E’ meglio leggere “L’Incontro”!

Una mattina sfogliando “Il Gazzettino”, mi è venuto in mente quanto mi raccomandava il mio vecchio cappellano, don Nardino Mazzardis, ai tempi di quando frequentavo la sezione degli aspiranti dell’Azione Cattolica.

Il vecchio cappellano, che noi ragazzi amavamo e seguivamo fedelmente, ci raccomandava di prendere e leggere “Il Vittorioso”, giornale che si rifaceva ai sani principi e non “L’Avventuroso” che spesso aveva trame violente e le sue donnine erano abbastanza discinte. Don Nardino affermava che se uno mette nei cassetti della sua memoria immagini poco morali e storie violente, avrebbe terminato per convincersi che il mondo era fatto così e che quella era la vita!

“Il Gazzettino” non è certamente un giornale licenzioso, ma spesso indulge anch’esso fin troppo con la cronaca nera.

Quella mattina la pagina 7 era totalmente occupata da articoli, più o meno lunghi, che aveva questi titoli: “Accoltella il convivente e poi uccide la sua bambina” questo era il piatto forte, ma il seguito non era da meno: “Tredicenne denudato e filmato da tre bulli che poi lo ricattano”. Poi sempre con molta evidenza “Le mette un limone in bocca e tenta di sgozzare la moglie”. A mezza pagina un altro titolo a cinque colonne: “Parmigiano avariato, sequestrate 2000 forme; nel magazzino c’erano anche topi morti”. Non poteva mancare anche il sesso: “Il marito prende il Viagra e lei chiama la polizia”, e per finire, più in piccolo: “Condannato a sei mesi il portavoce dei Cobas del latte”, “Il P.M. chiede l’ergastolo per l’assassino di Roverara”.

Queste constatazioni ci aiutano a spingere con convinzione a leggere “L’incontro”!

Ancora sul libro del Cardinal Martini

Ho sempre avuto paura di avventurarmi in terreni e luoghi sconosciuti.

Ho l’impressione, quando intraprendo sentieri che non ho battuto precedentemente, che mi manchi il terreno sotto i piedi, o peggio ancora, di incappare nelle sabbie mobili col pericolo di essere inghiottito.

Provo questo sentimento sia quando mi metto in viaggio per visitare una città che non conosco, ma anche quando comincio a leggere un volume che affronta problemi di ordine religioso o morali e dando loro soluzioni diverse da quelle che mi sono state prospettate dai miei maestri di un tempo.

Sto provando questi sentimenti con la lettura dell’ultimo volume scritto dall’anziano ed ammalato arcivescovo emerito di Milano il Cardinal Martini.

In genere, quando ho superato questo istintivo timore iniziale ed ho elaborato i messaggi, finisco per averne un notevole arricchimento interiore e normalmente utilizzo poi al massimo le proposte ideali che scaturiscono da questa esperienza.

Rifacendomi ancora una volta alla lettura dell’ultimo volume del Cardinal Martini, edito recentemente da Mondadori, dopo un po’ di smarrimento iniziale per lo stile dimesso, per la sua ricerca apparentemente un po’ dubbiosa e smarrita, tanto diversa da quella delle sue omelie fatte sulla cattedra di Sant’Ambrogio con la mitria in testa ed il pastorale tenuto ben stretto in mano, sto scoprendo un mondo profondo, intenso e tanto bello. Suggerimenti dati con estrema umiltà, riflessioni discrete, tanto che sembrano più richieste che offerte, mi aprono il cuore alla stima, al rispetto, alla fiducia e all’amore.

Quanto mi ha sorpreso e poi stupito e riempito di aria pulita e di luce una sua espressione: “Di certo non possiamo pretendere che Dio sia il Dio cattolico” mi è parso che il vecchio Cardinale, finalmente libero per la sua età e per il male incombente dia pieno respiro al suo pensiero e lo offra con discrezione e con convinzione ai fratelli di fede e di ricerca.

