“Il castello di carta”

Tra noi preti si dice abbastanza di frequente che chi rimane troppo a lungo in una parrocchia, arrischia di distruggere quanto ha costruito nei primi tempi.

Partendo da questa affermazione ed aggiungendo ad essa che sempre, nella mia vita, ho avuto la sensazione di non essere all’altezza dei compiti affidatimi, quando giunsi alla data che la Chiesa ha fissato per la pensione, con un ossequio, che in verità non ho mai avuto, per il codice di diritto canonico o le norme sinodali, ho presentato, come di dovere, le mie dimissioni. Non furono accettate, un po’ per consuetudine, un po’ come gesto di fiducia e soprattutto perché, con la carenza endemica di sacerdoti, credo che sia un dramma per il nostro patriarcato provvedere ai ricambi. Passati due anni dalla data fissata dalla norma, insistetti, e fui accontentato. La stessa cosa è avvenuta per la presidenza della Fondazione Carpinetum.

Nella mia vita credo, per grazia di Dio, di aver potuto annoverare più successi che insuccessi e, tutto sommato, non ho mai dovuto registrare sconfitte di un certo rilievo. In verità ce l’ho messa tutta, mi sono speso senza riserve, ho perseguito con onestà gli obiettivi e ho tentato di essere coerente. Se dovessi descrivere le mie imprese pastorali, credo che, ove ho operato, mi è sempre andata dritta, compreso il mio compito attuale.

Mi piacerebbe chiudere in bellezza, comunque voglio lucidamente accettare la fine, quale essa dovesse essere.

Non so se la sensazione di inadeguatezza che mi ha sempre accompagnato in ogni impresa mi sia stata più di aiuto che di danno, comunque so per certo che ho pagato con un prezzo salato questa sensazione e questi risultati.

Ricordo che tanti anni fa un mio collaboratore, in un momento di non condivisione – in realtà io sono sempre stato determinato nel perseguire i miei obiettivi – o per stizza, mi disse: «Il suo è un castello di carte, alla prima “ventata” crollerà miseramente». Questa frase mi fece molto male, perché acuì ulteriormente il mio stato d’animo, tanto che essendo passato più di un quarto di secolo, quando ho modo di verificare la tenuta della mia vecchia parrocchia e dei Centri don Vecchi, tiro un sospiro di sollievo e ringrazio il buon Dio! Sarà pure il mio un “castello di carta”, però, per grazia di Dio, regge e spero che così sia per il futuro.

Il quotidiano da scoprire

Questa mattina, iniziando la santa messa, come sempre ho invitato i fedeli a fare l’esame di coscienza per chiedere perdono a Dio e ai fratelli prima di presentarci all’incontro col Signore. Gesù infatti, nella parabola “dell’invito a nozze”, insegna che è vero che “il re” disse ai suoi servi di invitare tutti, poveri ed infelici, però, quando questa folla di miserabili si presentò per le nozze, pretese che avessero “l’abito nuziale”, ossia un atteggiamento decoroso e conveniente. Il Signore accetta tutti: storpi, sciancati e peccatori, però pretende che “ci laviamo mani e cuore” prima di far festa con Lui.

Normalmente, per non lasciarmi irretire dalla solita formula che l’abitudine svilisce, tento di rifarmi a qualche immagine o pensiero che desti dall’istintivo torpore. Questa mattina, improvvisando, dissi: «Prima di iniziare questo giorno assolutamente nuovo – perché nessuno di noi l’ha mai vissuto prima d’ora – purifichiamo col pentimento la nostra coscienza prima di aprirci a questo dialogo che Gesù ci offre l’opportunità di avere».

Mentre pronunciavo queste parole, fui “folgorato” da questa strana sensazione: “Oggi non vivo uno dei tanti giorni della mia lunga vita, giorni pressoché tutti uguali, monotoni e facenti parte del “terribile quotidiano”, ma avrò la splendida opportunità di esplorare e scoprire una realtà sconosciuta, di cui finora non ho mai fatto esperienza”.

Una volta finita la messa sono quasi stato costretto a pensare alla nuova avventura, alla scoperta di un giorno tutto nuovo, fatto di sensazioni, parole, incontri, volti, immagini e atmosfere finora mai incontrate nella loro concatenazione mai uguale.

Avevo in programma di andare a Chirignago da mio fratello, don Roberto, per parlargli di una cosa che mi stava tanto a cuore. Ho visto con estrema curiosità la sua casa, i suoi collaboratori, i suoi quadri, l’atmosfera della sua parrocchia, i fiori e le piante del suo giardino. Finito fin troppo presto l’incontro, con esito non troppo soddisfacente, ho fatto un salto al “don Vecchi” di Campalto e ho visto il riordino dell’ingresso, la crescita della chiesa copta, tutta cupole e pinnacoli, le donne sedute sul muretto dell’aiuola a chiacchierare.

Confesso che per tutto il giorno non ho fatto altro che scoprire cose interessantissime: parole, colori, volti, odori, sensazioni meritevoli di attenzione, anzi di stupore e meraviglia.

