La tassa sulla fede

Da parecchio tempo avevo sentito dire che il clero in Germania – sia quello protestante che quello cattolico – riceveva lo stipendio dallo Stato e lo Stato finanziava sia i preti che i pastori attraverso una “tassa sulla fede”. Ogni cittadino che si dichiarava credente, tra i vari contributi doveva versarne uno per il mantenimento del clero della Chiesa relativa. La notizia mi aveva lasciato un po’ perplesso, perché non “mi suonava bene” il prete stipendiato dallo Stato: la sua missione mi diventava così professione.

Poi anche in Italia, attraverso un marchingegno magari un po’ diverso, si è arrivati alla stessa conclusione con effetti non del tutto positivi. E’ avvenuto anche da noi quello che capitava nei regimi comunisti di un tempo in cui si garantivano a tutti delle risorse pur modeste, per sopravvivere, motivo per cui impegno o non impegno, a fine mese la paghetta arriva garantita e per tutti uguale, lavorino o battano la fiacca.

Seppi inoltre che molti italiani emigrati per lavoro in Germania, capito il meccanismo, credenti o no, aggiravano l’ostacolo della tassa dicendosi non credenti, pensando che questa dichiarazione formale non avesse nulla a che fare con la loro fede.

Si capisce che il cattivo esempio ha contagiato anche i tedeschi, tanto che qualche giorno fa ho letto una notiziola, non troppo evidente nel giornale perché per il redattore poco rilevante, ma per me invece quanto mai significativa. Si diceva infatti che la gerarchia della Chiesa tedesca aveva, non so bene se scomunicato o espulso o cancellato dall’anagrafe delle parrocchie, chi si comportava in tale maniera.

Onestamente disapprovo chi rinnega, almeno a livello formale, la propria fede per non “pagare il prete”, però mi lascia ancor più perplesso, anzi mi mette a disagio, una gerarchia che discrimina o che “butta fuori dalla Chiesa” il “fedele” che non paga la tassa per l’officiante: una impalcatura religiosa che si impelaga in provvedimenti del genere non mi pare proprio esaltante.

A me pare tanto più bello, ma soprattutto di sapore più evangelico, che le comunità provvedano spontaneamente e per amore ai loro sacerdoti; questa soluzione non solo è più nobile, ma mi appare più stimolante per i ministri del culto a fare bene il proprio dovere.

Pregi e limiti

Se qualcuno legge questi appunti e riflessioni varie che vado facendo di giorno in giorno mi potrà anche dire che queste sono cose da preti. E’ vero, ma io sono un prete e non posso parlare se non delle cose che riguardano e da cui sono interessati i sacerdoti. Qualche settimana fa ho riferito, ammirato, che la parrocchia di San Giovanni Evangelista, che è prevalentemente a conduzione neocatecumenale, ha portato al Family Day di Milano più di trecento sposi e che durante l’estate ben 150 fra adolescenti e padrini hanno partecipato in una casa di montagna ad alcuni giorni di spiritualità.

Tutto questo ed altro ancora sono cose quanto mai positive. Presso i neocatecumenali, quando “i catechisti” decidono qualcosa di buono, gli aderenti, come un solo uomo, partecipano obbedienti e disciplinati.

Riconosco, senza riserva, che gli aderenti a questo movimento, come gli aderenti al Movimento del Rinnovamento dello Spirito, quelli dell’Opus Dei o, ancora, i Pentecostali, o Comunione e Liberazione, sono le forze di punta della Chiesa di oggi. Però non posso non riscontrare che pure questi movimenti emergenti hanno limiti ben consistenti. In genere sono chiusi, come fossero asserragliati per difendersi dal “nemico”, guardando con sufficienza i cristiani senza qualifiche, non sono in dialogo col mondo, praticano un settarismo religioso sempre intransigente, non si fanno carico dei problemi sociali, vivono un cristianesimo elitario.

Io per indole, mentalità e scelta, mi sentirei soffocare all’interno di uno di questi movimenti. Nella parrocchia che avevo, nonostante loro ripetuti tentativi, per questi motivi non ho dato loro spazio. Ero convinto che gli appartenenti alla mia vecchia comunità erano una specie di esercito di Brancaleone, perché c’era dentro di tutto. Ciò nonostante nessuna delle parrocchie dominate da questi movimenti aveva il 42 per cento di presenti al precetto festivo come la mia.