Lode al Cardinale Martini per “Conversazioni notturne a Gerusalemme”

Pur apprezzando la teologia come scienza nobile che studia in maniera specifica l’esistenza, la natura e le opere di Dio, in verità mi hanno sempre un po’ disturbato i teologi, specie quelli di mezza tacca, che sono poi la stragrande maggioranza, che pare siano i confidenti o peggio ancora i consiglieri ascoltati di Dio. Dicono, ma io non ne ho alcuna motivazione convincente, che, ad esempio, un sacerdote, per essere nominato Vescovo, debba essere un laureato in teologia, in patristica, in sacra scrittura, in morale o per lo meno abbia un altro titolo accademico, dimenticando costoro che Cristo scelse i suoi discepoli non poggiandosi sulla scienza sacra che essi possedevano, ma sulla fede e soprattutto sull’amore che essi dimostravano.

Anche oggi fanno del gran bene nella chiesa gli uomini di fede, i cristiani che amano, non quelli che scrivono trattati e sembrano dei “vicedio” che san tutto, non hanno dubbi, perplessità sui problemi non risolti.

Le persone di chiesa che pontificano destano nel mio animo più compatimento che ammirazione.

Avevo sempre stimato il Cardinale Martini come un grande biblista, uomo sicuro, tranquillo nella verità di fede, mentre ora me lo ritrovo, nell’ultimo suo libro “Conversazioni notturne a Gerusalemme” come “Vescovo in pigiama” incerto, titubante, perplesso o comunque in ricerca, non uomo da pontificali, ma un umile ricercatore della verità e delle soluzioni religiose valide quasi indifeso di fronte al mistero della vita e della morte.

Confesso che, dopo un primo sentimento di meraviglia e di sorpresa, la lettura dei pensieri del Cardinale, questi mi piace più così. Lo trovo più umano più onesto più vicino alla mia povertà interiore!

“Chi ha lavorato, si è sacrificato per me?”

Forse la genesi della pulsione interiore che oggi ho provato visitando, come faccio quasi tutti i giorni, i magazzini S. Martino gestiti dai volontari dell’associazione “Vestire gli ignudi” mi è stata provocata da una lontana lettura di un carnet di un giovane francese, fatta molti anni fa.

Scriveva nel suo diario questo giovane ventenne: “Oggi sono stato attratto da un manifesto che reclamizzava l’ultimo film di una famosa attrice: i capelli platinati, gli occhi vivi e penetranti l’armonia del suo corpo, mi hanno dato l’impressione di grande armonia e di splendida bellezza. Quanti spettatori godranno al buio delle sale cinematografiche della bellezza sovrana di questa donna? Però quanto pochi penseranno che sotto quello splendore c’è la vita di una donna con i suoi drammi interiori, i suoi sogni e i suoi dolori?

D’istinto ho sentito il bisogno di entrare in una chiesa, per ringraziare Dio di aver donato questa meravigliosa creatura e per pregare per lei perchè l’aiuti nelle sue difficoltà e nei suoi drammi.

Di fronte alle stive di indumenti, gonne, pantaloni, giacche, foulard, ho cominciato a riflettere, certamente in maniera meno romantica e poetica del giovane francese, ma altrettanto sentita: “Da dove arriva tutto questo ben di Dio? Chi l’ha cucita? Com’è stato pagato? Come ricambia di questo lavoro la gente che indosserà questi panni? Come riconosce la gente la fatica, i sacrifici, di uomini e donne dell’India, della Cina o di qualche altro paese dell’Estremo Oriente, che per pochi scellini hanno lavorato giorno e notte perché io e tanti altri in Occidente stessimo al caldo o avessimo un abito elegante?