C’è della gente che sente il bisogno di andare alle Maldive o a Capo Nord per vedere cose nuove, mentre ha sotto gli occhi, a chilometro zero, un mondo interessantissimo e sempre nuovo da scoprire.

La scommessa di Pascal

Quest’anno ho impostato l’omelia del giorno dell’Ascensione sulla “scommessa di Pascal”, pur sullo sfondo della descrizione che François Mauriac ha fatto di questo evento nella sua “vita di Gesù”.

La descrizione che il Vangelo e “Gli atti degli apostoli” fanno del mistero che inquadra il ritorno di Gesù al Padre, è carica di incanto, ma il narratore francese, pur partendo dai dati storici forniti dal Nuovo Testamento, inquadra in un clima di struggente dolcezza questo mistero cristiano.

Mauriac immagina che in una luminosa mattinata di primavera Gesù convochi in una radura verde vicino a Betania, circondata da nodosi ulivi, sua madre e i suoi amici più cari, gli apostoli; e dopo averli abbracciati ad uno ad uno salga dolcemente al Cielo, confondendosi pian piano con l’azzurro e con la luce del dolce sole di primavera.

Il racconto dell’ascensione fatta da Mauriac diventa ancora più limpido e fresco grazie alla traduzione del testo fatta da Angelo Silvio Novaro, il poeta della “Pioggerellina di marzo”. Concesso spazio alla tradizione e al sentimento, ho sentito però il bisogno di ancorare questo racconto della conclusione della vita di Gesù su questa terra con un supporto razionale più consistente, rifacendomi alla “scommessa di Pascal”.

“La vita di ogni uomo, scrive Pascal, incontra fatalmente questo bivio: scegliere un cammino verso la luce nuova del Cielo, come dice sant’Agostino “E’ inappagato il nostro cuore finché non riposerà in Te, Signore!”. Oppure l’altro percorso alternativo: la vita come cammino ineluttabile verso il buio di una notte senza aurora.

Molti uomini del nostro tempo o sono insipienti o, peggio, non hanno il coraggio di fare questa scelta lucida e razionale. Pascal afferma che è assolutamente più conveniente e razionale optare comunque per l’eternità. Se essa c’è, hai fatto centro, se anche non ci fosse, hai tutto da guadagnare perché, sorretto dalla speranza di una risposta adeguata alle tue attese, il cammino è più facile e meno pesante.

Ai miei fedeli, che han seguito attenti ed interessati le mie parole, dissi: «Io scelgo la vita indicata da Gesù, anche perché diversamente la vita si ridurrebbe ad un inganno, una illusione ed una beffa se alla conclusione di tanta fatica, di tanto impegno e di tanta ricerca, quella realtà che chiamo “morte” venisse a distruggere d’un colpo solo “il castello” costruito con tanta fatica.

M’è parso che i fedeli convenissero con me e non con quel pensatore inglese che ha affermato che bisognerebbe denunciare le maggiori religioni perché ingannano gli uomini, promettendo loro la vita eterna, distogliendoli così dall’impegnarsi per l’emancipazione ed il progresso.

Ribadisco: «Io rimango decisamente con Cristo e con Pascal!».

Amarcord

So, perché i miei amici me l’hanno detto, che gradirebbero da me un po’ più di romanticismo, di poesia, di avventura.

Le mie riflessioni sulla fede, la mia inquietudine religiosa, le mie considerazioni di carattere sociale e politico, pongono problemi e suscitano in loro reazioni che non sempre li rendono entusiasti per i miei scritti. Il guaio è che, pur godendo del Creato, dai fiori alle stelle, dal mare alle montagne rocciose, le problematiche che mi interessano maggiormente sono quelle della fede, della vita sociale, della libertà, della solidarietà, della democrazia e della coscienza.

Comunque vorrei dire ai miei amici che io non rinnego affatto il sentimento, il sogno, l’arte e la poesia; le ritengo infatti componenti essenziali della vita e in fondo al mio animo non c’è solamente rabbia nei riguardi della burocrazia, disprezzo per i fannulloni, gli arruffapopoli e i politicanti, i furbi e gli ipocriti, ma anche gioia del vivere, del sognare ed incanto per le cose e le creature belle.

In questi giorni ho messo un po’ d’ordine nel grande armadio in cui ho raccolto tutti i volumi dei miei scritti, i periodici in cui mi sono impegnato nella mia lunga vita. Ogni tanto mi capita il desiderio struggente di sfogliare, di rivedere vecchi volti, di rileggere quello che ho scritto dieci, venti, cinquant’anni fa. M’è capitato tra le mani una foto di mia madre anziana: un volto nobile, profondo, intriso di un pizzico di malinconia, un volto scavato dalla fatica, dal lavoro e dal sacrificio. Questa immagine di mia madre è bellissima, piuttosto di una foto sembra un dipinto di un grande pittore del passato. Quanta dignità, quanta tenerezza, quanta volontà e capacità di sacrificio e di donazione!

