Operai al lavoro

C’è un passo della Bibbia che mi torna sovente alla mente quando incontro persone di buona volontà che si danno da fare per il prossimo o che semplicemente tentano di far bene il loro dovere: “Quanto sono belli i piedi degli operatori di pace!”.

Un paio di settimane fa ho fatto una capatina in quel degli Arzeroni per vedere come vanno i lavori per la costruzione del “don Vecchi 5”. La mattinata era umida e fredda per una nebbia insistente, eppure, una volta entrato nel cantiere, ebbi una bellissima impressione. Quando si trattò di costruire gli altri quattro Centri precedenti, un po’ perché ero più giovane e un po’ perché ero direttamente responsabile, visitavo molto più di frequente i relativi cantieri e mi interessavo direttamente dei problemi; ora, un po’ perché sono più lento, un po’ perché c’è qualcuno più giovane ed intraprendente che ha responsabilità dirette, vado più raramente nel cantiere e mi informo in maniera più sommaria.

Comunque, durante l’ultima visita, nonostante la giornata uggiosa, ebbi una bellissima impressione. Siccome s’è accelerato il tempo della consegna del manufatto, sono attualmente impegnati una trentina di operai tra muratori, idraulici, elettricisti, ferraioli. Il cantiere sembrava un formicaio quanto mai operoso: tutti con l’elmetto di plastica gialla, intenti al loro lavoro, diretti da un capomastro intelligente e quanto mai esperto. Penso che quando l’impresa è seria e il committente è responsabile e paga a tempo debito, l’efficienza si manifesti in una operosità veramente apprezzabile.

Questi operai mi hanno dato l’impressione di essere consci della fortuna di avere un lavoro remunerato, di essere guidati da persone responsabili e competenti e di costruire un qualcosa di valido a livello sociale, un qualcosa che dà loro una dignità ed una consapevolezza della validità del loro lavoro.

Quanta differenza tra questo stile operoso ed impegnato e quello dei dipendenti di certi enti pubblici che sembrano degli sbandati, annoiati e inconcludenti che aspettano che arrivi sera o la fine del mese.

Ho sentito che l’apparato burocratico di certi Stati, quali l’Austria, la Germania o la Francia, è preparato ed efficiente, cosa che non possiamo certo dire della nostra Italietta. Un mio amico, ora in Paradiso, era solito affermare che non solo molti dei dipendenti pubblici sono inconcludenti, ma col loro cattivo esempio rovinano anche gli altri. A Cacciari, all’inizio di uno dei suoi mandati a sindaco, dissi che se fosse solamente riuscito a rendere efficiente il Comune, sarebbe passato alla storia come un sindaco meritevole.

Temo che nonostante tutta la sua filosofia, sia stato ben lontano dall’esserci riuscito.

05.01.2014

Femminilità

Dice una massima popolare “Tanto tuonò che piovve!” L’arco della mia vita ha avuto inizio negli anni trenta del secolo scorso e, naturalmente, si avvia a conclusione all’inizio di questo terzo millennio; perciò ho assistito o, meglio ancora, ho partecipato alla fase cruciale e quasi conclusiva della emancipazione della donna.

Ho conosciuto le “donne della penombra” del secolo scorso, ho seguito il loro uscire tormentato dalla prigionia del bozzolo e il loro mettere le ali alla fine del novecento e quindi vedo con ebbrezza ed ammirazione la farfalla che oggi si alza bella e leggera sulla nostra società.

La donna di questi ultimi anni, dopo i sussulti disordinati e spesso sguaiati del femminismo di soltanto un decennio fa, è emersa a tutto campo nel mondo economico, professionale e soprattutto politico. Il fatto che la politica tenga banco sui giornali e nella televisione, ci ha dato modo di constatare, con una certa sorpresa – soprattutto per la gente della mia età – che il mondo rosa che un tempo era definito tale non so se per cavalleria o per compassione, è emerso e si è affermato in maniera quanto mai decisa. Ormai in tutti i partiti è emersa, quasi dal nulla, una fitta schiera di giovani donne intelligenti e preparate, se si eccettua qualche reperto del passato, quali la Bindi, la Camusso o la Finocchiaro che, pur non rinunciando all’avvenenza, sono diventate delle vere protagoniste della politica. Mi fa veramente piacere che nell’industria, nel commercio e nella politica sia arrivato questo soffio di leggiadria femminile che sta donando un contributo specifico delle risorse dell'”altra metà del mondo”.

Qualche giorno fa ho visitato il cantiere del “don Vecchi 5”, ove sta crescendo a vista d’occhio la nuova struttura che, in linea con i tempi, è stata progettata da tre “architette” giovani, avvenenti e quanto mai agguerrite a livello professionale: Giovanna Mar, Francesca Cecchi ed Anna Casaril. Non so se il fascino di queste giovani donne abbia influenzato anche questo prete, vecchio e perdipiù scapolo, ma sta di fatto che ho avvertito, nelle linee e nella struttura del fabbricato, un tocco di leggiadria che renderà di certo tanto più dolce e più caro l’abitarvi.

Ho avuto la sensazione che questa casa, destinata agli anziani più fragili, sarà non solamente adeguata alle loro particolari condizioni di vita, ma offrirà pure quel tocco di calore umano e di clima familiare che solamente quelle che un tempo erano chiamate “gli angeli del focolare” hanno sempre dato e ancora sanno dare, prima che per professionalità, per un istinto di natura.

Per gli altri Centri ho sempre deciso io l’arredamento; per questo, avverto che perlomeno dovrò chiedere un consiglio a queste donne, perché non strida con la poesia e l’amore che hanno dato volto alla loro “creatura”.