Anch’io per la prima volta ho guardato il maglione caldo, il vestito soffice ed ho cominciato a domandarmi: “Chi ha lavorato, si è sacrificato per me?” Sentendomi in colpa per non aver mai pensato a lui, non averlo idealmente ringraziato, infine ho sentito anch’io il bisogno di mandare al mio benefattore ignoto dell’Estremo Oriente almeno una preghiera.

Ma può essere proprio vero?

Ho scritto al Sindaco domandandogli se è vero quello che ha scritto il Gazzettino; cioè che il Comune di Centro Sinistra non vuole che la Regione di Centro Destra appaia troppo brava agli occhi dell’opinione pubblica, per la costruzione dell’ospedale dell’Angelo e per il passante ed ora anche per il Samaritano, ma che lo stesso comune ha dimenticato per circa un anno in un cassetto tra le sue scartoffie il progetto del Samaritano con cui vuol fare bella figura alle prossime elezioni comunali!

Credo che un giornalista, polemico fin che si vuole qual è il dottor Maurizio Danese, autore dei due articoli, non possa aver scritto quello che ha scritto senza prima documentarsi.

Le cose due anni fa sono andate così: il Comune mi concedeva a titolo gratuito 5000 metri di terreno vicino all’ospedale e noi avremmo costruito “Il Samaritano”, una struttura di accoglienza per i familiari di ammalati di altre province e regioni.

La cosa pareva fatta. Era d’accordo l’urbanistica, l’immobiliare del Comune e soprattutto il Sindaco. Se non che una giornata di luglio del 2007 mi raggiunse una telefonata del Sindaco che mi disse: “Le dispiace, don Armando, se il Samaritano lo costruisce il dottor Padovan della ULSS e poi lo concede gratuitamente alla sua fondazione per gestirlo?” Non potei naturalmente dirgli di no!

Pareva d’accordo il Comune, che intascava i soldi per la vendita della terra, soldi che io non gli avrei dato, d’accordo la Regione che sborsava i soldi e la ULSS che avrebbe sistemato tuta l’area prospiciente l’ospedale.

Senonchè viene fuori la notizia bomba del dottor Dianese che afferma che il Comune, che pare non abbia un soldo almeno da quello che si dice sui giornali, e per gelosia si accolla i due milioni di euro occorrenti, ma poi finisce di dimenticarsi in un cassetto il progetto già preparato dell’immobiliare di Venezia.

Che dire di tutto questo?
Stupore, meraviglia, indignazione, denuncia sono tutti termini tanto poveri per inquadrare un fatto del genere!

Sempre più spesso penso che sia solamente un brutto sogno, o peggio, un incubo notturno!

Per gli artigiani non c’è ormai più un domani

Mio fratello ha ereditato la piccola falegnameria in cui mio padre ha lavorato fino alla mattina in cui è morto, sulla scia del nonno che aveva lavorato a sua volta tutta la vita come carraio.

Mio fratello, lavorando sodo e aiutato da mia cognata che non si è mai vergognata di scendere in bottega per dargli una mano, ha cresciuto quattro figli facendoli tutti laureare.

Purtroppo nessuno di questi figli, avendo conosciuto direttamente quanti sacrifici deve affrontare un piccolo artigiano, l’ha seguito ma essi hanno preso strade diverse diventando dei bravi professionisti.

La bottega prima o poi è destinata a chiudere perché il tempo passa per tutti, anche per gli artigiani i cui capelli sono diventati grigi e bianchi tra i trucioli e la segatura.

Mio fratello non ama parlare di questo argomento, è troppo innamorato del suo lavoro e delle soddisfazioni che esso gli procura anche se diventa sempre più difficile ricavarne un guadagno adeguato sia per la concorrenza delle grosse industrie specializzate, che per la ragnatela di norme e di leggi fiscali, per cui un artigiano dovrebbe avere alle spalle, giorno e notte, un commercialista.

