La terza fase della mia vita

Sono nato nel ’29 e sono diventato prete nel ’54.

La prima fase della mia vita fu quella della preparazione alla missione umana e sacerdotale. La seconda fase, dal 1954 al 2005, fu il tempo “cuore” della mia esistenza, durante il quale mi sono impegnato per farmi testimone e portavoce di Cristo Gesù. Il 2 ottobre di sette anni fa è iniziata la terza fase della mia vita. Iniziò con la pensione, nel 2005, un tempo che non avevo programmato, motivo per cui mi sono trovato totalmente spiazzato, quasi mi fosse venuta meno la terra sotto i piedi, tanto che arrischiai un esaurimento nervoso.

Inizialmente, annaspando, mi cercai un lavoro “in nero”. Poi, celebrando da quarant’anni in cimitero, mi orientai verso la pastorale del lutto. Nacque con fatica un gruppo di mutuo aiuto per l’elaborazione del lutto, che poi passai all’Avapo.

Per anni celebrai la messa a San Rocco per i genitori che han perduto un figlio in giovane età. Poi sono riuscito ad avere una nuova chiesa di 250 posti in cimitero e soprattutto una comunità che la gremisce ogni domenica. Ho collaborato alla stesura di un volume, “L’albero della vita”, di cui ho curato l’aspetto religioso di “nostra sora morte corporale”, come san Francesco chiamò il lutto, volume diffuso in più di 20.000 copie e che “tira” ancora.

Mi sono offerto di celebrare la messa festiva in due frazioni lontane dalle relative parrocchie, però i parroci declinarono la mia offerta per motivi che sono rimasti sconosciuti. Mi sono offerto, a titolo gratuito di celebrare in una chiesa vicina, guidata da un parroco che non ha cappellani, ma dopo sei mesi sono stato licenziato in tronco, con preavviso di alcune ore.

Ho fondato il settimanale “L’incontro” che esce regolarmente, senza pausa alcuna, in 5000 copie, risultando così il periodico di natura religiosa più letto in assoluto a Mestre.

Nel frattempo ho collaborato alla nascita del Centro don Vecchi di Marghera per il cui finanziamento avevo già provveduto per intero. Ho acquistato il terreno per il Centro di Campalto e collaborato alla sua realizzazione.

Ho dato vita, con la redazione degli amici de “L’incontro”, al mensile “Il sole sul nuovo giorno” e pubblicato una decina di volumi.

Ultimamente mi sono offerto di celebrare una messa settimanale a Carpenedo ed una mensile a Ca’ Solaro.

Sono grato al Signore che ha benedetto ed ha reso interessante la terza ed ultima fase della mia lunga vita e soprattutto mi ha aiutato finora a mettere in pratica il proposito “voglio che la morte mi incontri vivo” e ad impegnare bene “i tempi supplementari”.

Sono con la Severino

Una volta ancora ribadisco che ammiro quanto mai la Severino, ministro di grazia e giustizia del governo tecnico. L’ammiro talmente da temere di finire per innamorarmi di questa cara donna che ragiona col cuore e con la testa tra tanti parlamentari balordi e senza senno.

Una volta ancora ella ha ribadito anche in questi ultimi tempi che è opportuno adottare soluzioni alternative al carcere, perché da un lato le sfoltirebbero da un sovraffollamento crudele ed incivile, e dall’altro recupererebbero ad una vita ordinata e civile tanti condannati che nelle patrie galere sono praticamente costretti ad iscriversi alla “Università del malaffare” perché le carceri italiane sono tali, benché si dica che hanno il compito di rieducare i detenuti.

C’è un solo punto su cui dissento, osservando che da tanto tempo annuncia provvedimenti del genere, ma poi finisce per rimandarli a motivo degli ostacoli che incontra da parte dei parlamentari che avrebbero, loro, più di un motivo per essere messi dentro. Sarei più contento se dicesse a tutti, bianchi, rossi o verdi: «O mi autorizzate a far così, altrimenti ritorno al mio mestiere!».

Qualche tempo fa raccontai agli amici che incontrai “un galeotto” che aveva scontato la sua pena e s’era fortunatamente trovato un lavoro dignitoso e forse, vivendo da mane a sera tra le tombe, aveva compreso il vero senso del vivere: in una parola s’era redento. Sennonché lo Stato aveva scoperto che gli mancavano ancora da scontare venti giorni di galera e non ci sono stati santi a evitarglieli: “la giustizia deve fare il suo corso”, come affermano i forcaioli Di Pietro e Bossi! E’ andato in carcere, lo Stato ha speso almeno cinquemila euro per mantenerlo ed è uscito, fortunatamente, senza rancore.

