Perché Monti non cede alla tentazione

Mentre sto buttando giù questi pensieri, i politici, i politologi, i giornalisti e i mass-media in genere non fanno che parlare della discesa in campo di Mario Monti, il presidente che il Centro sinistra e il Centro destra hanno sopportato contro voglia.

I professionisti della politica, che si sono visti messi da parte dal presidente Napolitano che li ha espropriati del potere, dalla gente che li sta detestando e dall’Europa che li vede male quanto mai, capiscono che aver dalla loro parte Mario Monti rappresenta un salvagente a cui aggrapparsi per non affondare.

Casini e colleghi sognano Monti come un salvatore che potrebbe rimetterli sul trono e perciò, da mane a sera, lo tirano per la giacca. Bersani spera segretamente di poterne disporre dopo la sua vittoria elettorale. Berlusconi, da parte sua, ha tentato d’averlo come capitano di ventura che recuperi il suo esercito irrequieto e poco obbediente agli ordini. E perfino la Chiesa desidera che questo suo “fedele” vada al governo per tutelarla dai vari Vendola e compagni.

Io, ancora una volta, mi trovo isolato ed in controtendenza perché spero con tutte le mie forze che non si metta con questi “cattivi compagni” che potrebbero corromperlo e perché desidererei che l’Italia avesse un tesoretto di uomini in serbo da poter tirar fuori nel momento di bisogno. Questa sera ho chiesto al mio angelo custode, che è uno spirito retto e buono, che si metta in contatto con quello di Mario Monti e pure con quello di Riccardi, di Severino perché non si mettano assieme a quella banda di briganti.

P.S. Questa volta temo che il mio angelo custode non mi abbia dato retta, o che Monti non l’abbia ascoltato.

Le nenie natalizie e i poveri

Oggi è stata una giornata di nebbia: freddo, umidità, cielo cupo. E la serata è ancora peggiore. Quando ero bambino mio padre affermava che queste erano “sere da ladri”.

Me ne sto nel mio studiolo caldo, con la lampada da tavola che illumina il foglio bianco. Ho appena letto nel Vangelo di Luca la risposta che Giovanni Battista dà alla gente che gli chiedeva che cosa dovesse fare per trovare pace: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha e chi ha da mangiare faccia altrettanto».

Fra pochi giorni pensai, sarà la festa di Natale: regali, pranzi con i fiocchi a casa, e nelle chiese dolci canti, ricchi di sentimento, di melodia, alleluja a non finire, pastorali e prediche sul presepe, il bambinello Gesù, la stella, i pastori e l’Incarnazione. Le donne in pelliccia, i bambini con giubbotti ben caldi e mariti messi a nuovo che per Natale non mancheranno alla messa di mezzanotte.

Però a questi suoni e a queste immagini romantiche nel mio animo si sovrapponevano quelle dei poveri della mensa dei frati, di Ca’ Letizia e di Altobello, gli ospiti dell’asilo notturno, la stazione sovraffollata di senzatetto, le prostitute discinte per le strade in attesa di offrire “amore a pagamento” e le donne dell’est in cerca disperata di trovare qualche vecchio a cui badare e, sia pure, una squallida stanza in subaffitto.

Avvertivo nell’animo uno stridore insopportabile. Si dica quello che si vuole, ma certi sermoni mi sembrano più bestemmie che atti di fede. La mia Chiesa non può continuare a vivere in questa terribile ipocrisia da farisei. Mi viene in mente l’augurio del defunto vescovo di Molfetta: «Vi auguro un Natale scomodo, un Natale da Cristo che turbi la coscienza dei benpensanti!».

Ho un bell’affermare che al “don Vecchi” si offrono ogni settimana generi alimentari a 2500 persone, che ogni giorno si rendono disponibili 15 quintali di frutta e verdura e vestiti a volontà per un euro (e talvolta anche solo 50 centesimi), che al “don Vecchi” hanno trovato rifugio quasi 500 vecchi poveri in 315 alloggi!

Questo non mi basta per mettere la mia coscienza in pace. Giovanni gridò : «Potrete scoprire e incontrare il Salvatore solamente se cederete una delle due tuniche e metà del vostro cibo!» Ho paura che noi cristiani corriamo il rischio, ancora una volta, di incontrare spesso solamente una bolla di sapone iridata, pronta a scoppiare al primo soffio di vento, piuttosto che Colui che può dare serenità all’oggi e speranza per il domani.

Il segno della fede

Qualche tempo fa è morta una donna per cui è stato chiesto il commiato cristiano. Io non conoscevo assolutamente questa creatura perché era vissuta in un paese dell’interland della nostra città. Avevo chiesto ad un suo fratello qualche notizia sulla vita della sorella e lui era stato abbastanza vago circa la fede e la vita religiosa della sorella, ribadendo però il fatto che era stata molto disponibile ad aiutare un po’ tutti, lavorando in una casa di riposo e che aveva avuto moltissime amiche. Questo tipo di risposta mi giunge abbastanza di frequente.