Per gli artigiani non c’è ormai più un domani, lo Stato li tratta fiscalmente peggio della Fiat e la società non gli fornisce più garzoni. Oggi questo tipo di lavoratore rinuncia alle vacanze, trema per il poco o il troppo lavoro,  preoccupato per i clienti che tentano di non pagare e le cui giornate non sono segnate neppure dall’alba e dal tramonto!

Ora poi una banale caduta lo costringe all’inerzia per almeno tre mesi per una frattura al piede.

In questi giorni ho pensato tanto spesso a mio fratello artigiano e alla sua piccola azienda, in cui ho lavorato anch’io durante le vacanze, che ha dato alla sua famiglia ed ha offerto alla società quattro figli con laurea.

Temo che presto diventerà una di quelle migliaia e migliaia di aziende che chiudono per la crisi finanziaria che ha investito anche l’Italia.

Sarà comunque una sconfitta per tutti, se si rompe una cerniera dovremo acquistare un nuovo balcone, ma soprattutto il Paese perderà una categoria di persone industriose, competenti, amanti del lavoro che nonostante la persecuzione dello Stato hanno costruito ricchezza e buon gusto!

La voglia di lavorare che non c’è

Al don Vecchi riusciamo a mantenere rette assolutamente imbattibili curando una gestione particolarmente parsimoniosa, anche negli aspetti più marginali dell’economia di questo complesso che ospita 230 residenti.

Una volta o l’altra credo che sarà opportuno pubblicare i costi di alloggio di tipologia diversa con la speranza, o più giustamente, l’illusione di calmierare i prezzi di strutture simili alla nostra.

Ad esempio per tutto ottobre e novembre, tutto il parco è stato rallegrato dai crisantemi di ogni foggia e di ogni colore. Il segreto di simile ricchezza floreale è però molto semplice; a novembre e dicembre dello scorso anno ho raccolto pazientemente le piante di crisantemo che la gente ha buttato nei cassonetti del cimitero, perché sfiorite. Due uomini le hanno piantate con poca speranza che sopravvivessero al gelo, ma forse solo per accontentare questo vecchio prete ostinato. I crisantemi invece sono sopravvissuti al gelo invernale e al caldo estivo e tutti i viali sono stati in fiore. Mentre i crisantemi stanno ormai sfiorendo dopo due mesi e più di magnificenza, già dei deliziosi fiorellini bianchi, che durano fino ad aprile inoltrato, sono già sbocciati. Una vecchia signora ha raccolto le sementi le ha piantate ed ora le tenere pianticelle sono pronte per la fioritura.

Ci sono però certi lavori un po’ più pesanti che i miei vecchi non hanno più forza di affrontare. Da mesi sto cercando invano qualcuno che voglia donarci qualche oretta dopo il lavoro con cui si guadagna da vivere; noi avremmo ricambiato il piacere certamente con qualche dono. Nonostante la crisi finanziaria da tutti temuta, pare che nessuno abbia voglia di fare un’opera buona o di arrotondare la pensione o la paga mensile.

L’Italia ha mille magagne ed è pressata da mille difficoltà, ma soprattutto pare abbia definitivamente perduto la voglia di lavorare e di far del bene e questo credo sia ancora più preoccupante del crollo dei titoli in banca!

Venezia è lontana

Uno dei miei limiti è certamente anche quello di non sapermi rassegnare a situazioni più grandi delle mie possibilità o per le quali io non ho potere per affrontarle.

Penso che dovrebbe essere pacifico che, qualora non abbia le risorse per affrontare un problema di ordine pastorale o non abbia l’autorità per potermene occupare, dovrei starmene in pace perché “nessuno è tenuto a risolvere le cose impossibili” come dice una sentenza dell’antica Roma,  perché dovrei rappacificarmi al pensiero che qualcuno ha già l’incarico di affrontare quel problema e se non l’affronta o tenta di risolverlo è colpa sua!

Invece no, mi struggo e perdo la pace al pensiero che ci sarebbero problemi pastorali che andrebbero affrontati con coraggio e con determinazione mentre spesso li vedi languire a lungo.

