L’ultimo miracolo

Mi ha amareggiato e preoccupato quanto mai quando una scheggia impazzita è schizzata da una delle associazioni di volontariato che ogni settimana offrono generi alimentari e frutta e verdura a duemilacinquecento concittadini che non hanno denaro sufficiente per sopravvivere in questo tempo di crisi che colpisce soprattutto i più deboli.

Temevo che i contrasti interni finissero per danneggiare la folla di poveri che quotidianamente raccoglie presso il “don Vecchi” la “manna” che fortunatamente cade dal cielo.

Ho tentato con tutte le mie forze e le mie risorse di imbrigliare questa “scheggia” perché non solo non disperdesse la sua energia ma, una volta incanalata, finisse per offrire più luce e conforto. L’impresa non è stata facile, perché è sempre stato difficile guidare quello che nasce dal sospetto e dal dissenso. I primi tempi sono stati tribolati ed incerti, ma poi, pian piano, la cosa ha cominciato a funzionare ed ora sembra davvero promettente, anzi provvidenziale.

E’ vero che la sinergia rappresenta la soluzione ottimale, ma quando risulta impossibile ci si deve accontentare almeno di una concorrenza non belligerante. Così è nata al “don Vecchi” la nuova associazione di volontariato che è stata battezzata col nome augurale e riconoscente “La buona terra”. Essa conta già una quindicina di volontari, ha un presidente, un codice fiscale, gestisce ogni giorno una quindicina di quintali di frutta e verdura, possiede un furgone, ha un “fatturato” di un migliaio di euro mensili e accontenta tre, quattrocento bisognosi alla settimana e, meraviglia delle meraviglie, riesce anche a fornire frutta e verdura alla mensa della San Vincenzo e a quella dei frati.

Una volta tanto una calamità è diventata un’opportunità ed una bella prospettiva per il futuro. Di certo questo evento ha ulteriormente aggravato il cuore già affaticato di questo vecchio prete.

La tonaca

Ho letto qualche settimana fa, su un settimanale parrocchiale, una specie di elogio della tonaca nera del prete da parte di un giovane sacerdote di cui sono grande ammiratore.

Stimo quanto mai questo sacerdote perché zelante, pio e molto capace a livello pastorale e perché ho visto le opere alle quali questo parroco ha dato vita e il consenso che riscuote nella sua parrocchia; anzi, più di una volta, ho sperato che il Patriarca “lo scopra” e gli affidi incarichi di maggior rilievo perché di certo, non dico che li meriterebbe, ma li porterebbe avanti con competenza e bravura. Questo suo “inno” alla tonaca mi è però sembrato strano, mi è parso tanto fuori tempo. Io ho portato la tonaca per più di vent’anni ed oltre la tonaca avevo pure la chierica, il circoletto rasato dei capelli. Non mi è pesato, l’ho accettato serenamente senza disagio alcuno.

Pur essendo io un prete che veste in clergyman, sono ben contento che la Chiesa ci abbia permesso di smettere la tonaca, un abito ingombrante e soprattutto fuori tempo. Il distintivo del prete è per me la sua fede, il suo amore per gli uomini, la sua coerenza e il suo zelo pastorale. Credo che non abbiamo più bisogno di ulteriori diaframmi, di segni che ci collocano fatalmente nei secoli passati, che separano ulteriormente dal comune sentire. Il cristiano Diogneto queste cose le aveva capite e dette già venti secoli fa.

Per carità, si può essere ottimi preti anche con la tonaca, però mi pare che sia un indumento che sa di passato e sia un segno di sacralità, mentre la nostra gente ha soprattutto bisogno di quello della santità per cui non serve affatto la tonaca.

“Il galeotto”

“Il galeotto” di cui ho parlato un paio di volte sul mio diario, l’ho finalmente rivisto al lavoro dopo una ventina di giorni di assenza. Riassumo questa storia per chi non avesse letto tutti i numeri de “L’incontro” o non avesse, come me, una buona memoria.

Due, tre mesi fa, uno di quei lavoratori che tutti una volta chiamavano becchini, ma che ora si chiamano operatori cimiteriali, m’aveva chiesto il testo delle preghiere che io ho posto accanto alla Madonna, a Papa Giovanni, a Madre Teresa di Calcutta, san Francesco, Padre Pio, a Papa Vojtyla, a sant’Antonio o Papa Luciani per aiutare i fedeli a pregare e per sintonizzarli sul messaggio che questi testimoni di Gesù ci hanno lasciato.

La richiesta mi ha colpito perché la trentina di operai che lavorano nel nostro camposanto, sono dei cari ragazzi con cui ho una rapporto amichevole ed affettuoso, ma non mi capita di frequente di vederli fare la “visitina a Gesù”.