Ora, nel tempo libero dal lavoro, fa il volontario al “don Vecchi”. Termina all’una, mangia un panino in piedi e poi porta carrelli di vestiti da un magazzino all’altro del “don Vecchi”.

Qualche giorno fa l’incontrai durante il tempo del suo doppio lavoro, mi sorrise con tenerezza ed affetto, quasi a dirmi “non sono quel mostro che la giustizia mi reputa”. Allontanandomi pensai che più di un secolo fa Victor Hugo aveva insegnato questo ne “I miserabili”. La nostra società, purtroppo, rimane sempre più ottusa ed incapace di credere nell’uomo.

Vecchi contestatori con le unghie spuntate

Qualche tempo fa un residente al “don Vecchi” di Campalto mi ha informato che un gruppetto di anziane signore aveva deciso di bloccare il traffico della strada statale via Orlanda con un sit-in, per chiedere al Comune e all’Anas il permesso di mettere in sicurezza l’ingresso del Centro che attualmente risulta estremamente pericoloso.

Una notizia del genere mi ha evidentemente sorpreso, sapendo che l’età media dei residenti al Centro si aggira sugli ottant’anni. A me, che ho una fantasia quanto mai vivace, l’immagine di un gruppetto di signore col cappellino in testa sedute sull’asfalto, imperturbabili nonostante il suonare dei clacson delle migliaia di auto e furgoni che transitano velocissimi per via Orlanda, faceva immaginare la sequenza di un film alla Mary Poppins. Sapendo però che vivono al Centro almeno tre, quattro sessantenni, quanto mai esperte in queste cose, ero propenso a pensare che la cosa era più vicina alla realtà che alla favola.

All’annuncio dell’informatore seguì la telefonata di una delle protagoniste – una vecchia conoscenza dei tempi di San Lorenzo che aveva militato lungamente in “lotta continua” – che chiedeva il mio parere. Il mio parere non poteva che essere positivo, “a mali estremi estremi rimedi” pensai. Da un anno non abbiamo fatto che produrre carte su carte presso il Comune e presso l’Anas, senza riuscire a cavarci “un ragno dal buco”. Che cosa avrei potuto ancora fare perché gli ottanta anziani potessero uscire ed entrare senza arrischiare la vita ogniqualvolta hanno bisogno di comperarsi il pane o badare ai nipotini perché i figli lavorano?

La cosa si risolse per fortuna in maniera più prosaica. Un certo perbenismo borghese da un lato sconsigliò un’ azione così eclatante che poteva essere paragonata agli interventi dei Black Bloc e dall’altra l’Anas, dopo un anno e un mese ha dato il sospirato OK, a patto che siamo noi “ricchi” ad assumerci tutte le spese spettanti ai “poveri” Anas e Comune.

Ora ho capito fino in fondo che cosa significhi “Vittoria di Pirro”.

“Voglio vedere con occhi di fratello”

Da molti anni sto tentando di mettere in pratica un proposito che ho fatto fin dai primi anni del mio sacerdozio: “voglio vedere con occhi di fratello ogni uomo e ogni donna che incontro sulla mia strada”.

Confesso che sono purtroppo ben lontano dall’essere riuscito e che spesso sarei tentato di desistere da questo proposito constatando i miei frequenti fallimenti. Ora però che per il mio ministero residuo incontro nella mia chiesa quasi più fedeli morti di quelli vivi e che arrivano da ogni dove, mi riesce ancora più difficile stabilire un rapporto umano di questo genere per poterli salutare per l’ultima volta con cuore di fratello. Spesso non conosco che il nome e l’età, talvolta non c’è neppure l’epigrafe a farmi conoscere il loro volto e tal’altra c’è una foto che li ritrae a venti, trent’anni di meno.

Confesso tuttavia che mi impegno perché il commiato non si riduca ad un rito freddo e formale e sempre tento di lasciarmi coinvolgere dal mistero della vita, della morte e del dolore per il defunto che accompagno alta Casa del Padre. Qualche volta mi capita di salutare e pregare anche per persone care e conoscenti ed allora le parole di saluto diventano più calde e toccanti e la preghiera più viva e sentita.

Qualche tempo fa ho celebrato il commiato di uno dei miei ragazzini di San Lorenzo, uno scout che, diventato medico, mi ha salvato la vita diagnosticandomi un tumore incipiente. Egli è stato un caro e bravo professionista che ha dato una bella testimonianza di altruismo sia in famiglia che nel lavoro e ha dimostrato coraggio nell’affrontare una via crucis quanto mai dolorosa e grande fede, nonostante tante prove difficili ed amare.