18.12.2013

La Despar

Nota della Redazione: l’accordo poi si è fatto e anzi in questi giorni s’è fatto il bis con la catena Cadoro.

E’ da tanto che non mi succede di aspettare con tanta trepidazione un incontro con i responsabili di una grandissima catena di supermercati di generi alimentari. Domani alle 12 i dirigenti della Despar mi hanno fissato un appuntamento presso il nuovissimo ipermercato che questa società ha appena aperto in via Paccagnella accanto all’Auchan.

Questo incontro ha radici – almeno per me che sono solito vivere di fretta – abbastanza lontane ed è nato dal conoscere la drammatica situazione sia di tantissimi concittadini di Mestre che di extracomunitari che sono partiti dai loro Paesi lontani sperando di incontrare da noi la Terra promessa o, forse più banalmente, l’America.

In questi giorni la stampa ci informa che la caduta anticipata della neve sui nostri monti ha fatto aprire in anticipo le piste e già una folla si sta precipitando a sciare. Le vetrine dei negozi, e soprattutto i banchi degli ipermercati, sono pieni di ogni ben di Dio. Per la città sfrecciano bellissime automobili di ogni marca. Le donne si sono adeguate alla nuova moda che me le fa sembrare “le gru” dalle gambe lunghe e sottili di Chichibio del Decamerone di Boccaccio.

Eppure, tra tanta opulenza, tanto lusso e tanto sperpero, c’è una frangia numerosa di persone che vive nell’angoscia e non sa più come tirare avanti. Al “don Vecchi” a me capita ogni giorno di vedere lo spettacolo esattamente opposto all’opulenza, ossia quello della miseria. Mentre l’Epulone della parabola evangelica gozzoviglia e veste di porpora, sui gradini della sua porta di casa Lazzaro aspetta le briciole che cadono dalla sua tavola. Ogni giorno mi capita di vedere la processione di uomini e donne di tutte le età che scendono nell’interrato del “don Vecchi” per risalire con la borsa o il sacchetto pieni di quello che i nostri magnifici volontari riescono con tanta fatica a reperire. Ogni settimana ben tremila poveri s’accontentano delle briciole del lusso e dello sperpero di chi ha soldi. Come vorrei che tanti potessero vedere quei volti tristi, mesti e rassegnati! Ora poi anche l’Europa dei ricchi ha chiuso la borsa e ha deciso di pensare solamente ai più ricchi, riducendo di due terzi gli aiuti.

Domani finalmente saprò se dopo cinque mesi di incontri e di solleciti la Despar ci concederà i generi alimentari non più commerciabili dei suoi ipermercati. Ho profonda riconoscenza verso i responsabili della Despar, perché mi par d’aver capito che questa operazione – che per i non addetti ai lavori può sembrare semplice – comporta invece difficoltà di organizzazione aziendale e sono cosciente che neanche per loro la cosa è stata facile.

Spero quindi di poter avere, prima di Natale, generi alimentari della Despar e che la sua scelta rompa finalmente il muro di gomma e di indifferenza che ha fatto dire al dirigente di un ipermercato cittadino che preferisce i soldi dei clienti alla richiesta del Papa di pensare ai fratelli in difficoltà.

06.12.2013

Solamente il privato sociale…

Mercoledì (a fine novembre, NdR) ho partecipato al consiglio di amministrazione della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi.

Don Gianni, il giovane presidente, e i consiglieri, mi usano la gradita attenzione di rendermi partecipe dei problemi di questo ente che pian piano sta imponendosi in città nel settore dell’assistenza sociale. La cosa mi fa piacere perché mi sono sempre interessato ai problemi che riguardano la solidarietà, però mi capita talvolta di lasciarmi coinvolgere in maniera viscerale dai problemi trattati, cosa che da un lato mi fa star male. Dall’altro lato talvolta arrischio di finire per esagerare nel portare avanti le soluzioni che io ritengo più giuste.

Il tema principale dell’ordine del giorno dell’incontro era quello della gestione del nuovo Centro dedicato agli anziani in perdita di autonomia. Un paio di anni fa l’assessore regionale Sernagiotto ci affidò il compito di approntare un progetto pilota per una soluzione più attenta alla dignità e all’autonomia dell’anziano in perdita di autonomia, che fosse pure meno onerosa per gli utenti e per la società. Accettammo di buon grado questa sfida.

Dopo infinite peripezie, abbiamo ottenuto un’area ottimale, abbiamo messo a punto il progetto ad hoc con tre giovani architetti intelligenti e sensibili a queste problematiche, tanto che ormai la struttura è al tetto e ad aprile, maggio, sarà pronta.

Purtroppo a questo punto salta fuori la solita burocrazia che vorrebbe imporci un organigramma e delle modalità di gestione che si rifanno ai vecchi schemi che – almeno io – giudico superati, onerosi ed accettabili solamente dall’ente pubblico, abituato a spendacchiare, o dalle aziende commerciali invece, tutte tese a guadagnare comunque.

A questo punto è nata la mia ribellione: “Lasciateci far da noi, controllateci pure, ma soltanto fra un paio d’anni formulate pure un giudizio e, solamente se troverete assolutamente positiva l’esperienza, assumetela come un modello sul quale far riferimento per l’assistenza di questa tipologia particolare di anziani.

Ho la convinzione assoluta che il “pubblico” debba rifarsi al cosiddetto “privato sociale” per le sperimentazioni che sono assolutamente necessarie per approntare norme e per concedere finanziamenti. Solamente il “privato sociale”, ossia quella realtà che ha forti motivazioni sociali e non persegue fini di lucro, può aprire strade nuove e proporre soluzioni più attente all’anziano e meno gravose economicamente sia per le famiglie che per la società.