Prima del rito una collega della defunta è venuta a chiedermi di poter dare un saluto desiderando confermare la grande disponibilità all’amica scomparsa. Quasi d’istinto sentii il desiderio di avere un’ulteriore precisazione circa la religiosità della defunta, però anch’essa rimase un po’ sfuggente. Allora la incalzai chiedendo in maniera diretta: «Era credente?» «Penso di si», mi rispose. Allora continuai: «Ma non era proprio per nulla praticante?» Al che questa giovane amica mi rispose con sicurezza, quasi volesse sfidarmi su un terreno su cui credo avesse già riflettuto: «Era però molto generosa ed amava seriamente il prossimo», quasi a dire che questa è la religiosità che salva agli occhi di Dio.

Non risposi, perché il terreno si faceva scivoloso per un “ministro del culto”, ma soprattutto perché la pensavo come lei, però non volevo correre il rischio che questa cara ragazza pensasse che io ritenessi non utile la pratica religiosa. Credo però che sia proprio l’amore che salva e che non esista fede vera senza amore e solidarietà verso il prossimo.

Santa Lucia

I miei amici sanno che ho una sorella che si chiama Lucia. Mia sorella, dopo aver passato una vita, come infermiera, nel reparto di oculistica dell’ospedale Umberto I di Mestre, ai tempi del professor Rama, si dedica anima e corpo ad un piccolo ospedale del Kenia, all’interno della sconfinata savana, spesso brulla per il sole e talvolta verde e fiorita quando arriva la stagione delle piogge.

Lucia è forse l’unica, tra i miei sei fratelli ed innumerevoli nipoti, a cui faccio gli auguri per l’onomastico, perché ha un nome che il calendario religioso ricorda il 13 dicembre. A Lucia ho donato quest’anno la prima stella di Natale in vendita nel negozio di fiori della piazzetta del cimitero e poi l’ho ricordata durante l’Eucarestia che ho celebrato nel primo pomeriggio nella mia cattedrale tra i cipressi.

La festa di santa Lucia però non mi è cara solamente perché la mia sorella più piccola porta il suo nome, ma anche perché è la protettrice degli occhi e quindi mi rammenta il dono prezioso della vista. Vedere è uno splendido dono di Dio, un dono che si apprezza appieno solamente quando si guardano i volti delle persone, il cielo e la terra, con curiosità, con meraviglia e con stupore. Spesso purtroppo diamo per scontato il fatto di poter scoprire la bellezza, l’armonia, i colori, le sembianze e la tavolozza di infinite sfumature dei colori del Creato.

Nella breve meditazione che ho tenuto durante la messa, riferivo ai fedeli una novella di Gide. Ricordo con riconoscenza questo geniale scrittore d’oltralpe perché mi ha insegnato, con il suo racconto, a guardare il Creato con un sentimento di curiosità, di stupore e di meraviglia, facendomi incantare di quanto mi circonda anche nelle giornate grigie, cupe ed apparentemente spente.

In questa novella Gide racconta l’esperienza di un pastore protestante, che era pure medico, che in un suo giro pastorale scopriva una adolescente cieca, ma che poteva recuperare la vista con cure opportune. Infatti la ragazza guarisce e lo scrittore aiuta il lettore a scoprire la struggente bellezza del Creato con lo stupore e l’incanto con cui questa giovane donna, che è appena uscita dal buio delle tenebre, scopre l’acqua verde del fiume, i movimenti armoniosi dei giunchi mossi da una lieve brezza, il danzare degli uccelli nel cielo azzurro e la luce calda del sole.

Il Signore ha permesso allo scrittore ateo di dare, anche lui, luce agli occhi, per vedere le meraviglie operate dal buon Dio.

Ritorno

Qualche tempo fa la dottoressa Lina Tavolin, responsabile de “Il Germoglio”, centro polivalente per l’infanzia, mi ha invitato a partecipare alla celebrazione del centenario di quello che un tempo era denominato “L’asilo infantile” della parrocchia di Carpenedo, sito in via Ca’ Rossa.

Su questa “creatura”, che con tanti sacrifici ho tentato di far rifiorire, ho scritto innumerevoli volte sulla stampa parrocchiale. Quello del restauro architettonico, ma soprattutto di quello pedagogico della vecchia ed ormai “sgangherata” scuola materna, è stato un capitolo quanto mai importante e ricco di fascino della mia vita come responsabile di quella comunità cristiana.

In una decina d’anni quella struttura obsoleta ed ancorata ad un cliché superato, è diventata una “scuola d’infanzia” – come si dice oggi – di prim’ordine e certamente ai primi posti nella graduatoria delle scuole materne di Mestre. Anzi penso proprio che le si possa con certezza assegnare la medaglia d’oro.