Oggi l’uomo e il cristiano trova molta difficoltà a vivere come persona, cerca i gruppi, come gli “alcolisti anonimi”, che si sorreggono l’un l’altro, ma nessuno di loro sta in piedi da solo. Questa situazione non credo sia l’ideale.

Ho cominciato a provare questo sentimento fin dai primi anni del mio sacerdozio quando alcuni dei miei ragazzi e delle ragazze tra i più promettenti sono stati circuiti dai membri dell’Opus Dei, tagliati fuori dalla parrocchia, imponendo loro un confessore del movimento e condizionandoli con una pressione psicologica quasi ossessiva.

Padre Escriva, fondatore dell’Opus Dei, oggi è un santo, ma non credo che lo sia diventato per aver fondato la sua società segreta sia pure sotto il segno della croce.

“Libertà vo cercando”, diceva Dante. La libertà è per un uomo quello che è l’acqua per i pesci e l’aria per gli uccelli. Non per nulla il Signore ci ha creati unici, irripetibili e liberi!

Preti e “bottega”

La mia è stata una famiglia di falegnami. Purtroppo mio fratello ne è stato l’epigone, perché qualche mese fa ha chiuso bottega per l’età, la crisi incalzante, la burocrazia che fa si che un artigiano debba avere alle spalle uno studio di esperti, e da ultimo perché oggi è difficile riscuotere i soldi per il lavoro fatto.

I comuni mortali hanno purtroppo imparato dallo Stato a pagare dopo mesi e anni dalla consegna del lavoro. Mio padre, più che un falegname, era un ottimo carpentiere però, come si usava allora, faceva tutto quello che riguardava il legno. Ricordo che ce l’aveva a morte con quelli che egli denominava “rubamestieri”, ossia chi si improvvisava, chi non era andato a bottega, chi non sapeva fare bene il suo mestiere. Lo ricordo sempre quando auspicava che il governo mettesse la regola che per esercitare il mestiere uno dovesse fare un lungo apprendistato e dovesse poi fare l’esame di fronte ad una commissione di vecchi falegnami esperti nell’arte del legno.

La bottega e l’apprendistato sono stati in passato un passaggio obbligato sia per gli artigiani che per gli artisti. Oggi tutto questo è soltanto un ricordo perché ormai queste realtà sono scomparse dalla scena. Io, che sono figlio di mio padre, applicherei questa regola anche per i preti. Ho fatto l’apprendista prete per quasi vent’anni ed ho appreso “il mestiere” presso degli ottimi maestri d’arte: monsignor Mezzaroba, monsignor Da Villa e monsignor Vecchi; solo dopo “mi sono messo in proprio”.

Il nostro vecchio Patriarca, cardinal Luciani, un giorno mi confidò che era suo intento far fare l’esperienza ai giovani preti presso tre o quattro parrocchie, guidate da parroci esperti, in maniera che vedessero ciò che si deve e si può fare, perché solo con questo apprendistato, che va fatto in “bottega”, un giovane prete può capire fin dove si può e deve arrivare.

A me sono sempre piaciuti i chierichetti e gli scout. Un prete novello, mio cappellano, affermava che i bambini d’oggi sono tanto occupati da non poter più apprezzare questi percorsi di formazione. Al che, per dimostrargli quanto ciò non fosse vero, mi impegnai a fondo e nonostante l’età non più giovane lasciai in parrocchia cento chierichetti e duecento scout. I miei suggerimenti possono essere ritenuti peregrini e fuori tempo, però quando li ho fatti mi sento la coscienza a posto!

“Il bicchiere d’acqua”

La pagina del Vangelo su cui la Chiesa ci ha chiesto di riflettere e di commentare qualche domenica fa, era quella che la cultura superficiale del mondo moderno ben conosce come quella del “bicchier d’acqua”. La pagina dell’evangelista Marco, che riporta questa immagine, suona così: “Neppure un bicchiere d’acqua offerto ad uno dei miei discepoli per amor mio rimarrà senza ricompensa”. Questa pagina di Gesù, che contiene il noto passaggio del “bicchier d’acqua” mi è quanto mai cara. Da un lato perché è motivo di conforto per chi è “povero” di santità e dall’altro perché mi fa pensare che il buon Dio al “fine corsa” si accontenta di molto meno di quello che gli esperti di morale hanno predicato lungo i secoli. L’offrire un bicchiere di acqua è alla portata di tutti e perciò tutti possono procurarsi “il biglietto per l’ingresso in Paradiso” senza pagarlo troppo caro.