Questo tipo di esperienza mi ha sempre dato il dono di umanizzare la mia celebrazione religiosa e di aiutarmi ad uscire da certi automatismi psicologici a causa dei quali il rito arrischia di ridursi a qualcosa di formale e poco coinvolgente da un punto di vista esistenziale. Allora avverto che pure i fedeli sentono quando l’esperienza del commiato è veramente coinvolgente, cristiana e capace di arricchire lo spirito.

“Nessuno è profeta in patria”

Qualche settimana fa è venuta al “don Vecchi” una delegazione della Caritas diocesana di Trieste per prendere visione dell’impostazione del polo caritativo che in questi ultimi anni s’è sviluppato attorno al nostro Centro.

E’ normale che la notizia di certe iniziative di solidarietà si diffonda, portata sull’onda dell’etere o della carta stampata e ci sia chi voglia verificare sul campo la consistenza, le modalità ed i traguardi raggiunti. Chi ha a cuore certi problemi sta con le orecchie sempre tese e lo sguardo aperto per sentire e vedere ciò che avviene fuori dal suo piccolo mondo.

Anche a me capita spesso di apprendere dalla stampa ciò che sì sta facendo altrove e talvolta mi lascio andare a sentimenti di invidia nell’apprendere iniziative più o meno originali, ma sempre utili per chi è in difficoltà e spesso mi angustio per non essere capace di coinvolgere colleghi e comunità cristiane in questo sforzo di affrontare sempre nuovi servizi per tentare di dare dette risposte adeguate alle vecchie e nuove povertà.

Confesso poi che provo una certa amarezza nel constatare come il mondo cattolico della Chiesa veneziana sembri spesso indifferente ai tentativi, i progetti e soprattutto alle realizzazioni di solidarietà che sono nate attorno al “don Vecchi”.

Credo che siano pochi a Mestre che non sappiano dell’esistenza di questa iniziativa a favore degli anziani poveri, della quale s’è perfino interessata una rete televisiva del Giappone, mentre è un numero assai esiguo quello dei concittadini che hanno sentito il dovere di mettere il naso dentro at “don Vecchi” e ancor meno i preti, i responsabili delle parrocchie e degli organismi caritativi ufficiali detta diocesi che abbiano preso visione e si siano confrontati e che abbiano tentato di mettersi in rete per una indispensabile sinergia se si vuole contrastare il bisogno e dar corpo alla carità concreta.

Ho visto con piacere questa gente che, come la regina di Saba, viene da lontano per vedere. Altrettanto mi spiace che i concittadini e i fratelli di fede vi rimangano indifferenti. Quando mi prende questa malinconia mi consolo con la parola di Gesù: “Nessuno è profeta in patria” e tiro avanti in solitudine.

La “veste nuziale”

Nel mese dì novembre due delle principali associazioni di volontariato che operano al “don Vecchi” e che hanno fatto di questo Centro uno dei poli più significativi e consistenti della solidarietà nel Triveneto, hanno giustamente ritenuto opportuno invitare ad un incontro conviviale i relativi associati.

Papa Giovanni, quando era Patriarca a Venezia, affermava di sovente che il modo migliore per intendersi e risolvere incomprensioni e diffidenze, era quello di “mettere le gambe sotto la tavola”; il mangiare assieme facilita l’intesa e la comprensione.

Al “don Vecchi” lavorano circa 250 volontari nei vari comparti e il relativo reclutamento non avviene mediante un esame preliminare con lo psicologo o il sociologo dell’ufficio personale, ma le porte dello “stabilimento” sono aperte a tutti: a persone che maturano la scelta seria di donare un po’ del proprio tempo, della propria esperienza professionale al prossimo, ma sono egualmente aperte a chi cerca di passare il tempo in compagnia di qualcuno, a chi è esaurito, a chi è mandato dai servizi sociali del Comune o del tribunale per un reinserimento nella vita sociale, a chi non sarebbe mai assunto in nessuna azienda per un deficit mentale e perfino a chi spera di portare a casa qualcosa.

La mia gente consiste in una specie di esercito di Brancaleone talvolta irrequieto, individualista, che convive con anime elette che sanno accettare anche i “figli prodighi”. Mi pare ogni giorno dì più che esso possa continuare a stare in piedi e a produrre carità, forse non di prima qualità, ma pur preziosa e necessaria.

Mentre qualche tempo fa ho partecipato ad uno di questi incontri conviviali, mi sono sentito dentro, fino in fondo, alla parabola degli invitati a nozze.

Quando gli invitati ragguardevoli che, per un motivo o per un altro, declinavano l’invito con pretesti vari, concludendo “Abbimi per iscusato”, il re che voleva gente alle nozze del figlio, disse ai servi: «Andate per le strade ed invitate ciechi, zoppi e sciancati perché ci sia festa».