Da un punto di vista strutturale è stato il piccolo alunno di tempi lontani, Andrea Groppo, ora manager affermato, a fare dei veri miracoli. Mentre l’esterno del fabbricato mantiene l’austero volto dello stile Liberty di inizio novecento, l’interno è diventato quanto di più moderno e funzionale che si possa desiderare.

Per quanto invece riguarda l’aspetto pedagogico e didattico, il cuore, il calore e l’incanto, gliel’ha donato l’allora giovanissima pensionata dottoressa Lina Tavolin.

Lina – così tutti la chiamano -, ha creato un corpo di educatrici quanto mai valido ed affiatato, ed uno stile di vita parascolastico così fresco, sorridente, familiare ed accogliente grazie al quale tutta la struttura sembra un’aiuola fiorita dai volti belli dei piccoli della comunità.

La dottoressa Tavolin, che cinque, sei anni fa era andata in pensione per la seconda volta, è stata richiamata alle armi dal nuovo giovane parroco don Gianni, facendo così rifiorire sia la scuola che se stessa, attraverso una sorprendente rigenerazione.

Quando sono entrato nel mio vecchio asilo per il centenario, m’è venuto da pensare che la dottrina buddista della reincarnazione non sia del tutto sbagliata, vedendo questa fresca realtà nata da una struttura centenaria.

Raramente ho visto tanta vitalità, tanto movimento, tanta efficienza e collaborazione tra la scuola e il tessuto ambientale e sociale di cui è anima ed espressione. Ogni infisso, ogni arredo, ogni stanza che ho rivisto in quella mezz’oretta in cui vi sono rimasto, mi ha ricordato un’avventura che ha avuto anche momenti difficili e perfino drammatici, ma che tutto sommato ha approdato a risultati quanto mai positivi.

Me ne sono tornato a casa più che convinto che il coraggio, la collaborazione, la buona volontà e lo spirito di sacrificio, sono ancora capaci di “far miracoli”, e miracoli quanto mai belli e promettent!

“Sei vecchio”

Recentemente ho incontrato per la prima volta il nuovo Patriarca, il quale ha voluto sapere da me “vita, morte e miracoli” del mio trascorso. L’ho accontentato senza difficoltà.

Nella mia vita o sono stato un prete fortunato o, come spero, sono stato io a costruire ogni volta la mia “fortuna”. Da parte mia sono convinto che sia giusta questa seconda ipotesi, perché da sempre credo che siamo noi a dare un volto e una storia all’ambiente ove viviamo.

Raccontai al Patriarca la mia vicenda di insegnante alle magistrali, di assistente all’Associazione Italiana Maestri Cattolici e di assistente degli scout (credo umilmente di essere stato un protagonista a livello cittadino dello sviluppo di questa associazione). Gli ho poi parlato delle mie vicende alla San Vincenzo con la mensa di Ca’ Letizia, il periodico e le mille iniziative. Gli ho riferito del ruolo diocesano e soprattutto parrocchiale nei riguardi della pastorale per gli anziani, con la nascita del “Ritrovo” ed il relativo periodico. Gli ho descritto ancora i miei trent’anni di vita da parroco e delle mie tante soddisfazioni, quali i cento chierichetti, i duecento scout, i gruppi sposi, il patronato, villa Flangini, la Galleria, il settimanale “Lettera aperta”, il mensile “Carpinetum”.

Infine gli ho parlato della bellissima avventura dei Centri don Vecchi e di quello che io chiamo, con un po’ di enfasi, il “polo solidale” del Centro don Vecchi, con i relativi magazzini di indumenti, di mobili, di generi alimentari e di frutta e verdura.

Il Patriarca mi ha ascoltato per circa un’ora senza quasi interloquire. Quando poi un anziano diacono, suo “aiutante di campo” l’ha avvisato che il tempo era scaduto, guardandomi negli occhi mi ha detto i miei due principali difetti. Primo: «Sei vecchio, ma per questo difetto non si può far nulla». (Del secondo parlerò un’altra volta).

Ho concluso che il Patriarca sarà solito ascoltare delle storie di preti con storie molto più belle delle mie e questo mi fa molto felice. Mi pare che sia stato Alcibiade – o un altro personaggio di quei tempi – che non essendo stato accettato nel gruppo dei 300 guerrieri più forti della sua città, abbia detto: «Sono orgoglioso che a Sparta vi siano 300 guerrieri migliori di me».

Io ho provato lo stesso sentimento di consolazione e spero di far tesoro del mio primo difetto accentuando la preparazione all’incontro finale col buon Dio e il distacco dalle cose di quaggiù e mi propongo quindi di non buttar via neppure un attimo del mio tempo e non perdere alcuna occasione per servire il mio prossimo e fare un po’ di bene.