L’affermazione di Gesù mi ha richiamato alla memoria una lettura di un testo di ascetica che incontrai molto tempo fa e di cui non ricordo l’autore, mentre ricordo bene il contenuto. Diceva questo autore saggio che gli uomini del nostro tempo devono recuperare il profumo dei piccoli gesti quotidiani: il saluto, il sorriso, la stretta di mano, l’ascolto, la tenerezza, il grazie, la carezza, ecc. Un mio amico affermava che era stufo di sentirsi dire “buongiorno” senza che quelle parole e quel suono profumassero di un po’ di calore, di umanità, di un po’ di cuore.

Vissi la mia adolescenza nel primo dopoguerra, quando pareva che le agognate riforme avessero risolto ogni problema ed avrebbero fatto felice ogni uomo. Col passare del tempo non ho cessato di sognare e di battermi per un mondo più giusto, ma ora mi par d’aver capito che una persona è più felice per uno sguardo, per una piccola attenzione che per una nuova legge del fine vita o per la diminuzione dell’IVA. Prima di me una grande piccola santa aveva fatto questa scoperta aprendo la “via di sesto grado” che porta alle vette più alte e impervie. Santa Teresina del Bambin Gesù ci ha insegnato che si può arrivare ad un alto grado di santità facendo bene le piccole cose. E prima di me e di santa Teresina ce lo disse Gesù col suo “bicchiere d’acqua fresca”.

“Le perle preziose”

Sto leggendo un volume, appena uscito per i caratteri della Mondadori, dal titolo fascinoso ed enigmatico: “Colti dallo stupore” del compianto cardinale Carlo Maria Martini. Credo si tratti dell’ultima fatica del vescovo di Milano, perché negli ultimi mesi il Parkinson andava di giorno in giorno ad impedire al suo pensiero, ancora lucido, di farsi voce. L’editore infatti annota nelle ultime pagine, contenenti le sue omelie, che esse sono più brevi ed essenziali perché egli non riusciva ormai più ad esprimersi.

Il volume contiene 174 omelie, ossia i commenti al Vangelo festivo che vanno dal 3 agosto 2008 al 4 aprile 2010. Le prediche di Martini sono assai brevi, da una facciata di pagina ad un massimo di due e risentono delle ricerche di riferimento biblico, come è comprensibile dato il suo “mestiere” amato ed esercitato per una vita intera – ossia quella di uno studioso e docente di biblica.

Dalla lettura, fin dalle prime pagine, si avverte che il cardinale aveva una conoscenza profonda della Sacra Scrittura per cui ci si accorge di quanto si muova a suo agio facendo citazioni e confronti con una puntualità ed un rigore assoluto.

Queste prediche mi hanno dato la sensazione che ci sia tanto poco del suo pensiero personale, ma che egli si limiti quasi ad accostare i singoli passi della Sacra Scrittura in maniera da far emergere più nitida e precisa la Parola di Dio. Inoltre m’è parso di cogliere che per il cardinale l’unica cosa importante e necessaria non sia tanto l’attualizzazione o il commento dei passi evangelici, né tanto meno che il pensiero del Signore sia in linea con l’opinione pubblica e la cultura corrente, ma che esso risulti nitido e sicuro.

Per il cardinale vale solamente ciò che dice il Signore perché quello solo è vero, giusto e valido. Egli si limita a mettere una cornice essenziale e per nulla vistosa alla “Parola del Signore”.

La lettura di Martini mi ha colpito così profondamente, tanto che domenica scorsa ho impostato il mio sermone tentando di imitarlo, ossia mettendo in luce che le perle preziose e di grande valore sono le parole di Dio e non le nostre.

Ho estrapolato le frasi clou della pagina evangelica, mettendoci una cornice umile, così da esaltare tutto il loro splendore. Di certo non sono risultato un “orafo” esperto come il cardinale, m’è parso però che l’assemblea dei fedeli abbia ascoltato e reagito in maniera quanto mai positiva a questa impostazione.

Svecchiamento sacerdotale

Qualche giorno fa me ne stavo solo soletto nella piccola sagrestia della mia chiesa prefabbricata “Santa Maria della Consolazione” a meditare, quando mi raggiunse un giovane parroco della città che io stimo e ammiro particolarmente per il suo zelo. Molto probabilmente era venuto in cimitero per qualche motivo inerente al suo ministero e aveva avuto la bontà di venire a salutare questo vecchio prete che di buon mattino aspetta e prega per le anime dei morti e dei vivi.