Già avevo osservato questo nuovo operatore perché quest’estate avevo notato i numerosi tatuaggi (oggi questi arabeschi sulla pelle vanno di moda, ma io sono rimasto al tempo in cui i tatuaggi se li facevano solamente i galeotti in carcere).

Questo operatore pian piano mi raccontò la sua storia, una storia non edificante che gli ha fatto trascorrere parecchie stagioni nelle patrie galere. Mi raccontò pure che aveva voltato le spalle al passato, che aveva intrapreso una nuova strada. La giustizia però, facendo i conti, si era accorta che aveva ancora venti giorni da pagare e, nonostante “la conversione”, il lavoro e la buona volontà, l’ha rimesso dentro, spendendo invano altri cinque-seimila euro!

Fortunatamente quest’uomo è stato più bravo dello Stato e mi ha proposto: «Don Armando, dopo il lavoro, che termino all’una, verrei volentieri a far volontariato da Lei».

A sentir questo mi viene da pensare che sarebbe giusto che fosse “lo Stato” a scontare almeno quaranta giorni nelle sue carceri per la sua insipienza che non capisce ancora che l’importante è “la conversione” e non la vendetta!

Il buon Dio continua ancora a far bene il suo mestiere

Confesso che io debbo ai radicali l’interesse per il problema delle carceri. La passione civile di Pannella, della Bonino e di quel piccolo drappello di loro seguaci hanno il merito di sottolineare in assoluto l’assurdità del carcere e, relativamente all’Italia, la barbarie di sovraffollare le celle con quasi il doppio di detenuti che erano destinati ad ospitare.

Quando penso ai radicali, che per tanti altri motivi rifiuto per via del loro esasperato anticlericalismo, concludo che stanno battendo una strada abbastanza praticabile per giungere al Regno dei Cieli, anche se non vengono a messa la domenica e detestano i preti, ma soprattutto il Vaticano.

Credo che in Paradiso ne vedremo veramente delle belle! Io e moltissimi altri colleghi, e i vescovi in particolare, siamo angosciati per il fenomeno della secolarizzazione, per l’abbandono della pratica della religione, per le convivenze e i matrimoni civili, mentre il buon Dio pare impegnatissimo ad aprire strade nuove che portano al Regno.

Per rimanere nel campo dei radicali, non volete che il buon Dio accolga in Paradiso Pannella e il suo seguito con tutti i digiuni quaresimali, con il loro diuturno ed appassionato impegno per la certezza del diritto, per la legalità, per l’umanizzare le carceri, per redimere l’individuo, per la libertà di coscienza e perfino per la libertà religiosa?

Ho l’impressione che, una volta ancora, noi cristiani del terzo millennio ci comportiamo come Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che dicono a Gesù: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo!». Non capivano che non si insegna a Dio ma si va a scuola da Lui per imparare e prender ordini. Noi fedeli, nonostante siano passati duemila anni, continuiamo a fare gli stessi sbagli. Non ci accorgiamo che Dio è Dio, che al Signore non c’è da insegnare, che a Dio interessano i fatti e non le chiacchiere al vento, ma soprattutto che Dio sa fare il suo mestiere, non discrimina le persone, non si lascia condizionare dalle tradizioni, che rimane comunque padre di tutti, che accetta il prodigo pentito e rifiuta il perbenismo dell’egoismo del figlio maggiore.

Quando comincio a guardare la realtà confusa ed aggrovigliata di questo povero mondo, non è che mi venga la tentazione di abbandonare il grande patrimonio ideale che la tradizione cristiana mi ha trasmesso, ma mi incanto nello scoprire con quanta agilità, disinvoltura e fantasia Dio apre nuove strade di salvezza e mi meraviglia e mi confonde come i “lontani” le imbocchino con decisione e con passi da gigante.

Qualche addetto ai lavori afferma con preoccupazione che questa è una “religione civile”, mentre io sono propenso a credere che questa è: vita, provvidenza e salvezza.

Detto questo non ho ancora messo nel messalino il “santino” con il volto di Pannella, però non lo penso neanche infilzato nel forcone di Lucifero! E mi ricordo ancora una volta del detto del ramo che cade con fragore mentre però l’intera foresta cresce in silenzio.

Vittorio, maestro del colore

Esiste a Mestre un’associazione piuttosto numerosa e assai efficiente: “Gli amici dell’arte”. Io non sono iscritto ufficialmente ma ne condivido l’interesse.