Il costruttore benefico

Qualche giorno fa la direttrice della sede del Banco San Marco di Viale Garibaldi mi ha telefonato annunciandomi che un certo Ernesto Cecchinato aveva versato centomila euro a favore della Fondazione Carpinetum per la costruzione del “don Vecchi 5” per gli anziani in perdita di autonomia.

Di primo acchito non riuscii ad orizzontarmi, poi pensai alla telefonata di un responsabile dell’AVIS di Marghera che, qualche tempo prima, mi aveva chiesto le coordinate bancarie perché un novantenne di Bassano voleva fare un’offerta per il “don Vecchi”. Infine chiesi in banca l’indirizzo del generoso benefattore ed allora, pian piano, capii che si trattava di una cara e vecchia conoscenza: l’ingegner Ernesto Cecchinato.

Conobbi personalmente l’ingegner Cecchinato in un’occasione particolare che mi piace ricordare. Sapevo da sempre che questo professionista mestrino, assieme ad un certo “faccendiere” di Carpenedo, aveva bonificato le cave che soprattutto un altro paesano di Carpenedo, il signor Casarin, aveva scavato per cuocere i mattoni nella sua fornace. Nella periferia di Mestre, in quello che poi fu chiamato viale don Sturzo, si trovavano e si trovano tuttora degli strati di argilla con cui si facevano tegole e mattoni a mano in quantità. L’ingegner Cecchinato progettò e realizzò tutti quei fabbricati del viale che ora ha, ai bordi, due magnifici ed imponenti filari di pini marittimi.

Fu un’operazione terribilmente faticosa ed intricata, per la solita burocrazia comunale che anche attualmente mette i bastoni fra le ruote alla costruzione della Torre Cardin, ma che pure vent’anni fa non era meno ottusa ed ingombrante. Tali e tante furono le complicazioni e gli ostacoli, che questo ingegnere finì per prendersi un grave esaurimento nervoso da cui venne fuori dedicandosi alla pittura.

Otto o nove anni fa l’ingegner Cecchinato si presentò al “don Vecchi” chiedendomi se volevo accettare i suoi dipinti. Si trattava di 150 quadri ad olio, di buona fattura, già incorniciati. Li accettai di buon grado perché sono appassionato di pittura e perché mi dava modo di ornare l’immensa sala dei 300 ove ogni settimana celebro messa per i residenti. In quella occasione l’ingegnere mi regalò pure cinque milioni.

Ora questi paesaggi, come murrine ricche di colore, mi sorridono ogni volta che dico messa. Da sempre questi quadri mi ricordavano il volto buono e caro del concittadino costruttore. Ora quel ricordo si ravviva e si impreziosisce per il rinnovato gesto di fiducia e di solidarietà.

Al “don Vecchi” una targa di bronzo ricorderà per i secoli il munifico benefattore.

Anime morte

Non passa giorno che soprattutto qualche donna dell’est, moldava, rumena o ucraina, non venga al “don Vecchi” per chiedere di poter trovare un lavoro.

Una decina di anni fa, quando “inventammo” il “Senior Service” del don Vecchi, queste lavoratrici dell’emigrazione accettavano tutto. Non conoscevano quasi l’italiano, comunque tutte si presentavano dicendosi disponibili per le 24 ore, ossia per un’assistenza giorno e notte, tutti i giorni della settimana, per 600, 700 euro al mese. Le mettevamo a contatto con la coda di richiedenti e queste giovani donne si “seppellivano” anche in piccoli e poveri alloggi, condividendo con vecchi affetti dall’Alzheimer o dal Parkinson, la triste vita, lontane dalle loro famiglie.

Poi, pian piano, presero coscienza dei loro diritti e cominciarono a chiedere un giorno di libertà, due ore di riposo al giorno, un mese di ferie pagate, per rientrare nei loro Paesi lontani, la regolarizzazione sindacale, una stanza per conto proprio o qualche altra cosetta ancora, valutando il peso dell’assistito, e il tipo di malattia. Però la coda di richiedenti si è prima assottigliata e poi è scomparsa. La crisi raggiunse anche i ceti medi che un tempo potevano permettersi la badante.

Oggi le badanti mi appaiono come “anime morte” che vagano in città in cerca di un alloggio, di un lavoro, tra l’indifferenza e il sospetto di un popolo non ancora pronto ad accogliere il diverso e a condividere il dramma che ha colpito l’Europa e il mondo.

La crisi è per tutti, ma per il popolo delle badanti è doppia, forse tripla.
Qualche giorno fa una giovane donna moldava mi supplicava di indicarle un lavoro perché, per mangiare, si arrangiava in qualche modo andando dai frati o alla San Vincenzo, ma per dormire non c’era porta che si aprisse ed anche per una stanza condivisa con altre due o tre coinquiline le domandavano al minimo duecento euro.