Ma per carità, lasciateci le mani libere, non intromettetevi con richieste formali che nascono da una mentalità burocratica che non può avere per l’uomo quella passione che normalmente ha solamente chi è mosso da ideali e che, pur senza stipendio, è disposto a sacrificarsi per il bene del suo prossimo!

28.11.2013

Un’Italia da scoprire

La signora Mariuccia, la nota voce solista del “coro Santa Cecilia”, che anima tutte le feste l’Eucarestia al “don Vecchi” e nella “cattedrale fra i cipressi” e che inoltre si esibisce spesso, durante l’anno, nei vari Centri con dei programmi di musica lirica e romanze, ha convinto lo staff che organizza i “pomeriggi turistici” per i nostri anziani, di puntare, come meta dell’ultima uscita, su Arzerello, suo paese natìo.

Ho fatto fare una ricerca su Internet per avere qualche notizia su questo paese della nostra soprano. In verità ho trovato tanto poco: un paesino della bassa padovana, che in una minuscola frazione offre una chiesa denominata “del Cristo”. Le foto relative, del paese e di questo piccolo santuario, mi sono sembrate ben meschinelle, tanto che subito mi è venuto da pensare che avremmo fatto cilecca per questa uscita mensile che noi, con un po’ di retorica, chiamiamo “gita-pellegrinaggio”. Il fatto poi che i giorni precedenti ci avessero inflitto la coda del “ciclone Cleopatra”, che ha messo in ginocchio la Sardegna e che ci aveva offerto pioggia a volontà, mi avevano creato ancor maggiore apprensione e pessimismo.

Invece il buon Dio ci ha regalato una giornata primaverile, un cielo terso ed un sole proprio ammiccante ed affettuoso. Lungo il viaggio abbiamo potuto ammirare l’autunno nel suo fulgore, mentre tutta la catena del Grappa, ben visibile a motivo della pioggia che aveva ripulito l’atmosfera, ci ammoniva, con le sue cime innevate, che l’inverno è ormai alle porte.

Arrivammo verso le 15,30 al piccolo sagrato della Chiesa del Cristo, una chiesetta di campagna con una facciata insignificante. Ci accolse un signore in blue jeans che pensai fosse un contadino del posto, ma ben presto scoprii che era il parroco e “che parroco!”, ben cosciente della sua autorità! Prese in mano, fin da subito, la regia del nostro pellegrinaggio, spiegandoci alla buona la storia del santuario e del Cristo che vi era custodito. La storia risultò uno dei tanti racconti che, se non sono leggenda, di certo ne sono un parente prossimo. Quando ci permise di entrare, dopo il racconto-predica, scoprii subito che la cappella a destra, con il Cristo, era la parte antica alla quale, all’inizio del secolo scorso, avevano accostato una chiesa alquanto modesta ma ben curata ed accogliente.

La visione del Cristo, dipinto su tavola dal Donatello, o da qualcuno della sua scuola, da solo meritava veramente il viaggio: una splendida e dolce figura di squisita armonia e di calda umanità.

Poi, da anfitrione deciso, il parroco ci impose la recita del rosario ed una messa condita abbondantemente con canti vecchi e nuovi. Comunque ho notato che i miei vecchi hanno gradito quanto mai quella liturgia popolare e interventista e hanno seguito seriamente il rito ben più lungo, nonostante io abbia rinunciato, per motivi di tempo, al mio sermone sul dovere di cogliere la vita come un bel dono.

La seconda parte dell’uscita, con la consueta merenda – che per una persona un po’ parca basterebbe per colazione, pranzo e cena – s’è svolta nel bellissimo patronato della parrocchia vicina di Campagnola.

Penso che se avessimo portato la nostra allegra brigata di un centinaio di anziani del “don Vecchi” e di Mestre a Parigi o a Londra, non li avremmo fatti più felici!

Recentemente ho sentito che il petrolio è la ricchezza di una nazione e che noi italiani ne abbiamo giacimenti quasi infiniti: non di petrolio, ma delle nostre opere d’arte! Il guaio è che non sappiamo di averli e perciò siamo costretti a vivere da poveri.

23.11.2013

Sesto al Regana

Nelle stagioni buone, primavera ed autunno, è ormai diventata tradizione una uscita mensile in una qualche località del nostro Veneto raggiungibile facilmente e che offra qualcosa di interessante sia dal punto di vista paesaggistico che da quello storico o religioso. Queste uscite le definiamo “gite pellegrinaggi” perché tentiamo di coniugare l’utile col dilettevole, ossia sono l’occasione per chiacchierare piacevolmente lungo il viaggio di trasferta, per una celebrazione religiosa più intensa e preparata del solito, per una ricca merenda e per conoscere uno dei tantissimi angoli del nostro meraviglioso Paese.

Giovedì scorso, grazie all’intraprendenza e allo spirito di sacrificio che anima il piccolo staff che organizza le uscite mensili degli anziani del “don Vecchi” e di Mestre, siamo andati a visitare il piccolo borgo medioevale di Sesto al Regana ai confini della nostra provincia

Pranzo anticipato alle 12 e alle 14 partenza da Carpenedo, raccogliendo lungo il percorso i residenti del Centri di Campalto e di Marghera. Viaggio comodo in pullman extralusso attraverso la stupenda campagna veneta vestita dei toni caldi dell’autunno: il rosso, il giallo e il verde stanco per la lunga estate. Accoglienza da parte di una gentile e colta ragazza della comunità che ci ha illustrato la storia dell’antica abbazia benedettina che nel lontano passato dominava tutto il basso Friuli (fu un piacere ascoltarla perché aveva le movenze di un maestro d’orchestra ebbro di offrire le sue melodie).