Nella mia attività pastorale di un tempo c’era un posto abbastanza di rilievo anche per l’arte. Ricordo con gioia e soddisfazione le quattrocento “personali” fatte presso la galleria parrocchiale “La cella”, le numerose biennali d’arte sacra, le opere esposte nelle strutture parrocchiali che costituiscono in assoluto la più grande galleria d’arte moderna della nostra città. Ma soprattutto il grande “giro” di artisti che hanno colloquiato con la nostra comunità.

Dante afferma che la natura è la “figlia” di Dio e che l’arte ne è la “nipote”. Sono convinto che una comunità cristiana non possa e non debba trascurare questa realtà perché è di certo una strada, magari un po’ sconosciuta, che porta a Dio, indipendentemente dal fatto che i cittadini siano coscienti o meno di questo percorso. Se l’arte non facesse altro, allontana le persone dal brutto, dal banale e dal volgare che spesso trovano posto anche negli edifici parrocchiali e perfino nelle chiese.

La mia vecchia parrocchia aveva, fortunatamente, delle belle personalità di artisti: da Bepi Pavan ad Aldo Bovo, da Toni Fontanella ad Archiutti, da Piero Barbieri a Vittorio Felisati ed altri ancora, senza contare l’indotto che essi richiamavano.

Sono tanto riconoscente a questi protagonisti della vita artistica che, coscientemente o meno, hanno educato al bello e quindi al culto di Dio, almeno un paio di generazioni di parrocchiani.

Ritorno su questo argomento, su cui mi sono soffermato altre volte, perché quest’anno ricorre il centenario della nascita di Vittorio Felisati, il vecchio pittore di via Goldoni che morì improvvisamente mentre stava ritoccando il mio ritratto che voleva regalarmi per l’uscita dalla parrocchia. Come ricordo con nostalgia le lunghe chiacchierate, quando mi presentava l’immenso deposito dei suoi dipinti. Ricordo come brillavano i suoi occhi quando mi diceva, con entusiasmo e quasi con voluttà: «Don Armando, io amo il colore!».

Davvero Felisati aveva una tavolozza di colori forti, con i quali esaltava la bellezza dei suoi paesaggi preferiti: Asolo, il Brenta, le vecchie strade di Carpenedo, Burano, Torcello, Monfumo, ecc.

Il Comune ha organizzato una mostra al Candiani per questo concittadino innamorato dell’arte, ma anch’io voglio offrire un piccolo apporto in onore di questo “maestro del colore”. Il figlio di Felisati mi ha dato una ventina di opere di suo padre, io ho cercato delle cornici che esaltino quanto mai questa festa di colori. Son certo che non c’è stata né ci sarà mostra in cui apparirà il colore nel suo fulgore come nella galleria “San Valentino”, quando a fine giugno, organizzeremo una personale per Vittorio.

Vittorio Felisati ci ha fatto un dono che quasi ci costringe ad accorgerci della bellezza del Creato, segno della gloria ineffabile di Dio.

Grandi navi e piccoli uomini

La mia prima esperienza di prete la feci nella parrocchia di Santa Maria del Rosario alle Zattere. Quella parrocchia è conosciuta dal tutti come “i Gesuati”, perché chiesa è stata costruita da un ordine religioso che il Papa permise alla Serenissima di sopprimere, incamerandone i ricchi beni, in cambio dell’offerta di una squadra navale di galee per affrontare i turchi a Lepanto.

La mia prima esperienza è stata esaltante, il mio “primo amore” da prete, ma anche difficile perché io, di Eraclea, dovetti inserirmi in un contesto veneziano nel quale la maggior offesa era quella di maledire i tuoi morti, ma la seconda era quella di infamia verso l’avversario chiamandolo “campagnolo”. Ma questo era solamente un aspetto della mentalità corrente.

In quella parrocchia abitavano tanti gondolieri e ricordo bene con quanta superiorità parlavano dei “i foresti”. Ho sempre avuto la sensazione che i gondolieri fossero e siano convinti che le centinaia di migliaia di visitatori che vengono a Venezia, non lo facciano per ammirare la città dei dogi, ma per vedere loro, i conduttori, pur esperti, di quella strana ed atipica imbarcazione che è la gondola.

In questi ultimi tempi, in cui tiene banco il problema delle grandi navi nel bacino di san Marco o il problema della torre di Cardin, i veneziani continuano a guardare dall’alto in basso anche coloro che danno loro da vivere, pensando che il mondo intero debba prostrarsi ai loro piedi solo perché sono i discendenti di antenati intraprendenti e coraggiosi. Troppo spesso mi pare che certi concittadini insulari abbiano la puzza sotto il naso e pretendano di avere quello che noi campagnoli diciamo “la botte piena e la massera ubriaca”.