Mi sono lasciato andare ai ricordi: quando la mamma cantava riordinando le camere, quando faceva quaranta, cinquanta chilometri, tra andata e ritorno, in bicicletta per portarmi pan biscotto in seminario durante la guerra perché il poco cibo era quanto mai scarso per un adolescente. Ho ricordato quando mio padre era in Germania e lei si portava dietro una decina di ragazzini come me nelle terre bonificate dal fascio dove andavamo a coltivare grano, fagioli, olio di ricino, al quarto, ossia tre quarti del raccolto andava al padrone e solo un quarto a noi che coltivavamo quel po’ di terra che riusciva a farci assegnare.

Ricordai di quando andavamo a spigolare, ossia a raccogliere le poche spighe di frumento che rimanevano sul campo dopo la mietitura, spesso cacciati dai padroni. Povera mamma! Mi domando ancora come faceva a tenere unita e a far lavorare quella brigata irrequieta e irresponsabile di ragazzini. Ricordo che ci prometteva: «Quando saremo arrivati alla fine del campo – sempre infinito – mangeremo». Il pranzo consisteva in polenta fredda, tegoline o un po’ di marmellata, seduti per terra.

Guardando quella foto dolce e ricca di una sana umanità, mi sono ripetuto l’altro ieri: “Mia madre merita non un monumento, ma un mausoleo!”, e nel mio animo questo momento è quanto di più bello si possa immaginare. A lei e a mio padre debbo tutto!

Lontani ricordi pressoché dimenticati

Qualche anno fa uno dei miei ragazzi che fa il giornalista al “Corriere della sera” è venuto al “don Vecchi” per farmi una proposta davvero incredibile: «Don Armando, vorrei scrivere la sua vita».

Pur gradendo quanto mai questo gesto di estremo affetto, rifiutai nella maniera più decisa. Non credo che la mia vita, pur essendo stata bella, intensa e soprattutto libera, meriti un volume, ma soprattutto non credo che abbia qualcosa di particolare che possa interessare la gente.

Mi sono ricordato di questo episodio pochi giorni fa quando, avendo raccontato qualche particolare della mia fanciullezza, una signora che ha familiarità con la penna mi confidò che avrebbe desiderato fare un articolo sulla mia fanciullezza. Forse le venne questa idea perché chiacchierando del più e del meno, le avevo raccontato che quando facevo le medie, ad ottobre, per Natale e per Pasqua, raggiungevo in bicicletta il seminario. A quel tempo non andavano le corriere e perciò partivo da Eraclea, mio paese natio, con la mia biciclettina da bambino, con la valigia su un portabagagli artigianale costruitomi da mio padre, facevo tutta la via Fausta fino a Treporti misurando il cammino percorso, leggendo sulle case coloniche che si affacciano ancora ad intervalli regolari, case costruite dal duce che portavano in facciata le frasi epiche “L’aratro traccia il solco, ma è la spada che lo difende”, “Credere, obbedire, combattere”, “Vincere e vinceremo!”. Povero duce!

Ricordo che un giorno, mentre percorrevo quella strada che mi pareva non terminasse mai, per mettere nella canonica di Treporti la bicicletta, per poi prendere il vaporetto che portava a Venezia, incrociai un drappello di tedeschi a cavallo, elmetto in testa e fucile a tracolla; soltanto a ripensarci provo ancora i brividi di paura e risento ancora il passo cadenzato di quel drappello di cavalli. Finiti i mesi di scuola rifacevo il cammino a ritroso, riprendevo la bicicletta per tornare a casa, trafelato ed affaticato per quella ventina di chilometri di strada sterrata tutta buche e con tanta ghiaia.

Pensandoci ora, sono convinto che fatica, paura e sacrifici mi hanno temprato, così che oggi ogni più piccola comodità mi mette a disagio e spesso arrossisco e quasi mi vergogno di percorrere nella mia Punto bianca i due chilometri che conducono ogni giorno al mio “posto di lavoro”.

Mi pare che sia san Paolo che dica che anche l’oro si purifica col fuoco.

Le mie esperienze passate sono tali per cui oggi pretendo da me quello che, normalmente, chi non ha fatto esperienze del genere, non osa fare. Se posso dare un consiglio a genitori ed educatori, dico loro con grande convinzione: «Se volete bene ai vostri ragazzi, pretendete molto, pretendete sempre, solo così costruirete degli uomini liberi e positivi.

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

“Lettera alla mia Chiesa che ha dimenticato Gesù”

La mia “amicizia” ideale con Ermanno Olmi, il famosissimo regista italiano, dura da moltissimi anni, almeno fin dal tempo dell'”Albero degli zoccoli”. Recentemente si è ancora rinvigorita col suo “Villaggio di cartone” e per alcune interviste ai giornali, sempre su temi di fede.

La mia simpatia è determinata da una “sintonia religiosa” veramente forte, tanto che le sue dichiarazioni fatte a mezzo della stampa e, in maniera ancora più esplicita, attraverso i suoi film, mi sono state sempre di tanto conforto ed incoraggiamento. Avere “dalla mia parte” un intellettuale ed un credente del genere, mi ha sostenuto, liberandomi, in qualche modo, da una solitudine ideale che spesso mi preoccupa e mi addolora.