Quindi la messa. La signora Laura ha letto il tema dell’eucarestia: il corpo umano e le sue membra, dono inestimabile di Dio. Don Armando ha tenuto la meditazione sull’argomento, poi la liturgia con gli anziani che hanno espresso la preghiera dei fedeli. Quindi la lunga fila dei cento “pellegrini” che si sono presentati a ricevere il pane consacrato.

A seguire, in una sala messa a disposizione del parroco, la meritata merenda: tre panini alla soppressa, al salame e al formaggio, il dolce e una banana offerta dall’associazione “La buona terra”, vino, bibite e acqua minerale. Infine la passeggiata lungo il fiume Reghena che scorre sornione attorno al borgo, piccolo ma ricco di edifici stupendi del quattro-cinquecento.

Alle 18 partenza per il ritorno. Costo dell’uscita: 10 euro, tutto compreso. Compreso perfino il buonumore e la cordialità. Credo che se avessimo organizzato un ritiro spirituale non avremmo ottenuto gli stessi effetti positivi.

Una volta ancora mi sono convinto che Gesù non è venuto perché vivessimo una spiritualità musona e mesta, ma perché “avessimo la gioia ed una gioia piena” e con un po’ di buona volontà e 10 euro la cosa è assolutamente ancora possibile. Informo i parroci di Mestre che sono disposto a cedere gratuitamente la ricetta.

21.10.2013

Le insidie della burocrazia

Mercoledì scorso, in occasione del consiglio di amministrazione della Fondazione che gestisce i Centri don Vecchi, il giovane presidente, don Gianni Antoniazzi, ha anticipato i propositi della burocrazia regionale circa la gestione del “don Vecchi 5”. L’abbozzo di progetto del funzionario preposto al settore mi ha fatto a dir poco imbestialire, constatando, ancora una volta, la protervia e il limite della burocrazia di qualsiasi ente pubblico.

Sento il bisogno di ritornare su discorsi già fatti per illustrare come si stia correndo il rischio di creare un altro carrozzone macchinoso superato ed in balia della burocrazia regionale. Come si ricorderà, l’assessore regionale alla sicurezza sociale, dottor Remo Sernagiotto, che stava inseguendo l’ipotesi di trovare una soluzione per quella zona grigia della terza età che sta tra l’autosufficienza e la non autosufficienza, avendo scoperto con sorpresa ed entusiasmo la realtà del “don Vecchi”, ha affidato alla Fondazione il compito di progettare e di porre in atto un’esperienza pilota per evitare di collocare nelle già intasate ed enormemente onerose strutture per non autosufficienti, gli anziani in perdita di autonomia fisica.

Il “don Vecchi”, forte della sua riuscita esperienza dei Centri, ha accettato questa nuova sfida. A questo scopo Sernagiotto ha messo a disposizione un milione e ottocentomila euro a tasso zero da restituire in venticinque anni. La Fondazione in questi due anni ha reperito una superficie di quasi trentamila metri quadrati, ha creato un progetto ad hoc e sta già costruendo 60 alloggi per anziani in perdita di autonomia con la dottrina collaudata che l’anziano rimanga “il padrone di casa” e che possa, pur con le sue povere risorse economiche, essere “autosufficiente” da un punto di vista finanziario e fisico.

Sennonché dalla relazione di don Gianni ho appreso che il solito funzionario della Regione proporrebbe di finanziare solamente quaranta alloggi, dei quali il settanta per cento sarebbero assegnati dalla ULSS e che non sarebbe più la Fondazione a vagliare le richieste e a decidere l’accoglimento; che il contributo per anziano sarebbe solamente di 22 euro al giorno ed infine che il finanziamento sarebbe erogato a mezzo della ULSS che è proverbialmente in ritardo con i pagamenti.

I patti non erano questi. Se fossero stati questi non saremmo neanche partiti. L’elaborazione e la sperimentazione era stata chiesta alla Fondazione da parte dell’assessore Sernagiotto. Se ora si volessero cambiare le carte a questo modo, a mio parere sarebbe opportuno rifiutare decisamente la proposta e partire per conto nostro, rifiutando ogni contributo regionale.

Siamo sempre alle solite: la burocrazia che si dimostra ancora una volta di corte vedute, di stampo statalista, incapace di innovazione, per nulla fiduciosa del privato sociale; il quale invece si dimostra sempre più agile, più economico e soprattutto più aderente alle attese degli anziani e delle loro famiglie.

19.10.2013

Il “don Vecchi celeste”

Questa mattina, assieme ad un gruppetto di famigliari ed uno un po’ più numeroso di residenti al Centro don Vecchi di Mestre, nell’umile chiesa tra i cipressi del nostro cimitero, abbiamo preso commiato da Gino.

Negli ultimi tempi questo caro amico, che per anni abbiamo visto nel nostro Centro accompagnare in ospedale la sorella ed assisterla con attenzione ed un amore veramente ammirevole, aveva un volto sempre più pallido e perdeva, a vista d’occhio, sempre più peso. La signora Cervellin, che per una vita ha lavorato tra i pazienti del nostro ospedale e che ora funge da consulente sanitario presso i nostri Centri, ha consigliato al nostro coinquilino, prima di fare degli accertamenti e poi il ricovero in ospedale. Il nostro amico, pur controvoglia, perché preoccupato dell’assistenza alla sorella con la quale ha lavorato e poi vissuto l’intera vita, aveva accettato e quando il chirurgo gli ha prospettato un intervento, ha detto subito di si per la preoccupazione di tornare presto a casa ad assistere questa sorella più anziana ed apparentemente più acciaccata di salute. L’intervento è stato tardivo ed inutile, tanto che in qualche giorno se n’è andato in pace.