Le ho chiesto il numero di cellulare, pur sapendo che non la chiamerò mai, perché da settimane e settimane si accumulano sulla mia scrivania numeri di cellulari con nomi di donne ed uomini stranieri, e pure italiani, che stanno cercando con angoscia un posto di lavoro a qualsiasi titolo e con qualsiasi remunerazione, però il cumulo di richieste continua a crescere piuttosto che a diminuire.

Mi duole il cuore pensando a questa donna che, come tante altre, continua a cercare invano nel freddo e nell’indifferenza, un lavoro, mentre nella mia Chiesa si continua a pensare quasi esclusivamente agli angeli del cielo!

Un seme scout

Una delle cose più accettabili ed anche più belle a cui il popolo italiano ha potuto assistere in quest’ultimo tempo, è stata certamente la competizione tra Bersani e Renzi per le primarie, per chi, del popolo del centrosinistra, dovrà proporsi come leader alle prossime elezioni.

C’è un detto popolare, saggio come sempre, che afferma che “in un popolo di ciechi un monocolo è re”. Così è avvenuto anche per i politici italiani. A questo mondo bisogna sempre accontentarsi!

Tra lo squallore del tira e molla del centrodestra e gli interminabili conati del centro, quello che ci ha offerto il PD è già una piccola consolazione.

Io ho assistito a due dibattiti e, pur facendo il tifo per Renzi, giovane frizzante e quanto mai radicale, ho pure ammirato la pacatezza, l’equilibrio, la misura e il mestiere di Bersani. Da un lato mi pare che sia emersa la poca esperienza di Renzi e dall’altro lato mi è parso che Bersani abbia avuto atteggiamenti pacati e rassicuranti. Mi preoccupano però i “cattivi compagni” Vendola e D’Alema, che questo segretario del PD frequenta ancora, e il tipo di educazione ricevuta fin dall’infanzia a Botteghe oscure.

Io avevo deciso di votare scheda bianca, per unirmi al coro di chi vuole, una volta ancora, bollare i politici parolai, inconcludenti, interessati e corrotti. Il “duello” televisivo mi ha per ora salvato da questo suicidio elettorale e per ora sto alla finestra sperando che in questi ultimi mesi qualcosa accada, perché nel mio cuore si è rinforzata una speranza.

Leggendo la biografia politica di Renzi mi ha fatto piacere leggere che il giovane e “garibaldino” sindaco di Firenze ha messo in capo alla sua dottrina questo messaggio sociale: “Considero mio onore meritare fiducia”. Questo è il primo articolo della “legge scout” che certamente egli ha appreso nella sua adolescenza.

Mi è venuto da pensare: “Vuoi vdere che le centinaia di migliaia di ragazzi che sono passati per i nostri patronati, che hanno militato tra gli scout e l’Azione Cattolica, ai quali abbiamo insegnato l’onestà, la rettitudine, il coraggio e la generosità, abbiano ad approdare alla politica e portare una ventata di giovinezza umana?”

Il Papa da tanto tempo, come soluzione ai mali che fino a ieri sembravano inguaribili, si è augurato l’entrata in politica dei giovani. Spero che Renzi sia “il primo fiore di primavera” o “la prima stella del nuovo giorno”, della politica italiana.

L’EX

Il criterio con cui accettiamo le richieste di entrare al “don Vecchi” è pressoché unico: il bisogno economico o esistenziale.

Abbiamo creato una griglia di valutazione, però essa si rifà fondamentalmente al criterio suddetto. In questa griglia sono assolutamente assenti altre indicazioni, quali militanza politica, pratica religiosa, irregolarità nei rapporti famigliari, storia del passato o i motivi per cui il richiedente è costretto a chiedere aiuto al nostro ente, il quale però non nasconde mai la sua matrice religiosa. L’accoglienza si rifà all’immagine evangelica della “rete buttata in mare e che raccoglie ogni sorta di pesci”. Da noi non c’è cernita alcuna.

Da questa scelta lucida e meditata abbiamo raccolto e stiamo raccogliendo ogni specie di uomo. Per fare qualche confidenza, meno di metà dei residenti viene regolarmente a messa, pur avendo “la chiesa in casa”. Alcuni – pochi ma ci sono – hanno rifiutato il sacerdote che chiedeva di dare la benedizione, alcuni vivono al Centro come fosse un albergo, vanno e vengono, talora degnandosi solamente di un accenno di saluto. Altri si occupano solo dei nipoti, ossia dei figli di quei loro figli che li hanno messi alla porta. Altri ancora non nascondono una certa avversione per il clero e per i suoi “derivati”. Altri sono prontissimi ad approfittare di ogni occasione vantaggiosa, mentre non sono disposti a muovere neppure un dito per la comunità che li ospita. E potrei continuare.