Io non ho mai pensato di realizzare la parabola evangelica, però fortunatamente, senza pensarci, mi ci sono trovato felicemente dentro. La vita non è facile neanche da noi, perché alcuni neppure sanno della “veste nuziale”, pero spero tanto che, magari ognuno a modo suo, lo impari, prima o poi.

“Agenzie di servizi religiosi”

Ogni organizzazione sociale finisce per adottare un suo gergo, il quale quasi sempre rimane pressoché incomprensibile a chi non è del mestiere.

Un paio di anni fa un impiegato di banca mi parlò dei “prodotti” che erano in offerta presso il suo istituto bancario.

Rimasi di stucco perché non avrei mai pensato che la banca producesse qualcosa di specifico; semmai sapevo che le banche offrono poco interesse quando tu le affidi del denaro e molto quando glielo chiedi in prestito.

Così capita per l’ambiente ecclesiastico: da qualche tempo va di moda e si va affermando tra i “preti progressisti” che la parrocchia e la Chiesa non possono ridursi a diventare delle “agenzie di servizi religiosi”. Io condivido questa affermazione per quello che afferma, ma ho il terribile sospetto che essa sia il solito paravento per nascondere pigrizia, mancanza di generosità ed assenza di spirito di servizio.

Quando qualcuno mi chiede il funerale per un povero vecchio ultranovantenne e a me sconosciuto, che ha passato dieci anni in casa di ricovero o con una badante moldava, oppure mi si domanda la benedizione delle ceneri o della salma prima della chiusura della bara, lo faccio volentieri e senza farmi pregare. Può darsi che questi gesti religiosi appartengano ad una categoria di “fede povera”, comunque li ritengo uno di quei “santi segni” che il teologo Romano Guardini riteneva, si umili, ma importanti per alimentare la fede.

Così per anni, imperturbabile, ho benedetto tutti gli anni le case della parrocchia, nonostante ì “colleghi” mi compatissero perché sorridevano di fronte ad un prete che ‘”bagnava d’acqua i muri”.

Ho letto qualche tempo fa un bel pezzo sul “recupero” delle parole e dei gesti più consueti e più umili delta vita, quali il saluto, il sorriso, il grazie, la stretta di mano. Di certo non mi sento di affermare che il processo di secolarizzazione, dell’abbandono della pratica religiosa, dipendano dal rifiuto di questi sacri segni, ma penso che esso sia di certo una concausa.

L’amore non consiste di certo in un bacio, in una carezza o in una parola gentile, però ritengo che non ci sia amore senza questi segni di affetto. La fede è di certo qualcosa. di alto e di sublime, però è ben difficile che resista senza questi piccoli gesti della religione. Anche il più umile, se fatto con partecipazione vera, alimenta sia l’amore che la fede.

Non c’è rosa senza spine

Spessissimo ho parlato con entusiasmo dell’esperienza del Centro don Vecchi come un’esperienza innovativa a favore degli anziani autosufficienti poveri.

Questo è lo spazio che era scoperto e che abbiamo scelto di occupare, poiché per i non autosufficienti ci sono strutture che in questi ultimi trent’anni si sono collaudate e che offrono un servizio per quanto possibile dignitoso e attento atta disabilità. Queste case di riposo però sono costose quanto mai, comunque i servizi che devono erogare giustificano queste rette.

la soluzione del “don Vecchi” è risultata assolutamente felice per la signorilità dell’ambiente, per i sussidi sociali inerenti alla fragilità fisica e psichica e soprattutto per i costi che sono estremamente inferiori a quelli di qualsiasi struttura esistente sul suolo nazionale.

La nostra struttura ci è invidiata da mezzo mondo e sono innumerevoli gli enti che l’hanno visitata per avere ispirazione per dar vita a soluzioni similari.

Ci siamo preoccupati di “garantire il brevetto” facendo sottoscrivere all’anziano richiedente e ad un garante che, qualora l’anziano non fosse più autosufficiente, il residente sarebbe stato ritirato e collocato in una struttura più adeguata. Purtroppo l’anziano abbastanza facilmente perde autonomia e viene a trovarsi in un luogo non attrezzato e che soprattutto ha scelto di non attrezzarsi per i non autosufficienti.