Nell’omelia di commiato, pensando alla sua età e alla nostra – al “don Vecchi” infatti l’età media è di 84 anni – dissi ai presenti, come fanno gli alpini con i loro commilitoni che tornano alla Casa del Padre: «Gino è andato avanti!» per aggiungere subito «noi camminiamo però sulla stessa strada verso la stessa méta!».

Mentre pronunciavo queste parole, pensavo che ora per fortuna abbiamo un gruppo numeroso di “colleghi” pronti a darci il benvenuto quando arriveremo anche noi alla Casa del Padre: sono infatti più di cento i concittadini che dalla dimora del “don Vecchi” hanno traslocato lassù. Allora queste parole della pagina del Vangelo appena letto diventarono una immagine viva e sorridente: “Vado a prepararvi un posto, e quando ve lo avrò preparato, verrò a voi perché siate anche voi dove Io sono!”.

Se la nostra città è riuscita ad offrire una piccola dimora a mezzo migliaio di anziani in difficoltà – alloggio che tutti ci invidiano, e che stanno offrendo serenità ed una vecchiaia tranquilla – quanto più bella e gradevole sarà la dimora che Cristo ci ha preparato perché vi dimoriamo per l’eternità!

L’ultimo trasloco tra il Don Vecchi e la Casa del Padre sarà di certo un passaggio felice, migliore e pieno di piacevoli sorprese, tanto che sarà quanto mai opportuno che fin da subito facciamo la domanda per essere accolti. Per ora disponiamoci ad aspettare pazientemente, senza fretta.

29.09.2013

L’abito senza tasche

Un mio caro amico, che conosce il tedesco e, meglio ancora, la storia, i costumi, la tradizione di quel Paese, un giorno, parlando del rapporto col denaro, mi raccontò di una strana usanza del popolo tedesco. Non ho avuto modo di approfondire se ciò che mi disse fosse “una sentenza” o un detto popolare, o un’autentica usanza. Mi disse infatti: «Lei, don Armando, che ha come ministero principale il commiato ai concittadini che ci lasciano, sa come i tedeschi vestono i loro morti?». Pensai di primo acchito che gli mettessero o meno le scarpe nella bara, oppure avvolgessero la salma in un lenzuolo come assai raramente, ma talvolta, capita anche da noi (un po’ dappertutto c’è qualcosa di stravagante; io, ad esempio conoscevo un mio vecchio parrocchiano molto generoso – infatti mi lasciò in testamento svariati milioni di lire per i poveri – ma un po’ originale, che visse tutta la sua vecchiaia con la cassa da morto, con la quale l’avrebbero sepolto, sotto il suo letto).

Il mio amico, vedendo che non riuscivo a dargli una risposta esatta, mi disse che i tedeschi vestono i loro morti con un vestito privo di tasche. Al che rimasi più curioso di prima e allora lui, come mi raccontasse la cosa più saggia di questo mondo, mi informò che i tedeschi vestono così i loro morti perché essi non portano proprio nulla con sé quando vanno all’altro mondo.

Tante volte mi è venuto in mente questo discorso quando invito i miei concittadini che non hanno dei doveri diretti verso parenti prossimi, a ricordarsi, almeno nel testamento, delle persone che sono in grave disagio economico, specie se anziani, perché loro non hanno più la possibilità di un inserimento lavorativo. Comunque in città c’è sempre qualcuno – e magari fosse soltanto qualcuno – che, per i motivi più diversi, non riesce a sbarcare il lunario, mentre ci sono persone più fortunate, o forse più intraprendenti, che lasciano dei patrimoni grandi o piccoli che poi, alla fin fine, sono motivi di scontro e dissapori tra i pretendenti che in vita non li hanno quasi conosciuti.

In questi ultimi anni, grazie alle mie insistenze, e soprattutto alla testimonianza palpabile dei Centri don Vecchi, la Fondazione ha ricevuto più di un lascito. Però quanta più gente potrebbe ben meritare, di fronte a Dio e ai concittadini, se si ricordasse che vestendo per l’ultimo viaggio vestiti con o senza tasche, non può portare via assolutamente nulla se non la gratitudine del prossimo e i meriti presso Dio.

28.09.2013

Ad ognuno il suo

Talvolta mi capita di dover masticare amaro a causa di certe insinuazioni e talvolta pure di qualche giudizio malevolo che mi arriva da parte di alcuni colleghi o di qualche concittadino che ha poca fiducia nei preti. Il colmo l’ha raggiunto un giornalista de “Il Gazzettino” che, circa due anni fa, ha scritto che in città io sono noto come un affermato “palazzinaro”. In altra occasione c’è stato qualche altro che però, con più benevolenza, mi ha chiamato “l’imprenditore di Dio”.

Io so invece di essere solamente un povero diavolo che ha sempre tentato di aiutare il suo prossimo, come credo dovrebbe fare ogni cristiano e soprattutto ogni prete. Mi sono sempre arrabattato per aiutare i poveri. Forse questa sensibilità mi è arrivata dall’esser nato in una famiglia assai modesta, o forse dalle letture che ho fatto: non ho mai nascosto infatti che il mio punto di riferimento ideale, come prete, è stato don Mazzolari, sacerdote che nel nostro tempo credo sia stato uno dei più significativi testimoni in questo settore.