Chiacchierammo, ben s’intende, di cose da preti. Lui era più informato di me sulla vita della Chiesa veneziana anche perché, zelante com’è, frequenta tutti gli incontri tra sacerdoti mentre io, vecchio pensionato, riservo il mio tempo e le mie residue energie più alle cose concrete che a discorsi che temo non siano sempre produttivi.

Questo collega probabilmente aveva il tempo contato, infatti dopo qualche “confidenza sacerdotale” dovette andarsene per occuparsi delle sue cose. Io rimasi in silenzio a pensare e quando penso divago e la mia riflessione imbocca a suo piacimento sentieri imprevedibili e sconosciuti, portandomi a congetture, proposte e soluzioni ipotetiche che non dipendono da me, ma che comunque mi fanno frullare per l’animo progetti che forse abitano nel mio inconscio.

Pensando a questo giovane prete zelante, generoso ed intelligente, arrivai alla conclusione che anche la Chiesa veneziana dovrebbe essere svecchiata con l’immissione, nei ruoli più importanti, di soggetti più giovani e nuovi.

Allora passai in rassegna, nella mia fantasia, i preti di Mestre e fortunatamente m’è parso di scoprirne alcuni di valore, preti che dimostrano sul campo le loro risorse e la loro volontà di servizio. Lontano da me il voler dare suggerimenti per ora ma anche per il futuro, perché sono ben conscio di non avere la competenza né il compito, e meno ancora la “grazia di stato” per far questo. Invece mi limiterò, come mi è più consono e doveroso, a pregare il Signore che illumini il nostro vescovo perché riesca a mettere nei posti giusti i preti giusti, anche se questo gli comporterebbe non avere tra le mani soldatini di piombo obbedienti ed ossequienti.

Il commerciante benefico

La segretaria di un noto commerciante di Mestre mi ha telefonato per informarmi della morte del suo titolare. A pochi minuti di distanza un’agenzia di pompe funebri mi confermò la notizia e mi chiese di fissare giorno e ora per il commiato. Queste tristi notizie sono frequenti per me e per tutti perché nella nostra città ogni giorno se ne vanno, più o meno silenziosamente, una dozzina di concittadini per raggiungere la “casa del Padre”.

La notizia di oggi però ha per me connotati ed impatto un po’ diversi dal solito. Questo commerciante lo conoscevo indirettamente da molti anni perché i miei collaboratori nel settore della carità me lo avevano segnalato per la sua particolare generosità ed anche quando si è ritirato dal commercio aveva talmente insegnato ai suoi dipendenti il valore della solidarietà che chi gli successe nella sua azienda continuò ad essere generoso.

Lo conobbi invece di persona circa un paio di anni fa. Egli infatti mi invitò a casa sua, si informò delle mie attività a favore dei vecchi e dei poveri, mi chiese la ragione sociale della struttura con cui opero e poi si lasciò andare ad un discorso del tutto confidenziale. Mi disse che ormai era vecchio, assai acciaccato e sentiva che la fine doveva essere prossima, così aveva deciso di destinare il suo patrimonio in maniera lucida. Continuò dicendo che ammirava il mio impegno solidale e che aveva pensato di destinare il suo appartamento per le opere in cui sono impegnato, perché questo servizio verso i poveri potesse continuare a svilupparsi. Gli lasciai i dati della Fondazione Carpinetum e uscii dalla sua casa edificato da tanta lucida saggezza e generosità.

Non ci sentimmo mai più, solamente oggi mi giunge la notizia della sua morte pressoché improvvisa. Non so se abbia dato corso ai suoi propositi nei riguardi della Fondazione, so invece che più volte ha beneficato l’Avapo, in cui pure aveva fiducia e di cui ammirava la giovane ed intelligente presidente.

Comunque vadano le cose, la testimonianza discreta ed appartata di questo concittadino generoso è per me motivo di consolazione e di stimolo a ben pensare.

P.S. Ha destinato il suo appartamento alla Fondazione.

La vera crisi è morale

Non c’è italiano che non avverta e non parli della crisi economica; perfino qualcuno ha detto che è la più grave degli ultimi cinquant’anni. Gli analisti affermano che oggi gli italiani si limitano perfino nei consumi alimentari.