Il guaio che 54 anni di sacerdozio ed impegno in parrocchia mi hanno fornito una conoscenza tale per cui nasce istantanea una progettualità ogni volta che mi imbatto in qualche problematica del genere.

C’è certamente da dire che altro è progettare problemi a tavolino, altro è impegnare uomini, convincerli ad impegnarsi in soluzioni che non hanno prodotto loro, trovare talora mezzi economici adeguati e soprattutto avere a disposizione personale in un tempo in cui la coperta diventa sempre più corta, ed ognuno la tira dalla propria parte.

Ciò detto, rimane il fatto che Venezia è lontana, al di là del ponte, che nella città secolare tutto arriva ovattato e il tempo continua ad essere segnato più dai secoli che dai giorni e gli uomini che vi sono impegnati, spesso hanno fatto percorsi diversi e sono assorbiti da riti, rappresentanze e la vita cammina a piedi piuttosto che su auto veloci.

Fortunatamente però il buon Dio quasi sempre scrive dritto anche su righe storte!

La santa obbedienza

Fin dai tempi del seminario ho sentito parlare di una virtù particolare: l’obbedienza. Non so perché, ma per le altre virtù morali si adoperava semplicemente il nome della virtù: fortezza, temperanza, ecc., per l’obbedienza si premetteva sempre un “santa”, la santa obbedienza. Talvolta mi è venuto perfino il dubbio che i capi suggerissero questo aggettivo non tanto per sottolineare l’importanza di questa virtù, ma per governare più facilmente.

Da una ventina di anni, anche la santa obbedienza, ha avuto i suoi contestatori e contestatori di spessore, da don Mazzolari, a don Milani, per non parlare che dei più noti.

In realtà questi obiettori di coscienza si sono dimostrati tra i cattolici più obbedienti, ma obbedienti criticamente. Non so se sia stato uno di loro a parlare della “virtù della santa obbedienza”, non credo, ma comunque c’è stato un movimento di contestazione verso l’obbedienza, pronta ed assoluta, alla Sant’Ignazio “Perinde ad cadaverem!” “fino alla morte”.

Papa Giovanni XXIII con la sua saggezza, usava spesso una frase a questo proposito: “Miles pro duce et dux pro victoria”, “il soldato deve obbedire al comandante che a sua volta deve puntare alla vittoria!”

Io sono totalmente d’accordo con Papa Roncalli, però l’obbedienza deve diventare un atto intelligente, razionale, collaborativo, ma anche positivamente critico.

Una volta si diceva che il superiore aveva “la grazia di stato” ossia il Signore lo illuminava particolarmente per il buon Governo.

E sia pure!
Però lo Spirito Santo, che credo per donare questa grazia ai capi, possa abbastanza facilmente adoperare anche l’intelligenza, la saggezza e l’esperienza dei sudditi.

Ho l’impressione che molti, forse troppi capi, sia nell’organizzazione civile come in quella religiosa presumono troppo sulla validità dei loro gradi, sulla grazia di stato e troppi sudditi per non aver rogne o per quieto vivere obbediscano formalmente, danneggiando i loro superiori.

Mi ritrovo ora come un osservatore, fuori della mischia per cui è perfino troppo facile scorgere inadeguatezze, errori, negligenze che nascono dalla mancata consultazione o dal mancato apporto dei combattenti!

Il linguaggio dei preti

Il problema del linguaggio è sempre stato un grosso problema per gli intellettuali e la gente affine. Da sempre ho sognato e desiderato di parlare dei problemi religiosi con la lingua con la quale si parla al bar, al supermercato o in filovia, confesso che non ci riesco ancora.

Mi pare siano ben pochi i preti e meno ancora i vescovi che sappiano parlare la lingua parlata e non una lingua morta che ormai quasi nessuno capisce.