Questo è il volto negativo della medaglia, però c’è anche quello bello, anzi semplicemente meraviglioso. Credo che credere alla carità esiga pagare questo prezzo. Ci siamo proposti di rispettare le opinioni e i comportamenti di coloro che sono i più lontani dalle nostre convinzioni, perché crediamo anzitutto al valore della nostra testimonianza.

Fortunatamente ogni tanto arriva qualche riscontro che aiuta la nostra “fede”. Qualche settimana fa mi è giunto un foglio di una sessantottina radicale che militava in “Lotta continua” e che si dice di estrema sinistra: “Son venuta al don Vecchi perché costretta dal bisogno. Qui però ho incontrato un ambiente `laico’ che mi fa sentire a mio agio. Questa è la `mia casa’ e sono felice di spendermi tutta perché tutti possano vivere con serenità e fraternamente. Ringrazio Lei, don Armando, e il buon Dio perché mi fa sentire ancora viva”.

Al “don Vecchi” si paga poco, l’ambiente è signorile e ricco di cose belle, ma l’aspetto descritto da questa residente è forse una delle componenti più preziose ed esclusive di questa struttura pilota per anziani in difficoltà. Di ciò, confesso, provo orgoglio.

Più monologhi che dialogo

Un mio caro e nuovo amico che si è offerto di darmi una mano come “ministrante” durante i riti che celebro nella mia “cattedrale fra i cipressi”, si intrattiene spesso con me in discorsi che riguardano i problemi religiosi e la vita della Chiesa sul nostro territorio. Questo signore è sensibile a questi problemi, avendo appena concluso il percorso di ricerca religiosa EVO, promosso sulla falsariga degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio proposti dai padri gesuiti. Inoltre, essendo un suo figlio, giovane avvocato, entrato da poco in seminario, durante l’attesa delle celebrazioni liturgiche, parla volentieri con me anche di ciò che avviene nel nostro piccolo mondo della diocesi.

Man mano che egli si addentra in questa realtà, per lui nuova in quanto nel passato – pur essendo un cattolico osservante – visse una vita intensa da imprenditore, gli piace riferirmi le sue nuove esperienze ecclesiali. Io gradisco quanto mai questo rapporto perché mi dà modo di confrontarmi su discorsi e problemi di carattere religioso sui quali, purtroppo, data la vita che faccio, a me capita quasi sempre di relazionarmi solamente a senso unico. Lo faccio, di solito, attraverso la lettura dei periodici di ispirazione religiosa, ma quasi mai mi capita di parlare con i colleghi e con i cristiani comuni che pare siano molto indifferenti a questi problemi. Dall’altro lato le informazioni minute e specifiche di quest’uomo sulle iniziative diocesane mi aiutano ad essere più idealmente partecipe alla vita della mia Chiesa locale.

Spesso mi sono domandato come mai nella nostra Chiesa il confronto e il dialogo di carattere religioso e spirituale sia così scarso, poco vivace ed appassionato tra i cristiani del nostro tempo. Ho la sensazione che da un lato la gerarchia ecclesiastica si sia quasi arrogata l’esclusiva di trattare questi problemi e, dall’altra parte, i cristiani comuni abbiano passivamente delegato il loro compito di partecipazione e di contributo.

Credo che sia giusto e doveroso premere perché la Chiesa di oggi diventi sempre più la “nostra Chiesa”, non solo nella dimensione di appartenenza, come avviene ora, ma anche nel senso che la Chiesa deve avvalersi dell’apporto di tutti e sia quasi la risultante di questo apporto, perché è assurda una Chiesa in cui ci sia il predominio assoluto di pensiero e di scelta da parte di qualcuno o di qualche ceto ecclesiale.

Parlare di “Chiesa di popolo” comporta il coinvolgimento attivo e lo stimolo perché ogni cristiano, anche il più umile, diventi partecipe, anzi protagonista, del pensiero e delle scelte del Popolo di Dio.

Ripetitività nei sermoni

Ci sono nel calendario della Chiesa delle feste che ricorrono puntualmente ogni anno. Queste celebrazioni ripetitive mi mettono in crisi fin da sempre perché un anno fa presto a passare ed io mi ritrovo a dover fare la predica sullo stesso argomento che ho fatto per ben 56 volte – tanti sono gli anni che faccio il prete! Il disagio poi aumenta perché io ricordo bene quanto ho detto l’anno o gli anni precedenti sullo stesso argomento ed ho quindi il timore che anche i miei fedeli abbiano buona memoria e possano dire: «Che ripetitivo è questo vecchio prete, che fa ogni anno la stessa predica!».

Fortunatamente il mio vecchio parroco, monsignor Aldo Da Villa, che era un predicatore di prim’ordine, un anno in cui gli confidavo questo mio tormentone, mi rassicurò dicendomi di non preoccuparmi perché, anche dovendo parlare dello stesso argomento, c’è ogni volta un’altra atmosfera e soprattutto cuore e mente suggeriscono qualcosa di diverso e di più vivo,.