Io in verità non sono preoccupato più di tanto, perché registro che lo sperpero era enorme prima ed oggi continua ad essere ancora tale. In ogni caso le chiusure delle piccole e medie imprese, i continui fallimenti, la riduzione di personale anche per le imprese più grandi ed affermate, costituiscono un segno evidente delle gravi difficoltà in cui versa il nostro Paese.

Sono però altrettanto e più convinto che la crisi più grave che mette in ginocchio l’Italia sia quella determinata dagli scandali, dalla perdita di valori, dal malcostume delle classi dirigenti. I politici, a livello nazionale, regionale e comunale, sembrano i professionisti dell’imbroglio, delle ruberie, dell’accaparramento dei posti di prestigio; la magistratura pare quanto mai inefficiente e faziosa. Ogni anno infatti vanno in prescrizione duecentomila cause e gli arretrati sono ormai milioni per inefficienza e lungaggini.

Nel popolo, e soprattutto nelle nuove generazioni, pare che stiano scomparendo sogni e ideali e la volontà di lavorare, mentre la droga, come una peste inesorabile, miete una massa crescente di vittime.

Lo Stato poi è ogni giorno più burocratico, dispendioso e rapinatore del guadagno dei cittadini onesti che ancora sono impegnati per il bene del Paese.

In questi giorni la nostra Fondazione ha subito una “rapina di Stato”, senza che magistratura e carabinieri possano intervenire per evitare “il furto”. Come tutti sanno, abbiamo ottenuto dalla Regione duemilioni ottocentomila euro per i 60 alloggi per anziani poveri in perdita di autonomia, con l’obbligo di restituire questa somma in 25 anni. Ora la Regione, avallata dalle leggi statali, ci ha imposto il pagamento di quasi 130 milioni di vecchie lire per garantirsi che questa somma sia restituita in rate annuali. Fin qui si potrebbe pensare solamente a mancanza di fiducia (e quando mai lo Stato ha avuto fiducia dei suoi concittadini?). Ma tutto sommato, potrebbe essere anche comprensibile, se passati i 25 anni e constatando la regolarità dei rimborsi, si restituisse la somma, ma così non è. Questa somma enorme non verrà comunque mai restituita, perché lo Stato deve racimolare denaro per pagare generali, magistrati e parlamentari.

La “puzza”, una volta ancora, il male viene soprattutto dalla “Testa”!

Il pensiero del cardinal Martini

Del cardinal Martini ho letto parecchie cose, ma confesso che non avevo colto il filo conduttore del suo pensiero, le sue convinzioni profonde le tesi di certo non eterodosse, ma non sempre condivise dalla Chiesa ufficiale. In occasione della sua morte è venuto a galla un mondo sommerso che mi era rimasto sconosciuto e che ho colto con tanta gioia interiore.

La stampa cattolica ha inquadrato questa splendida figura di studioso e di pastore evidenziandone lo stile, le doti, la ricchezza interiore. L’ha fatto con ammirazione ed entusiasmo, cosa che mi ha edificato e reso orgoglioso che pure la Chiesa del nostro tempo continui ad esprimere figure così belle di testimoni e di profeti. Confesso però che il cardinal Martini, visto “da sinistra” mi è piaciuto e mi ha fatto del bene ancor di più.

E’ vero che se da un lato il mondo cattolico ufficiale gli ha creato un bel monumento che ha coperto un po’ tutte le sue divergenze sotto la lapide tombale del bene della Chiesa, quello laico ha accentuato gli aspetti più critici del pensiero e del messaggio del presule ambrosiano. Forse li ha accentuati fin troppo e ha visto solo quelli; ma pur essi c’erano! Ad esempio mi fa bene quella frase con cui Martini dice che la nostra Chiesa è indietro di almeno duecento anni sullo sviluppo del mondo.

Questa critica per me è un dono, è affermazione stimolante per cercare, per buttar ponti, per dialogare con l’uomo di oggi, per guardare avanti. Oppure quest’altra affermazione:

“Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balia degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”.

Mi pare sacrosanto questo invito alla libertà della mente che ha fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e ha inquietato ancora oggi il potere ecclesiastico.

Infine scelgo un’altra affermazione che ha sapore di “lievito di sale” di tipo evangelico:

“Né il clero né il diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti^ È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II, è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo.

Credo che soltanto accostando i giudizi e le valutazioni di “casa nostra” con quello del “mondo laico” si possa avere una visione equilibrata e reale di questo profeta del nostro tempo. Guai però tacerne per opportunismo o per faziosità una di queste componenti.