Fino al 1200, ai tempi di San Francesco, gli intellettuali parlavano latino, mentre già, non da decenni ma da qualche secolo, il popolo parlava un dialetto adottato pure dal poverello d’Assisi, che pian piano sarebbe diventato la nostra lingua, l’italiano.

Ci vollero secoli e secoli perché i preti mollassero la lingua nobile per adottare il linguaggio del popolo. Ancor oggi c’è qualche ecclesiastico nostalgico, che sarebbe tentato di suggerire al Papa o agli esperti dei dicasteri ecclesiastici di usare il latino, a parer loro, la lingua della chiesa. Io però non so di quale chiesa!

Quando cinquant’anni fa studiavo teologia ancora allora molti testi erano scritti in un “latinorum” che avrebbe fatto sdegnare Cicerone o lo stesso Cesare tanto era imbastardito. Però credo che il pericolo grosso per noi preti, che predichiamo da mane a sera, non è il latino, ma il linguaggio astruso, fuori commercio, di cui la gente fatica al massimo di capirne il significato vero, ma lo accetta supinamente, perché ormai ci ha fatto l’orecchio, senza coglierne i contenuti.

Qualche settimana fa mi è capitato di sentire, da un’emittente televisiva, una conversazione di un importante prelato. Non ci ho capito nulla! Un linguaggio formale e dai concetti astrusi e fuori corso!

Qualche giorno dopo, due tre persone, cattolici praticanti di diversa estrazione sociale e culturale, mi chiesero: “Ha sentito don Armando la conferenza del tal dei tali?” – “Perchè?” – ed ognuno confessava di non aver capito assolutamente niente!

Su “Famiglia Cristiana” scrivono grosse personalità dell’intellighentia cattolica, ma credo che l’unico che si fa intendere è don Mazzi, anche se talora non va proprio per il sottile con le parole.

S. Girolamo tradusse la Bibbia nella vulgatia, il latino del popolo, ora credo che dobbiamo fare un altro passo avanti scoprendo la “vulgatia” d’oggi!

Il consumismo e il lassimo, grandi nemici della fede

Un mio amico d’infanzia, tanti anni fa, tentava di convincermi che la religione aveva meno presa sulla coscienza dei fedeli, da quando si era abolito il latino e da quando il prete era uscito dal suo isolamento e aveva socializzato con la gente.

Mi pare di capire che volesse dirmi che quando la religione aveva abbandonato la sfera del mistero e la disciplina dell’arcano, andava a perdere la sua presa sul cuore del popolo.

Evidentemente, pur constatando che la partecipazione religiosa stava progressivamente diminuendo col passare degli anni, non potevo e non riuscivo a condividere questa lettura del fenomeno della secolarizzazione, anzi ritenevo e ritengo che il fenomeno religioso deve innervare, illuminare e dare ricchezza interiore all’attività dell’uomo e quindi sacerdoti e cristiani devono impegnarsi più a fondo per passare la fede attraverso modalità più compatibili e più affini alla cultura e alla mentalità del mondo moderno.

Detto questo però mi rimane nell’animo ancora qualche perplessità e qualche dubbio notando come gruppi religiosi minoritari o più conservatori riescono ancora a mantenere più viva e pregnante la sensibilità e il sentire religioso di quanto non riusciamo noi cattolici.

Qualche giorno fa ho invitato due giovani ortodossi, che lavoravano al don Vecchi, a pranzare con noi dato che era mezzogiorno. Il più giovane, un trentenne, mi ringraziò dicendomi, anche con candore, che gli ortodossi osservano quattro tempi di digiuno, uno dei quali cadeva proprio in quei giorni e loro si astenevano dalla carne, dai latticini e praticamente facevano “quaresima” come noi cattolici facevamo cinquant’anni fa.

Il consumismo, più nemico della fede che il marxismo, e il lassismo mi pare stiano pian piano svuotando la fede di contenuti forti per ridurla a qualcosa di formale, credo che dovrò riflettere a fondo su queste problematiche!