Ora abbiamo al “don Vecchi” delle situazioni di persone che hanno assolutamente perso la mobilità e che costituiscono perciò un grave pericolo per sé e per gli altri e che caricano la Fondazione di responsabilità umane e legali che non può e non deve addossarsi. Quando si fa presente questo ai figli spesso ci si scontra con una forma di egoismo inconcepibile e pressoché insuperabile e, nonostante gli impegni formali, essi spesso si rifiutano di farsi carico del genitore per non pagare le rette m case di riposo o per non avere in casa il vecchio scomodo. Chi ha offerto anni di vita serena è ritenuto “crudele” perché esige che si rispettino i patti sottoscritti, arrivando a far scrivere all’avvocato o a ricorrere all’ente pubblico e caricando di una responsabilità che potrebbe, una volta capitasse un sinistro, avere conseguenze legali veramente gravi.

In questi giorni sto vivendo momenti di amarezza e di delusione a questo proposito, tanto da farmi concludere che sono stimate le persone che se ne fregano e ritenuto crudele ed ingeneroso chi si è adoperato per il bene dei loro genitori, spesso sottraendosi ai doveri umani di farsi carico delle toro difficoltà.

I “tempi supplementari”

Nota della Redazione: questo appunto è stato scritto, come gli altri, diverse settimane fa. Ora il volume contenente il diario del 2012 di don Armando è in distribuzione al don Vecchi, nelle chiese del cimitero e in ospedale all’Angelo. Ogni offerta è devoluta per finanziare il don Vecchi 5.

Tra le tante benedizioni e fortune della mia vita, ho avuto anche quella di avere sempre tanti e bravi collaboratori che sono riusciti a fare delle cose veramente belle. Quando penso ai duecento volontari impegnati a Radiocarpini o ai quattrocento in parrocchia di Carpenedo e ai duecentocinquanta e più che attualmente sono impegnati nette varie attività che gravitano attorno al “don Vecchi”, non posso che benedire il Signore.

Anche il “granello di senape” da cui è germogliato “L’Incontro” e che oggi conta una cinquantina di collaboratori, è partito dal nulla, ma in pochi anni è diventato un albero frondoso che sforna cinquemila copie del periodico alla settimana ed almeno due o tre volumi all’anno.

Qualche giorno fa uno di questi collaboratori mi avverti che i primi dieci mesi del diario del 2012 erano già pronti e quindi mi invitò a pensare al titolo e alla prefazione del volume che l’avrebbe raccolto, perché vorrebbero darlo alla stampa fin dai primi mesi del 2013. Riflettendo sulla mia veneranda età, 84 anni, e confrontandola con l’età media degli africani, che supera di poco i quarant’anni, m’è venuto da pensare che comunque sto vivendo i “tempi supplementari” come nelle partite di calcio: quel breve quarto d’ora in cui si risolve la partita.

Su questa riflessione s’è sviluppata fatalmente la mia riflessione: i tempi supplementari per loro natura sono brevi, essi sono risolutivi per il buon esito della partita, quindi bisogna mettercela tutta, tirar fuori le risorse residue, vivere intensamente, non ogni giorno ma ogni minuto, cogliere al volo ogni opportunità.

Da queste conclusioni m’è venuto spontaneo e necessario un attento esame di coscienza. Circa l’impegno ad occupare tutto it tempo, non mi è parso di avere rimproveri da farmi, ma sul vivere con la consapevolezza che i minuti sono contati e che le occasioni opportune sono sempre più rare e che in ogni incontro ed in ogni rapporto è doveroso che io dia il meglio di me, sono meno tranquillo. Non mi resta che sperare sulla comprensione di Dio e sull’aiuto dei fratelli.

“Mal comune…”

Una volta ancora ho modo di riscontrare che certi detti popolari che sono contenitori di saggezza ed anche di verità. In questa occasione sto registrando la validità della massima “mal comune mezzo gaudio” in merito al problema della predica.

Tante, forse troppe volte, ho ribadito che per me il sermone domenicale, nonostante predichi da 56 anni, costituisce ancora un dramma. Sono fortemente preoccupato su cosa e come dire e poi non sono mai contento di come ho offerto ai miei cari fedeli il commento al Vangelo.

Pure i motivi del mio scontento li ho più volte manifestati. 1: la parola di Dio è un qualcosa di talmente importante che chi la comunica deve farlo in maniera sublime. 2: la mia gente è tanto cara che meriterebbe che il dono del Signore le fosse offerto in un piatto d’oro. 3: mi piacerebbe essere all’altezza del compito che ho azzardato ad assumermi.