La tromba dello Spirito Santo

Da noi le cose son tutte fatte in casa per quanto riguarda il nostro settimanale. Giornalisti, tipografi, impaginatori, correttori di bozze e gestori della distribuzione sono non solamente volontari, ma pure autodidatti. Io, ad esempio, sono il direttore responsabile, ma non me ne sto dietro ad una scrivania a curare la linea editoriale o a scrivere qualche “fondo” ma, al martedì, porto un gran numero di copie nelle chiese del cimitero che sono diventate “le messaggerie” da cui i singoli distributori attingono le copie da portare alle sessanta postazioni di distribuzione. Questo però non basta perché il lunedì e il venerdì pomeriggio porto una macchinata di copie all’Ospedale dell’Angelo.

Questa manovalanza non è però priva di soddisfazioni. Spesso, mentre riempio l’espositore, si avvicina qualcuno che, accortosi che è arrivato il nuovo numero, mi chiede: «Posso prenderlo?» ed io pronto: «Prenda pure, odora ancora d’inchiostro».

Qualche giorno fa un signore che aveva appena ritirato una copia, sorridendo mi disse: «Mia madre, che abita al Cavallino, è una sua fan, perché puntualmente, ogni settimana, legge “L’incontro”. Posso chiamarla al telefono; le farà molto piacere conoscerla di persona!».

L’altro ieri, mentre camminavo lungo il ballatoio, vidi un signore tra i cinquanta e i sessant’anni che leggeva L’incontro. Mentre passavo, alzò gli occhi e, vedendomi, esclamò: «Ecco la tromba dello Spirito Santo!». Evidentemente aveva letto un episodio della vita di don Mazzolari. Quando infatti il cardinal Roncalli salì al soglio pontificio cominciò subito l’opera di riconciliazione con chi aveva sofferto dalla Chiesa e volle così ricevere don Mazzolari, che di carognate ne aveva ricevute non poche dal mondo ecclesiastico, e l’accolse appunto con queste parole: “Ecco la tromba di Dio!”.

Io di certo non sono “la tromba”, troppo onore, ma spero, nell’orchestra ecclesiale, di essere magari solo un piffero o un tamburo, ma di dare anch’io il mio piccolo contributo al messaggio cristiano. La voce della gente mi ripaga a iosa del silenzio, delle critiche e dei rifiuti di preti e frati.

L’uomo, questo sconosciuto

Tanti anni fa mi capitò di leggere un volume di un famoso scienziato, Alexis Carrel, volume che aveva per titolo “L’uomo, questo sconosciuto”. Non ricordo granché del contenuto di questo libro, perché l’ho letto mezzo secolo fa, però m’è rimasta l’idea di fondo che dietro il termine “uomo” ci sono mondi infinitamente diversi e così vale per tutte le parole.

Monsignor Vecchi, quando ci insegnava filosofia, ribadiva con decisione di diffidare dei nominalismi perché spesso inducono a pensare che dietro ad un certo termine ci sia sempre la stessa realtà. Solamente le etichette che sono apposte sui vasi di piselli o di carciofi indicano che ci sono dentro piselli o carciofi, però quando si tratta di un uomo e dei suoi problemi, il termine è generico, indica qualcosa, dietro questa parola ci sono mille mondi diversi.

Qualche tempo fa una giovane signora m’ha chiesto di fare un funerale per il marito che aveva posto fine alla sua vita. Questa realtà si chiama comunemente suicidio.

Ebbi modo però di conoscere, in un lungo colloquio, la storia di questo dramma. Ammalatasi ella di tumore, lo sposo aveva chiesto ardentemente a Dio la guarigione, cosa che è avvenuta. Colpito anch’egli dallo stesso male, che poi si è trascinato dietro per molti anni, ella era convinta che non abbia avuto il coraggio e non abbia ritenuto giusto insistere nuovamente per sé perché aveva, secondo lui, già ottenuto tanto per la moglie.

Sopraffatto dalla sofferenza ed essendogli tolta la speranza da un medico freddo e disumano che gli aveva pronosticato una fine angosciosa, egli non ha retto ed ha chiesto alla medicina di porre fine al suo dramma, e a quello della sua famiglia, in modo indolore. Apparentemente fu un lucido suicidio, in realtà era stato un dramma terribile che l’aveva travolto, non lasciandogli scampo alcuno.