Qualche giorno fa un volontario mi ha regalato un volumetto di Olmi che, fin dal titolo, mi ha incuriosito in maniera quasi morbosa: “Lettera ad una Chiesa che ha dimenticato Gesù”. Sto leggendo il volume, però sento il bisogno di riportare integralmente, fin da subito, la sua presentazione scritta sulla spalla della copertina, perché posso ritenerla come “manifesto” del mio credere oggi. Quando avrò finito il volume, ci ritornerò, perché le argomentazioni di Olmi e le sue analisi sulle “piaghe” della Chiesa odierna, mi paiono valide almeno quanto quelle più che note di Rosmini.

“Attinge alle emozioni più profonde questa lettera appassionata, e il suo autore, fra i più grandi cineasti viventi, non nasconde che forse disturberà gerarchie e devoti benpensanti, ma nella sincera convinzione che il nostro Occidente e la nostra Italia – sempre più piccola e incapace di grandi slanci – abbiano bisogno di un supplemento d’anima.

La Chiesa dell’ufficialità è sempre più lontana dagli uomini di questo tempo, il suo apparato ha esaltato la “liturgia del rito” dimenticando la “liturgia della vita”, ha aperto sportelli bancari anziché combattere l’idolatria del superfluo, ha fatto di se stessa un dogma svilendo la sacra libertà della coscienza. Questa progressiva lontananza dall’umanità è coincisa con un allontanamento da quel falegname e rabbi di Nazareth che con la sua vita ha suggerito l’unica strada della gioia: spendere senza sconti il bene prezioso della propria esistenza.

Nel rivolgersi alla Chiesa, Olmi chiama in causa anche altre “chiese”, che con la loro supponenza si sono allontanate dalla realtà: le “chiese” dei potenti, delle lobbies, degli pseudo-intellettuali e di tutti coloro che vorrebbero condannarci a consumare in perpetuo per sostenere sistemi ed economie che hanno divorato il patrimonio di nostra madre Terra nell’illusione che le sue risorse fossero illimitate.

Da sempre attento ai temi della religiosità, Olmi non disdegna di dire che la sua è frutto più del sentimento che della dottrina, perché «i sentimenti sono misteriosi, e hanno dentro più verità di qualsiasi ragionamento»”.

Cambiar passo

Tanti anni fa lessi una frase che mi ha messo in guardia da un grosso pericolo che non conoscevo. Il testo diceva che noi abbiamo accanto un pericolo mortale sempre in agguato: l’abitudine.

L’abitudine toglie slancio, colore alle cose che ci circondano, mortifica la ricerca di novità e standardizza, appiattisce la nostra vita. Questo è vero a livello esistenziale e più vero ancora per tutto quello che riguarda la vita religiosa. Spesso gesti, formule, riti, esperienze, diventano pian piano incolori ed insapori, cosicché non incidono quasi per niente sulla nostra vita spirituale e non sono affatto stimolanti. Noi abbiamo bisogno, ogni tanto, di voltar pagina, di ricominciare e di dare un ritmo nuovo al nostro spirito. Questo pericolo vale per tutti, in maniera particolare per i cristiani praticanti, perché l’abitudine svuota di contenuti, fa evaporare il profumo, la verità e il mistero della sostanza, lasciandoci in mano un guscio vuoto ed insignificante.

Per dare nuovo impulso alla nostra anima, credo che non servano gesti plateali o conversioni radicali, talora basta un po’ di silenzio, una verifica onesta, la lettura di una rivista o di un testo ricco di sostanza, una conversazione con un uomo di fede. “Cambiare passo” non solo è opportuno, ma necessario.

A questo proposito ritengo utile trascrivere una confidenza – che può sembrare ingenua – ma che invece io ritengo assai saggia.

“Quando nostro figlio era piccolo, a volte si fermava mentre tornavamo a casa a piedi, dicendo: “Papà, sono troppo stanco per camminare.” Io gli rispondevo: “Allora corri un poco.” Era una di quelle risposte illogiche che un bambino a volte riceve da un adulto. Lo dicevo per distrarlo, ed ero sorpreso nel vedere come il cambiare passo ravvivasse le sue energie e non si sentisse più stanco. Tutti abbiamo i nostri cali di energia, a volte solo perché procediamo sempre allo stesso passo. Viviamo nelle nostre abitudini, non siamo disposti a cambiare. Il motivo per cui ammiro il paralitico del vangelo di Marco è proprio perché quando Gesù gli dice di alzarsi e camminare, lui ha il coraggio di farlo. Gesù gli chiede di fare quello che non é abituato a fare. Perseverare nella fede richiede disponibilità ad ascoltare la voce di Dio che ci chiama alla conversione, a cambiare passo e a fare quello che non abbiamo fatto prima. Ci vuole coraggio per un tale cambiamento, ma “Fedele è colui che vi chiama” e Lui ci darà la forza di cui abbiamo bisogno per farlo.