Il “mezzo gaudio” mi viene da una recente lettura di un’affermazione del compianto cardinale Martini. infatti in una sua conferenza afferma: «Mi ha confortato una lettera di un arcivescovo degli Stati Uniti perché mi ha detto “Eminenza sono preoccupato della qualità delle mie omelie e di quella esercitata da molti dei nostri pulpiti”». E il cardinale Martini aggiunge: «Mi ha consolato che abbiamo gli stessi problemi e le stesse difficoltà». Anche sant’Agostino però era sempre scontento delle sue omelie e ad un suo diacono che gli confidava di vergognarsi perché la catechesi del vescovo lo infastidiva, rispose: «Anche a me il mio parlare non piace quasi sempre, vorrei tanto esprimermi meglio».

Ora se gente di questo calibro fa queste confessioni ed è cosi preoccupata di non spiacere al sommo Iddio e al suo popolo, credo che io dovrò “tenermi la mia croce” e continuare a portarla confidando soprattutto sulla indulgenza di Dio e del suo popolo.

Qualche tempo fa mi è passata per la mente l’idea: “Chissà che non arrivi il tempo in cui sia dispensato dal predicare!”. Pero, dopo questa confidenza di così illustri personaggi, credo di non dover più coltivare questo desiderio.

Il problema dei bossoli e delle candele

La diocesi di Venezia ha avuto delle splendide figure di Patriarchi, due dei quali, Roncalli e Luciani, nel lasso di pochi anni sono stati chiamati a sedere nella cattedra di Pietro. Io però ricordo con grande ammirazione pure altre figure di Patriarchi che credo non sia giusto definire minori.

Di questi ultimi ho conosciuto, solamente per fama, il cardinale La Fontaine, mentre ho conosciuto di persona i cardinali Piazza, Agostini, Urbani. Mi piacerebbe dar testimonianza del valore di ognuno di essi perché hanno guidato la Chiesa di Venezia in tempi difficili. Cito solamente il veneziano cardinal Urbani, cui toccò in sorte il tempo amaro della contestazione. Di questo vescovo ricordo una sua particolare massima per dire a tutti quanto gli fosse difficile mettere il prete giusto al posto giusto. Con arguzia tipicamente veneziana, affermava: «Talvolta mi capita di avere una candela grossa, però ho un bossolo piccolo e talaltra ho un bossolo grande ma una candela fina”.

Quant’è difficile trovare il posto giusto a chi ti offre la sua disponibilità a dare una mano nelle opere di bene!

La mia ammirazione per questo vescovo certamente non è determinata da questo suo fiorito modo di argomentare, ma spesso mi sovviene quando qualcuno mi offre la sua disponibilità.

C’è sempre un grande bisogno di collaborazione, però il compito più difficile è quello di trovare il posto giusto per il tipo di persona, di attese e di competenze di chi si offre, perché spesso “il bossolo” per mettere la candela non è il più idoneo.

Ho gruppi che si lamentano di essere in pochi, d’aver troppo lavoro, però quando metto a loro disposizione il nuovo o la nuova venuta fanno subito i difficili e pare che invece di spalancare le braccia ad un’accoglienza cordiale ed affettuosa, si chiudano a riccio, quasi gelosi che qualcuno rubi loro il posto e che non sia idoneo o che tolga loro la corona del martirio per la causa a cui si dedicano.

Spessissimo mi trovo imbarazzato perché quando qualcuno risponde all’appello, incontro difficoltà pressoché insuperabili per l’inserimento. Il volontariato è una delle imprese più ardue e difficili per chi deve condurre questo esercito raccogliticcio, volubile e pretenzioso. Dico questo non per farmi commiserare, ma solo sperando che qualcuno comprenda il difficile “mestiere” che ho accettato di fare.

Il punto ove trovare il cristiano

Qualche settimana fa il parroco di Tessera ha pensato bene, nel quadro dell’anno della fede, di organizzare un incontro nella sua comunità per evidenziare che la fede, per essere tale, deve sfociare nell’alveo della carità.

All’interno di questa paraliturgia ha ritenuto opportuno che io portassi la mia testimonianza per quanto s’è fatto a Mestre negli ultimi cinquant’anni a livello di solidarietà.

Nonostante la cosa mi risultasse gravosa, però a motivo della stima che nutro per questo parroco e della mia totale condivisione per questa linea ideale, ho accettato, pur con disagio per la preoccupazione di poter essere giudicato uno che si fa bello per aver tentato di fare quello che ogni prete deve fare.

Ho iniziato la mia testimonianza dicendo che se si vuole scoprire dove sta il cristiano, nel guazzabuglio di idee che spumeggiano in questo mondo, bisogna usare le famose coordinate: la longitudine e la latitudine. La prima: la longitudine, il cristiano è uno che crede in maniera totale a Dio, a Gesù che ci ha parlato in suo nome e nella Chiesa che custodisce e trasmette il messaggio di Cristo. La seconda: la latitudine è costituita dalla carità, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Nel punto di incrocio fra queste due dimensioni si trova il cristiano.