Devo anche dire, per onestà, che i discorsi sulla “carità”, come virtù soprannaturale, li ho sempre ritenuti “aria fritta”. Credo soprattutto alla solidarietà che diventa struttura o servizio, quella che sporca le mani e che si paga di tasca propria; quella che invece vola sopra le nubi la lascio ai mistici o, peggio, agli imbonitori.

Sono pure convinto che uno che vuol fare qualcosa di bene deve porsi un obiettivo ben definito e a quello deve tendere senza lasciarsi sviare da altri obiettivi più apprezzabili ed urgenti.

In questi ultimi vent’anni lo scopo di tutti i miei sforzi è stato il domicilio per gli anziani poveri e in disagio abitativo, ma non vi so dire quante e quali sono state le spinte per allargare il campo e per inserirvi situazioni e tipi di povertà diverse. Le assistenti sociali, i funzionari comunali o le persone dal cuore tenero, ma che non intendono sporcarsi le mani, spesso insistono per inserire nelle strutture che abbiamo pensato per questa categoria di persone, anche altri elementi che hanno fatto esperienze diverse e che sono andate a finire all’asilo notturno o che hanno girovagato da un alloggio all’altro lasciando “buchi” con i proprietari i quali hanno affittato la loro casa.

L’inserimento, spesso “sostanzialmente coatto”, di questi personaggi, è sempre stato un buco in acqua, mettendo a disagio i residenti per i quali abbiamo destinato i nostri attuali 315 alloggi protetti.

Io sono più che mai convinto che la società e la Chiesa debbano in qualche modo farsi carico anche dei senza fissa dimora per “vocazione”, per scelta o per la loro struttura mentale, però per questa gente si deve pensare a strutture che tengano conto di questa loro condizione esistenziale. Se ho ancora qualche anno di vita mi piacerebbe quanto mai tentare un’esperienza di questo genere, per ora però devo limitarmi alla nuova tipologia di alloggi per chi si trova in perdita di autonomia fisica.

26.09.2013

La scommessa

Ieri mattina (varie settimane fa, NdR, prima della messa, sono andato presso il futuro “Villaggio solidale degli Arzeroni” per visitare il cantiere, assieme al presidente della Fondazione, don Gianni, e al suo manager Andrea, per vedere come procedono i lavori.

Pensavo, quando Andrea mi invitò, che si trattasse solamente di vedere la distribuzione degli spazi, dato il fatto che io non riesco bene a leggere i disegni e ad immaginarmi come essi si traducano nella realtà delle pietre. Ma ben presto scoprii che c’era un motivo ulteriore. Andrea aveva invitato i responsabili del pool di imprese che stanno realizzando la struttura: una quindicina di specialisti – dai muratori al responsabile della sicurezza, dagli idraulici agli elettricisti, dai progettisti (che poi sono tutte donne) agli addetti ai pavimenti – per fare una proposta che mi ha fatto quanto mai felice. Proponeva di anticipare la consegna del manufatto ad aprile del prossimo anno piuttosto che a novembre come è previsto dal contratto, riconoscendo, ben s’intende, un’aggiunta al prezzo fissato per i maggiori oneri che questa anticipazione arreca ai costruttori.

Per me, che vedo il calendario che gira i giorni sempre più velocemente, la proposta non può che far piacere, perché mi piacerebbe vedere la conclusione del “don Vecchi 5” e l’inizio del “don Vecchi 6”, struttura che avrebbe una diversa destinazione, ma sempre di tipo sociale.

Quando vent’anni fa abbiamo progettato il primo “don Vecchi”, siamo partiti con estrema preoccupazione, scommettendo sulla validità del progetto, assolutamente innovativo sulla domiciliarità degli anziani di modestissime risorse economiche, mediante gli “alloggi protetti”, con spazi comuni per la socializzazione e costi economici alla portata di tutti, perfino di chi “gode” (in realtà poco) della pensione sociale. La scommessa è stata vinta, tanto che la nostra soluzione è diventata mosca cocchiera per tanti Comuni ed organizzazioni sociali.

In questi giorni abbiamo fatto una seconda sfida nei riguardi degli anziani poveri, ancora del tutto coscienti ma con disabilità fisiche più o meno gravi. Siamo ai primi passi di questa scommessa, e li stiamo giocando con oculatezza, ma pure con una certa preoccupazione. Sogniamo il vecchio che rimane il padrone di casa sua, potendo godere di un aiuto che la società gli assegna e con la presenza di persone che lo supporteranno con un sentimento di profonda e calda solidarietà.

Collaudata questa fase intermedia di uomini verso il tramonto, rimarrebbe la terza scommessa, alla quale altri hanno dato risposta, taluno per fare business e talaltro appoggiandosi all’apparato burocratico degli enti pubblici che tutti conoscono per la poca efficienza e per il costo elevato.

Per ora mettiamo questa sfida come obiettivo remoto, ma sarebbe esaltante poterla fare con il nostro stile e la nostra mentalità che è ben differente da quella degli operatori del settore. Chi vivrà vedrà!

20.09.2013

Delusione!

Oggi l’amministratore dei Centri don Vecchi mi ha informato che due giorni fa sono stati accreditati sul conto corrente della Fondazione Carpinetum ventiduemila euro provenienti dal cinque per mille. Sono rimasto di stucco essendomi impegnato fino all’ultimo sangue per conquistarmeli, tanto che nel piano di finanziamento del nuovo Centro per gli anziani in perdita di autonomia avevo assicurato all’amministrazione che potevano contare sull’entrata di almeno centomila euro.