La rivelazione è in un continuo divenire

Tanta gente – e pure io per la gran parte della mia vita – pensa che con l’Apocalisse di san Giovanni evangelista la Rivelazione sia completamente conclusa, quasi che il Signore avesse terminato il suo discorso con gli uomini e non avesse più nulla da dir loro. Credo che la stragrande maggioranza dei cristiani abbia una visione statica della fede, quasi che la verità sia giunta all’estremo confine assolutamente invalicabile.

Per molti quello che si può fare attualmente è soltanto conoscere meglio quello che Dio ha detto attraverso i profeti, gli uomini di Dio e soprattutto suo Figlio Gesù. Mentre mi pare che sia certamente più vero che Dio continua il suo dialogo, il suo farsi conoscere dalle sue creature, motivo per cui la nostra conoscenza della verità continua a crescere col tempo e mai si sarà esaurita perché Dio è infinito, inesauribile nel suo manifestarsi agli uomini.

Qualche giorno prima dell’Ascensione, sono rimasto felicemente colpito da una frase di Gesù pronunciata poco prima del ritorno al Padre: «Ho tante altre cose da dirvi, ma voi ora non ne siete capaci, però vi manderò il Paraclito che vi farà comprendere quello che vi ho detto e vi parlerà del Padre».

Per me diventa quanto mai importante apprendere che noi uomini del nostro tempo – ma così avverrà anche per il futuro – possiamo avere una conoscenza di Dio più profonda e vera di chi ci ha preceduto e la qualità della nostra religiosità e della nostra fede è certamente migliore e più avanzata di quella che era nel passato. Quando molti nostalgici rimpiangono il passato per quanto riguarda lo spirito religioso, credo che sbaglino di grosso. L’uomo di oggi, credente o no, praticante o no, è di certo molto più religioso di quanto non sia stato nel passato.

Partendo da questa considerazione sono portato ad essere tanto più ottimista sulla religiosità attuale ed aggiungo che l’uomo che oggi vuol essere in dialogo con Dio, deve essere sempre in una posizione dinamica di ricerca e di crescita, mentre chi si ancora in maniera statica al passato, ha un rapporto con il Signore povero, grezzo e carente.

La consolazione offertami da san Paolo

Pur sapendo di sbagliare sarei tentato di addebitarmi gli insuccessi di ordine pastorale causati dai miei limiti di intelligenza e di capacità nel porgere adeguatamente ai fedeli quello splendido messaggio di Gesù in cui credo e che sono convinto che sarebbe veramente un dono ed una grazia per tutti.

Impiego sempre più tempo e pago con sempre più sofferenza la mia preparazione all’omelia domenicale. Talvolta ho paura di banalizzare la parola di Dio ed anche quando mi pare di averne scoperto degli aspetti di grande attualità e validità anche per gli uomini d’oggi, ho la sensazione di impoverirli con un dire povero e deludente.

Tante volte ho fatto il proposito di accettare questa croce, però ad ogni predica debbo pagare un duro prezzo alla delusione e alla mortificazione per la mia pochezza.

Qualche giorno fa, nella liturgia feriale, mi è capitato di leggere negli atti degli apostoli un vero flop di san Paolo, che pure era un uomo intelligente e veramente santo. Si è trattato di quel brano in cui si racconta l’avventura apostolica di san Paolo nei riguardi degli ateniesi che, come la gente del nostro tempo, era piena di sé e convinta di saper tutto.

San Paolo ebbe un’intuizione veramente felice e, avendo scoperto in Atene un altare dedicato al dio ignoto, raccontò che era andato in quella città appunto per parlare di questo dio sconosciuto. Lo spunto felice attirò l’attenzione di quella gente perfino troppo abituata a discettare su tutto, però quando lui disse che voleva parlar loro di quel Dio che Gesù risorto era venuto ad annunciare, qualcuno se ne andò subito e qualche altro, con un atteggiamento di irrisione, gli disse: «Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta»!

Io sono d’accordo con Mauriac quando afferma che “tutto è grazia”, tanto che “il Signore sa scrivere dritto anche su righe storte” e perciò spero sempre che il Signore faccia il miracolo di “accendere la fede” anche quando “l’accendino” è assai difettoso, con poco gas, e la pietra focaia logorata, oppure che i miei fedeli siano così buoni come quel cristiano che di fronte alle critiche di fedeli difficili col loro prete, disse: «Io ho sempre ricavato qualcosa di buono da ogni predica che ho ascoltato durante la mia lunga vita».

Per ora, pur con difficoltà e paura, mi reggo su questi due appigli.

La mia stima per Andreotti

Una volta ancora mi trovo in disaccordo col mondo intero! In occasione della morte di Giulio Andreotti, come era prevedibile, si sono versati fiumi di inchiostro per inquadrare la sua persona e la sua opera. Ne han parlato tutti e ne han parlato molto: gli sono stati riconosciuti dei meriti, però, in quasi tutti gli interventi, m’è parso di cogliere sempre un’ombra di riserva, una critica talora aperta da parte dei suoi avversari politici, e talora sommessa da parte di quel mondo con cui egli ha pur collaborato a livello politico.