Aveva ragione! Io da sempre, quando mi preparo il sermone, mi faccio degli appunti che un tempo conservavo, tanto da averne raccolto mezzo cassone. Quando però talvolta, trovandomi alle strette, andavo a ripescare le vecchie prediche, avvertivo che erano come le vecchie foglie gialle che cadono in autunno: smorte, fredde, superate. E perciò sempre sono stato e sono costretto a mettermi la testa fra le mani a pensare e pregare che il buon Dio mi illumini per trovare pensieri che mi facciano bene.

Quest’anno però, per la Madonna della Salute, ho pensato qualcosa che mi ha convinto e penso abbia convinto anche i fedeli che hanno partecipato alla celebrazione. Eccovi lo schema, se il prossimo anno vorrete verificare se sarà lo stesso:

  1. La salute è un dono esclusivo di Dio, nessuno ha titoli per chiederne tanta e per tanto tempo; tutto quello che ci è donato è assolutamente un dono.
  2. Iddio ci dà questo dono perché lo godiamo; non possiamo essere gli eterni brontoloni che smaniano anche per deficienze marginali.
  3. La salute ci è data perché non la sprechiamo e la usiamo per il bene degli altri.
  4. Possiamo chiedere il dono solamente quando osserviamo le regole di vita che Dio ci ha dato.
  5. Un tempo il Signore intervenne direttamente, mentre ora lo fa tramite la sanità, che diventa così la mano provvida di Dio.
  6. La salute vera è quella che non si riduce al benessere fisico e psichico, ma comprende anche l’aspetto spirituale.

Questa meditazione mi ha fatto bene. Spero che così sia avvenuto anche per i fedeli che hanno pregato con me la Vergine Santa.

Delocalizzazione

Non passa giorno che la stampa e la televisione non ci informino che aziende e fabbriche, anche del nostro Veneto, benché abbiano commissioni sufficienti e attrezzature moderne, decidono di spostarsi in Polonia, in Romania o anche nella vicina Serbia, licenziando decine e centinaia di nostri operai. Noi, qui a Marghera e nel vicino interland, assistiamo impotenti, tanto frequentemente, ai drammi che sono determinati da queste scelte. Perdere il lavoro oggi corrisponde alla morte civile!

Io sono un povero gramo, digiuno in modo assoluto di economia e perciò, con tanto di professoroni in materia che abbiamo al governo, di politici che sanno tutto e di sindacalisti che pare abbiano una risposta per ogni problema occupazionale, dovrei starmene zitto. Però sento il dovere di dire il mio pensiero anche se sono sicuro che è controcorrente e che qualcuno lo giudicherà retrivo e conservatore.

Ho letto di un operaio della Fiat che guadagna 1500 euro al mese, pochi in verità per il costo attuale della vita. E’ stato mandato in Polonia ove la Fiat produce gli stessi modelli d’auto di Torino. Quando questo operaio della Fiom si meravigliò quanto mai che i suoi compagni polacchi guadagnassero solamente 400 euro, essi gli risposero che loro accettavano quella paga perché in Romania altri colleghi, sempre della Fiat, guadagnano solamente 200 euro mensili.

E’ evidente che l’automobile prodotta in Polonia costerà di meno di quella prodotta a Torino e quella della Romania ancor di meno. Mi hanno riferito che l’India produce automobili a 2000 euro soltanto, perché forse gli operai guadagneranno 100 euro al mese. In un mercato globale è evidente che si venderanno le automobili che costano di meno. Io stesso ho tentato di vedere come acquistarne una dall’India.

La soluzione di questo tragico dramma che colpisce l’Italia, credo sia soltanto quello di abbassare il tenore di vita, di abolire gli sprechi, di vivere più sobriamente, di lavorare di più. Ma finché continueremo come adesso, temo che andremo sempre peggio.

Durante il mese di ottobre ho notato che tutte le donne, dico tutte le nostre care donne, adolescenti, giovani, spose e signore attempate, si sono adeguate alla nuova moda: stivaletti, calzemaglie e gonnellino. Mi domando: “E gli indumenti comperati lo scorso ottobre, dove sono andati?”. Spero che almeno ci giungano ai magazzini San Martino, ove si riforniscono gli extracomunitari che sono un po’ in ritardo con la moda! Dicasi la stessa cosa per il mondo dei telefonini.

Sono stufo di sentire le “lettere pastorali” dei politici, dei sindacati e degli economisti. L’unica ricetta è la sobrietà. Se non facciamo così continueremo a depredare e sfruttare i cittadini del terzo, quarto mondo!

Le scarpe del Papa

Ho confessato più volte che io sono un uomo passionale e mi lascio coinvolgere in maniera viscerale dai drammi in cui mi imbatto. Confesso pure che quando leggo testimonianze di uomini del nostro tempo, sento il bisogno profondo – specie quando queste persone sono di notevole spessore umano – di indagare sul loro rapporto con la fede e con la Chiesa.