Ho tentato quindi di parlare degli eventi di solidarietà in cui mi sono trovato coinvolto e a cui ho tentato di dare il mio apporto.

A San Lorenzo dal 1956 al 1971: la mensa di Ca’ Letizia con cena e poi colazione – il magazzino degli indumenti – docce – barbiere – vacanze estive dei vecchi e dei ragazzi – il mensile “Il prossimo” – i gruppi per la casa di riposo e per l’ospedale – il “Caldonatale” – gruppi caritativi nelle parrocchie di Mestre, il settimanale la Borromea.

A Carpenedo dal 1971 al 2005: il Ritrovo degli anziani – Villa Flangini, la Malga dei faggi e il mensile “L’anziano” per i vecchi e la rivista Carpinetum per le famiglie – radio Carpini – il gruppo “Il mughetto” per i disabili – il gruppo “San Camillo” per gli ammalati – i gruppi di adulti e di giovani della San Vincenzo – il gruppo per il terzo mondo – le prime residenze per gli anziani (Piavento, Ca’ Dolores, Ca’ Teresa, Ca’ Elisabetta e Ca’ Elisa).

Da pensionato dal 2005 al 2012: i Centri “don Vecchi” – due a Mestre, uno a Marghera e uno a Campalto. La fondazione del settimanale L’Incontro, Il polo solidale del “don Vecchi”, costituito da tre associazioni di volontariato:

  • “Vestire gli ignudi” (i magazzini dei vestiti cui convergono 30.000 persone l’anno);
  • “Carpenedo solidale” per il ritiro di mobili ed arredo per la casa e i supporti per gli infermi e il “Banco alimentare” con 2500 assistiti alla settimana;
  • “La buona terra” per la distribuzione di frutta e verdura (15 quintali al giorno).

In complesso più di 200 volontari sono impegnati in queste attività. Ora stiamo lavorando per il “don Vecchi 5”.

Guardando indietro devo constatare che il buon Dio mi ha donato una bella avventura, so bene che “tutto è grazia” e che basta lasciarsi condurre sempre dalla Provvidenza e divenirne l’umile braccio operativo.

Una decisione lucida

C’è anche chi mi rifiuta e parla male di me, ma per mia fortuna c’è anche chi mi stima e mi usa attenzioni che forse non merito ma che mi fanno piacere.

Quando s’è trattato di formare il consiglio della Fondazione Carpinetum che gestisce i Centri don Vecchi e per la quale il patriarca Scola m’aveva designato presidente, i soci fondatori della stessa – parrocchia di Carpenedo e diocesi – mi hanno cortesemente offerto di potermi scegliere i relativi consiglieri, che poi essi hanno nominato. Quando poi ho ritenuto opportuno di non accettare per un altro mandato la presidenza della Fondazione, il patriarcato mi ha chiesto di suggerire un nuovo presidente. E quando si è installato il nuovo consiglio, esso mi ha pregato di accettare la nomina a “direttore generale”. Non si pensi però che si tratti della direzione della Banca d’Italia! Comunque è stato un gesto di cortesia che ho quanto mai apprezzato e per il quale sono stato riconoscente ai membri di questa Fondazione.

Però in un recente consiglio di amministrazione ho fatto presente il mio desiderio di collaborare da semplice volontario e non più con alcun incarico ufficiale. Ho sempre approvato l’idea che ai giovani appartiene il futuro perché esso sorge ove loro puntano gli occhi. Sono pure convinto che la gerontocrazia, seppur fatta da gente preparata ed intelligente, finisce per rallentare la giusta evoluzione e quindi diventa fatalmente un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Così in politica – io sono per Renzi – come nella Chiesa e così pure nelle strutture di minore entità, tifo per chi guarda al futuro piuttosto che al passato.

Non scelgo né la poltrona né la pantofola, ma penso di usare meglio i miei tempi residui come volontario piuttosto che da dirigente.

Fortunatamente, anche in questi tempi, ci sono state delle bellissime figure di vescovi che, una volta smessi la mitria e il pastorale, hanno scelto di fare i cappellani senza far mancare alla Chiesa il loro apporto. Io, pur conoscendo fino in fondo i miei limiti, sento di dovermi orientare con decisione verso una soluzione simile, servendo il prossimo come l’ultimo “manovale”, lasciando ai più giovani e più dotati, il timone della barca.

I preti che stimo

Una volta una buona signora, che mi stima e mi è affezionata, mi chiese candidamente come mai io ce l’avessi contro i preti.