Io non sono certamente uno studioso, né godo di una documentazione tale da poter dare giudizi, eppure ho sempre avuto una grande simpatia ed una grande stima per questo politico rimasto al vertice dello Stato dall’inizio della storia repubblicana ad oggi. Per me Andreotti è stato una persona intelligente, capace, arguta e coerente. Dobbiamo anche ad Andreotti la rinascita del Paese e soprattutto l’averci risparmiato la tragica esperienza di un regime comunista, e questo è un merito pressoché insuperabile. Come ogni uomo anche Andreotti ha avuto i suoi limiti ed avrà fatto i suoi sbagli, ma mai quanti i suoi detrattori.

Come ho avuto stima per Andreotti, altrettanto ho avuto disistima per i suoi detrattori, soprattutto per il magistrato Caselli che ha fatto spendere al Paese una cifra enorme per un processo fazioso durato dieci anni, con spreco di tempo, oltre che di denaro, con sofferenza e soprattutto con perdita di stima della magistratura presso l’opinione pubblica.

Andreotti è sempre andato diritto per la sua strada, ha detto con franchezza ad ognuno quello che pensava di lui, ha testimoniato a viso aperto la sua fede e credo che abbia fatto il bene del Paese in tempi tristissimi.

Più volte ho scritto della mia stima per i cristiani che non si vergognano di essere tali e che non hanno complessi di inferiorità nei riguardi della gente faziosa, prepotente o sempre schierata con le idee alla moda.

Tanti anni fa ho ricevuto dalle mani di Andreotti il titolo di “Mestrino dell’anno”, titolo di cui vado fiero; conservo con piacere la foto di questo evento e ritengo doveroso dargli questa testimonianza di stima per controbilanciare quel mondo anticlericale e di sinistra che non riesce mai a riconoscere il merito dei cattolici coerenti e tenta sempre di infangarne la testimonianza con supposizioni e malignità di ogni genere.

i timori di un vecchio prete

Tante volte mi capita di invidiare chi parla o scrive bene. Più volte ho fatto l’esame di coscienza chiedendomi se questa invidia sia solamente invidia per orgoglio o vanagloria o sia, piuttosto, come io spero, “santa invidia” per non essere capace di offrire il messaggio cristiano in maniera bella e convincente.

Per quanto riguarda lo scrivere, mi giunge una serie di giornali e riviste, spesso ben fatte e con una prosa limpida, scorrevole e convincente. Proprio venerdì scorso ho pensato a tutto questo tenendo tra le mani “Gente Veneta”, di cui è direttore mio nipote, don Sandro Vigani. Il giornale è pieno di notizie su molti argomenti affrontati in maniera brillante, l’impostazione grafica è piacevole, moderna, tanto che se confronto il giornale della diocesi con il mio “Incontro”, il primo è pari a quello di un gigante in confronto a quello di un piccolo nano. Mentre “Gente Veneta” è un vero giornale vario, serio, intelligente, con belle e convincenti argomentazioni, “L’Incontro” è talmente povero da arrossire di metterlo accanto, pur costandomi tanta fatica e tanto denaro.

Talvolta mi è capitato di pensare a Giuliano Ferrara e al suo “Foglio”, in cui lui fa da mattatore, però nel “Foglio” c’è cultura, intelligenza, argomentazioni brillanti, mentre ne “L’incontro” tutto è povero e disadorno.

Ogni giorno di più mi chiedo se valga la pena impegnare tanta fatica e tanto denaro per risultati così modesti. Ho sempre avuto coscienza dei miei limiti, però essendo convinto che il messaggio non lo possiamo lasciar morire di inedia nelle nostre canoniche o nelle nostre sagrestie, ho osato, e forse mi sono messo in un’impresa più grande di me.

Un tempo c’era l’entusiasmo e qualche guizzo felice, mentre ora mi appare tutto tanto piatto e scontato. Talvolta mi voglio illudere che sia una crisi passeggera, però essa dura ormai da troppo tempo e d’altronde non vedo attorno qualcuno che possa sostituirmi. Spero quindi che si affacci all’orizzonte qualche bella intelligenza che con una penna felice faccia rifiorire questo sogno pastorale. Io sarei ben contento di tenere, come Mosè, le mani alzate in preghiera per chi volesse continuare questa “santa battaglia”.

L’ultimo raggiro

Credevo di essere ormai un esperto, ma ci sono cascato ancora una volta.

Me ne stavo tranquillo a riordinare i lumini nella mia vecchia chiesa del cimitero, quando entrò, dalla porta aperta, un signore. Sono tali e tante le persone che incontro ogni giorno, per cui ormai non mi sorprendo quando qualcuno che non riconosco mi tratta come un vecchio amico,

Questo signore, dai modi abbastanza distinti, cominciò col chiedermi come stavo. La cosa non mi sorprese, perché son solito dire ai quattro venti le ultime vicende della mia salute. Poi, quasi sorpreso, mi chiese: «Ma don Armando, non mi riconosce?». «No», gli risposi. «Ma non si ricorda proprio di me?«. «No», ripetei «Non si ricorda che mi ha dato i soldi per andare a trovare mia madre a Trieste dopo che la Caritas me li aveva negati?». «Veramente no!». E giù a ripetermi che gli avevo pagato il biglietto per andare a trovare sua madre ammalata. Sinceramente non ricordavo. In realtà non mi ricordo neanche cose più importanti, per cui non ero per niente preoccupato di non ricordare quel particolare.