Oggi ritorno ancora sul discorso che ieri ho appena abbozzato, circa la morte tragica del giovane Vittorio Arrigoni, volontario nella striscia di Gaza. Sua madre, autrice di questa particolare biografia e che si dichiara cattolica praticante, parla dell’infanzia di questo suo figliolo che da bambino aveva fatto il chierichetto e che da adolescente s’era allontanato dalla pratica religiosa anche se lei rimane convinta che, a modo suo, fosse ancora credente.

Dagli scritti di Vittorio a me pare, almeno a livello formale, che non sia così, anche se l’amore materno interpreta certi accenni religiosi come una prova di questa fede sopravvissuta alle scelte e alle tristi esperienze fatte da suo figlio. Comunque sono personalmente convinto che persone come Arrigoni che sognano “il Regno di giustizia e di pace”, abbiano comunque un accesso più facile al Cielo che i fedeli alle messe e ai rosari che però non si sporcano mai le mani per la causa dei poveri, dei derelitti e degli oppressi.

Mi ha colpito una frase, quasi buttata giù per caso: la signora Beretta Arrigoni scrive che il figlio, avendo trovato su un giornale la foto del Papa che indossava scarpette rosse di Prada, la pubblicò accanto ad una immagine di Gesù in croce con i piedi trafitti e quella di un africano a piedi nudi, con la didascalia “Se solo con queste calzature è lecito intraprendere le vie del Signore, quanto sarà improbabile per gli scalzi miseri dell’Africa avere accesso al Paradiso?”

Quello delle scarpe del Papa è certamente un particolare di poco conto, però mi vien da osservare che chi abbraccia il Vangelo deve essere attento anche ai particolari, perché se questi sono divergenti dallo stesso, diventano “scandalo” per chi sogna un mondo veramente nuovo.

A questo riguardo dovrei aprire un discorso serio per una revisione di fondo su tradizioni, pratiche, riti, indumenti, dimore, parole e scelte che sono in manifesta dissonanza con il “manifesto” di Gesù.

La morte di un sognatore a senso unico

Una cara signora che stimo e a cui voglio veramente bene, mi ha regalato il volume “Il viaggio di Vittorio” raccomandandomi di leggerlo presto, anzi meglio subito!

Il volume è stato scritto dalla mamma di un volontario di un piccolo paese della Lombardia che è stato rapito a Gaza e quindi ucciso da non so chi.

Qualche tempo fa avevo letto o sentito alla televisione di questa uccisione avvenuta nella striscia di Gaza, ma non ricordo assolutamente più chi siano stati gli esecutori di questo delitto. Il libro, non ne fa cenno. Comunque la madre di Vittorio – così si chiama il protagonista – sindaco eletto dal P.D. di un paese del bresciano, ricucendo soprattutto le lettere del figlio, parla con amore e condivisione totale delle scelte del figlio il quale, seguendo la splendida utopia della libertà, della democrazia e di quant’altro c’è di nobile, partecipò a varie missioni tramite delle organizzazioni umanitarie nei Paesi più tormentati del mondo più povero e oppresso.

Vittorio perse la sua giovane vita in Palestina, nella striscia di Gaza, avendo egli abbracciato fino in fondo la causa dei palestinesi e dando un giudizio estremamente negativo sugli israeliani.

La tragica vicenda di questo giovane è scritta dalla madre più col suo cuore materno che con la lucida ragione di chi cerca di essere comunque obiettivo.

Confesso che pur ammirando questo giovane generoso, non riesco ad accettare tutte le tesi che l’hanno animato. La signora che mi ha donato il volume è una donna di forte fede comunista che ha vissuto in maniera viscerale il manifesto di questo movimento e credo che viva con una profonda delusione ed amarezza il fallimento di questo sogno che si è miseramente infranto. Immagino che mi abbia donato il volume per mostrarmi l’altra faccia della medaglia della tragedia dei palestinesi e di Gaza in particolare, soprattutto avendo io espresso talvolta la mia simpatia per il popolo ebraico che, tutto sommato, ritengo coraggioso e soprattutto un popolo che lotta disperatamente per poter sopravvivere nonostante sia circondato da Paesi islamici, nemici acerrimi e spietati che apertamente ne vogliono l’annientamento.

Come io posso schierarmi contro gli ebrei avendo letto tutto di Primo Levi? Condivido il sogno di questo ragazzo, che ha seguito un’utopia nobile, condivido pure l’amore di sua madre e la tristezza della mia amica per aver dovuto assistere al fallimento di un sogno condivisibile, però io continuo a sognare e pregare perché questi due popoli vivano in pace nella terra nella quale Gesù ha offerto il messaggio più alto e più risolutivo dei problemi umani.