Non mi è stato tanto facile spiegarglielo. Io ho un concetto molto alto del sacerdote. Di certo non sono un ammiratore dei curatini tutti Gesummaria, meno che meno dei preti “impiegati” dell'”azienda Chiesa”. Neppure mi esaltano i preti “allineati e coperti” preoccupati di eseguire ciecamente tutti i desideri del loro vescovo anche quando fossero insulsi e campati in aria. Detesto ancora i preti in carriera e quelli che vivono in combutta con i faccendieri e compatisco con fatica i “don Abbondio”.

Detto questo, confesso che ammiro quanto mai i sacerdoti credenti, quelli onesti, quelli liberi, quelli generosi e coerenti e “faccio le bave” per quelli folli, ossia quelli che si compromettono, che guardano con fiducia al futuro, quelli che vivono poveramente, quelli che rappresentano la testimonianza e soprattutto la profezia e nella società attuale e si sporcano le mani per gli ultimi. Non faccio nomi solamente perché li ho fatti già infinite volte.

Quando scopro poi dei “tesori nascosti” mi sento felice, mi ritengo fortunato ed entro positivamente in crisi perché essi mi sono di pungolo per la mia coscienza di cristiano e di sacerdote.

Già ho parlato con gli amici più intimi con i quali dialogo settimanalmente con questo mio diario, delle traversie per trovare un prete che dicesse messa nella nuova “parrocchietta” dei settanta anziani del Centro don Vecchi di Campalto, tagliato fuori dal consorzio civile dalla trafficatissima e pericolosa via Orlanda. Ho fatto tre tentativi che, per un motivo o per l’altro, sono andati falliti, tanto che non m’è rimasta se non la speranza che i cristiani copti egiziani, che abitano accanto al don Vecchi, costruiscano la chiesa in preventivo, per suggerire ai nostri vecchi di frequentare almeno la chiesa dei nostri fratelli vicini ma “separati”.

Sennonché un giovane parroco, che mi avevano descritto come un contestatore, si è offerto di farlo lui e quindi, in modo garbato e rispettoso, ho tentato di fargli accettare l’offerta “consacrata dalla tradizione”: l’ha prontamente e cortesemente rifiutata.

Vorrei spiegare quindi alla mia buona signora e a chi la pensa come lei, che questo tipo di preti fa più bene al mio spirito che la “summa teologica” di san Tommaso o gli scritti di mistica di san Giovanni della croce, mentre i primi, di cui ho parlato, li considero una delle cinque piaghe delle quali ha parlato Rosmini.

Le soluzioni ci sono ma…

Qualche giorno fa, di primo mattino, mentre riassettavo le ceriere ed i lumini della chiesa della mia “diocesi” popolata da non moltissimi vivi, mi ha raggiunto una inaspettata telefonata dall’Agordino. Un signore mi chiedeva di potermi incontrare per avere più precisi ragguagli sulla nostra meravigliosa realizzazione nei riguardi degli anziani.

Per caso aveva scoperto in internet il “don Vecchi” come una delle “nove meraviglie del mondo”. Spinto dalla curiosità, il mio interlocutore telefonico mi confessò pure che un giorno, in incognito, era venuto a “spiare” il nostro Centro ed aveva visto la hall animata da tanti anziani che gli sono parsi tanto vivi e contenti. Da questa “scoperta” gli era nata l’idea di poter trasformare un suo condominio ad Alleghe, di cui era comproprietario con altri soci, in un Centro per anziani simile al nostro.

A me è venuto il sospetto che la sua sia stata un’operazione commerciale che non ha avuto buon esito, soprattutto a causa della crisi che ha falcidiato le richieste di affitto, durante la stagione estiva ed invernale, di questi costosissimi appartamentini di montagna. Comunque rimango convinto che sia sempre opportuna ogni operazione che sia posta in atto a favore dei nostri vecchi.

Gli risposi che sarei stato ben felice di incontrarlo per mostrargli più direttamente la nostra struttura, ma soprattutto la dottrina che la supporta, cioè offrire un alloggio protetto agli anziani meno abbienti, tanto che anche chi ha una pensione sociale possa abitarvi e vivere, o almeno a sopravvivere, dignitosamente.

Purtroppo ho già incontrato un numero consistente di imprenditori che pensavano di fare un business con questo tipo di alloggi, poi però, quando ho parlato loro di quanto pagavano gli utenti, “è cascato l’asino” perché la nostra è un’operazione sociale con motivazioni ideali e quindi non è realizzabile per chi non accetta la logica della solidarietà.

Ora non mi resta che sperare che il Signore di Alleghe e i suoi amici, magari con qualche aiuto del loro Comune, vogliano entrare in questa logica squisitamente cristiana di concepire il nostro vivere su questa nostra terra.