I veneziani hanno perduto l’occasione del nuovo carcere, fanno i difficili sul quadrante di Tessera, ora sono infastiditi per le navi che portano in città una miniera d’oro, turbati perché c’è chi offre di costruire a sue spese, e porgono su un piatto d’argento, una torre capace di migliaia di posti di lavoro. Ma cosa pretendono questi concittadini insulari che han tenuto malamente al guinzaglio, come servi, i concittadini di terra, privandoli, con la loro insipienza, delle industrie di Marghera e rendendo le fabbriche ferro vecchio senza valore?

Ora Venezia avrà la città metropolitana. Spero che non perda anche questa occasione; mi auguro che non continui a fare la vecchia nobile signora schifiltosa ed arrogante pur senza un quattrino!

Cronaca di un pomeriggio diverso

Le uscite degli anziani del “don Vecchi” le abbiamo denominate “minipellegrinaggi” perché sono il compendio di due componenti che si completano a vicenda.

La prima componente, della quale mi occupo personalmente, è di carattere religioso. La seconda è un ibrido tra una lunga chiacchierata pomeridiane ed una merenda a base di salame, formaggio, mortadella e bevande varie. Il tutto sotto la copertura formale di un interesse culturale in uno dei tanti borghi, quanto mai interessanti, della nostra regione.

L’ultima uscita ha avuto come meta l’antico porto fluviale di Bussolé, il borgo e il relativo porticciolo ora interrato per l’avvenuta deviazione del Sile, ove un tempo le “peate” della Serenissima portavano, via fiume, il sale che poi veniva distribuito con barche più piccole e carri, in tutto il Triveneto.

Questa uscite sono sempre appetibili perché poco faticose e soprattutto alla portata di tutti: con dieci euro infatti ogni anziano riceve generosamente i conforti religiosi e quelli gastronomici.

Partenza ore 14 con due pullman e 112 “pellegrini”, santa messa con presentazione, preghiere dei fedeli e canti. Meditazione sul tema: le “ricchezze” che anche i vecchi posseggono ancora. Penso di essere stato così appassionato e convincente che, uscendo di chiesa, tutti devono essersi sentiti nel fiore degli anni.

Il giovane parroco che esercita il suo ministero nel comune più piccolo del Veneto – 500 anime -, docente di patristica all’Università di Padova, è stato di un’ospitalità sovrana, mettendoci a disposizione la bella sala parrocchiale. Subito è cominciata la festa: tre panini a testa, bevande a volontà. Penso che i miei vecchi non sarebbero più andati via dal piccolo borgo di case del 1300-1400!

Quando sentii intonare l’inno di san Marco “Viva Venezia, viva la gloria del nostro leon” ho compreso che si era giunti all’apice della festa. Purtroppo, con quel vinello galeotto, i monumenti, il ponte, la torre e il deposito del sale divennero ben poco interessanti!

Il colpo finale è stato un baracchino che una giovane bengalese aveva piazzato proprio vicino al parcheggio del pullman, dove vendeva caldarroste, noci, patate americane.

Il nostro pellegrinaggio è stato anche la sua fortuna perché in pochi minuti avrebbe venduto anche la bilancia e l’arnese per la cottura delle castagne.

Ancora una volta ho capito che la “felicità” è a portata di mano.

Non ci sono più soldi per la legalità

Molto probabilmente, anche se non lo sapevamo, gli amministratori pubblici in genere hanno sempre pensato prima per le proprie tasche e per quelle della propria clientela ma, tutto sommato, quando c’erano molti soldi, qualcosa rimaneva anche per i cittadini. Ora, con la crisi, per i cittadini non rimane proprio più nulla. Siamo arrivati non so se al tragico o al ridicolo

Mi rifaccio a due casi concreti nei quali sono coinvolto direttamente. Il Comune ci ha dato il diritto di superficie in un’area agli Arzeroni per costruire la nuova struttura per gli anziani poveri in perdita di autosufficienza. A parte il fatto che il tratto di superficie era impastoiato con altre proprietà e il Comune da anni ha lasciato in abbandono una situazione talmente ingarbugliata che solamente la tenacia e l’intelligenza del giovane parroco di Carpenedo è riuscito a sbrogliare, il tragicomico è apparso quando i rogiti erano fermi solo perché il Comune non aveva neppure un euro che serviva per le marche da bollo.