I preti di una volta

Io ho un’età in cui abbastanza di frequente, di fronte a comportamenti, modi di pensare, scelte che non condivido, mi verrebbe da dire la famosissima e deprecata frase: “Ai miei tempi le cose non stavano così!”

Tento di dire il meno possibile questa frase, però, anche se non la dico, la penso decisamente e molto convinto.

Noi tutti vecchi siamo frutto di un certo mondo e di una certa educazione; non potremo mai cambiare!

Credo che siano pochi gli uomini e i preti che riescono ad accettare serenamente modi di pensare, comportamenti, mentalità e scelte che oggi sono pacifici!

Pur convinto che il mondo si evolve, ed oggi molto più rapidamente del passato, mi è molto diffide accettare certi comportamenti che mi sembrano assurdi e non condivisibili specie in certe categorie di persone.

Qualche giorno fa una persona religiosa, parlando del “lavoro” in cui è coinvolta, mi diceva, come fosse la cosa più limpida e più normale, che un altro religioso aveva in un certo giorno la sua giornata di libertà, un altro ancora in un giorno diverso.

Ai miei tempi (ed ecco che mi scappa la frase da vecchi) il padre spirituale del seminario diceva che dovevamo da preti lasciarci “mangiare” dai fedeli, tanto dovevamo essere disponibili alle loro attese. Come volete che mi sia possibile condividere il nuovo modo di pensare?

Da giovane prete le mie vacanze erano costituite da un campo estivo con un centinaio e forse più di scout, dormendo dentro una piccola tenda e per terra, mangiando i menù che i ragazzini cucinavano tra mille lazzi!

Come volete che con questo passato possa accettare che i miei colleghi passino le vacanze un anno in Thailandia ed un altro in India?

A San Lorenzo confessavamo dalle 14 alle 20 di continuo e alle 21 tornavamo in chiesa per i ritardatari. Come volete allora che possa comprendere che il tal parroco riceva il mercoledì dalle 10 alle 11 e il venerdì dalle 16 alle 17?

Se fosse giusto questa nuova prassi di vita dovrei dire a Gesù in croce “Guarda che hai sbagliato tutto!”

Difficili mediazioni

Spigoloso ed irruento lo sono sempre stato fin dalla nascita. Forse un senso di istintiva timidezza mi rende fortemente reattivo e tendenzialmente duro nelle prese di posizione. Non sarei assolutamente stato adatto ad entrare nella diplomazia vaticana!

Accanto a questa istintiva emotività, si aggiunge il fatto che non so usare circonlocuzioni, i miei discorsi vanno subito al sodo e le mani le tengo ben nude, non sapendo usare e non sopportando guanti di velluto.

Ebbene pur in questa condizione d’ordine caratteriale e psicologico il mio mestiere mi impone fatalmente di mediare fra persone, gruppi e movimenti che molto spesso confliggono per motivi futili e marginali.

Quello della mediazione è uno dei compiti più frequenti e più difficili per me! Speravo che la pensione mi avesse collocato in un limbo di pace e di tranquillità; invece no, ci sono dentro fino al collo!

La fondazione che gestisce il don Vecchi e la parrocchia che ne è proprietaria spesso e volentieri si trovano in posizioni che avrebbero assoluto bisogno di dialogo, di pazienza; cose che proprio non posseggo. Il volontariato, che occupa uno spazio considerevole, anzi preminente nell’ambiente in cui vivo, è costituito da un mondo irrequieto, che non è condizionato dallo stipendio, dalla carriera e spesso la gente che ha fatto questa scelta non è stata determinata da motivazioni alte e sublimi, ma forse da motivi meno nobili quali la speranza di vincere la noia e di passare il tempo. Questo è un altro mondo che mi da del filo da torcere e che spesso turba i miei sonni.

Leon Blois ha scritto che l’unica porta di sicurezza che egli conosce per uscire da questi conflitti è la santità.