Il signore continuò col dirmi che sua madre era morta, finalmente aveva potuto ereditare la casa che aveva già venduta e che l’indomani avrebbe dovuto incassare centoquarantamila euro.

Aggiunse quindi con aria buonista: «Penso di devolvere una parte ai poveri, perché anch’io sono stato aiutato, anzi – mi disse – questi soldi che intendo dare in carità preferisco darli a lei che conosco bene e che mi ha dato una mano. Vuole che le faccia un assegno a suo nome?». Io, da vecchio tonto, gli dissi che desse alla Fondazione questo denaro e gli diedi quindi gli estremi della ragione sociale della Fondazione.

Finalmente, contento, mi parve che volesse andarsene. Invece, prima di mettere il piede sul gradino della porta, mi disse, con apparente imbarazzo: «La banca mi salderà fra due giorni, non avrebbe qualcosa per le piccole spese di questi due giorni?». “Ci siamo!”, pensai. Ma di fronte ai ventimila euro promessi, pur con un tarlo nel cuore, gli diedi dieci euro. «Non potrebbe darmene altri dieci?» (aveva visto che nel portafoglio ne avevo altri dieci).

Mi salutò dicendomi che mi avrebbe portato l’assegno entro due giorni. Capii allora, chiaramente, che mi aveva imbrogliato, comunque decisi di lasciarlo andare senza rimbrotti, tanto ormai non c’era niente da fare!

Io certamente sopravviverò anche senza quei venti euro, mi spiace solamente che alla prossima richiesta – lo voglia o no – correrò il rischio di dir di no anche alla persona più onesta e bisognosa di questo mondo.

“Qui si fa l’Italia”

Qualcuno, e non ricordo chi, ha affermato, in maniera un po’ epica: «Qui si fa l’Italia o si muore!».

Per quanto riguarda le nostre vicende, le nostre battaglie e le nostre guerre per i Centri don Vecchi, non servono frasi del genere da passare alla storia, però sento che è doveroso affermare che le nostre scelte hanno aperto ed apriranno ulteriormente orizzonti nuovi per quanto concerne la domiciliarità degli anziani ed esse rimarranno una pietra miliare. La costruzione del “don Vecchi 5” non la si può di certo iscrivere nel registro delle case di riposo; questa struttura infatti non si somma alle altre case di riposo destinate agli anziani. Il “don Vecchi 5” è un’esperienza assolutamente innovativa e di certo apporterà un tassello veramente nuovo nella filiera di strutture destinate alla terza e alla quarta età.

Per motivi di spazio tento di elencare in maniera estremamente succinta i motivi per i quali questa struttura è assolutamente la prima e la più innovativa in questo settore.

L’assessore alle politiche sociali Remo Sernagiotto ha il merito di aver compreso che neppure il nostro ricco Nordest sarebbe più riuscito a reperire i soldi per pagare le rette alle attuali case di riposo per la moltitudine crescente di anziani che hanno bisogno di assistenza. Sernagiotto ha intuito che si sarebbe dovuta trovare una soluzione per quella zona grigia che intercorre tra autosufficienza e non autosufficienza, soluzione più umana e soprattutto più economica.

Noi del “don Vecchi” abbiamo offerto la soluzione pratica che risponde fino in fondo a questo problema. Al “don Vecchi 5” l’anziano, anche di modestissime condizioni economiche (per essere concreti quello che gode solamente della pensione sociale di 580 euro) con difficoltà di ordine motorio, avrà un appartamentino di circa 30 metri quadri del quale sarà a tutti gli effetti il titolare, come ogni cittadino. Avrà le chiavi di casa e gestirà la propria vita in maniera assolutamente autonoma e a costi tali, pur potendo fruire solamente della pensione sociale, da poter essere autosufficiente a livello economico.

Proprio oggi ho visto “l’affitto” di aprile di una mia vicina di casa che vive in un alloggio di 40 metri quadri: 330 euro, compresi luce, acqua, telefono, televisione, asporto rifiuti, riscaldamento e costi condominiali.

Al “don Vecchi 5” la Regione garantisce, a titolo gratuito, anche la pulizia dell’alloggio e della persona. Questo alloggio poi è inserito in una struttura articolata che offre tantissime opportunità di servizi e di vita sociale, tanto che l’anziano potrà vivere quasi in un piccolo borgo del tutto simile ai nostri piccoli paesi di un tempo.

La Fondazione ha fatto questa scommessa sociale e tra un anno e mezzo sarà certamente in grado di mostrare concretamente la validità del suo progetto.

Un puntino sulla “i”

Nota della redazione: il sospirato “via libera” è poi arrivato a fine maggio, un paio di settimane dopo che don Armando ha scritto questa riflessione.

Oggi il Gazzettino ha informato la città che il “don Vecchi” è in dirittura d’arrivo.