Volete che io non l’abbia a benedire ed affidare alla Paternità di Dio? Il cuore mi assicura che Cristo avrà ripetuto a lui quello che disse a chi era in croce con lui: «Ti assicuro che oggi sarai con me in Paradiso».

Le cresime

Della mia cresima non ho un gran ricordo. Ai tempi della mia infanzia la cresima era temporalmente legata alla prima comunione; normalmente la si faceva la domenica dopo di essa. Penso di aver ricevuto questo sacramento in terza elementare.

Poi invalse nella Chiesa l’usanza di portare la cresima al tempo dell’adolescenza, affermando che essa rappresenta la scelta personale di diventare discepoli di Gesù e confermando così la decisione dei genitori di battezzare i loro neonati.

Il motivo per cui la ricordo bene è dovuto al fatto che quando il parroco mi fece l’esame per l’ammissione – un tempo, intelligentemente si usava così – mi inceppai sul credo, tanto che fui rimandato e dovetti ripetere l’esame una settimana dopo.

Per tornare alla tempistica della cresima a me viene però il sospetto che i parroci responsabili e saggi abbiano tentato in questo modo di approfondire la formazione cristiana dei loro ragazzi, dato che le famiglie ci tenevano che i loro figli passassero questa tappa. Poi si sa che nella maggioranza dei casi lanciavano tacitamente l’ammonimento: “Si salvi chi può!” e ritenevano che tutto sommato avevano fatto il loro dovere e perciò i loro ragazzi potevano assumersi personalmente le loro responsabilità. Io, da parroco, ho adottato questa dottrina e perciò fissavo la cresima al tempo della terza media.

Ora le cose stanno andando diversamente perché la nuova moda ecclesiastica è di fare la cresima prima della comunione. Non ho capito il perché e le motivazioni addotte mi paiono stupide; d’altronde la moda non è preoccupata d’aver supporti razionali.

Ai miei tempi cresimava solamente il Patriarca, mentre in questi ultimi anni questo compito è stato demandato a preti di prestigio, ma di poco spessore pastorale.

Ho letto con molto piacere su un bollettino parrocchiale della nostra città, che il nostro nuovo Patriarca, Moraglia, desidera impartire lui la cresima. Mi pare una scelta saggia ed importante per due motivi. In primo luogo mi piace che il responsabile primo della Chiesa accolga personalmente la richiesta dei giovani della nuova generazione di diventare discepoli di Cristo, poiché questa è una scelta decisiva. Poi perché i fedeli di tutte le parrocchie del patriarcato, almeno una volta l’anno, si possano incontrare col loro Pastore e padre nella fede.

Una volta all’anno è poco, ma sempre meglio che una volta in vita come avveniva in questi ultimi anni.

“I pensieri”

Mia madre era moglie di un modestissimo falegname e madre di noi sette figli. Solamente pensando a questo dato di fatto si può facilmente immaginare quanti problemi e quante preoccupazioni devono aver pesato sulle sue spalle. Mamma poi mi assomigliava: aveva un carattere riservato, introverso e realista e con qualche venatura di pessimismo. Perciò ogni difficoltà – e queste erano infinite – avevano un forte impatto sulla sua sensibilità, per cui era sempre tentata di chiudersi in se stessa e di incupirsi.

Mentre papà era ottimista, minimizzava le difficoltà e sperava sempre al meglio, la mamma non si scoraggiava, affrontava con concretezza e determinazione i problemi, però pagava a caro prezzo tutto questo, tanto che lasciava trasparire le sue preoccupazioni e talora la sua paura di non farcela o che noi figli non avessimo il necessario.

Ricordo che più di una volta le chiesi: «Cos’hai, mamma?». Lei rimaneva un po’ perplessa e mi rispondeva: «Pensieri!». Questa risposta, evidentemente, a me diceva troppo poco e perciò ribattevo: «Ma mamma, cosa sono questi pensieri?». Lei taceva e cercava di darmi una risposta che non mi allarmasse, che non mi facesse soffrire, però faceva fatica a spiegare ad un bambino problemi che io non potevo capire e che forse non era opportuno che io capissi per non rovinare la mia spensieratezza e incoscienza. Allora soggiungeva: «Capirai da grande!».

Mamma è stata una facile profetessa. Ho capito, e da molto, che cosa sono “i pensieri”.Ora che son vecchio i pensieri mi pesano sempre più e avverto che non posso e non devo scaricarli sugli altri. Io non ho bambini attorno di cui sia in qualche modo responsabile, o meglio ho dei “bambini anziani”, che per molti motivi non è giusto caricare di altri pesi oltre quelli che hanno “di suo”.