Condivido fino in fondo il parere, ma il guaio è che la porta della santità è una porta assai difficile da aprire e da superare!

Come far crescere il valore della solidarietà nel mondo cattolico

La stampa mi ha aiutato tante volte, anche in maniera determinante, nelle mie imprese a favore del prossimo. Certi articoli hanno ridestato il problema che sembrava spento e spacciato, presso l’opinione pubblica, hanno messo a disagio gli amministratori pubblici, così che certe partite che sembravano perdute sono ridiventate “problema” per le persone che contano nella nostra società.

E’ però pur vero che io ho sempre tentato, nella mia vita, di ricambiare non sottraendomi mai all’intervista, alla presa di posizione quando qualche giornalista riteneva utile il mio intervento. Talvolta questo uscire allo scoperto mi è costato, perché non sempre, specie in questioni controverse e spinose tutti sono disposti ad accettare rispettosamente un parere non condiviso.

Io però credo doveroso dare onestamente il mio contributo, pur non ritenendomi un esperto, in certi problemi.

Recentemente Alvise Sperandio, un giovane che ci sa fare con la penna, mi chiese un parere su come far crescere il valore della solidarietà nel mondo cattolico perché doveva stendere un pezzo per un periodico cittadino. Ci pensai seriamente perchè il problema è cruciale e la risposta non era facile, ma poi convinto gli dissi: “Primo, i cattolici si debbono convincere che la solidarietà per i cristiani non è un optional, ma è parte integrante del messaggio. Un battezzato che non sia convinto e non pratichi la carità, non è assolutamente cristiano. Punto e basta! Non sono però molti i fedeli e i preti che abbiano questa convinzione! Secondo, la solidarietà non può ridursi ad un sogno mistico, ad una utopia sfumata, ma sempre deve diventare progetto, servizio, struttura, opera, pur accettando il fatto che quando il progetto viene realizzato si impoverisce ed è pieno di limiti e contraddizioni. Terzo, la comunità cristiana, piccola o grande, deve creare una infinità di rivoli perché ogni fedele possa scegliere quello che gli è possibile o conforme alla sua personalità.

Ed ora spero che la penna di Alvise sia più convincente della mia!

La religiosità al don Vecchi

Il don Vecchi, tutto sommato è una piccola parrocchia, con tutti i pregi e i difetti che hanno attualmente le parrocchie.

Il parroco poi di questa comunità, pur non essendolo io da un punto di vista canonico, vive tutti i drammi che affliggono e tormentano i parroci di questa nostra povera terra.

A cominciare dalla frequenza alla messa festiva; al don Vecchi superiamo di poco quella che registravo a Carpenedo.

Nella parrocchia, che ho lasciato tre anni fa, raggiungevamo il 42%, mentre al don Vecchi forse passiamo di poco il 50%, pur potendo partecipare alla messa senza affrontare il caldo d’estate e il freddo d’inverno!

Prediche, inviti, suppliche cadono tranquillamente nel vuoto con i pretesti di sempre: partecipo più intimamente e con più devozione alla S. messa in televisione, vado a messa in qualche altra chiesa ecc.

Per quanto riguarda la moralità anche se un detto popolare afferma che “quando il corpo si frusta, l’anima si lustra”, mi sembra che al don Vecchi il detto spesso non sia applicabile.

Per non parlare della solidarietà, principio validissimo e accolto con favore finché si tratta di ricevere, mentre c’è molto meno entusiasmo quando si tratta di offrirla la solidarietà.

Spesso sono costretto a rifugiarmi nelle parole di San Paolo che invita a “insistere con ogni mezzo e tempo e fuori tempo” per avviare le anime a Dio.

A giorni inizierò la visita annuale alle famiglie dei residenti per non lasciare nulla di intentato, ma finirò poi di affidare al Signore questi parrocchiani poco fedeli, nella speranza che faccia Lui!