La seconda vicenda è quella della messa in sicurezza dell’ingresso del “don Vecchi” di Campalto in via Orlanda. La pratica è durata esattamente un anno, dal 15 ottobre 2011 al 17 ottobre 2012. S’era trovato un accordo iniziale per cui la spesa sarebbe stata divisa in tre parti: Comune, Anas e Fondazione. Giunti, sudando non sette ma settanta camicie, alla conclusione, sia il Comune che l’Anas hanno dichiarato con “infinito candore” che né l’uno né l’altra avevano a disposizione neppure un centesimo e perciò, se volevamo il “lusso” della sicurezza per i settanta anziani del Centro, dovevamo accollarci tutta la spesa. Cosa che abbiamo fatto!

A questo punto confesso che mi vergogno di essere un cittadino di Venezia e mi vergogno ancora di più di non aver avuto ancora il coraggio di buttare una bomba su questi carrozzoni non dico inutili, ma esiziali.

Un battimano infelice

Per anni la chiesa ha rifiutato il funerale religioso ai cosiddetti “peccatori pubblici”, ossia a quei battezzati che morivano in una situazione irregolare con le norme fondamentali della Chiesa: divorziati, suicidi, persone che in vita erano state anticlericali o in qualche modo irrispettose verso la religione. Questo atteggiamento in parte era logico e consequenziale ai valori proposti dalla religione ed in parte retaggio di una intolleranza e di una arroganza religiose per le quali la Chiesa considerava i fedeli come sudditi.

Con l’affermarsi della scienza ed in particolare della psicologia, che valuta in maniera più attenta i comportamenti ed i condizionamenti della persona, da un lato, e dall’altro lato temendo la gente meno l’imperio ecclesiastico, fortunatamente le cose sono cambiate.

Attualmente la Chiesa applica meno le leggi del diritto ed è molto più rispettosa delle scelte dell’individuo e dei condizionamenti che egli subisce dalla società in cui vive. Oggi la Chiesa giustamente benedice e prega anche per quelli che un tempo erano ritenuti “pubblici peccatori”. Però, diceva il buon Orazio fin dai tempi di Roma, “ci sono dei limiti al di qua e al di là dei quali non c’è verità e giustizia”.

Ora mi è capitato di sentire che a Portoviro in occasione del dramma del carabiniere che ha sparato ed ucciso il suo comandante e la relativa moglie, la folla dei fedeli che ha partecipato alle esequie ha applaudito lungamente, durante i funerali religiosi, il carabiniere pluriomicida. Quel che è troppo è troppo!

La pietà, il non giudicare è una cosa, ma l’applaudire è un’assurdità religiosa e pure civile. La coscienza dell’individuo determina il grado di responsabilità personale, ma c’è pure una regola di moralità obiettiva che ha il suo peso e che deve essere proposta alla coscienza collettiva.

Oggi la gente definisce “solare”, parola alla moda, creature che perdono la vita a causa della droga o che comunque sono coinvolte in fatti loschi. Credo che questo costume sia socialmente pericoloso e religiosamente amorale e diseducativo. Nella realtà c’è e ci sarà sempre una differenza tra il bianco e il nero!

Ben diverso dal prototipo

Ho già parlato in passato di questa iniziativa pastorale della parrocchia del Duomo (come lo si chiama oggi, mentre nel passato quella era definita come la parrocchia di San Lorenzo di Mestre).

Ritorno sull’argomento perché mi pare un evento poliedrico che presenta almeno due aspetti molto importanti: uno organizzativo ed uno di contenuto. Non nascondo però che ce n’è un terzo che credo mi riguardi, almeno indirettamente.

Veniamo all’evento. Con l’autunno che si è aperto al nuovo anno della pastorale, monsignor Fausto Bonini, arciprete del Duomo, ha fatto stampare il prontuario nel quale sono descritte tutte le attività promosse dalla parrocchia e si informano i fedeli circa date, luoghi, orari, numeri di telefono e di posta elettronica della parrocchia e dei responsabili dei vari settori della vita di quella comunità parrocchiale.

L’opuscolo, di formato dépliant, è quanto mai elegante, per impostazione grafica, per la sequenza delle attività e per l’assoluta completezza delle informazioni. Il fascicolo è composto di 50 pagine, tutte a colori e con foto inerenti l’argomento. Il parrocchiano che prende l’opuscolo, stampato in un numero veramente grande di copie, può trovare tutto, proprio tutto quello che concerne la sua parrocchia. Questo non è poco.

Vengo poi al merito. Da una lettura, anche superficiale di questo prontuario informativo, si evince immediatamente che quella comunità tenta di dare risposta a tutte le attese dei suoi membri: dalla liturgia alla formazione, dalla cultura allo sport, dalla ricreazione alla catechesi, dalla carità all’intrattenimento. La parrocchia di San Lorenzo non è monocorde o bicorde, ossia liturgia e catechesi, come purtroppo avviene in moltissime parrocchie, ma punta ad una visione globale dell’uomo, del cristiano; così si avverte immediatamente che il fedele può trovare tutto all’interno della sua comunità, perché essa, pur con stile religioso, ha una risposta per tutte le attese. L’iniziativa di monsignor Bonini è veramente lodevole, tanto che io gli consiglierei di mandare una copia dell’opuscolo a tutte le parrocchie della diocesi.

