don Vecchi” è piombato un agente dell’Anas a intimarci di coprirla immediatamente, altrimenti ci avrebbe dato la multa. L’Anas quindi pare vada a corrente alterna.

Sono andato personalmente dall’assessore Bergamo e dal direttore dell’Anas, ambedue con estrema cortesia mi hanno dichiarato la loro disponibilità a fare quanto possibile per un intervento tampone che in qualche modo avrebbe messo in maggior sicurezza l’entrata e l’uscita in via Orlanda degli anziani del “don Vecchi”, ma chiedendo, con molta franchezza, che la Fondazione si assumesse il peso maggiore del costo, dato che ambedue gli enti non avevano assolutamente disponibilità finanziarie. Per la pista ciclopedonale che, sola, permetterà ai residenti di non rimanere rinchiusi in una prigione dorata – ma sempre di prigione si tratta – hanno rimandato la soluzione a tempi migliori.

Pur con amarezza, abbiamo accettato questa soluzione, ma passano settimane senza che nulla avvenga. Sapendo che dei vecchi mettono a repentaglio la loro vita, mi sto lambiccando il cervello su che cosa possa determinare questa lentezza burocratica, perché immagino si tratterà di mettere un timbro, di riempire un modulo o qualcosa del genere, cosa di due minuti al massimo.

Ho confidato all’architetto Zanetti che ero intenzionato a fare un esposto al Procuratore della Repubblica. Lui mi trattiene, forse perché con quella gente deve trattare ogni giorno.

Oggi il presidente Napolitano è preoccupato di salvarci dall’antipolitica, ma come si fa a non essere schifati di fronte a cose del genere?

“ladri da don Vecchi”

La notizia del furto della cassaforte del “don Vecchi” ha avuto una certa eco in città. Quella di questi “fratelli ladri” è stata veramente una vigliaccata che dovrebbe farli arrossire di fronte ai “colleghi” più seri.

Vive a Venezia il mitico cappellano degli alpini che partecipò alla tragica ritirata dell’Armir in Russia, don Gastone Barrecchia. Tornato fortunosamente a casa dal dramma della ritirata del Don, scosso nello spirito, questo giovane prete che s’era salvato solamente perché i suoi soldati l’amavano profondamente e l’avevano aiutato a rimanere aggrappato alla coda di un asino, ricevette dai superiori due compiti che essi ritenevano leggeri: fare il cappellano nelle carceri di Santa Maria Maggiore ed insegnare mistica a noi giovani chierici del seminario. Due compiti assai diversi ma che don Gastone, ora centenario, intelligente com’era e com’è, ha svolto egregiamente.

So che i carcerati gli vollero bene, noi seminaristi altrettanto, perché furbescamente lo facevamo slittare facilmente dall’insegnamento barboso, per lui e per noi, della mistica, ad intrattenerci, in maniera veramente interessante, sulla sua avventura nelle steppe innevate della Russia e sulla sua vita tra i galeotti.

Don Gastone ci raccontava che in carcere l’insulto peggiore e più infamante che un carcerato potesse fare ad un altro, era quello di apostrofarlo “ladro da chiesa!”. Il ladro da chiesa era l’ultima categoria, la più scadente nella categoria dei ladri. I carcerati di Santa Maria Maggiore forse non sapevano che rubare al “don Vecchi” è ancora più facile che rubare in chiesa e quindi più infamante.

Detto questo, mi piace spiegare agli amici che, tutto sommato, ci abbiamo anche “guadagnato” dal furto. Un signore di animo nobile e generoso, saputa la cosa, ci ha donato il giorno dopo un assegno di diecimila euro. Ora cinquemila ce li rimborsa l’assicurazione ed altri diecimila ce li ha donati il benefattore e quindi abbiamo non solo recuperato, ma guadagnato!

Avvertiamo quindi il “ladro da don Vecchi” che possiamo perdonargli più facilmente, e perciò dovrà regolarsi non più con noi, ma con nostro Signore.

Dato che ne abbiamo l’opportunità, lo informiamo che ora abbiamo deciso di non tener più soldi in casa, e quindi, se vorrà continuare a tentare di rubare al “don Vecchi”, dovrà accontentarsi di vecchie signore dagli ottanta in su. Non so se ne vale proprio la pena?