Per tutto il 2012 e 2013, ogni settimana, ho fatto un inserto su “L’Incontro”, il nostro settimanale, per invitare accoratamente i lettori a destinare il cinque per mille alla Fondazione perché in questo momento ho particolarmente bisogno di liquidità. Affermai ogni volta che il pensare ai nostri anziani meno abbienti è un sacro dovere e soprattutto insistei che i cittadini possono verificare ogni giorno e senza fatica come vengono impegnate le loro elargizioni. Sarei tentato di dire, se non suonasse a vanteria, che nella nostra città non si possono trovare delle strutture d’ordine solidale così signorili, così attente alla dignità dell’uomo e soprattutto con rette così basse come quelle praticate al “don Vecchi”. Potremmo sfidare tranquillamente chiunque a dimostrarci che nell’Italia settentrionale riescono a trovare strutture simili alle nostre con rette inferiori.

Tante volte ho ribadito tutto questo ai lettori de “L’Incontro”, che pare siano ventimila; ora mi ha amareggiato il fatto che questa mole di lettori ci abbia voltato le spalle ed abbia preferito altre realtà, pur benefiche, però non al livello delle nostre.

L’amministratore mi ha riferito che quella cifra del cinque per mille riguardava probabilmente il 2011, quando la nostra richiesta non era stata tanto accorata e tanto assillante, quanto invece quella che ho fatto nel 2012 e nell’anno corrente; questo mi ha rappacificato un po’.

Temo che i mestrini non si siano ancora bene accorti che i Centri don Vecchi sono uno splendido fiore all’occhiello della nostra città e che per ottenere questi risultati bisogna che tutti concorrano con la destinazione del cinque per mille, perché questa soluzione la possono fare senza che nessuno “metta le mani nelle loro tasche!”.

22.08.2013

“Fa questo e vivrai”

Questa sera dovrò commentare il famoso brano del Vangelo che inizia con la domanda di un dottore della legge”, ossia di un laureato in diritto canonico: «Maestro, che cosa devo fare per guadagnare la vita eterna?». Gesù gli risponde con un’altra domanda: «Che cosa dice la Bibbia in proposito?», una domanda semplice. E questo risponde pronto: «Ama Dio ed ama il prossimo!» E aggiunge: «Ma chi è il mio prossimo?» Troppo complicato impegnarsi, darsi da fare per tutti, anche per gli extracomunitari, per chi s’è mangiato tutto, per chi gioca alle macchinette, per i barbanera, gli accattoni, per chi va a donne, per chi è vissuto come una cicala, ecc. ecc.

Per gli ebrei d’allora, ma anche per quelli di oggi, non appartenevano certo al “prossimo” i palestinesi, i “gentili” e – diciamolo pure – tutti quelli che sarebbe stato faticoso e impegnativo aiutare; allora come oggi ci si può dar da fare anche con qualche sacrificio, per un figlio, una persona cara e amica, ma non certamente per “chi non merita” e, per moltissimi, non merita niente e mai nessuno!

Gesù allora raccontò la parabola dell’uomo che scendeva da Gerusalemme a Gerico e s’imbatté in uno sconosciuto mezzo morto per strada… (Credo che i miei vecchi, ma non solo, ci hanno fatto l’orecchio a questo racconto e molti l’abbiano messo nella raccolta delle favole insieme a Pinocchio e Cappuccetto Rosso). Perciò ho reso attuale il racconto con personaggi veri e con episodi reali che tutti possono conoscere, basta che vadano al “don Vecchi” di Campalto; a volte poi forse questa è la storia di ognuno dei residenti ai Centri don Vecchi.

L’anno scorso una signora dei Frari, che ho incontrato nuovamente due giorni fa ai magazzini “San Martino”, venne da me e mi disse: «don Armando, due persone di una certa età da otto mesi dormono sotto il cavalcavia di Mestre; lui è in cassa integrazione, hanno perso la casa e si sono ridotti in questa situazione. Cosa possiamo fare per loro?». Prima lei e poi io avremmo voluto dire: “Che cosa c’entro io?”, come nella parabola hanno detto il sacerdote e il levita. Così di certo se lo sono detto decine e decine di persone che di certo sono venuti a conoscere questo fatto.

Questa signora sicuramente non sarebbe stata capace di fare da sola “il miracolo” perché solo un miracolo poteva risolvere una situazione del genere. Io rimasi turbato, non sapendo che pesci pigliare e lei allora aggiunse: «Sono andata a vederli, dormono per terra, con una coperta sotto e due sopra». Andai da Candiani, il direttore del Centro; la signora telefonò al frate parroco dei Frari, il quale stanziò duecento euro al mese; i volontari del magazzino dei mobili arredarono l’alloggio; quelli dei vestiti procurarono il resto. Così, in pieno inverno, questi due malcapitati trovarono caldo e ristoro. Ora il marito ha ripreso a lavorare e quindi vivono serenamente in maniera più che dignitosa. Nessuno della filiera di chi si è interessato avrebbe potuto risolvere da solo il problema, ma facendo ognuno quello che poteva fare, abbiamo ridato vita a queste due creature.

Concluderò la predica dicendo: «Nessuno di noi tenti mai di giustificare il suo egoismo dicendo `che cosa ci posso fare?’, se non altro perché, se tanti altri concittadini si fossero comportati così, neppure noi abiteremmo in questo Centro».