L’assessore Micelli, che da parte della civica amministrazione è stato il vero protagonista che s’è dato da fare in ogni modo ed ha messo a disposizione di questo progetto tutto l’apparato tecnico del suo assessorato, ha affermato che fra un paio di settimane – ossia con la prima convocazione del consiglio comunale – sarà deliberata la concessione edilizia a procedere alla costruzione del “don Vecchi 5”.

Il Gazzettino ha dedicato alla notizia cinque colonne; in realtà è una notizia veramente importante perché con la nuova struttura la nostra città avrà quasi quattrocento alloggi in strutture protette, a disposizione di anziani di modestissime, se non infime, disponibilità economiche.

Ho letto con ebbrezza la sospirata notizia: sono più di tre anni che ci lavoriamo in maniera veramente appassionata, e nove mesi da che abbiamo presentato in Comune il progetto, e credo che nessuno possa immaginare quali e quante siano state le difficoltà incontrate. Comunque il detto popolare afferma che “è bene quello che finisce bene!” ed io accetto questa filosofia.

C’è però in questa notizia qualcosa che mi ha messo in imbarazzo e che sento il bisogno di rettificare. In una delle cinque colonne del Gazzettino c’è la mia fotografia. Di certo non sono stato io a mettercela o a suggerire di mettercela; al suo posto ci dovrebbe essere quella di don Gianni, il giovane parroco di Carpenedo, presidente della Fondazione, che ha perseguito l’obiettivo del “don Vecchi 5” con una passione, un dinamismo, una tempestività ed intelligenza veramente ammirevoli. Il “don Vecchi 5” è opera di don Gianni e del suo meraviglioso staff del Consiglio. In questo progetto io ho pregato, sbuffato, brontolato, spinto, insultato, incoraggiato, ma null’altro.

Voglio rendere onore al merito: da don Gianni, scanzonato ma lucido ed immediato nell’intervenire, che ha sciolto mille nodi più aggrovigliati di quello di Gordio, ad Andrea Groppo, concreto, brillante, intelligente e sempre disponibile nonostante il suo impegno professionale; da Edoardo Rivola, pronto e saggio nei suoi suggerimenti sempre puntuali, a Lanfranco Vianello, il vecchio conoscitore della macchina comunale e pronto nel puntualizzare i vari interventi, a Giorgio Franz, sottile tessitore dei rapporti con la Regione, al direttore Rolando Candiani, scrupoloso ragioniere, vigile custode della finanza e della contabilità.

Credo che se Letta potesse disporre di un Consiglio così onesto, intelligente e generoso, in quattro e quattr’otto potrebbe rimettere in piedi la nostra Italietta!

Primo maggio

La vita corre veramente veloce. Ricordo il primo maggio vissuto per quindici anni a San Lorenzo, la chiesa madre che apre le porte su Piazza Ferretto. Monsignor Bonini, attuale parroco del duomo, col suo “giornale-rivista” ha perfino tentato di recuperare l’antico nome della piazza principale di Mestre che per secoli si chiamava “Piazza Maggiore”, liberandola da quel “Piazza Ferretto” che si rifà alla stagione della resistenza che la sinistra ha tentato di accaparrarsi con ogni mezzo.

Per quindici anni, in occasione del primo maggio di ogni anno, mi è sembrato di essere coinvolto nell’assalto e nell’espugnazione del “Palazzo d’inverno” da parte dei soviet moscoviti guidati da Lenin, Trotzkij, Stalin e compagnia. Sembrava, guardando la marea di gente, le bandiere rosse, sentendo i canti e i discorsi rivoluzionari, di essere all’inizio della rivoluzione e della presa del potere da parte del proletariato.

Il primo maggio di quest’anno, la festa dei lavoratori, l’ho celebrato nella mia chiesa prefabbricata del cimitero con un gruppetto di fedeli che con me ha pregato con animo pressoché disperato, perché ci sia lavoro, perché la gente il lavoro lo viva non come una condanna ma in modo da dar compimento alla creazione e per compiere un servizio verso i fratelli.

In città è regnato per tutto il giorno un silenzio cupo e desolato e le bandiere e i discorsi che la televisione ci ha mostrato, son sembrati rassegnati, spenti e facenti parte di un repertorio logoro e portato avanti senza entusiasmo da gente pagata per questo.

La “nuova rivoluzione” non può nascere che al positivo, ossia prendendo coscienza che abbiamo vissuto sopra le righe, beneficiando dello sfruttamento di altri lavoratori di altre parti del mondo, meno remunerati e meno garantiti. E’ ormai tempo di mettere la testa a posto e di fare, ognuno, il proprio dovere, aiutando così le aziende a non dover delocalizzare, gli imprenditori a sentirsi lavoratori tra lavoratori, non sperperando ma impegnandosi al meglio; è ora che l’enorme apparato burocratico smetta di soffocare l’iniziativa di chi ha buona volontà di fare la sua parte.

Qualche anno fa ho avuto la sensazione che il primo maggio dalla rivoluzione si fosse passati alla festa, quest’anno mi è invece parso che dalla festa si sia purtroppo passati alla paura e alla disperazione.