Il terzo motivo è di certo marginale: anch’io, da parroco, avevo avvertito questa esigenza e fin da trent’anni fa pubblicavo ogni anno sul mensile della parrocchia l’organigramma della comunità ma, al confronto del prontuario di San Lorenzo, il mio rappresenta un parente povero, un archetipo preistorico. L’esigenza però l’avevo avvertita fin da allora ed avevo tentato una risposta, pur primordiale.

Il fine del Centro don Vecchi

Ci sono detti popolari che probabilmente hanno fatto fortuna per l’assonanza o la rima, o perché legati a tradizioni di un mondo rurale dalla cultura povera che poggia su certa esperienza e soprattutto perché quel mondo non possedeva conoscenze scientifiche aggiornate. Però ci sono dei detti un po’ sornioni che evidenziano limiti e debolezze umane. Ricordo ancora una vecchia sentenza in cui si affermava che la moglie che le pigliava ogni giorno dal marito, se un giorno lui non l’avesse bastonata sarebbe stata felice e riconoscente, concludendo che quell’uomo era fondamentalmente buono, mentre quella che non le prendeva mai, se una sola volta lui avesse alzato la mano, l’avrebbe giudicato come un marito cattivo e crudele.

Sono ritornato a questo vecchio discorso qualche giorno fa in merito ad una questione del “don Vecchi”. Abbiamo scelto vent’anni fa di aprire l’esperienza innovativa di una residenza per anziani poveri, ma autosufficienti: un’alternativa alle case di riposo. Per garantirci questa scelta nel contratto di accettazione l’anziano aspirante ospite e il garante hanno sottoscritto una clausola che sempre viene evidenziata: qualora l’ospite perda l’autosufficienza i suoi parenti provvederanno a toglierlo dal “don Vecchi” per inserirlo in una struttura idonea che preveda l’assistenza che da noi non c’è.

Ora pian piano al “don Vecchi” c’è un po’ di tutto perché, col passare degli anni, anche le tempre più forti sono erose. Ci troviamo dunque nella necessità di invitare i figli o i parenti a provvedere per il loro anziano che non deambula, ragiona poco o niente, ha bisogno di assistenza continua. Apriti cielo! Pare che la nostra sia insensibilità o, peggio ancora, crudeltà mentale.

Dopo qualche incontro in cui ho tentato di ricordare l’impegno, mi sono sentito apostrofare quasi fossi un carnefice. Il “don Vecchi” è bello e inoltre si paga poco, però è inconcepibile che qualcuno pretenda che il centro possa offrire le stesse prestazioni delle case di riposo, che pur essendo meno signorili, nonostante ciò chiedono rette quattro volte maggiori di ciò che si chiede dal nostro Centro.

Comunque il Centro don Vecchi è stato pensato per anziani autosufficienti e tale vogliamo che sia.

Dopo aver sofferto, lottato ed essere riuscito ad offrire a mezzo migliaio di anziani cinque, dieci anni di vita serena in un ambiente signorile, mi si accusa di insensibilità. Mentre decine e decine di colleghi, che han pensato ai fatti loro non curandosi dei poveri, diventano dei santi preti, comprensivi e umani. Vallo a capire questo mondo!

Allergico al rosso

Ognuno, penso, che prima o poi scopra di avere le sue allergie.
Molti anni fa la Benita, la vecchia custode delle suore di clausura che aveva un rimedio empirico per tutti i guai di questo mondo, mi suggerì di fare una cura prendendo della pappa reale. Non l’avessi mai fatto! Dieci minuti dopo l’assunzione mi si arrossò e gonfiò il volto, tanto da diventare un mostro. Il medico sentenziò che ero allergico a quel prodotto delle api.

Da poco tempo invece ho scoperto che sono pure allergico ad un tipo di antibiotico. Ieri sera poi ho fatto un’altra scoperta. Già da anni provavo un certo disagio di fronte a certe scelte ecclesiastiche in genere, ora invece, al vedere alla televisione l’incontro di Assisi tra Napolitano, il capo dello Stato, che non mi era molto simpatico per i suoi trascorsi politici, e monsignor Ravasi, a cui avevo sempre pensato con ammirazione e simpatia per la sua brillante intelligenza, ho scoperto un altro tipo di allergia specifica a cui vado soggetto, ossia l’allergia al rosso e alla pompa.