14.07.2013

Gli artisti del “don Vecchi”

Nel pomeriggio sono andato al “don Vecchi” di Marghera perché c’era la “vernice” di un pittore di casa nostra: Vittorio Massignani, residente al “don Vecchi” di Campalto.

Nei Centri don Vecchi vivono almeno due pittori: uno, celebre, Odino Guarnieri, collega di Emilio Vedova, artista da tutta la vita, pittore astratto del quale Orler, il gallerista, presenta ogni settimana alla televisione le opere (inavvicinabili per noi poveri mortali per il loro costo).

Il nostro “maestro” è una carissima persona, con la sua barba bianca e il suo bastone che porta alla Charlie Chaplin, amico affettuoso ma che, nonostante i miei ammiccamenti, non se l’è mai sentita di esporre alla “San Valentino”, la galleria dei principianti! Comunque il nostro rapporto è quanto mai cordiale, tanto che ogni tanto mi regala qualche suo “pezzo”, pur non perdonandomi la mia “bestemmia” artistica d’aver definito, per celia, “scarabissi” i quadri astratti.

Solamente un paio di settimane fa sono venuto a sapere che a Campalto abbiamo un altro pittore. La sua storia è ben diversa. Pur essendo stato portato, fin dall’infanzia al disegno, dovette abbandonare il suo sogno per fare, molto più prosaicamente e per tutta la vita l’imbianchino assieme a suo padre.

La Mariolina, pure lei ospite del “don Vecchi”, che da sempre ha la vocazione di valorizzare gli operai e che si sente difensore degli “sfruttati”, m’ha informato che questo suo coinquilino dipingeva nel chiuso del suo appartamentino e i suoi quadri non erano mica male.

In quattro e quattr’otto abbiamo organizzato una “personale” al pittore appena scoperto. La dottoressa Cinzia Antonello, direttrice artistica della galleria, gli ha preparato una critica con i fiocchi, i nostri tipografi le locandine e i dépliant di sala, le signore il rinfresco, la figlia ne ha fatto la biografia. Tant’è che ne è venuta fuori una “vernice” di tutto rispetto, tanto che il nostro artista, ora confuso e commosso così da non riuscire a biascicare neppure una parola, però era nel contempo al settimo cielo.

Vollero che anch’io prendessi la parola. Mi rifeci per istinto ad un bellissimo film di Frank Capra, “La vita è meravigliosa”, ove il protagonista riesce a riunire in una casa personaggi di ogni genere, e dove ognuno può occuparsi del proprio hobby.

Quanto sarebbe bella la vita e il mondo se ogni uomo potesse avere uno spazio ed un tempo per fare quello che più gli piace fare. Non credo che riuscirò a dar vita ad una struttura del genere, ma oggi, almeno per il nostro artista pittore, è stato così e il suo “San Marco” che ci ha regalato, anche se copiato da una cartolina, farà al “don Vecchi 5” la sua bella figura, assieme ad un altro centinaio di opere già raccolte.

30.05.2013

Un “sacrilegio” senza reazioni di sorta

Qualche giorno fa ho letto su “Gente Veneta”, il settimanale del patriarcato di Venezia, un servizio intelligente, puntuale e, perché no?, tragico su quanto va buttato dagli ipermercati, dalle botteghe, dai ristoranti e dai centri cottura e distribuzione alimentare della nostra città.

Siccome sono particolarmente sensibile a questo problema che spesso è denunciato dalla stampa cattolica, ogni volta che vedo un titolo su questo argomento leggo con avidità l’articolo e provo rabbia. Questa volta la reazione è stata ancora più forte perché lo spreco denunciato non avviene in America, ma proprio a casa nostra.

Io credo d’aver fatto quanto era nelle mie possibilità per ottenere quello che avviene in tante altre città, però confesso di sentirmi sconfitto; tanto che mi sono ormai arreso senza condizioni.

Su questo argomento la storia è stata lunga e quanto mai tormentata. Sto mendicando un aiuto dall’assessore della sicurezza sociale del Comune di Venezia almeno da quindici, venti anni, da quando ho aperto la “bottega solidale” per la distribuzione dei generi alimentari per i poveri. Avendo letto poi quanto si è fatto a Bologna prima, ma poi a Milano, Verona, Vicenza, non c’è stato amministrazione comunale di Venezia che si sia succeduta in questo tempo a cui non abbia bussato la porta, perché il problema rimane sempre quello: le catene della distribuzione sono disponibili a concedere i viveri in scadenza solamente a patto che il Comune sia disponibile ad abbattere, almeno per un po’, la tassazione sui rifiuti.

Le società, per organizzare lo smaltimento dei generi in scadenza, devono sopportare un costo e, secondo la logica ferrea delle leggi di mercato, non sono disposte a sopportarlo se non lo recuperano con lo smaltimento dei rifiuti.

Con l’assessore Giuseppe Bortolussi pareva che questo processo si stesse avviando, senonché con l’assessore che gli è succeduto, il dottor Sandro Simionato, tutto s’è bloccato nonostante le mie suppliche. E si che costui è del PD, partito che a differenza del reazionario Berlusconi, afferma di essere aperto socialmente!

A questa insensibilità comunale si aggiunge quella della Caritas diocesana che dovrebbe essere l’organo che promuove la solidarietà nella Chiesa veneziana e che dovrebbe muoversi in questo settore come il rappresentante del Patriarca il quale, nella Chiesa, si dice sia il presidente della carità, ma che su questo fronte pare che essa sia assolutamente assente!

Al “don Vecchi” si aiutano quasi 3000 persone la settimana, però se ci fosse una qualche collaborazione da parte del Comune e della curia, potremmo fare cento volte di più.