Spesso qualcuno mi chiede che cos’ho, perché mi vedono così serio. Avrei sempre la tentazione di rispondere come mia madre: “Pensieri”, però non potrei aggiungere “capirai da grande!”, perciò taccio perché sento che sarebbe assurda questa risposta e quasi sempre i pensieri li tengo per me, ma confesso che essi sono molto frequenti e che mi pesano tanto.

“Temi lo Stato anche quando ti fa doni”

Un giorno, scherzando con degli amici, sono arrivato a definirmi come un anarchico individualista; poi, a scanso di equivoci, perché non si pensasse che io sognassi di buttar bombe contro le istituzioni, aggiunsi che però, contemporaneamente, credevo e volevo praticare la non violenza gandhiana.

Traduco in chiaro questi discorsi che sanno di paradosso. Lo Stato, così com’è articolato e come si muove attualmente, mi sta molto, molto stretto. Della destra berlusconiana sposo un pezzettino di dottrina, molto piccolo, ma significativo, che si traduce con lo slogan “Meno Stato e più libertà”. Ho la sensazione che la burocratizzazione delle istituzioni pubbliche sia così legnosa, macchinosa ed opprimente che ti avviluppi in maniera tanto ossessiva, così da scoraggiarti in ogni iniziativa e soffocarti con le sue lungaggini, le sue carte, i suoi regolamenti e i suoi burocrati, talmente stupidi da costringerti ad infiniti adempimenti formali piuttosto che facilitate più limpide iniziative di carattere sociale.

Non dico che mi conforta il fatto che gli imprenditori esteri non investono in Italia a motivo delle lungaggini e del balzelli degli enti pubblici, ma ciò mi riconferma nel rifiuto che provo verso questo Stato burocratico.

Vengo al motivo che giustifica questa premessa. La Regione ci ha concesso un mutuo di due milioni ottocentomila euro per l’esecuzione di una struttura “esperimento pilota” a favore degli anziani in perdita di autonomia, ma per darteli realmente e per assicurarsi che tu li spenda come pattuito, ti costringe ad una fideiussione del costo di cinquanta-sessantamila euro, oltre una marea di carte di tutti i tipi.

Quando l’altra sera al consiglio di amministrazione della Fondazione sono venuto a conoscere questi discorsi, m’è venuta in mente una massima dell’antica Roma: “Timeo danaos et dona ferentes”, temo i greci anche quando mi portano un dono!, tanto erano astuti e interessati. Questa volta vedo nei greci la Regione, però di tutti gli enti pubblici si può dire la stessa cosa.

Confesso con amarezza che lo Stato e i suoi derivati sono per me dei “nemici”.

Le verità sopravvivono

Mi si è incisa nella memoria una frase pronunciata, di fronte al plotone di esecuzione, da un uomo di governo profondamente religioso, durante l’ultima persecuzione avvenuta in Messico: «Voi potete spegnere la mia vita ma non il mio pensiero».

Ultimamente mi sono tornate in mente le parole di questo martire cristiano in occasione della morte e dei funerali del cardinale Martini. Una folla di popolo ha partecipato alle esequie del presule ambrosiano, la stampa di tutti gli indirizzi ha incorniciato la sua testimonianza e il suo pensiero, gli uomini di Chiesa hanno tessuto grandi elogi, nonostante in passato ci siano state posizioni di pensiero ben diverse e non condivise.

Guai però se qualcuno si illudesse che questa splendida pietra tombale possa seppellire per sempre la testimonianza di questo grande vescovo che ha contribuito e può contribuire ancora alla crescita spirituale della Chiesa alla quale ha dedicato la vita.

Il messaggio del cardinal Martini sopravvive di certo alla sua morte fisica. Io ritengo doveroso facilitare il dono che questo vescovo ha offerto e può ancora offrire alla comunità cristiana riproponendo alcune sue riflessioni.

Riporto un passaggio di un articolo del Corriere della sera che può offrire al mondo ecclesiastico e a quello che gli è vicino, un’occasione per un serio e positivo esame di coscienza.

Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al Papa stesso”. E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.

Almeno da parte mia ringrazio di cuore il cardinale Martini e mi impegno a far tesoro delle sue parole sperando che molti altri ecclesiastici più “tentati” di me e facciano altrettanto.