Confesso che sono contento perché ora che conosco la mia fragilità in merito, ho almeno l’opportunità di curarla.

Veniamo al merito della mia recente e sorprendente scoperta. Napolitano ha tenuto una brillante conversazione e Ravasi altrettanto ha interloquito con la facondia e l’acutezza di pensiero che gli è propria. Però Napolitano vestiva in pantaloni e giacca sobri ed aveva una cravatta appropriata come tutta la gente di oggi, mentre Ravasi aveva la sottana nera filettata di rosso, la fascia più rossa ancora e la papalina dello stesso colore in testa. L’incontro avveniva in piazza, quindi non c’entrava per nulla la liturgia.

Quanto mi sarebbe piaciuto che il cardinale avesse indossato il clergiman, magari con la crocetta d’argento sul bavero; portare in piazza questo armamentario del passato m’è parso una cosa di cattivo gusto, ma soprattutto, una volta ancora, m’è parso quasi che egli, magari senza volerlo, abbia posto un diaframma tra la gente del nostro tempo e il ceto ecclesiastico, mentre in realtà il sacerdote, e più ancora il vescovo, dovrebbe essere un tutt’uno col popolo come il lievito, nascosto e non divisibile dal pane che si sta impastando.

Gli uomini di Chiesa a mio parere devono sempre più mescolarsi con lo stile, la sensibilità degli uomini del nostro tempo, facendo saltare anche gli ultimi steccati. La gran parte dei preti hanno “saltato il muro”, mentre ho la sensazione che i vescovi siano ancora titubanti e reticenti. E si che loro. La lettera a Dioneto la dovrebbero conoscere bene; in essa si dice, ormai da secoli, che il cristiano non differisce per nulla, anzi sposa tutto quello che è proprio degli uomini del nostro tempo, fuorché le miserie e le cattiverie.

La mia semina quotidiana

La lettura del breviario, ossia della preghiera ufficiale della Chiesa, è da secoli il momento forte ed il perno della spiritualità della vita monastica. Quando si vanno a visitare le grandi e splendide cattedrali, spesso ci vengono mostrati i cori – vere opere d’arte dei maestri del legno – destinati ad ospitare i monaci che ad ore fisse vi si raccolgono a pregare e lodare il Signore a nome della Chiesa e del mondo intero.

Da noi sono ormai poche e piccole le comunità monastiche i cui membri pregano in coro: i benedettini a San Giorgio, i francescani alla Giudecca, a San Marco i canonici. Si tratta però di piccole comunità raccogliticce e anziane, per cui spesso sembra di ascoltare un brontolio incomprensibile, piuttosto che una lode solenne.

Quando però la comunità è consistente e i componenti sono creature di Dio, allora è tutt’altra cosa. Io ricordo di aver assistito, nella chiesa del monastero di Marianlac in Germania, alla recita del breviario in coro: era qualcosa di suggestivo e profondamente religioso.

La Chiesa domanda anche a noi preti la recita del breviario, ma mentre i monaci lo recitano intervallato, durante la notte, di primo mattino, a mezzogiorno, nel vespero e al tramonto, noi preti lo diciamo tra un’occupazione e l’altra senza le dovute condizioni. Io, ad esempio, mi alzo presto e lo recito di primo mattino, prima di iniziare la giornata. Ora lo recito ad alta voce per non appisolarmi sul testo.

Talvolta mi trovo in difficoltà con certi salmi e certi testi antichi. Il mondo dei salmi è lontano millenni da noi e perciò ha bisogno di trasposizioni non sempre facili; talvolta mi trovo ben poco d’accordo con le preghiere del mondo ebraico che pensava di essere al centro del mondo e che Dio fosse tutto per lui. Talvolta però incontro dei passaggi molto belli, delle “pietre preziose” che mi incantano e mi aiutano a mantenere la mia anima in carreggiata.

Lunedì sera a compieta (l’ultima preghiera della giornata) il testo mi ha fatto dire: “Donaci, o Padre, un sonno ristoratore e fa che i germi del bene, seminati nei solchi di questa giornata, producano una messe abbondante”. Mi sono addormentato dolcemente sperando che le mille parole, i mille gesti che hanno intessuto la mia giornata stessero per germogliare e fiorire.

Ci sono ancora campioni

Non sto qui a ripetere una vecchia storia che per me è stata una bella avventura, ma che al “mio mondo” può non interessare o essere addirittura noiosa. La riassumo brevemente.

Essendo venuto a conoscenza che presso l’ospedale oncologico di Aviano della gente volonterosa aveva aperto una foresteria per accogliere i parenti degli ammalati provenienti da lontano e sapendo che tantissime persone salivano dal sud più profondo per cure presso l’oculistica di Mestre – allora c’era il primario Rama, che rappresentava una delle eccellenze in questo settore – tentai di ripetere l’iniziativa anche a Mestre. Acquistai un appartamento presso l’ospedale, lo suddivisi in sei stanzette, tanto da ricavarne 10 posti letto, aggiunsi un bagno, cercai una direttrice e lo chiamai “Foyer San benedetto” in memoria della proverbiale virtù dell’ospitalità dei seguaci di san Benedetto da Norcia.

All’inizio la conduzione risultò alquanto tormentata perché, pur essendoci a Mestre duecentomila battezzati che ritengono di essere discepoli di Gesù, è difficile trovarne anche uno, o una sola, disposta a diventare “padre e madre di famiglia”, capace di aprire la porta di casa all’ultimo naufrago della vita e condividere la propria dimora con un’altra decina di persone sconosciute che cambiano più volte la settimana.

Fui fortunato come sempre. Dopo i primi infortuni arrivò la Cleofe, vedova da poco, mingherlina e fragile, ma dal polso fermo come un ufficiale prussiano. Quindi, andata in pensione per vecchiaia, arrivò la Maria, una carissima donna dal volto sorridente e dal cuore d’oro, che non solo condusse avanti in maniera splendida il Foyer per anni, ma si preparò perfino chi le succedesse (forse nell’inconscio intuì che il Signore l’avrebbe chiamata presto in cielo, infatti fu così).

Ora c’è Teresa, una maestrina del sud che ha raccolto l’eredità di Maria come un tesoro autentico. Teresa è una ragazza che sa veramente far miracoli. Ogni volta che il mare agitato della nostra società abbandona sul bagnasciuga un “relitto” che mi capita di raccogliere, ricorro a lei, che riesce a trovare sempre una soluzione.

Qualche giorno fa mi è stato riferito che non avendo posto, concesse il suo letto all’ospite e lei ha dormito in una brandina da campo. Il giorno dopo, essendo occupato anche il letto di fortuna, ha chiesto ad un’amica di ospitarla, per non rifiutare l’ultima venuta.

Quando seppi, mi ricordai di Giacobbe che ottenne la salvezza della città facendo presente a Dio che in quella città c’erano ancora 10 giusti.

Finché a Mestre ci saranno ragazze del genere credo che, nonostante tutto, Dio avrà pietà di noi.

L’esempio dei “Frari”

Sono tornato più volte su “L’incontro” a parlare di don Didimo Montiero, il prete vicentino che ha inventato, per la sua parrocchia di Bassano “Il Comune dei Giovani”.

Questo prete umile ma zelante, soprattutto nei riguardi della gioventù, ancora una quarantina di anni fa, ha compreso la necessità ed ha realizzato un grande centro giovanile a favore dei ragazzi, adolescenti e giovani di Bassano.

Caratteristiche peculiari di questo Centro sono quattro: 1) per struttura e dimensione il Centro è sovraparrocchiale e destinato a tutti i giovani della città pedemontana; 2) il Centro dà risposte alle attese diversificate del mondo giovanile: sport, musica, ricerca, cultura, spiritualità; 3) il complesso è governato da un “consiglio” eletto democraticamente fra i giovani che lo frequentano; 4) un giovane prete, sensibile alle problematiche giovanili è impegnato a tempo pieno per l’animazione del grande complesso.

L’intuizione di don Montiero è quanto mai intelligente ed anticipatrice di un bisogno ora avvertito da ogni comunità parrocchiale.

In uno dei miei interventi in proposito riferii dello stato di abbandono, di precarietà e di inadeguatezza dei nostri patronati che, assai di frequente, sopravvivono in maniera stantia e pressoché inutile. Riferii inoltre dei miei tentativi miseramente falliti, non essendo riuscito a convincere e coinvolgere i colleghi preti, rimanendo avvilito ed impotente di fronte a questa poca apertura, coraggio e lungimiranza pastorale.

Sennonché mi hanno riferito che a Venezia, nella parrocchia dei Frari, ove c’è un giovane parroco intraprendente, il relativo patronato funziona già come Centro giovanile a cui convergono i giovani di un paio di sestieri di Venezia. Infatti abbastanza di frequente la stampa parla di iniziative di questo Centro quanto mai intelligenti e che fanno presa sui giovani.

Tento di far rimbalzare questa notizia nella speranza che a Venezia e a Mestre ci sia chi prenda l’iniziativa e faccia tentativi analoghi.